cropped-sparatoria-preiti.jpgdi Rino Genovese

[Questo articolo è stato pubblicato sul sito di “Il Ponte“]

Quando un partito di centrosinistra, o della sinistra moderata, rinuncia a esprimere almeno in parte gli interessi e la speranza di cambiamento dei ceti più deboli colpiti dalla crisi, dalla disoccupazione, dalla mancanza di futuro, si fa avanti la politica della disperazione. Ricordo qui una verità elementare: l’anarchismo individualistico, in cui è compreso il gesto solitario di sparare sui simboli dell’autorità per cercare di abbatterne la sacralità e il mito della invincibilità, è il primo passo di qualsiasi rivolta. Quello successivo consiste nel passaggio alla lotta collettiva e ai movimenti sociali organizzati, che tendono alla politica ed eventualmente anche ai compromessi. Ma se la lotta collettiva langue, se i movimenti sociali rinunciano a costruire la propria egemonia, se – soprattutto – il partito che dovrebbe essere del cambiamento più che fare compromessi si arrende, rinuncia cioè a esprimere una propria politica, allora si lascia spazio alla depressione e al qualunquismo. E così la storia può ritornare sui propri passi, anche regredendo fino a quel gesto anarchico iniziale.

Luigi Preiti potrebbe essere ricordato un giorno un po’ come si ricorda Gaetano Bresci. La differenza – non da poco – è che ai tempi di Bresci si era agli inizi, oggi siamo invece alla fine. Se la sinistra presente nel paese non si riorganizza abbastanza rapidamente in un partito politico – lasciando da parte, voglio dirlo chiaramente, tutte le illusioni sulla presunta “società civile” -, ci ritroveremo non con il berlusconismo (che abbiamo già sperimentato e sappiamo essere una politica del ruggito populistico e personalistico, e sostanzialmente dell’immobilismo e dello status quo), ma con qualcosa di addirittura peggiore, figlio della disgregazione e del malessere sociale nutrito di risentimento. Ciò che in fondo è annunciato dal movimento di Grillo. O la sinistra ne raccoglie la sfida o è perduta.

Bersani e i suoi, a un certo punto, sembravano averlo capito. Certo, l’errore era a monte (per fare una battuta, era a Monti). Quando per mesi e mesi si dà disco verde alle ricette neoliberiste appena riverniciate di cattoliberismo, quando si evita di andare alle elezioni avendo la più alta possibilità di vincerle in nome di non si sa bene quale interesse della patria, quando si lascia cadere il governo Monti da destra anziché buttarlo giù da sinistra, quando infine, arrivate le elezioni, si punta tutto su un “aggiustamento” da attuare ancora con i montiani, il minimo che ti possa capitare è di pareggiare anziché di vincere. Quello che viene dopo, però, è una conseguenza non ancora necessaria.

Bersani e i suoi, dicevo, avevano capito che bisognava proporre qualcosa di diverso. Ma non hanno saputo tenere duro. Dopo il siluramento di Prodi (lanciato in pista a mio giudizio già tardivamente, a seguito del fallimento della candidatura Marini), dovevano in ogni modo evitare l’operazione riconferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica. A quel punto, invece, si sono rassegnati in nome dell’unità di un partito che ha dimostrato di essere piuttosto un “non partito”. Avrebbero dovuto insistere su Prodi fino a eleggerlo anche con il sostegno grillino, o con quello di una parte dei grillini. Dopo la quarta votazione, questo sarebbe stato forse possibile se solo si fosse fatto balenare, con Prodi alla presidenza della Repubblica, un incarico per la formazione del governo proprio a Rodotà. Se alla fine anche questa carta si fosse rivelata impossibile, per la sordità del duo taumaturgico Grillo-Casaleggio, si sarebbe ritornati alle urne, con un governo di minoranza che avesse avuto solo lo scopo di un ritorno alla legge elettorale precedente, il cosiddetto mattarellum. Certo, questo iter avrebbe probabilmente sancito la  definitiva spaccatura del Pd, ma non sarebbe stato mortificante per Bersani e i suoi – e soprattutto non lo sarebbe stato per i loro elettori.

