di Giorgio Papitto
[Esce questa settimana per Arcipelago-Itaca, Una bestia che tace, primo libro di Giorgio Papitto. Da questa notevole raccolta d’esordio, che con voce ferma, scandita, articola, nella ripetizione ossessiva dei distici, un universo formale e tematico del dolore, presentiamo sei testi, (it)]
Alcuni anni fa
Questa volta è semplice.
Dimenticare è semplice.
Alcuni anni fa,
Nei prati e nelle feste,
Ancora sazi del sale
Che la terra coltiva.
Concentrati sul mio destino:
La bocca è il cimitero.
Un ultimo sonno verbale
Scendono le sostanze e tu che sei mio padre
Mi torni costante. Reperto storico e corrente, frammento
Nel sole di mezzatinta. All’ombra, le bare domestiche
Adorne nei frastagli vivi della terra, gioie e detriti
Integri per ogni ritorno. Questo cuore che tradisce,
Magro, che sparisce. Che in una cortina immune separa
L’elementare dal mortale: non attecchire. Al terreno.
Non asserire. Il supplizio, l’estremità di un tale frastuono.
Rimango in questa bocca cimiteriale di quando l’anima
Di mio padre sarà un ultimo sonno verbale.
Genista tinctoria
Aveva la bocca spalancata e funerali i germi
A recare fiori di brughiere a monte. Io vento, io spurio,
Io fango, io vuoto: lui curo. Dal curvamento ostile
Della stagione che reclina i nessi della violenza.
Ricorrenza ignea di un tramonto, sue queste
Voci per cui nel mondo compare identico il vivente
A sguainare finali le contingenze e ufficiature di lessici
Orrendi. Le mie fondamenta, indotte, vengono
Dal di qua del dirimente: San Giorgio e una spada.
Terra madre
Gli occhi tuoi nel campo sono un relitto distratto
Di cui contare i pezzi rimasti all’attracco.
Le chiese hanno smesso di ghiacciare, così – se morire
È un verbo, e un verbo è tutto – nasceranno
Alti i fiori sulle tombe dei nostri precedenti
Animali. Sradicati seccano i corpi, gli steli interrati
Nel prato che dorme ancora: non si prevedono ritorni
O permanenze, da forestieri in terra madre.
Le case degli altri non hanno un odore
Le case degli altri non hanno un odore.
Le foglie di pesco, nel prato dell’abbandono,
Mi raccontano il nuovo. Come termino
Questa storia. Il passaggio delle stagioni,
La crescita della mia e altrui generazione.
Lo stesso prato, un decesso fa. Quando
La casa di mia nonna sapeva di etanolo.
Le gambe in cancrena e la scelta: ti saluto.
Fino ad alcuni attimi fa, la casa di mia nonna
Era infinita. Come termino questa storia.
Nel sottoscala
Nello spazio di un sottoscala,
Per lungo tempo,
Ne conservavamo le ceneri.
Anche io ero un bambino,
O ancora oggi.
Ricordo l’algebra nei termini
Di un volo,
Le moltitudini di rondini fuori
La voliera.
Noi in quanti rimaniamo.
[Immagine: Christian Boltanski, Monument to Lycee Chases, 1987-9]