di Claudio Gigante
Ho trascorso qualche giorno a Padova, incuriosito dalla mostra Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento (Palazzo del Monte di Pietà, dal 2 febbraio al 19 maggio 2013). Le attese non sono state tradite: per quel che offre e per il modo in cui è concepita l’esposizione, curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura (cui si deve anche la cura del poderoso catalogo, edito da Marsilio), merita davvero il rilievo che nelle settimane scorse le è stato accordato in vari quotidiani in Italia e all’estero (c’è anche un sito web: www.mostrabembo.it).
Giunto di lunedì, quando il Palazzo del Monte di Pietà era naturalmente chiuso, mi ero messo di cattivo umore aprendo il numero di una rivista locale, «Padova e il suo territorio», integralmente dedicato a Bembo e alla mostra.
Per la verità, nel periodico ci sono una dozzina di contributi divulgativi degnissimi, firmati da studiosi di prim’ordine. Mi aveva colpito però il breve editoriale d’apertura: «Sono trascorsi un paio d’anni – si legge – da quando l’Atlante della letteratura italiana di Einaudi propose un nuovo modo, e del tutto originale, di leggere la storia della cultura letteraria del nostro Paese, a partire dal suo primo costituirsi. Una cultura policentrica, nella quale il Veneto, e nel Veneto Padova, si proponevano come centro egemone, nel dualismo fra capitale politica ed economica e capitale culturale, a partire da Giotto e ad arrivare fino a Donatello, e per la presenza dell’università. Oggi le numerose iniziative di celebrazione di Pietro Bembo prospettano un ulteriore momento, e tutt’altro che secondario, di questo primato di Padova, grazie ad un personaggio di grande impatto storico, culturale ed umano, che con le Prose della volgar lingua e con gli Asolani si impose come figura centrale nella maturazione di quello che doveva essere chiamato il Rinascimento».
Dicevo, mi ero messo di cattivo umore. Perché mai presentare una figura davvero “italiana” quale Bembo come una sorta di emblema di un “primato” regionale o municipale? Proprio Bembo che non sarebbe mai divenuto il grande intellettuale che fu se non si fosse presto emancipato dall’ambiente veneto per immergersi nella cultura di altri centri: prima Messina (dove dal 1492 al ’94, alla scuola di Costantino Lascaris, imparò il greco antico), più tardi il mondo delle corti, Ferrara, Urbino, Roma… Senza volere in nulla sminuire l’importanza della formazione veneta né l’attaccamento ch’egli ebbe per la propria terra e per la città di Padova – dove ancora si ammira, nella via Altinate, quella che fu la sua dimora dal 1527 – occorre più che mai rivendicare in tutti i suoi significati, anche di prospettiva, il valore “policentrico” (in questo senso, sì) dell’esperienza biografica di Bembo: oltre tutto, solo così si può intendere il senso ultimo del suo “classicismo” e le ragioni della lunga riflessione che lo portò, con le Prose della volgar lingua, a porre le basi teoriche dell’italiano letterario.
E uno dei meriti della mostra è proprio quello di percorrere in alcune tappe intelligentemente selezionate la straordinaria ricchezza culturale di Bembo: non solo per ricostruire – come pure i curatori, in una delle sezioni della mostra, hanno fatto – il “museo” padovano di Bembo (i mirabilia della sua collezione privata, in parte irrimediabilmente dispersa), ma anche e soprattutto per tracciare visivamente il mondo delle lettere e delle arti in cui visse e l’impronta che in una stagione di spiriti magni (in larga parte suoi amici: da Raffaello a Castiglione, da Vittoria Colonna a Tiziano, senza dimenticare l’Ariosto…) riuscì a lasciare nella cultura del suo tempo.
La storia di Bembo inizia con un incontro. Il visitatore della mostra s’imbatte nella prima sala in due incunaboli delle commedie di Terenzio; il primo, oggi alla Nazionale di Firenze, appartenuto al Poliziano; il secondo, oggi all’Ambrosiana, appartenuto a Bembo. Si sa che nel giugno del 1491 Poliziano, in giro con Pico della Mirandola per il nord Italia alla ricerca di codici antichi, approdò a Venezia dove fu ospite, fra gli altri, della famiglia di Bernardo Bembo, il papà di Pietro.
Bernardo, raffinato connaisseur e collezionista munifico, era stato anni prima, tra il 1475 e il 1480, ambasciatore della Serenissima a Firenze, riuscendo ad accattivarsi le simpatie del più sublime cenacolo neoplatonico che si ricordi (fra gli altri: Ficino, Landino, lo stesso Poliziano); una bella ricostruzione di questo momento è stata offerta da Lina Bolzoni nel suo libro Il cuore di cristallo (Torino 2010). A Venezia, tocca ora a Bernardo di mostrare a Poliziano i tesori di casa sua, quel piccolo “museo” che sarà implementato dal figlio: protagonista della “nuova filologia”, Poliziano non può restare insensibile di fronte a un antico codice di Terenzio (oggi in Vaticana) e profitta del soggiorno per realizzare una rapida quanto meticolosa collazione su un esemplare a stampa comprato per l’occasione; il risultato del lavoro è visibile nelle glosse manoscritte ch’egli deposita sul volume. Da parte sua il ventunenne Bembo, ammaliato, possiamo immaginare, dalla presenza del grande umanista (cosa non si darebbe per poter ascoltare quel che si dissero!), non è da meno: su un suo esemplare gemello di Terenzio riporta diligentemente le varianti trascritte da Poliziano, nonché le sue annotazioni; e in epoche successive, acquisita la giusta competenza, Bembo studierà ancora il codice e gli appunti di Poliziano introducendo a sua volta integrazioni e correttivi (si vedano in proposito nel catalogo le due schede di Alessandro Daneloni).
Non c’è discorso sul Bembo che non prenda avvio da questo incontro così carico di significati e prospettive: si pensi al saggio introduttivo di Carlo Dionisotti alla sua capitale edizione delle Prose e Rime (Torino 1960) o al conciso, ma puntuale, ritratto (Introduzione (brevissima) a Pietro Bembo) che M. Pastore Stocchi ha scritto per il numero più sopra ricordato di «Padova e il suo territorio». Potere ammirare, l’uno di fianco all’altro, gli incunaboli terenziani postillati dai due grandi umanisti, l’uno al crepuscolo l’altro agli albori, è uno dei privilegi che la mostra accorda al visitatore: e non si poteva immaginare un accessus migliore, né più emozionante.
Il dittico dei due Terenzi, per l’occasione tornati insieme, prelude ad altre significative ricongiunzioni: anzitutto, i due pannelli di Memling, San Giovanni Battista e Santa Veronica, dipinti su ambo i lati, oggi rispettivamente a Monaco e a Washington, che in origine erano le “portelle” di una pala d’altare “trasportabile” (date le piccole dimensioni) appartenuta a Bernardo e poi a Pietro; i due pannelli sono esposti l’uno accanto all’altro nella medesima sala d’ingresso. Vale ricordare che a Memling è attribuito anche un ritratto di Bernardo, conservato oggi al Museo di Anversa (a pochi chilometri da dove scrivo…), che stringe nella mano sinistra una moneta di età romana: passione antiquaria trasmessa poi al figlio.
L’altra mirabile ricongiunzione ha un valore puramente ideale: nell’ultima sala, dedicata alla stagione cardinalizia di Bembo e al clima di nuova spiritualità degli anni Quaranta – che in qualche misura coinvolse il mondanissimo letterato (si vedano gli Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna ancora di Dionisotti) –, sono esposti il Cristo in croce di Michelangelo, disegno in gessetto nero oggi al British Museum, che questi donò a Vittoria Colonna; e il manoscritto in bella copia delle Rime spirituali, ora in Vaticana, che la poetessa regalò a sua volta all’artista (più tardi gli avrebbe fatto pervenire un’appendice di ulteriori quaranta sonetti). Due doni di fronte ai quali qualunque commento sarebbe superfluo.
Per tornare alla giovinezza operosa del Bembo, altri reperti della mostra sono l’incunabolo del Sogno, giovanile capitolo in terza rima (l’esemplare esposto, proveniente dalla Braidense, è l’unico noto); l’autografo dell’orazione in greco (conservata all’Ambrosiana e assegnata da Dionisotti al 1508), concepita forse per essere letta in pubblico a Venezia, in cui Bembo si faceva peroratore della causa delle lettere e dei letterati greci (occorre ricordare quanto il filellenismo, dall’umanesimo sino al nostro Risorgimento, sia stato una delle fibre identitarie della cultura italiana?); infine l’edizione del De Aetna (1496), che segue di un anno la cura, in collaborazione con Angelo Gabriele, della stampa della grammatica greca del Lascaris: due libri che marcano l’inizio del sodalizio editoriale con Aldo Manuzio, cui si deve una rivoluzione tipografica sin troppo nota per dovere essere richiamata in questi appunti.
Basti qui ricordare gli esemplari esposti: Gli Asolani, nella seconda impressione del marzo 1505, recante in apertura la dedica a Lucrezia Borgia, e due volumetti della famosa serie “in ottavo”, composta in caratteri corsivi, a cui Manuzio diede vita nel 1501: il Vergilius e il Petrarca de Le cose volgari, la cui cura testuale fu affidata proprio a Bembo.
Molto apprezzabile è l’idea di affiancare al «Petrarchino», il primo libro in lingua italiana pubblicato da Manuzio (Le terze rime di Dante, ossia la Commedia, seguiranno l’anno dopo), il Ritratto di giovane con il libro verde (conservato a San Francisco) che Alessandro Ballarin (autore della scheda relativa nel catalogo) ha da tempo attribuito a Giorgione, collocandolo nei primi anni del secolo, in contemporanea quindi con l’exploit delle edizioni tascabili inventate da Aldo: il successo del libro tascabile, curato ed elegante, conosce così nella mostra la sua più nobile raffigurazione.
Ancora un’intuizione di Ballarin, risalente al suo saggio Giorgione e la Compagnia degli amici (in Storia dell’arte italiana, vol. V, Torino 1983), ha permesso ai curatori di accostare un’opera di Giorgione a Bembo. Nella seconda sala, accanto al manoscritto in bella copia della prima redazione del primo libro degli Asolani (nella collezione della Fondazione Querini Stampalia) e nello stesso ambiente dell’Aldina del 1505 sopra ricordata, è stato sistemato il magnifico Doppio ritratto (conservato a Roma, Museo di Palazzo Venezia), che Ballarin ha interpretato quale propaggine figurativa del tema cardinale del dialogo bembesco e più in generale del clima in cui nacquero le Leggi della Compagnia degli amici: il personaggio in primo piano dall’aria trasognata e lo sguardo perso, che stringe un melangolo (emblema ossimorico delle dolci amarezze di ogni fedele d’amore), rappresenterebbe l’innamorato melanconico e contemplativo (Perottino, negli Asolani); il giovane sullo sfondo, dallo sguardo deciso e volitivo, rappresenterebbe invece l’amante sensuale (ossia Gismondo).
L’interpretazione di un testo letterario, come di un’opera pittorica, può essere condizionata dalla sensibilità dello studioso e dall’illusione che le tessere nelle sue mani compongano effettivamente la figura desiderata: una prova del nove raramente assiste l’ermeneuta. Ma ci sono interpretazioni che sono significanti anche al di là della loro indimostrabile veridicità: sono “significanti” perché spiegano e aiutano a capire. Poiché una mostra produce per sua natura esercizi visivi, il Doppio ritratto di Giorgione consente al visitatore di penetrare nella dialettica del tessuto neoplatonico degli Asolani con un’efficacia assai più dirompente di qualunque pur servizievole didascalia.
Alla stagione urbinate di Bembo (1506-1512), trascorsa all’ombra del duca Guidubaldo di Montefeltro, morto nel 1508, e soprattutto di sua moglie Elisabetta Gonzaga, è dedicata la terza sala. L’immagine solenne della duchessa, la cui figura è per noi inscindibile dalle pagine del Cortegiano, è affidata al ritratto, ora agli Uffizi, attribuito a Raffaello, e a un rilievo marmoreo, conservato a Barcellona nella Collezione Malagelada, che si ritiene del messinese Antonello Gagini (per la storia romanzesca di questo ritratto “a distanza” si veda nel catalogo la scheda di Francesco Caglioti): lasciata Venezia, abbandonata con piacere ogni velleità politica paterna, Bembo diviene, come tanti altri letterati e artisti del tempo, un uomo di corte. È, come si sa, nel Cortegiano di Castiglione, di cui è esposto il manoscritto della terza redazione (che prelude alla princeps del 1527), che Bembo è immortalato nelle vesti, così bene adatte all’autore già celebrato degli Asolani, di metafisico dell’amore, che parla – alludo alla famosa scena descritta nelle ultime pagine del Cortegiano – quasi rapito a se stesso, ispirato da «sacro furore». E rime in buona parte d’amore sono quelle che figurano nel manoscritto marciano (con correzioni autografe) confezionato quale omaggio alla duchessa Elisabetta, pur esso visibile in mostra; una dedica che non giungerà alla stampa (1530) di molti anni successiva a questa stagione (Elisabetta muore invece nel 1526).
Ai duchi di Urbino, seguendo un’ipotesi suggestiva (si veda la scheda nel catalogo di Alessandra Pattanaro), apparteneva forse la Santa Maria Maddalena di Perugino, oggi a Palazzo Pitti.
Se non fosse per la tenuissima aureola che la circonda e per il nome della santa, che è elegantemente ricamato in oro sotto il corpetto, il quadro farebbe pensare a una dama di corte, il cui lieve rossore sembra suggerire un turbamento giovanile che ai miei occhi profani appare altro che “contemplativo”. Nel nome della Maddalena, ancora recepita come un solo personaggio, si chiude d’altra parte il Cortegiano: Giuliano de’ Medici la menziona quale esempio di donna a cui «furono rimessi molti peccati perché ella amò molto», subito dopo avere ascoltato il furoreggiante discorso sull’amore di Bembo.
Ancora in rapporto con Bembo è la breve ecloga Tirsi (1508) composta a quattro mani da Castiglione e Cesare Gonzaga (il manoscritto esposto, proveniente dalla Vaticana, è autografo di quest’ultimo): per lungo tempo dimenticata, studiata da Carducci e in tempi recenti da Claudio Vela (che se ne occupa anche per la scheda del catalogo), l’ecloga Tirsi metteva sulla scena, attraverso il tradizionale travestimento pastorale, alcuni dei protagonisti – Bembo compreso – della corte urbinate di quegli anni. Stampata molti anni dopo, nel 1553, l’ecloga avrebbe avuto un’influenza non irrilevante sul Tasso compositore dell’Aminta.
Sul piano figurativo, un tentativo di dare un volto al Bembo giovane (probabilmente dei primi tempi della sua permanenza alla corte di Leone X) è esperito dai curatori che propongono di riconoscerlo nel Ritratto di gentiluomo di Tiziano, oggi al museo di Besançon.
Beninteso, si tratta di un’ipotesi avanzata con molta circospezione (si veda nel catalogo la scheda di Davide Gasparotto) che nasce dal tentativo di reperire il primo dei ritratti di Bembo (l’altro è quello senile, notissimo, nelle vesti cardinalizie, conservato a Washington, pure presente in mostra) che Tiziano, assicura Vasari nelle sue Vite, aveva realizzato – ritratto che sinora non era mai stato individuato.
Fra il Bembo supposto di Besançon e il Bembo arcinoto di Washington si collocherebbe una primizia iconografica della mostra: un ritratto di Bembo, proveniente da una collezione privata, eseguito alla metà degli anni Trenta da Lucas Cranach il Giovane o da suo fratello Hans (si veda nel catalogo la scheda di David Alan Brown: una versione seriore, si apprende, è alla Biblioteca universitaria di Lipsia). È un Bembo nordico e glabro, dai capelli radi, lo sguardo intento e l’aria poco in salute: somiglia molto – e azzeccatissimo è il paragone – all’effigie del letterato sulla medaglia realizzata dall’intagliatore Valerio Belli.
Guardando i tre dipinti uno dopo l’altro – sono i giochi permessi ai turisti svagati che non sono storici d’arte – faccio un po’ fatica a ritrovare Bembo nel gentiluomo di Besançon (naso grifagno a parte). Ma il bello delle mostre è che non sono atti di fede.
Al periodo romano, dal ’12 al ’20, è dedicata la quarta sala: Leone X, il primo papa Medici, figlio del Magnifico, è eletto nel marzo 1513; nello stesso mese «Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo», per dirla con Ariosto, sono nominati segretari ai brevi: «Letterariamente – spiegava ancora Dionisotti – la nomina dei due significava la vittoria dell’umanesimo ciceroniano in prosa, virgiliano in poesia». Proprio due mesi prima della nomina a segretario, Bembo aveva tempestivamente redatto la sua epistola De imitatione, in risposta a Giovan Francesco Pico, nella quale, capovolgendo il punto di vista assunto da Poliziano un ventennio prima, proponeva per il latino un modello unico, quello ciceroniano per la scrittura in prosa e quello virgiliano per la poesia (i testi di Pico e Bembo furono stampati dal Froben, a Basilea, nel 1518 ed ebbero vasta circolazione europea). La nomina papale assicurava a questa opzione personale un prestigio ufficiale che era impossibile ignorare; tanto più che, come di consueto per Bembo, l’orizzonte teorico trovava un’immediata corrispondenza nella prassi scrittoria (si veda al proposito nel catalogo il contributo di Carlo Vecce, Il “cantiere romano”).
Ovunque, a Roma, fervevano opere grandiose nel nome di Michelangelo e Raffaello, quest’ultimo presto divenuto intimo sodale di Bembo (in principio del terzo libro delle Prose della volgar lingua, a stampa più tardi, nel 1525, Bembo celebra «Michele Agnolo fiorentino e Raffaello da Urbino, l’uno dipintore e scultore e architetto parimente, l’altro e dipintore e architetto altresì» come gli artisti che sono stati capaci di far rivivere a Roma lo splendore dell’arte antica; le lodi a Michelangelo suonano simili nell’Orlando furioso: «quel ch’a par sculpe e colora»): numerosi i reperti che la mostra offre di questa stagione trascorsa ormai nel mito; tra tanta abbondanza, vale almeno qui ricordare una delle opere di Raffaello esposte, il Doppio ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano, conservato alla galleria Doria Pamphilj, uno dei pezzi transitati nel “museo” privato di Bembo, prima di essere ceduto in dono al Bevazzano stesso, che fu a Roma suo segretario (dei due è quello di destra, senza barba).
I curatori propongono un nesso tra il dipinto e la gita a Tivoli che con loro fece Bembo in compagnia anche di Castiglione e Raffaello nell’aprile del 1516 (che tempi!); il doppio ritratto sarebbe una sorta di «parlante ricordo dei due amici e dell’artista che [Bembo] tanto ammirava» (così Gasparotto, nella scheda relativa del catalogo), tanto più comprensibile visto che il Navagero era in procinto di tornare in Veneto. Bembo, Bevazzano, Navagero sono celebrati dall’Ariosto nel medesimo torno di ottave (Fur., XLVI 13 e 15). E pure in questo caso, si apprezza il senso morale del “racconto” suggerito nella mostra: l’amicizia e il confronto, il dialogo e il ricordo, la scoperta comune e la cultura condivisa; gli umanisti dell’ultima stagione perpetuavano un ideale di libero scambio intellettuale che ha poco a che vedere con quel che sarebbe avvenuto, in condizioni affatto mutate, nella seconda metà del secolo.
Tornato in Veneto alla morte di Leone X, Bembo vi resterà per un lungo periodo (dal ’21 al ’39) dimorando per lo più a Padova e nei dintorni insieme alla convivente Morosina, che gli diede tre figli; malgrado ciò, sono gli anni in cui prende i voti, entrando nell’Ordine gerosolimitano (prete diverrà più tardi, al momento della nomina cardinalizia), e in cui mette ordine nel suo lavoro letterario: escono finalmente le Prose, nel ’25; poi le Rime, nel ’30, anno in cui sono ripubblicati in edizione rivista gli Asolani e il De Aetna; ancora vedrà la luce, negli anni successivi, la sua varia produzione latina. Nella quinta sala, fondandosi sulla testimonianza di un appassionato d’arte, Marcantonio Michiel, che frequentò la casa padovana di Bembo registrando in un suo taccuino le opere presenti, sono esposti alcuni dei pezzi della sua collezione (una trascrizione dell’inventario è nel catalogo, a cura di Rosella Lauber; per orientarsi, di grande aiuto è il Viatico per la mostra su Pietro Bembo a Padova di Vittoria Romani, nel ricordato numero di «Padova e il suo territorio»): con qualche eccezione – fra cui spicca il San Sebastiano di Mantegna (conservato a Venezia, Ca’ d’oro) –, si tratta in larga parte di reliquie di arte romana, fra cui le amatissime monete e varie “teste” famose, come quella dell’Antinoo in epoca successiva “assemblata” su un torso acefalo (oggi l’insieme è a Napoli, nel Museo archeologico più bello del mondo).
L’ultimo Bembo, quello immortalato da Tiziano nei panni cardinalizi, è il principe della Chiesa “ripescato” da Paolo III Farnese, che giunge a Roma nel Natale del 1539 (vi morirà otto anni più tardi): è una Roma tutt’altra da quella di un ventennio prima, dove si fronteggiano riformisti e tradizionalisti in un’aura, ancora per poco, pre-tridentina. Il gaudente letterato si adegua almeno per le forme: ed è con lo sguardo rivolto a Tiziano che lasciamo il Monte di Pietà.
Per quanto riguarda le vicende dell’italiano la figura di Bembo può apparire in questa mostra mitizzata: quasi che della questione della lingua si occupasse in quegli anni soltanto lui, laddove un’intera generazione di letterati (dal Trissino al Calmeta allo stesso Castiglione, per citarne solo alcuni) si poneva le stesse questioni adombrando soluzioni che se sono spesso divergenti rispetto alla proposta del fiorentino trecentesco, non lo sono di fronte alla finalità da raggiungere, quella di una lingua letteraria sovraregionale. D’altra parte, la stessa opzione del fiorentino era largamente praticata prima di Bembo e si può ritenere che il prestigio delle Corone trecentesche avrebbe continuato ad avere un’influenza decisiva sulla lingua e sulla letteratura italiana anche senza le Prose della volgar lingua. Infine, colpisce un po’ non trovare nel catalogo alcun riferimento agli studi su Bembo di un padovano illustre come Giancarlo Mazzacurati: che della riforma linguistica delle Prose aveva dato un’interpretazione ideologica sensibilmente diversa (si vedano almeno i due saggi raccolti ne Il Rinascimento dei moderni, Bologna 1985).
Chi ha i gusti difficili troverà forse da obiettare al titolo stesso, Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento, che funziona come slogan, ma che rischia di creare qualche equivoco in chi è meno attrezzato.
Ma questo nulla toglie ai meriti di Bembo e al pregio della mostra: è difficile dire se davvero, come suggeriscono i curatori, l’attività culturale del Bembo, e in paricolare la sua “militanza” di teorico “unitario” della lingua, fosse stata consapevolmente concepita come una reazione alla crisi del suo tempo, alla Finis Italiae che il dominio straniero pareva suggellare. Ma che una risposta alla crisi del nostro tempo, alla nuova paventata Finis Italiae possa e debba trovarsi nelle comuni radici culturali e umanistiche, dal Cenisio alla balza di Scilla, è un punto su cui non potremmo non essere in accordo.
[Immagine: Tiziano, Pietro Bembo (particolare)].
Molto, molto interessante. E adeguata la sortita contro il neo-particolarismo che la recente declinazione cartografica dell’endiadi dionisiottiana “storia e geografia” rischia, suo malgrado, di avallare. Forse la promozione di Padova a “centro egemone” è stata un po’ azzardata.
Una cosa è certa: è bizzarro che nel 2013 dobbiamo stare ancora (di nuovo?) a parlare di questo. Pare che più si pontifica di beni comuni, più riprecipitiamo nell’Italia dei Comuni e delle Signorie.
All’ombra del “gran feltro padano” del suo maestro, il nostro maestro di certo non avrebbe apprezzato.