cropped-20070612-burtynsky-mw13-009-910.jpgdi Daniele Balicco e Pietro Bianchi

[La prima parte di questo saggio, dedicata a Fredric Jameson, è uscita qualche giorno fa e si può leggere qui].

Molto diversa rispetto a quella di Jameson – che resta, nella solo apparente bulimia teorica, un marxista occidentale standard – l’impostazione teorica di David Harvey. A dire il vero, il suo percorso intellettuale è così particolare da poter essere considerato quasi un unicum all’interno delle vicende del marxismo internazionale di fine secolo. Non soltanto perché il suo ambito disciplinare – la geografia – lo colloca in una posizione strutturalmente eterodossa rispetto alla tradizione marxista, ma anche per il relativo isolamento che caratterizzerà buona parte della sua vita intellettuale, fino all’indubbio successo degli ultimi anni.

Harvey compie la sua formazione all’Università di Cambridge; le sue prime ricerche di geografia storica riguardano la coltivazione del luppolo nel Kent del XIX Secolo. Anche il suo primo lavoro importante, Explanation in Geography8, pubblicato nel 1969, è relativamente tradizionale. Tuttavia già in questi primi anni di apprendistato si nota un bisogno positivista di dare respiro sistematico ad un disciplina, come la geografia, ancora chiusa in quello che Harvey definisce «eccezionalismo», ovvero la tendenza a concepire i propri oggetti di studio come una sequenza di casi particolari sprovvisti di una qualsivoglia legge universale9. La svolta, allo stesso tempo politica e accademica, avviene nel 1970 con il trasferimento negli Stati Uniti, alla Johns Hopkins University di Baltimora. Qui Harvey inizia a lavorare in un dipartimento interdisciplinare che amplia i suoi punti di riferimento teorici ben oltre i confini della geografia; incontra un milieu teorico già orientato verso tematiche radicali, il movimento contro la guerra del Vietnam e una città che può essere considerata un laboratorio di sviluppo urbano contemporaneo per le vertiginose ineguaglianze sociali che produce. Il suo lavoro del 1973, Social Justice and the City10, rappresenta il suo definitivo incontro con il marxismo. Tuttavia è solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con The Limits to Capital11, il suo lavoro teorico più ambizioso e più sistematico, che la sua originale impostazione teorica raggiunge piena maturità. Harvey ci lavora per quasi un decennio, trascorrendo anche un anno di studi a Parigi (esperienza alla base di un successivo studio – che è probabilmente il suo capolavoro saggistico – sulla trasformazione urbanistica, sociale e politica della Parigi di Hausmann12). Alla pubblicazione del libro, che avverrà solo nel 1982, le reazioni furono tuttavia abbastanza fredde. Il lavoro venne sostanzialmente ignorato, perfino nel dibattito economico marxista (unica eccezione, la recensione negativa di Michael Lebowitz sulla Monthly Review). Harvey scontava senz’altro la poca familiarità che molti studiosi marxisti avevano con la disciplina geografica. Tuttavia, non è difficile riconoscere che la lenta penetrazione delle tesi di Harvey nel dibattito teorico internazionale derivi soprattutto dalla novità del suo approccio. Oggi, a distanza di oltre tre decenni dalla pubblicazione, The Limits to Capital è universalmente riconosciuto come il punto di riferimento imprescindibile di quanto, nella teoria internazionale, cade sotto il nome di «materialismo storico-geografico».

