cropped-Di-Ruscio-Brilli2.jpg
di Angelo Ferracuti

L’ottobre dello scorso anno ero andato la prima volta ad Oslo per il documentario su Luigi Di Ruscio. Avevo in testa quell’idea da anni: raccontare la vita norvegese di questo poeta isolatissimo che per mezzo secolo era vissuto nella capitale scandinava, aveva scritto dai margini più assoluti pubblicando alla macchia con piccoli editori, continuando a fare l’operaio metallurgico in una fabbrica che produceva chiodi. Un posto di lavoro congeniale per “iscrivere” (come diceva lui) dei suoi Cristi “blasferici”, specie di icone visionarie liciniane, liriche quanto invece erano crude le componenti realistiche della sua scrittura terrestre, con le quali mescolava abilmente i precipitati ultraterreni. Abitavo a Rodvet, in un periferia molto orwelliana, nella casa del figlio Adrian, da pochi giorni era nato il suo secondogenito Dante Luigi e piangeva sempre. Eravamo ancora dentro l’inverno nordico, alle tre del pomeriggio faceva buio, il freddo pungente si faceva sentire, la notte le strade erano ghiacciate. Per mesi avevo scritto, preso appuntamenti, spostato incontri, e in pochi giorni riuscii a parlare con la moglie Mary, il figlio Tomas, e con Davide, il professore di cibernetica che abita a Possgrunn, 150 chilometri a sud, e insegna a Telemark, con Caterina a Nesoddtangen, a meno di mezz’ora di traghetto dal porto di Oslo. E poi con gli amici del Circolo degli italiani, Domenico Trivilino in primis, il Beppe Valvo, primo lettore e poi editor dei suoi libri, cosa che gli aveva procurato litigate furibonde, e Danilo Rini: tutti insieme ricordarono anche i primi anni difficili dell’emigrazione, dal ’56 al ’60, quando in cerca di lavoro e d’avventura sbarcarono qui, al Polo Nord, neanche fosse l’ultima terra abitabile del mondo. S’incontravano sulla Karl Johans gate e andavano a ballare al Regnbue, un locale dove le scazzottate tra i giovanotti italiani di bell’aspetto, vestiti in giacca e cravatta, e quelli norvegesi erano all’ordine del giorno. Succedeva sicuramente per via delle ragazze, per il razzismo contro i nostri Dagos, ma anche perché pagavamo il dazio al fascismo e l’adesione acritica al “mascelluto”. Ma il compagno di lavoro di tutta una vita Biorn Fosterud era in vacanza con la moglie, non riuscii a incontrarlo. Aveva lavorato per oltre trent’anni alla Spigeverket, fianco a fianco, nello stesso reparto che il mio amico poeta raffigurava come un girone dell’inferno, forse per via del calore dei forni.

Cinque mesi dopo ero di nuovo a Oslo per le riprese insieme al regista Paolo Marzoni, al direttore delle fotografia Fabrizio Lapalombara, e la nostra factotum Anna Scandòla, un po’ Direttore di produzione, un po’ fonica, e molto altro. All’arrivo la città era ancora più fredda, la neve ancora invadeva le strade, un cielo cupo chiudeva ogni orizzonte. Il nostro alloggio si trovava nel quartiere Grünerløkka, la Greenwich Village riconosciuta di questa capitale scandinava, proprio sotto il centro sociale occupato Hausmania, in un quartiere colorato di graffiti e abitato da artisti, cinematografari, teatranti, dove il nostro bar è diventato subito il Taxi Take Way, ritrovo di giovani anarchici e trasgressivi situazionisti, che raggiungevamo a ora tarda, finite le riprese, per sfidare al biliardino ogni sorta di avversario etnico, il quale veniva puntualmente battuto.

Era la terza volta che tornavo a Oslo, da quel primo tour matrimoniale dell’estate del 1987, un nastro permanente della mia storia di uomo, e ora la città mi sembrava ancora più piccola e per niente metropolitana, la domenica poteva apparire assolutamente cupa e provinciale. Dal nostro appartamento luminoso allo Chateau hotel, dopo aver superato il piccolo ponte sull’Akerselva ghiacciato, dove le papere giacevano impavide sulla sua superficie gelata, ogni mattina, telecamere in spalla, cavalletti e borse ben stretti nei pugni, c’incamminavamo in via Østre Elvebakke, poi lungo la Hussmanns Gate. In fondo si trova il quartiere multietnico di Grønland, quello più amato e frequentato da Luigi Di Ruscio, con i suoi negozi e il macellaio Alal, le donne rumene con gli scialli sedute in terra a chiedere l’elemosina, le rivendite di frutta e verdura a buon prezzo, e poco più avanti la stazione centrale.