Adesso è soltanto da Sel che si può ripartire: non c’è altro che Sel, per quanto piccola possa essere. Questo raggruppamento ha oggi sulle spalle due grandi responsabilità: quella di tenere aperta la partita a sinistra e quella di non lasciare l’opposizione al governo Letta nelle mani della Lega, a destra, e dei grillini non si sa dove.

[Imamgine: Luigi Preiti].

 

13 thoughts on “La politica della speranza e quella della disperazione

  1. Quanti condizionali al passato… “avrebbero dovuto insistere”… “sarebbe stato forse possibile”… eccetera. Il tempo verbale dell’irrealtà. La realtà sta invece – per alcuni, come me e lei – in questa elaborazione anche emotiva dei sentimenti contrastanti di speranza e disperazione. Grazie per questo contributo: condivido tutta la sua analisi.

  2. Caro Rino,
    come forse ti aspetterai, non mi trovo molto d’accordo. Non voglio entrare nei dettagli dell’analisi politica. Quello che non amo tanto, in questo intervento, come in altri su questo sito, è la tendenza alla lamentazione. Qui ci vuole una positiva capacità di proposta politica. Che sia di centrosinistra o di sinistra. Ci vuole un progetto. Ma se nella situazione politica si vede solo la catastrofe, nei toni della condanna piena di orrore, allora non si fa nulla.
    Non ho capito perché, a priori, si debba fare opposizione al governo Letta. Inoltre, c’è un punto, che molti sottovalutano, ma che è la radice dei problemi da vent’anni: la ricostituzione del sistema politico. I partiti, ognuno nella propria posizione, devono lavorare a questo. E per fare questo bisogna lavorare anche alla riforma costituzionale. Il progetto politico deve partire da queste condizioni di cornice. Non si può fare una politica di sinistra se non c’è un sistema politico e istituzionale che funziona. Perché non si può fare nessuna politica e basta, come dimostra l’immobilismo della politica italiana. Inoltre, molti punti programmatici del governo Letta, sentiti oggi, sono condivisibili. Se vogliamo stare a guardare leccandoci le ferite, facciamo pure. Ma poi non lamentiamoci se la destra fa quello che vuole e, soprattutto, vince le elezioni.

  3. se avessero voluto Prodi, dopo il siluramento di Marini avrebbero votato Rodota’, allo scopo di bruciarlo e fare spazio alla candidatura di Prodi. Invece hanno votato Prodi, chissa’ perche’

  4. Un pensiero positivo: se letta ha successo, non ci sara’ piu’ bisogno di votare per il Pd. Se Letta non ha successo, non ci sara’ piu’ ragione di votare per il pd. In entrambi i casi, non ci sara’ piu’ il Pd.

  5. “Luigi Preiti potrebbe essere ricordato un giorno un po’ come si ricorda Gaetano Bresci”.
    Ma stiamo scherzando?

  6. Hai ragione Mauro: “ci vuole una positiva capacità di proposta politica. Che sia di centrosinistra o di sinistra. Ci vuole un progetto.”
    Io sono più interessato a quello che si può fare a sinistra. Quello che farà il PD (che ha, mi pare, ormai totalmente avvocato a sé il compito di essere “centrosinistra”, compito che gli lascio volentieri), non mi interessa (più). In questo senso condivido l’invito finale di Rino Genovese. E francamente mi interessano anche poco eventuali spaccature (a sinistra) del PD, che evidentemente faticano non poco a palesarsi, come il voto di fiducia a Letta dimostra: chi è in quel partito immagino che sappia cosa fa, cosa è quella formazione politica e, soprattutto, quale interesse ci sia a rimanervi. Lo dico perché in genere questo è un augurio che sento ripetere spesso da parte di chi auspica una rinascita della sinistra. Quindi basta lamentarsi: bisogna muoversi in fretta (a sinistra), perché da un governo cerchiobottista come quello che sta per essere varato io invece mi aspetto ben poco di positivo.