Harvey costruisce la propria argomentazione attraverso un confronto serrato con i tre volumi del Capitale, riducendo al minimo i riferimenti alla letteratura secondaria. La caratterista principale di quest’opera è infatti quella di essere un appassionato close reading del testo marxiano. Del resto, i suoi seminari universitari di lettura del Capitale, che vanno avanti ininterrottamente dal 1971 (e che hanno avuto negli ultimi anni, grazie alla pubblicazione su web – www.davidharvey.org – un successo planetario) oltre a provare il suo indubbio talento divulgativo, mostrano molto bene il suo metodo di lavoro. L’idea di fondo di The Limits to Capital è relativamente semplice: analizzare il processo di accumulazione capitalistico attraverso la lente della sua articolazione spaziale. Diversamente da Jameson, Harvey astrae «da un certo tipo di complessità (la complessità empirica della vita di ogni giorno), in modo da rendere visibile un’altra complessità, la complessità dei processi sottostanti che appaiono nella forme»13. Seguendo Marx, Harvey legge il rapporto di capitale come un rapporto strutturalmente fondato su una contraddizione: il processo di accumulazione, infatti, è per un verso caratterizzato da spiccati tratti di omogeneizzazione (l’universalità del valore divenuto denaro), ma per un altro tende ad esprimersi sempre in forme particolari differenti. Alla coppia concettuale astratto/concreto, che Marx mutua da Hegel, si sovrappone così la coppia omogeneo/differente. Secondo Harvey, la mobilità e rapidità della ristrutturazione dei processi di accumulazione intrattiene sempre un rapporto dialettico con la dimensione concreta dello spazio. Da un lato infatti, la dimensione spaziale permette e fluidifica i processi di accumulazione in un certo luogo, ma dall’altro lato può esserne un ostacolo nel momento in cui, ad esempio, la rigidità del capitale fisso impedisce la rapidità di un processo di ristrutturazione. In Harvey dunque, lo spazio non è un’alterità inerte e immutabile che si oppone dall’esterno al processo di accumulazione; semmai è un soggetto in continua trasformazione (o meglio, il risultato di un rapporto sociale antagonistico) nel quale si sono sedimentati i cicli precedenti e le crisi che l’hanno attraversato. È qui che vediamo l’ambiguità della parola limit, essendo contemporaneamente un ostacolo che frena il processo di accumulazione e insieme il limite del modo di produzione capitalistico che deve essere superato ad ogni ciclo.

Per Harvey la circolazione di capitale è caratterizzata da una fondamentale e ineliminabile instabilità: da un lato perché si producano dei profitti è necessario impiegare lavoro vivo nel processo produttivo; dall’altro, l’innovazione tecnologica tende ad espellere sempre di più lavoro vivo – l’unica fonte del valore – dalla produzione. Il lavoro vivo, pur necessario, tende paradossalmente ad essere sostituito dall’innovazione tecnologica nella produzione. Il risultato è quella forma di irrazionalità capitalistica che emerge nitidamente nei periodi di crisi, dove coesistono enormi capacità produttive inutilizzate e disoccupazione di massa. In questi casi, i surplus sia di capitale fisso che di forza-lavoro, che non riescono a essere assorbiti, inducono un processo di svalutazione (sotto forma o di merci invendute o di capacità produttive sottoutilizzate o di disoccupazione). A rigor di logica sarebbe possibile avere, a seconda dei rapporti di forza o a causa di squilibri nella composizione, solo surplus di capitale fisso o solo di forza-lavoro. Tuttavia, Harvey è interessato soprattutto a quei momenti storici nei quali il capitale incontra una crisi strutturale, dove vi è un surplus che non riesce a essere assorbito in entrambi i poli della relazione. Questa contraddizione fondamentale che non può essere risolta una volta per tutta, può tuttavia generare dei temporanei processi di ristrutturazione che si muoveranno lungo due direttrici: o temporali o spaziali. Nelle direttrici temporali, attraverso la creazione di capitale fittizio, viene dilazionato nel tempo l’impatto con lo squilibrio fondamentale nella produzione (processi di finanziarizzazione). Ma è sulle direttrici spaziali che Harvey concentra la sua attenzione, contribuendo ad uno sviluppo innovativo delle teorie marxiane della crisi. La domanda fondamentale di The Limits to Capital sarà dunque: in che modo il capitale riesce a evitare momentaneamente la propria svalutazione tramite una ristrutturazione spaziale?

Secondo Harvey, è indubbio che Marx abbia privilegiato la dimensione temporale su quella spaziale: «il fine ultimo e l’obiettivo di chi è impegnato nella circolazione del capitale deve essere, dopotutto, controllare il surplus di tempo di lavoro e convertirlo in profitto all’interno del tempo di rotazione socialmente necessario»14. Tuttavia, se si osservano le dinamiche geografiche dello sviluppo capitalistico, è altresì indubbio che storicamente il capitale esprima una continua tensione verso il superamento delle barriere spaziali o, più precisamente, verso l’annientamento dello spazio mediante il tempo. E tuttavia questa compressione spazio/temporale può essere raggiunta soltanto tramite una continua riconfigurazione spaziale. Si giunge così al paradosso di un’organizzazione dello spazio finalizzata, capitalisticamente, al superamento dello spazio stesso. Harvey definisce spatial fix il modo attraverso cui lo spazio organizza il superamento del proprio stesso limite.

