di Vincenzo Bagnoli
[E’ on line il n. 16 de «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», dedicato a “Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea”. Quello che segue è un saggio estratto dalla sezione “Musica e poesia”]
Una canzone è più primitiva di una poesia, perché in genere è in rima e ha una metrica precisa. Una poesia, invece, può andare dove vuole.
Jim Morrison
Per tutto il Novecento il versoliberismo e la metrica liberata hanno sicuramente costituito il paradigma dominante della versificazione, anche se fin dagli esordi di questo movimento la presenza della metrica tradizionale è stata comunque forte: accanto ai poeti che continuavano a scrivere nelle forme tradizionali, notissimo e studiatissimo è per esempio l’endecasillabo nascosto in Ungaretti. La fine del secolo scorso e l’inizio di quello nuovo hanno visto al contrario un recupero delle forme cosiddette regolari, o «chiuse», quali erano state trasmesse dalla tradizione. Studiato già da vari anni, questo recupero è stato variamente classificato come tipico del postmodernismo oppure di quelle tendenze «iperletterarie» che avrebbero fatto della poesia una prassi combinatorio a freddo. A ciò di solito certa critica contrappone i poeti «ispirati», i quali viceversa, in preda a un orfismo hot potrebbero bellamente ignorare qualsiasi vincolo formale per scrivere presa diretta con la propria onda emotiva e attingere così a verità esistenziali: un’idea, direi, «ontologica» delle poesia che però nulla ha a che vedere con la concretezza del fare letterario. Detto che questa linea viscerale del poeta bon sauvage mi convince pochissimo (anche perché sono proprio questi «poeti veri» i primi ad abbandonarsi a un profluvio di retorica e citazioni), credo sia il caso di guardare con maggiore attenzione a quanti hanno optato per la ripresa delle forme chiuse e fare qualche distinzione.
Prima di tutto va puntualizzato che questo recupero si sostanzia essenzialmente nel ritorno dell’endecasillabo, verso principe della tradizione italiana: ritorno per molti versi prevedibile, se è vera quella sua naturalità rispetto all’italiano medio che voci molto autorevoli hanno già sufficientemente illustrato (il suo schema prosodico, giambico o dattilico, risultando adatto alla grande frequenza di parole piane bi- o trisillabe). Quindi evidenzierei come le principali linee fautrici di tale riuso siano sostanzialmente tre, sebbene, come cercherò poi di spiegare, non manchino sviluppi e articolazioni ulteriori, nonché molte declinazioni squisitamente individuali. Per ora tuttavia fermerei l’attenzione su: 1. una linea «neometrica», di cui capofila può essere considerata Patrizia Valduga, che sembra essere contraddistinta da intenti dichiaratamente restaurativi, orientata ossia all’autocompiacimento formale dell’atto poetico in una sorta di performance autoerotica. Da questa distinguerei 2. la linea di Giovanna Bemporad, che deriverebbe da una «religio della regola metrica», quindi condividerebbe con la precedente la concezione sacrale della forma, mettendola però non al servizio di un’autocelebrazione dannunziana dell’artifex, quanto di un’elaborazione e trasmissione dell’esperienza formalmente controllata. L’ultima linea che identificherei è quella di 3. quei poeti che nel riprendere il metro chiuso introducono un elemento di esplicita novità, attraverso magari la faglia di una sottile ironia oppure in maniera più macroscopica. In prima battuta si può pensare certamente agli esperimenti del Gruppo ’93, soprattutto del versante genovese di Caserza e Berisso, dove all’orientamento antiquario (quando non propriamente filologico) la contaminazione aggiunge intenti satirici e soprattutto parodici, in senso proprio.
A questa esperienza si ricollega però anche quella di Gabriele Frasca, a propria volta studioso di metrica e autore nei suoi versi di quello che pare a me uno dei più riusciti esempi di reinvenzione dell’endecasillabo: di un suo recupero che cioè non sia meramente restaurativo ma al contrario fortemente innovativo. Laddove i risultati neometrici hard core finiscono per dare una certa impressione di sciatteria (magari il rigore metrico c’è, ma va spesso pesantemente a scapito dell’espressione, dando luogo insomma a una poesia di stereotipi), molto più convincente mi sembra, in Frasca e nella linea della «reinvenzione», la contaminazione della conoscenza delle forme storiche (che in questo modo non divengono mai freno inventivo) con un universo di ascolti completamente diverso rispetto all’orientamento chiuso delle altre linee: ascolti soprattutto orientati alla ricerca di un «nuovo formare» e di una nuova prosodia che regoli tale formare, attraverso risorse diverse da quelle tramandate, come molto giustamente suggeriva Giuliano Mesa nel mettere in guardia contro il conservatorismo che si annida sempre, in Italia, in ogni confronto con la tradizione (la quale, invece, per essere mantenuta viva dovrebbe piuttosto essere reinterpretata, come del resto è sempre accaduto in passato). In Frasca, per esempio, le forme dell’endecasillabo sono declinate attraverso un andamento franto dalle pause (grammaticali e prosodiche) che risente del modernismo caustico di Beckett, ma al tempo stesso anche di un’articolazione visiva: lo script cinematografico o piuttosto la cadenza di una sceneggiatura di fumetto, fra didascalia e balloon (lo scrissi nel 1995 a proposito di Lime, e l’autore ha confermato questa propensione con lavori recenti come dove il richiamo allo Spirit di Will Eisner è esplicitato nella forma dell’omaggio diretto). E al tempo stesso entra in gioco nella sua scrittura soprattutto una dimensione aurale, dove a contare sono i riverberi con la musica: dal jazz fino al pop-rock, quello più colto ed educato, almeno, non privo d’inclinazioni artistiche. Lo attesta in forma direi evidente la collaborazione diretta con Steven Brown dei Tuxedomoon, giunta a un certo punto della sua carriera poetica; ma la presenza di questa attenzione è verificabile fin dalle primissime prove (penso soprattutto a Riscritture da King Crimson, con Durante, Frixione e Ottonieri, uscito sotto la sigla di Kryptopterus Bicirrhis, del 1982). E d’altronde Frasca è anche autore di alcuni convincenti saggi sull’importanza della sfera neorale/aurale nel «reticolo mediale» che avvolge oggi il letterario.