Per dieci giorni intensissimi abbiamo battuto la città passo passo, con il nostro traduttore vivente Domenico Trivilino, da poco tornato da una lunga permanenza a Cuba, dove va a curare i suoi dolori reumatici, memoria vivente di Luigi, che chiamavo il Capo degli italiani in Norvegia. Fabrizio s’appostava come un cacciatore, a volte apriva il cavalletto, curvo e silenzioso riprendeva, e il ricordo più bello che ho di lui è quando Tomas, il figlio di Luigi stava parlando di suo padre nella casa di famiglia in via Aasengata 4/c, diceva della grande umanità e dei valori del socialismo e della giustizia sociale che aveva insegnato a tutti loro, e lui, proprio mentre stava filmando, si è commosso, ho visto che allontanava il viso dalla telecamera per asciugare le lacrime. Invece la partita a carte che il regista Paolo Marzoni, lo Sbrango, ha sostenuto nel negozio del ciabattino Grosso, che sta di fronte al palazzo dove è la sede del Partito laburista norvegese in Youngstorget, e sopra il portone d’ingresso è fissata la bandiera tricolore, una sorta di frontiera quotidiana per molti vecchi pensionati italiani, ha aperto una breccia infinita di confidenze e racconti. Era stato lui a soprannominare Luigi “lu ferru”, il ferro, usando il dialetto marchigiano, per via del lavoro che faceva, ma forse questo nomignolo voleva dire anche qualcosa d’altro. Certe sue durezze caratteriali, per esempio, che poi lo avevano portato a ad accese litigate con molti suoi connazionali lì ad Oslo.

Luigino Longo lo abbiamo filmato al bar di Housmania. Cinquant’anni, di mestiere cuoco, militante del Red, il Partito rosso, che in Italia militava in Rifondazione comunista, aveva conosciuto e frequentato Luigi Di Ruscio solo negli ultimi anni. Molti compagni presenti si erano incuriositi, persino un poeta norvegese molto somigliante al cabarettista monacense Karl Valentin, il quale ci dedicò una sconclusionata poesia “a braccio”. Luigino ci parlo del suo arresto ad una manifestazione in preparazione di quella contro il G8 di Genova a Goteborg, e dell’odissea giudiziaria che gli fece fare due anni di galera, pur essendo innocente, e al movimento di opinione che lo sostenne, con in testa il Premio Nobel Dario Fo.

Qualche giorno dopo al Circolo degli italiani si tenne la “cenetta”. Tra gli invitati anche un commerciante catanese che chiusa l’attività di famiglia, era arrivato da due giorni in città in cerca di lavoro, un simpatico italo-egiziano elegante, e gli habitué come Trivilino, il Valvo, e il toscano Danilo Dini, un uomo alto, vecchio e scapolo, che aveva un’aria triste da solitario, ma anche quella del consumato playboy, abilissimo raccontatore di storie. Intervistarlo nella biblioteca del Circolo, circondato da classici della letteratura, albi di Topolino, e vecchi numeri de “L’Aurora”, il giornale degli italiani in Norvegia, suscitò in tutti noi un misto di tenerezza e ilarità. I racconti degli amori perduti, in realtà venati di tristezza, avevano alimentato più volte le nostre risa trattenute, mentre Fabrizio riprendeva quest’uomo che per via della timidezza non guardava quasi mai in macchina.

Poco dopo arrivarono i compagni di lavoro di Luigi Di Ruscio. Questo posso considerarlo un vero miracolo, in quanto Biorn, che ad ottobre era sembrato disponibile, questa volta in un primo momento disse che era vecchio, le telecamere lo intimidivano, non era più interessato a farsi intervistare. Ma quando rintracciammo l’elettricista che faceva la manutenzione nella fabbrica, un tipo magro e silenzioso dai capelli argentati, legato a Luigi dalla passione per la fotografia, ritrovò il coraggio e decise di accompagnarlo. Questo è stato forse il momento più struggente di tutto il nostro viaggio, soprattutto quando ricordarono la morte di un loro compagno, la testa schiacciata da una macchina.

Naturalmente abbiamo visitato anche quello che resta della fabbrica a Grünerløkka. Scesi dal tram in una zona che conoscevo ci siamo incamminati, seguendo ancora le rotaie, poi, alla fine di un gruppo di palazzi, siamo entrati nel bosco seguendo un vialetto nel folto degli alberi. Lì, dove scorre l’Akerselva, passava Luigi in bicicletta ogni mattina, pedalava al buio stretto nel suo giaccone. E sempre sotto il folto di quel bosco tornava la notte, e a volte la neve fioccava nel cielo. Costeggiando il fiume si arriva a un piccolo ponte di legno. Oltre si cominciano a vedere le case di un altro quartiere, colorate di giallo, e camminando ancora quelle più nuove, piene di vetrate, e in mezzo il vecchio edificio di uno stabilimento industriale fatto di mattoni rossi, due mondi lontani che convivono, infine il grande spiazzo dove ci sono le macerie della Spigerverk. Restano solo calcinacci, transenne, vecchi tubi ammassati. Quando con Paolo e Anna riuscimmo a entrare da un piccolo varco, ci accorgemmo subito che della fabbrica di chiodi non c’era più niente, ormai la memoria di quel luogo era solo fotografica, e di Luigi Di Ruscio restava solo quella immagine scattata da Arne Ove Berg prima di uno sciopero. Ma è stato lui a raccontarsi ancora meglio con le parole: “[…]/ partire alle cinque del mattino con la bicicletta/ anche con venti gradi sotto zero verso la fine del mondo/ con una furibonda allegria timbro la mia presenza/ che attesta l’esistere anche di codesto sottoscritto/ che iscrive anche lui i versi della nostra epigrafe//”.