Nonostante questi diversi significati di fix possano apparire contraddittori [ndr: “fissare” “inchiodare” e “aggiustare” “risolvere un problema”], sono tutti internamente legati all’idea che qualcosa (una questione, un problema) possa essere corretta e messa al sicuro. Nella mia concezione del termine, questa contraddizione può essere usata per far vedere qualcosa di importante delle dinamiche geografiche del capitalismo e delle sue tendenze alla crisi. In particolare mi sono occupato del problema della “fissità” (nel senso di essere posto al sicuro) opposta al movimento e alla mobilità del capitale. Ho notato, per esempio, che il capitalismo ha bisogno di fissare uno spazio (in strutture immobili di trasporto e reti di comunicazioni, così come nella costruzione di fabbriche, strade, case, acquedotti, e altre infrastrutture fisiche) per superare lo spazio (raggiungere la libertà di movimento attraverso i bassi costi di trasporto e comunicazione). Questo porta a una delle contraddizioni centrali del capitale: deve costruire uno spazio fisso (fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della sua storia soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove possibilità di accumulazione in altri luoghi e territori)15.

Dall’esportazione di capitali o di forza-lavoro attraverso l’inclusione di nuovi territori nel modo di produzione capitalistico (imperialismo) allo sviluppo di nuove tecnologie che accorciano tempi di spostamento di merci o capitali; dal governo territoriale sulla forza-lavoro (differenziali geografici nel mercato del lavoro) al mercato fondiario e così via, compito di una teoria marxiana dello spazio è quello di descrivere la modalità attraverso cui le contraddizioni fondamentali di un processo di accumulazione si esprimono e si attestano temporaneamente in un dato equilibrio spaziale.

A partire da The Condition of Postmodernity16 fino ai saggi pubblicati in questi ultimi anni (The New imperialism17; A Brief History of Neoliberalism18; The Enigma of Capital19), Harvey applicherà le categorie elaborate in Limits to Capital all’attuale fase di accumulazione e alla sua crisi. In particolare, con il concetto di «accumulazione per espropriazione» (accumulation by dispossession) Harvey identifica la strategia con cui la classe dominante attuale sta cercando di ri-configurare un nuovo spazio adeguato alla ripresa dell’accumulazione. Esproprio e privatizzazione di beni comuni, erosione di quel che resta del welfare universalistico, attacco alle conquiste sindacali di mezzo secolo, sono tutte azioni politiche solo apparentemente diversificate, ma che in realtà hanno come scopo comune l’appropriazione di una serie di “spazi” non del tutto messi a valore perché ancora parzialmente governati da una logica pubblica.

Con [accumulazione per espropriazione] intendo la continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha descritto come ‘primitive’ o ‘originarie’ durante l’ascesa del capitalismo. Queste includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione forzata di popolazioni di contadini […]; la conversione di varie forme di proprietà intellettuale (comune, collettiva, statale, etc.) in diritti di proprietà privata esclusiva […]; la soppressione dei diritti ai beni comuni; la mercificazione della forza lavoro e la soppressione di forme alternative (indigene) di produzione e consumo; processi coloniali, neocoloniali, imperiali di appropriazione di risorse (comprese le risorse naturali); monetizzazione dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la tratta di schiavi (che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come mezzo radicale di accumulazione per espropriazione.20

Secondo Harvey, dunque, non si può separare il processo di finanziarizzazione, generato dalla crisi strutturale degli anni Settanta, dall’impressionante compressione spazio-temporale che l’ha accompagnato: nel mondo che abitiamo il tempo di accumulazione del capitale (e la conseguente ristrutturazione spaziale) si è infatti accelerato in questi ultimi quarant’anni in modo vertiginoso, creando squilibri e instabiltà che difficilmente potranno assestarsi in un nuovo spatial fix capace di armonizzarli, seppur transitoriamente, senza passare attraverso un lungo periodo di caos e di distruzioni massicce di capitale; e, naturalmente, di vita.

Note

8D. Harvey, Explanation in Geography, Edward Arnold, London 1969.

9 P.Anderson – D.Harvey, Reinventing Geography in New Left Review, IV, 2000, pp. 75-97.

10D. Harvey, Social Justice and the City, John Hopkins University Press, Baltimore 1973.

11Id, Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982.

12Id, Paris. Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.

13 Ibidem.

14D. Harvey, The geopolitics of capitalism, in D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social Relations and Spatial Structures, Macmillan, Londra 1985, pp. 128 – 163, (trad. it. di M. Dal Lago, La geopolitica del capitalismo, in G. Vertova (a cura di), Lo spazio del capitale. cit., p. 121).

15 D. Harvey, Globalization and the ‘Spatial Fix’ in «Geographische Revue», n. 2, 2001, p. 24 (traduzione di Pietro Bianchi).

16Id, The Condition of Postmodernity: an Enquiry into the Origins of Cultural Change, Blackwell, 1989, Oxford (UK) – Cambridge (Mass.) (tr.it La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1992)

17Id, The New Imperialism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2003 (tr.it La guerra perpetua, Il Saggiatore, Milano 2004)

18Id, A Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005)

19Id., The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York, Oxford University Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011.

20Id, A Brief History of Neoliberalism cit., p.159.

 

Bibliografia

D.Harvey, Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982.

Id, Condition of postmodernity. An Enquiry into the origins of Cultural Change, Blackwell, Oxford – Cambridge (Mass.) 1989 (tr.it La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1991).

Id, Paris. Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.

Id, A Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005).

Id, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York, Oxford University Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011.

David Harvey. A Critical Reader, (edited by) N.Castree – D. Gregory, Blackwell, Malden – Oxford 2006

Lo spazio del capitale, (a cura di) G. Vertova, Editori Riuniti, Roma 2009.

[Immagine: Edward Burtynsky, Manufacturing in China (gm)].

 

18 thoughts on “Interpretazioni del capitalismo contemporaneo /2. David Harvey

  1. Bell’articolo davvero. David Harvey è uno dei pochi teorici contemporanei capace di interpretare Marx in modo convincente e creativo. Peccato che in Italia sia così poco conosciuto

  2. Mi piacerebbe sapere dagli autori del saggio se le tesi di Harvey sull’accumulazione per espropriazione possono essere utili a spiegare l’attuale politica della BCE? Le lotte referendarie italiane di due anni fa possono essere interpretate come una mossa politicamente corretta contro questa nuova forma di espropriazione? Grazie

  3. Di Harvey ho letto solo l’Enigma del Capitale pubblicato da Feltrinelli. Libro avvincente scritto con una chiarezza esemplare. Magari i teorici italiani, o peggio ancora francesi, scrivessero così!!! Ma Limits to Capital non è stato ancora tradotto? Che si aspetta??? Grazie per l’articolo. Dopo Jameson e Harvey sono davvero curioso di leggere l’ultima puntata. Arrighi è un mito

  4. Harvey abbina Rosa Luxembourg a Henri Lefebvre. Nella sua prospettiva lo spazio geografico e la vita quotidiana sono i cardini del dominio capitalistico – oltre allo sfruttamento del lavoro vivo ovviamente. Chiederei agli autori un giudizio personale sulla sua teoria della crisi. Grazie e complimenti.

  5. @ Sonia
    le tesi sull’accumulazione per espropriazione di Harvey possono senz’altro in parte spiegare alcune misure che la BCE ha adottato nei riguardi di alcuni paesi europei negli ultimi mesi (imposizione di misure di austerity che costringono alla privatizzazione di servizi pubblici o di beni fondamentali come l’acqua etc.) e lei fa bene a farlo notare. Tuttavia mi pare che l’importanza di quel concetto sia più generale. Ad esempio l’accumulazione per espropriazione può aiutare ad analizzare il processo di finanziarizzazione del capitalismo degli ultimi decenni. Un esempio: il drenaggio di enormi fette di risparmi dei proletari americani nel mercato azionario attraverso i fondi pensione (avvenuto negli anni 70) ha di fatto integrato la classe operaia americana alle oscillazioni di borsa. Un operaio che vede il destino della propria pensione legato al valore azionario della propria azienda può entrare in contraddizione con il fatto che egli sia anche lavoratore di quell’azienda. Questa forma di integrazione della forza-lavoro alla finanza (dove gli interessi di un lavoratore vengono messi per così dire “contro se stessi”) costituisce naturalmente un efficacissimo dispositivo di disciplinamento al lavoro funzionale all’estrazione di lavoro vivo in un particolare ciclo di accumulazione. L’accumulazione per espropriazione va quindi letta come un principio strutturale di *ogni* processo di valorizzazione capitalistico, come per altro i più recenti dibattiti sul concetto marxiano di “accumulazione originaria” confermano. La marxiana “accumulazione originaria” infatti non sta all’origine (diacronica) ma al cuore (sincronico) di ogni ciclo di accumulazione. Si veda a questo riguardo il libro curato da Devi Saccheto e Massimiliano Tomba per le edizioni ombre corte di Verona “La lunga accumulazione originaria”