  7. Da un intervento di Walter Tocci al gruppo Pd del senato:

    “C’è un paradosso. Abbiamo successo in virtù dei nostri demeriti. Abbiamo fatto il governo a causa di uno sbaglio. Oppure abbiamo sbagliato per fare il governo. Rimane il dubbio che i 101 non fossero scavezzacolli indisciplinati ma lucidi strateghi che volevano fare il contrario di quanto avevamo raccontato agli elettori prima e dopo il voto”.

  8. Caro Rino, certo, la partita del Pd e’ chiusa, perche’ questo partito, al di là dello stato di vita apparente che potra’ mantenere per qualche tempo, si e’ estinto con la rinuncia a qualsiasi idea di progettualità politica, e con una serie di atti di servitù volontaria che ne hanno minato radicalmente l’autonomia intellettuale e civile. Non ci si puo’ che augurare che il governo Letta realizzi almeno qualcuno dei molti (vaghi) propositi che lo ispirano. Pero’ e’ anche chiaro che lo spazio della proposta politica non potrà che essere al di fuori del suo perimetro, visto che il programma su cui esso è basato è esattamente quello della neutralizzazione della politica quale extrema ratio adottata da una èlite politica per guadagnarsi una qualche sopravvivenza post-mortem.
    Peraltro ciò che abbiamo appreso in questa vicenda, è che tutto ciò non è un incidente, ma il compimento della destinazione del Pd, e cioe’ dell’ultimo simulacro di partito organizzato. Per questo mi sembra alla fine illusorio pensare che il problema sia quello di ricostituire un partito (ne’ d’altra parte Sel potrebbe mai farlo, visto che è gia’ di per sè un “non partito” liquido). Il collassamento finale del Pd nel Pdl ci permette oggi di rileggere retrospettivamente la storia del Pd come il tentativo (fallito) di mantenere artificialmente in vita l’idea stessa di partito organizzato nel momento in cui quest’ultima gia’ si era rivelata obsoleta e non rinnovabile. Questa scoperta è drammatica solo se accettiamo l’idea che il sistema dei partiti sia un elemento necessario dell’idea e della pratica democratica. Se non accettiamo tale premessa, la scoperta può essere liberatoria.

  9. Per Mauro Piras.

    Non riesco a capire il tuo ottimismo a oltranza. A parte il fatto che secondo me dovresti ripensare anche alla posizione assunta sul governo Monti, mi sembra che l’esito cui ha condotto l’operazione Napolitano-Letta sia la resa incondizionata di quel ceto politico bersaniano che pure aveva tentato un’uscita dall’impasse italiana. Si dovevano mettere sul tappeto le elezioni a stretto giro, appena dopo che si fosse tornati al “mattarellum”. Ci troviamo invece con un governo che dovrebbe abolire l’Imu (secondo il demagogico programma berlusconiano) anziché rendere questa tassa più progressiva, con l’esenzione dei redditi bassi. Un governo che dovrebbe durare 18 mesi, ma che sarà fatto cadere quando i sondaggi berlusconiani lo decideranno; un governo intimamente paralizzato che dovrebbe, grazie a una Convenzione, fare le riforme necessarie al paese (in realtà non lo sono quasi per niente, tranne quella della legge elettorale che si può fare a maggioranza semplice e con un solo articolo, “si torna al sistema precedente”), che già videro il fallimento con la Bicamerale (non a caso) di D’Alema. Si può forse sbagliare una volta, non due: Berlusconi non è un interlocutore per alcuna riforma costituzionale. Questo governo serve al Pd solo per coprire il proprio marasma interno – ma per quanto tempo? Questo partito nato male, come un riflesso della democrazia deformata dal berlusconismo, sta finendo peggio. La sua crisi, trattenuta in una finta unità, è un danno enorme per la sinistra e per l’Italia. E una spinta indiretta al neoqualunquismo grillino. Dove credi che si rifugeranno, caro Mauro, per la maggior parte gli elettori delusi?

    Per Gum (o Gump).