A questa dinamica dell’ascolto (la cui importanza nello sviluppo di ritmiche nuove è stata sottolineata anche dallo stesso Mesa, a propria volta ascoltatore attento di tracce ritmiche provenienti dalla musica) e dell’attenzione intermediale rimanda del resto non solo l’opera di Frasca, ma di altri autori dello stesso Gruppo ’93. Ma oltre agli schieramenti di gruppo e al movimentismo novecentesco occorre aggiungere una fitta schiera di autori più giovani che non si riconducono a questa dimensione, in primis Antonello Satta Centanin/Aldo Nove, che non ha mai fatto mistero di ispirarsi ai territori del pop, fino a proporre addirittura, con Scarpa e Montanari, una raccolta di poesia (Nelle galassie oggi come oggi) sottotitolata esplicitamente Covers e chiaramente costruita sulla riscrittura (termine che implica anche il concetto di parodia, inevitabilmente) di note canzoni rock e sulla ripresa di risorse metrico-formali «chiuse», del quale Voce (già a sua volta autore di un Rap di fine secolo con Farfalle da combattimento) ebbe a scrivere: «la poesia infettandosi di musica riscopre il gusto, la necessità, il senso di essere ‘forma’ e così fa esplodere nuovi temi e contenuti spiazzanti, si esprime a proposito del mondo, interroga la realtà». Quello per me che conta ora, appunto, non è tanto l’apertura verso un determinato universo tematico o la destinazione d’uso (il proporsi in una dimensione live che accompagnò la genesi di quel libro e la sua successiva promozione), quanto l’ascolto di particolari ritmi e prosodie che a tale orientamento si accompagna, quale è evidente anche nell’uso di risorse semantiche del parlato, che vanno dal lessico prosastico a un certo tipo di cadenza. Ed è proprio un simile atteggiamento di apertura quello che può giovarsi maggiormente della grande varietà di strutturazioni metriche del verso principe della tradizione italiana (da 12 a 276 secondo alcuni studiosi), e quindi anche di ritrovarlo – perché no? – attraverso al 4/4 del rock.
È blasfemia mescolare la sacrosanta, coronatissima metrica con un argomento triviale come il rock e le canzonette? In realtà, che la poesia nasca insieme alla musica è cosa tanto ovvia e nota che non parrebbe nemmeno necessario fare citazioni al proposito. Diverso invece il discorso di quale musica abbiano effettivamente nelle orecchie i poeti oggi: ci sono certo ritmi antichi e ancestrali, che rimandano a un’antropologia profonda del verso, articolata sul respiro, sul passo e sul battito cardiaco; ci sono quelli propri della musica verbale di ogni lingua (appunto, come si diceva, la cadenza dattilico-trocaica dell’italiano) e dei suoi andamenti frastici. Ma poi c’è anche una diversa musica, più prosaica, di tutti i giorni: la sfera degli ascolti che spazia dalle cadenze della lingua d’uso, nelle sue varie declinazioni, a quella dello slogan, per includere infine l’orizzonte della presenza musicale pop, il cui consumo abitudinario è fenomeno tipico della contemporaneità, a partire dagli anni Sessanta, e che in particolare tra quel decennio e i tre successivi ha conosciuto una serie di profonde interrelazioni con altri ambiti della cultura, violando prima ancora che si parlasse di postmodernismo la separatezza fra «alto» e «basso».