    @Sasha
    Limits to Capital purtroppo non è mai stato tradotto in italiano. Vista la mole del volume, l’anno di pubblicazione, lo stato degli studi su Marx in Italia ma soprattutto lo sfacelo in cui versa il nostro mercato editoriale di saggistica di qualità non mi farei troppe aspettative. Nel libro curato da Giovanna Vertova citato in bibliografia vi è un’ottima introduzione della stessa Vertova, un saggio di Riccardo Bellofiore e uno dello stesso Harvey che riassumono le tesi più importanti di “Limits to Capital” in modo molto efficace e fanno il punto della situazione del dibattito a trent’anni dalla pubblicazione del libro.

  6. @ Vlad

    La teoria della crisi di Harvey è, secondo me, particolarmente interessante, proprio perché incrocia una teoria dello sviluppo di derivazione luxembourghiana con un’attenzione alla geografia e alla configurazione dello spazio urbano, che Harvey deriva dal suo maestro Henri Lefebvre. A differenze delle teorie più tradizionali (caduta tendenziale del saggio di profitto, sottoconsumo, sovrapproduzione etc…) Harvey vede due controtendenze ricorrenti al cronico problema della sovraccumulazione: spostamento nel tempo ( finanziarizzazione ) o ri-configurazione dello spazio (investimenti di capitale in macro-regioni urbane). La seconda mossa gli consente di ricostruire la storia di alcuni grandi casi di trasformazione urbana (la Parigi di Haussman, la New York di Moses, oggi Pechino e Shanghai) come “tentatvivi” momentanei di superare attraverso investimenti massicci l’incubo ricorrente di sovraccumulazione. Il problema è che ogni spazio ri-plasmato riesce a contenere solo per un tempo limitato la continua espansione monetaria del capitale. Quando “il contenitore” non riesce più ad assorbire moneta in eccesso si apre un periodo di crisi strutturale: enormi quantità di capitale non riescono ad essere investite ed enormi masse di lavoro vivo non riescono ad essere impiegate. Qui subentra Arrighi spiegando come le crisi strutturali aprano sempre periodi violenti di competizione fra macro-regioni finché una nuovo sistema egemone stabilizza il suo potere e riorganizza il ciclo, facendo di nuovo unire, seppur temporanemaente, capitale e lavoro vivo. Ma su questo aspettate l’ultima puntata.

  7. @ Sonia

    C’è chi come Alberto Bagnai o Hosea Jaffe legge la costruzione dell’Euro come l’equivalente “continentale” della rivoluzione conservatrice “anglosassone” Thatcher/ Reagan (Volcker). Con la differenza che almeno la prima è stata esplicitamente politica, mentre la seconda no, una rivoluzione conservatrice fatta passare come fatalità tecnica e progresso. In questo caso, io sarei propenso a leggere, come lei suggerisce, la politica monetaria della BCE come un caso da manuale di “accumulazione per espropriazione”.

  8. Cari Daniele e Pietro. Volevo riallacciarmi alla questione che vede parallelismi tra politica economica europea e la prospettiva di Harvey sull`accumulazione del capitale per espropriazione. E`mia convinzione infatti che i piani dell`unione non possono essere compresi a pieno se disgiunti da quelli finanziari internazionali degli ultimi 40 anni.

    Mi spiego meglio. E`vero, come dice Pietro, che la BCE, si potrebbe vedere attraverso la strategia dell`austerity come un tentativo di appropriazione da parte del privato internazionale sul dominio del pubblico (privatizzazione dell`acqua, di grandi aziende nazionali, sanita`, scuola, ecc.). Tuttavia, Pietro, mi sembra, altresi`, che la moneta unica, ma anche la creazione della stessa UE, siano del tutto complementarei alla finanza e, secondo me, possono essere incluse nella prospettiva piu`generale di cui parli tu. Dal tuo discorso infatti mi sono balzati subito agli occhi i fondi pensione americani, che Luciano Gallino spiega molto chiaramente in Finanzcapitalismo,e io vorrei paragonare il loro funazionamento a quello della BCE e del rapporto che il sistema bancario europeo intrattiene con le singole nazioni.