    Prodi era il vero candidato del centrosinistra, quello che andava bene alla maggior parte dei gruppi e delle correnti (finanche a Renzi). Su questo Bersani avrebbe dovuto tenere duro scontando, all’interno del Pd, la defezione – che però di votazione in votazione sarebbe in parte potuta rientrare – degli ex popolari e dalemiani. Faccio notare che Bersani avrebbe potuto anche far valere, all’interno del suo partito, il fatto che, con l’aperta bocciatura di Marini, la linea delle larghe intese ormai era saltata. Ai voti mancanti avrebbero potuto sopperire i voti grillini (o parte di questi voti), se solo Bersani avesse chiamato Rodotà e gli avesse detto:”Ritirati in favore di Prodi, e poi cerchiamo di dare a te l’incarico per la formazione del governo”. Un incarico a Rodotà presidente del Consiglio, con Prodi presidente della Repubblica, avrebbe probabilmente sancito la spaccatura del Pd, ma sarebbe stata la logica conseguenza dei tentativi, fatti in precedenza da Bersani, di apertura ai grillini. Così invece Bersani si è arreso. Suppongo che sia andato nel pallone anche in senso psicologico.

    Per Italo.

    Sì, caro Italo, penso proprio che l’esistenza di partiti organizzati sia necessaria alla democrazia (del resto sono in buona compagnia, Kelsen la pensava allo stesso modo, e Lelio Basso alla Costituente definì la nostra una “democrazia dei partiti”). Naturalmente i partiti devono essere democratici al loro interno (Bersani aveva accennato, mi pare, a una legge in proposito), non possono essere, come oggi in Italia, partiti personali o leaderistici. La mia radicale antipatia per Renzi viene da qui: lui è – come in misura minore fu Veltroni – la berlusconizzazione totale del Pd. Il Pd tramutato nel comitato elettorale di un leader. Invece il Pd è anche altro: al suo interno ci sono forze di tipo socialdemocratico che dovrebbero liberarsi – soprattutto ora – di quello stretto involucro (poi si possono fare alleanze e compromessi con i moderati, ma un’autonomia della sinistra ci vuole, altrimenti si apre la strada al qualunquismo e alla disperazione, come si è visto, e non si vince). Credo nella democrazia partecipativa (anche attraverso Internet) ma non contrapposta alla democrazia rappresentativa, che ha il suo centro nei partiti e nel parlamento, e dev’essere di continuo riqualificata e “sorvegliata” dalla partecipazione dei cittadini. Durante la campagana elettorale francese del 2007 si parlò della possibilità di “giurie cittadine” (vedi anche Rosanvallon) che giudicassero il lavoro degli eletti. Non si disse, però, di cancellare i partiti, né se ne recitò il “de profundis”. Ovunque in Europa i vecchi partiti più o meno modificati convivono con le forme della sperimentazione democratica. Solo nel nostro paese si è creata questa contrapposizione, figlia dell’esasperazione indotta dalla deformazione italiana. Per quanto riguarda Sel, il suo problema è che si tratta di un raggruppamento troppo piccolo e, soprattutto, ancora troppo leaderistico. Se la sinistra si riorganissasse, però, il suo contributo sarebbe essenziale.

  10. Osservo con disappunto che D’Alema ha fatto davvero scuola, e che ormai, quando si parla di politica, si parla sostanzialmente di schieramenti, di alleanze, di posizionamento. Se sto con quello, avrò tot seggi, e se poi riesco a fare l’accordo con quell’altro, allora posso perfino aspirare alla maggioranza.
    Così però sparisce la politica come progetto, come contenuto, come provvedimenti concreti.
    Bersani, caro Genovese, non poteva mai vincere perchè si opponeva alla linea Napolitano che è poi la linea USA ed europea. Oggi, solo di Napolitano si fidano i nostri alleati, per questo era inevitabile la sua rielezione, e Napolitano ha oggi un potere assoluto, ben oltre quello deile monarchie costituzionali. Mi chiedo quale re vada in parlamento ad accusare non, si badi bene, i singoli parlamentari, o l’insieme dei parlamentari, ma le forze politiche? Non credo che nell’ Inghilterra post-Cromwell nessun re si sarebbe potuto permettere tanto. Qui, non v’è più alcun equilibrio dei poteri, il parlamento è stato mortificato a tal punto nelle sue funzioni da essere ormai un vuoto simulacro di sè stesso, il potere giudiziario è stato intimidito, il governo è la semplice espressione del capo dello stato,mentre questi che dovrebbe svolgere funzioni sostanzialmente notarili, è diventato l’unico potere esistente, fino al punto di permettersi di forzare oltre ogni limite lo stesso parlamento verso una profonda riforma costituzionale in senso presidenziale. Dal garante della costituzione, impressiona vedere questo attacco per cambiarne così profondamente il testo, credo che siamo ormai ben oltre il limite della legittimità costituzionale, e non vedo traccia alcuna di giudici a Berlino.
    Facciamo quindi, io dico, un ragionamento di politiche, di specifici provvedimenti che vanno assunti. Qui, stiamo ancora a chiedere un po’ di misericordia dall’Europa, di potere sfondare il 3% di deficit, stiamo ancora a giocare con la crisi economica, senza comprendere la svolta totale che deve essere imposta alla politica economica. Senza quindi centrare il dibattito sulle cose da fare, si rimane a ragionare in maniera del tutto ipotetica, se sia giusto credere al governo Letta o se non lo sia.
    Così, non si va da nessuna parte, al più si scimmiottano i politici senza neanche averne le funzioni.

  11. No l’espressione “politica della disperazione” avvicinata al discorso su un gesto folle come quello di Preiti, che si è macchiato di un crimine che merita il disprezzo e nessuna vicinanza alla “politica” nemmeno in un discorso, è indigeribile, indigeribile.

  12. Drammaturgia politica, intesa come abbraccio ferale, ha un senso se e quando interpreta la realtà (epidiermica) di scelte politiche. E sull’onda di queste scelte politiche è giusto accusare, recriminare, trovare aggettivi delegittimanti. Per muovere, duque, in positivo, per smuovere le fondamenta, arginando la mala politica.
    Accostamenti, però, tra il barbaro gesto di Preiti e mala politica oltre ad essere generalisti e ingenerosamente fallaci, non permettono di trovare la via d’uscita. Ma ri(n)chiudono l’animo, la contemporaneità dell’uomo in un nichilismo afflittivo. I nomi dei soliti noti politici (Bersani…Monti…D’Alema…Prodi…Grillo …Casaleggio), trattati solo come meteore (astratte) che si addensano nella mente, neppure rappresentano la verità di quelle persone in carne ed ossa che esprimono un pensiero. Quell’isolato o desolante gesto, semmai, è accostabile, in limine litis, a quello di oggi del Gahnese che prende il piccone ed uccide, un passante, un altro ed un altro ancora.

    Bresci e la fine, Preiti e l’inizio o viceversa non dicono nulla. Non possono dire nulla sullo scenario di nuove scelte radicali della politica, perché c’è sangue, di quello che gronda sparato con un pistola. Non dovranno mai dire nulla. Perché il fine di un proiettile è il vuoto. Nessuno -e dico nessuno- si deve sentire legittimato. La gravità del gesto casomai è la rottura del silenzio interiore, lo strappo, l’ultimo strappo ad una desolazione. Quella, magari, di un vicino di casa che non sa neanche quanto hai nel frigorifero, e se ne frega beatamente di te, di quello che hai tasca. Perché ti vede diverso, o perché hai meno soldi di lui. Ma odio e politica sono concezioni antietiche: demòs è la gente, siamo noi. Il progetto politico deve essere coltivato nella democrazia per ridurre, emendare, inquadrare, cesellare, le innaturali differenze nel substrato sociale, non per eccitarle.
    E, allora, mi associo totalmente a Cucinotta: Dove sono i contenuti?
    E a chi appartengono i contenuti?
    Cominciamo con restituire alle persone, ad ogni persona, un contenuto. Contenuto che vuol dire dignità. Politica dovrebbe essere in primo luogo dignità, nella ricerca dei valori.
    L’espropriazione della politica dalle piazze e la riduzione ad un meccanismo puramente assertivo è stato il fenomeno di questo millennio, che ha creato il vuoto d’interazione, cioè il distacco.
    Datemi un contenuto. E poi verrà il contenitore. Diamoci un contenuto.
    È ora che la cultura dell’uomo si riappropri della vita economica, di quella politica.
    E non viceversa.

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