Proprio dietro a dove stava la Spigeverket, nello stesso edificio, ora ha sede una fabbrica gemella, la Elkem, che produce pale per spalare la neve. Quando arrivai ad ottobre, ricordo che una segreteria magrissima e molto sorridente mi fece parlare con un signore dallo stile dimesso ma dai modi molto borghesi il quale mi condusse all’interno dello stabilimento. Chiese come mai ero in visita lì, gli parlai di Luigi, uno scrittore italiano che lavorava nella fabbrica di chiodi. “Uno scrittore lavorava in fabbrica?” Chiese subito stupito. “Proprio così,” risposi. Il tipo non si capacitava, fece una smorfia piena di scetticismo, poi mi salutò stringendomi signorilmente la mano.

Più volte mi sono chiesto se avevamo davvero colto il mondo di Luigi, o se lo stavamo semplicemente inventando in quel momento arbitrariamente riprendendo una quotidianità che lui con la scrittura faceva diventare magica. Ora le immagini erano tutte dentro gli hard disk. Le persone incontrare, i tram che sferragliavano, la neve nera addensata sulla strada che si confondeva con l’asfalto, i lunghi parlatori dei figli che si erano commossi a raccontare del loro “Pappa”, la voce stridula di Mary intercalata sempre da una risatina timida, i racconti seriosi e fedelissimi dei suoi compagni di lavoro, quelli degli amici del Circolo, la commozione di David, quella di Caterina, i racconti di Adrian e dell’amore per la musica e il violino che gli aveva trasmesso suo padre acquistando a un mercatino “I capricci” di Paganini, le loro passeggiate all’Orto botanico, persino il sorridente venditore di francobolli che ricordava quel signore italiano distinto che andava a fargli visita c’era. Forse però era scomparsa la sua allegria contagiosa. Quella energia ilare che gli faceva scrivere: “A volte mi sembra di essere circondato da un grande universo amoroso, quando mi incontra la postina sorride, così la bellissima bibliotecaria, la tabaccaia e così nel reparto dove lavoro mi sembra di essere circondato da grandi fiati amorosi, perfino nella stanza dove scrivo mi sembra di essere avvolto da un universo amoroso…”. Per fortuna la scrittura, quando è grande basta a se stessa, non si più tradurre in immagini ho pensato mentre l’aereo decollava all’imbrunire e s’involava nei cieli alti di Norvegia.

[Questo articolo è già uscito su «Alias – il manifesto»].

[Immagine: Luigi Di Ruscio. Foto di Ennio Brilli].

4 thoughts on “Nella Oslo di Luigi Di Ruscio

  1. spasso ed energia: ferracuti mi piace un sacco

    eterna bicicletta al grande di ruscio

  2. Poi di libri dove il mondo del lavoro è un fondale sensibile in realtà ce ne sono stati, e anche tanti, a partire da quel prototipo che è Rosso Malpelo di Verga, i Ricordi di un impiegato di Federigo Tozzi, il romanzo neoverista della civiltà contadina La malora di Beppe Fenoglio, oppure un altro suo, La paga del sabato, romanzi come La chiave a stella di Primo Levi; fino allo sperimentale Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, che è del ’71, nella voce fluviale di un operaio massa, il cupissimo La morte in banca di Pontiggia, e ancora Il dipendente di Sebastiano Nata, dove il protagonista è Michele Garbo, il top manager in giacca e cravatta che vive nell’impero immateriale dei soldi, La dismissione di Ermanno Rea, e poi L’età dell’oro di Edoardo Nesi, romanzo del declino del tessile pratese e, per finire, il geniale racconto lungo Cordiali saluti di Andrea Bajani, dove uno scrittore aziendale redige lettere di licenziamento come esercizi di stile, e sempre quello suo legato ai temi della delocalizzazione, Se consideri le colpe, Ternitti di Mario Desiati, poi il romanzo in versi di Targhetta Perciò veniamo bene nelle fotografie.

  3. poi, io, avrei dovuto incontrarlo, il Luigi. Ci scambiammo due mail di commenti e poesie. A Pasqua torno e ci vediamo a Porto San Giorgio. All’appuntamento non venne. Poi seppi che era morto. Bravo, Angelo, a tenerne vivo il ricordo. L’articolo e suggestivo. Ubaldo, de robertis Pisa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *