di Giacomo Giubilini
«Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire».
Fa una certa impressione vedere il trailer e il teaser di La grande bellezza di Paolo Sorrentino, un film che ancora non c’è. Il tema è la grande mamma del cinema italiano e quindi la grande castratrice dello stesso, sua stessa scenografia e storia – Roma, appunto.
Si intravedono tracce di un’opera che incuriosisce tantissimo, e di cui si intuiscono le grandi potenzialità, ma che proprio nell’incompletezza della forma breve di un teaser racconta già, prima che sia disponibile il film intero, l’essenza stessa della città, altra grande incompleta.
Roma è sempre stata per me un grumo informe, dove si intrecciano la fonte, la radura e la foce, ma non necessariamente in quest’ordine, che è quello naturale della cose.
Roma si trasforma con le stagioni e le luci, un prodigio illusorio che prende realtà e movimento e colore a seconda dell’ambiente atmosferico, come se le rovine non fossero sempre le stesse, ma si rianimassero in una nuova metamorfosi. Come se il mondo atmosferico volesse imbrigliarla, mentre lei sfugge a ogni cartolina, regina delle metamorfosi. Le vittime dell’incantesimo, i suoi abitanti, sono avvezzi all’assenza costante di un senso, rassegnati alla regola della loro quotidianità: perdersi nell’incompiutezza di un casino fermo per ritrovarsi poi a casa, la sera, abitati da lei, con addosso pezzi di mondi antichi, squame, pensieri, immagini non nostre. Chi ha pensato per noi? Chi ha occupato il nostro corpo e riempito i pori della nostra pelle? Chi ha saturato i nostri silenzi con sgommate, urla, ritardi? Roma.
Perdersi quindi come unico modo di essere accolti. Perdersi mentalmente – a Roma non è possibile una coerenza mentale. Perdersi fisicamente – a Roma non si può non deambulare in un corpo all’ingrasso perpetuo. Perdersi moralmente – come non sentirsi in colpa per furti compiuti o anche solo orecchiati, A Roma. Chi è senza peccato ruba la prima pietra.
Un rampicante disordinato, un’erba selvatica di bellezza e orrore che cresce alla luce e muore di anfratti. Ripiegata sulle reliquie sature, gonfie come se fossero vive e appena ripescate da un fiume, sia pure nient’altro che polveri tenute insieme da pizzi e ostensori e teche. Roma: non c’è mai vero misticismo in tutto il sacro che la satura. Mai vera fuga e visione, sempre concretezza di un presente invaso da un passato che non si sa.
La concretezza dei fantasmi che abitano luoghi di lavoro metafisici. I lunghi corridoi degli infiniti enti pubblici – scuole, ministeri, province, ambasciate, dove deambulano corpi senza età e senza numero. Qui tutto è carta. Centinaia di faldoni di pratiche o romanzi in bozza o sceneggiature mancate, scritte per arenarsi nel sonnambulismo dei fascicolati, bolli, firme, cataloghi, ed essere poi tumulate in infiniti e chilometrici archivi. Che archiviano prima di tutto se stessi. Una burocrazia anemica ma organica, viva, in grado di moltiplicarsi senza una linfa, un sangue che l’ammala, una testa o corpo. Un corpaccione, un automa dispensatore che spreca risorse e moltiplica cariche, commi, glosse, file, prolongé di cardinali, drink, sparatorie, rincorse e urli di sirene. Ambulanze senza pazienti, corsie ospedaliere di infermieri e malati, senza medici, senza scienza alcuna. Il portantino che consiglia, il malato che muore, il tutto in amicizia. Volemose bene?
Quanti sono? Chi sono? Che fanno? Nessuno ricorda nulla, nessuno ha mai saputo nulla a Roma.
È nella stasi delle sue feste, tarantolate solo dall’inerzia, che si fotografa il fregio di persone paralizzate nell’ambra della romanità stessa. Comparse senza vita, fiaccate nel vigore e nell’intelletto da generazioni di accoppiamenti nobiliari e borghesi tra simili, ammucchiate endogene perpetrate a conservare cariche, posti di prestigio, pettegolezzi e palazzi. Monumento statico di penitenti, tali anche all’apice dell’orgia; contorsionisti cultori della pennica prima di diventare assatanate faine, ma sempre in fondo sdentate. Volemose bene?
Roma è nella disperazione immobile della sua borghesia depressa per status, o in quella semovente dei quartieri che si sfarinano in altri azzardi fallimentari, in nuovi agglomerati, tra pecore e zolle. Lì, nel nulla, Roma rimanda sempre i limiti, i confini, le regole. Se ne sente imbrigliata, le rifiuta e rigetta nel fango, nelle sue consolari che si perdono in tratturi casuali e dimagriscono perdendosi in sabbie. Uno strabordare continuo di cementi, di trippe appagate come di anime in pena, di bestemmie come di preghiere. Fogne scoperte e incomplete, cantieri interminabili, campagne mangiate da scheletri di palazzi invenduti ma già abitati dai fantasmi del vento marino, dai rampicanti, nel declino dei materiali poveri, sempre al risparmio, sempre frutto evidenti di truffe e rggiri, di patti criminali.
Isole abbandonate e lontane da un centro che esiste ormai solo nel sequestro perpetuo dei cerimoniali flautolenti del potere. Che è poi anche il dramma dei “potenti” a progetto, sempre in bilico, condannati ad essere inghiottiti dalla città stessa che vorrebbero padroneggiare e che invece li rimpinza fino a farli esplodere, fino al collasso, al cedimento delle vene e del cervello, che li relega all’ebetismo degli occhi acquosi e appagati di bestiame dormiente e in recinto. Il recinto del potere stesso.
E’ in questo accumulo di colpe e di memorie, che ti prende alla gola come un singulto digestivo, che Roma non si risolve mai davvero in morte e resurrezione – sebbene quella sia la sua essenza.
Asfaltare e tumulare ogni cosa e per sempre non riesce mai del tutto. E nemmeno completare ciò che si è iniziato. Da ogni fossa abusiva nata per seminare condomini spunta sempre un reperto o una reliquia, un mondo di inutili perfezioni passate che reclama luce ed ostacola cupio dissolvi o modernità.
La grande bellezza è tutta nell’archeologia delle cose mancate, in ciò che resta, nelle rovine antiche e contemporanee. Una storia mai lineare, un eterno ritorno in in cui la foce diventa fonte.
[Immagine: Paolo Sorrentino, La grande bellezza].
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