    Come spieghi tu,infatti,i fondi pensione vengono finanziati dai lavoratori-investitori contro il loro stesso interesse. I fondi pensione, ricordiamo, non sono gestiti da assemblee democraticamente elette dai loro contribuenti (I lavoratori, appunto), e in misura estremamente determinante invece dagli azionisti di maggioranza. L’obiettivo del fondo, percio`, sara`quello di soddisfare il margine di profitto dell`azionista, e le varie decisioni consiliari verrano prese solo su questa base: i trasferimenti di capitale dirottati su quelle zone del globo che assicurano il maggior margine di profitto nel minor tempo possible a scapito della proudzione reale, del capitale umano (lavoro vivo), del territorio e dei servizi elargiti su di esso.

    Ora quando Mario Monti, tecnico non democraticamente eletto, parlava di voler togliere l`articolo 18, CONFINDUSTRIA (se si fa eccezione della Mercegallia) non ne capiva il senso, visto che sia Squinzi che Bompassei, nella corsa alla loro candidatura, dichiaravano entrambi pubblicamente che il 95% delle imprese italiane non raggiunge i 15 dipendenti. Parliamo dei distretti industriali. Allora a chi interessava questa decisione? E`Monti stesso a rispondere: “sono i mercati che lo vogliono”, ovvero gli azionisti stranieri del debito pubblico italiano. Monti si fa loro garante e cerca di soddisfare l`interesse degli azionisti di maggioranza a scapito di una qualsiasi politica d` investimenti che, al contrario, potrebbe portare magari agli stessi azionisti un maggior introito sul lungo periodo semplicemente perche`si evita la banca rotta e percio`l`insolvenza del paese in questione. Inoltre, una politica del genere, come sappiamo, distrugge valore aggiunto, ovvero il PIL di quel paese. Tuttavia, va da se`che agli azionisti di maggiornaza, che non vivono in Italia, di quel margine di profitto glie ne importa veramente poco.

    Monti, pero`, in questo modo non faceva solo il tornaconto degli azionisti internazionali (cinesi, americani, russi, ecc.), ma contemporaneamente anche della BCE, la quale ha in mano, a sua volta, le nostre politiche monetarie. Ovvero, quando Mario Draghi visita la Louis e dichiara che l`Italia ha bisogno urgentemente di fare le riforme strutturali, lo fa appunto per spingere il governo a privattizzare per cercare di svendere patrimonio pubblico che poi verra`finanziarizzato; ma anche per rispondere alle esigenze di pagare un tasso d`interesse sul debito a vantaggio di paesi nord europei, prestatori di capitale, a loro volta azionisti stranieri che NON stanno tanto investendo nella periferia col fine di risanarala e creare sviluppo (valore aggiunto in termini di PIL, servizi e capitale umano), quanto per riuscire ad accumulare nel breve termine surplus di capitale.

    In altre parole, e concludo, a me sembra che l`euro e la UE rispecchino grosso modo proprio il meccanismo del fondo pensione, per cui le singole nazioni contribuiscono in vari modi a crerare un deposito che pero`non serve ad attuare delle politiche economiche come gli euro bonds, capaci ad esempio di compensare gli sblianciamenti tra paesi esportatori netti, e quelli importatori; nè comunque per rilanciare piani d`investimento complessivo sul continente, ma solo per finanziare il surplus di alcune nazioni (europee) e di altre imprese private internazionali.
    Grazie

  9. @ Jacopo D’Alessio

    siccome il commento è stato postato due volte. Copio la risposta che ho scritto sotto l’articolo su Jameson:

    “condivido quasi tutta la ricostruzione storico / finanziaria degli ultimi trent’anni. Credo che Arrighi -e quindi bisogna aspettare l’ultima puntata – aiuti molto a capire questa fase di transizione che è giocata da due attori principali: Usa e Cina. Come nei precedenti passaggi d’egemonia, le guerre – in questo caso per ora solo finanziarie – non vengono mai combattute direttamente dai due centri in lotta per l’egemonia ma vengono fatte combattere, più o meno consapevolmente, agli alleati. Mettiamoci però anche un po’ di caso e di caos in tutta questa ricostruzione: non tutto è stato pianificato a tavolini, non sempre i conti tornano; altrimenti rischiamo di assecondare una visione a tratti paranoica.
    Per Harvey la via d’uscita sta nella politicizzazione delle lotte contro l’accumulazione per espropriazione: politicizzazione significa unire le classiche lotte sul lavoro con le nuove lotte, per intendersi, della difesa dei beni comuni.
    Per Arrighi in realtà c’è poco da fare. I passaggi d’egemonia essendo sistemici lasciano poco spazio all’iniziativa dei soggetti. Questo è un limite della sua impostazione, ben inteso. Ma è anche una tremenda verifica storica da sostenere.
    Teniamo comunque, con Benjamin, la storia aperta.
    Caso e caos.
    Non è detto che tutto vada secondo i piani.
    Può anche andare peggio, ben inteso. Chissà….”

  10. @ Jacopo d’Alessio

    innanzitutto la ringrazio del suo intervento, davvero molto preciso. Sull’intreccio di privatizzazione/svendita del patrimonio pubblico, misure di austerity, dipendenza del debito da investitori stranieri lei ha senz’altro molte ragioni. Mi pare anche importante sottolineare come questa dipendenza “politica” nei confronti dei creditori del mercato privato dei titoli di stato è diventata una merce di scambio solo quando la BCE ha iniziato a paventare la possibilità di una insostenibilità del debito pubblico greco creando un precedente e dunque facendo delle sorti dei debiti pubblici dei paesi importatori una crisi tutta politica.

    L’area valutaria europea è nata senza dubbio sotto il segno di squilibri imponenti. Un euro più debole rispetto al marco ha permesso alla Germania di avere surplus commerciali senza precedenti (pompati dalla droga del consumo a debito privato degli Stati Uniti) così come i paesi importatori hanno beneficiato di tassi di indebitamento più vantaggiosi. Tuttavia la Germania ha sfruttato la propria manifattura e una deflazione salariale spaventosa contro i competitors delle industrie manifatturiere degli altri paesi dell’area UE. Gli Euro bonds sarebbero stati senz’altro un buon modo per bilanciare (come avviene all’interno di qualunque stato nazionali) lo squilibrio tra paesi con la bilancia commerciali in attivo e quelli con la bilancia commerciale in passivo (come se si trattasse di Lombardia e Sicilia, o di Ohio e California). Tuttavia hanno prevalso interessi capitalistici di altra natura e in particolare, a me pare, un tentativo da parte del capitale tedesco di emanciparsi dalla sua dipendenza nei confronti della domanda europea (che costringe a troppe mediazioni politiche) e di costituirsi come area esportatrice ad alto contenuto tecnologico indipendente dalla UE verso la Cina o verso altre aree. Secondo molti analisti è una pia illusione destinata a sfracellarsi sul concrete wall della realtà di una crisi globale, ma chissà…

    Vorrei solo aggiungere una cosa sulla finanziarizzazione. Il processo che è iniziato trent’anni fa con la svolta di Thatcher e Reagan, ha dato avvio a un fenomeno complesso che non riguarda soltanto il primato della finanza, ma che mette insieme finanza e cambiamento dei processi produttivi materiali: la sussunzione dei lavoratori alla finanza (come nel modello dei fondi pensione); la ristrutturazione delle imprese che hanno concentrato i propri assetti proprietari ma hanno nello stesso tempo esternalizzato parte della propria produzione sfruttando con il boom della logistica e delle telecomunicazioni un’integrazione di unità produttive molto ampia (che mette in competizione tra loro i differenziali salariali di paesi diversi, migranti etc.); e la gestione politica della domanda tramite quello che Bellofiore chiama kenyesismo privatizzato (il consumo a debito delle famiglie americane che si basa anche sanità e scuola privatizzate) consegnano un’immagine complessa di un capitalismo profondamente rivoluzionato. La UE costituisce una specificità regionale di un sistema-mondo basato su squilibri profondi, e la crisi dei debiti pubblici di alcuni paesi europei (con le partite geopolitiche e mercantiliste annesse) è lo smottamento regionale di un terremoto che è globale. La finanziarizzazione è quindi espressione di questo capitalismo più che causa. A me pare improbabile poter uscire da questa crisi mitigando su scala nazionale ciò che nazionale non è. Assomiglia di più allo struzzo che mette la testa sotto la sabbia ma inevitabilmente verrà punzecchiato sul di dietro. Far ripartire il conflitto di classe su scala transazionale, in primis europea, mi pare davvero l’unica ragionevole uscita a sinistra da questa situazione alla quale è sempre più urgente mettersi a lavorare.

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