Che i poeti abbiano nelle loro orecchie non soltanto la musica (ansiosa) dei versi dei loro predecessori lo racconta anche un finissimo studio di Gilberto Lonardi sul Montale baritono mancato, nei cui versi restano perciò i ritmi delle arie dell’opera, che alla sua epoca era del resto un genere abbastanza popolare: e d’altronde la stessa metrica manzoniana s’ispirava similmente al melodramma, benché in tutt’altra chiave e con tutt’altre premesse (tanto che Ungaretti, malignamente, ebbe a commentare che l’autore degli Inni sacri si credeva di resuscitare Cristo a ritmo di polka...). Lo stesso tipo di relazione pare tuttavia valere, sempre secondo Lonardi, anche per Ungaretti stesso, le cui «spezzature» sarebbero da attribuire, oltre che all’esempio dei primi haiku tradotti in Europa a partire dalla guerra russo-giapponese, agli andamenti melodici come anche alle soluzioni grafiche adottate nei libretti d’opera. La poesia dei due maggiori, ritenuta «lirica» per eccellenza da molte delle frettolose dicotomie novecentesche, costituirebbe quindi uno degli esempi più eclatanti di una poetica dell’abbassamento che ricorre all’ibridazione con altri generi considerati più impuri, fino addirittura alla canzonetta.
Il principale risultato di questo orientamento, però, prima che estetico-ideologico, dovrebbe essere, come si diceva, quello molto pratico di rendere il verso uno strumento più duttile, capace di adattarsi ai ritmi che stanno nell’orecchio dei contemporanei. In questo senso va letto anche l’invito lanciato da Roberto Roversi alla metà degli anni Sessanta affinché la poesia accettasse di «sedere al tavolo» con gli altri linguaggi, smettendo di cantare per imparare ad ascoltare: Roversi stesso non esitò a dare in prima persona l’esempio scrivendo all’inizio del decennio successivo i testi per un paio di album di Lucio Dalla. E se ben studiati (soprattutto da Giuseppe Antonelli) sono i riverberi della poesia sulla canzone, non solo d’autore, va aggiunto che da questa esperienza Roversi trasse strumenti che ritornano poi nella produzione poetica successiva, soprattutto nelle poesie che con maggiore urgenza tentano di fare i conti con la vita civile: come il Libro Paradiso, dedicato ai turbolenti fatti del 1977. Di lì a una dozzina di anni sarebbe poi giunto uno scrittore come Tondelli, particolarmente sensibile a certi aspetti dello «spirito dei tempi» e preoccupato di come «essere contemporaneo», a dichiarare senza mezzi termini in Un weekend postmoderno l’importanza che riveste alla fine del Novecento il rapporto fra «poesia e canzoni». Si trattava, a suo dire, di «un aspetto non sufficientemente preso in considerazione dai critici ufficiali e dai letterati di professione: la consapevolezza, insomma, che il contesto rock ha prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni».
Questo dato, benché da certuni ancora discusso o almeno parzialmente emendato, sembra oggi abbastanza assodato, anche se il particolare spostamento di competenze pare agli occhi di molti un grave problema della poesia contemporanea, e un segno del suo declino: la dimostrazione di un cedere il passo da un lato alla prosa e dall’altro alla canzone, perdendo forse il proprio specifico. Nel suo saggio Sulla poesia moderna Guido Mazzoni ha esaminato con più sobrietà e molta intelligenza i rapporti che la canzone intrattiene con la poesia, descrivendo come quello che lui chiama (sulla scorta di Benjamin) l’«elemento musale» di quest’ultima sia in effetti trapassato nel pop e nel rock; non manca tuttavia di esprimere a propria volta un certo disorientamento, una sfiducia nel ruolo della poesia, privata come si trova a essere di un mandato sociale, rispetto alle folle che pop e rock attirano (o si dovrebbe ormai dire «hanno attirato»?). Eppure, qualche riga più avanti, è lo stesso Mazzoni a indicare una possibile via d’uscita da questa impasse, allorché nota come in realtà in questa dinamica non vi sia solo il segno d’un declino, ma persista comunque in essa un elemento di continuità rispetto al grande cambiamento che ha coinvolto la cultura umanistica dal Settecento in avanti rivoluzionandola: tale elemento di continuità sarebbe dato proprio dal formarsi di un contesto avantpop capace di unire alla cultura tradizionale il portato della nuova cultura umanistica di massa, assecondando così i processi di lungo corso della modernità in cui «il gusto midcult si impadronisce progressivamente del canone e della memoria». Personalmente, scrivendo del Mazzoni poeta quasi una ventina di anni fa, avevo trovato proprio in lui un solido propositore di un serrato confronto tra l’istituzione letteraria storicizzata e il corpus delle pratiche discorsive contemporanee.
A mio modo di vedere, insomma, il flusso di scambio è biunivoco. Certo, lo specifico della poesia resta, ed è differente da quello degli altri generi e linguaggi con cui può entrare in dialogo: sarebbe perciò ridicolo immaginarsi di mutuare dal rock mandati sociali, destinazioni d’uso e ruoli che oggi, realisticamente, la poesia non ha e non può avere (e forse non può avere neanche più il rock stesso). Ma diverso è il discorso formale: e dal mio punto di vista nella memoria collettiva il sedimento sonoro di certe timbriche e ritmiche resta importantissimo. Se concordiamo infatti con Tondelli che il rock abbia prodotto alcuni dei più grandi poeti fra gli anni Sessanta e Ottanta, altrettanto vero dev’essere che gli scrittori cresciuti in quegli anni abbiano inevitabilmente incluso nel proprio orizzonte di ascolti, accanto alle letture della poesia propriamente detta, anche questa «lirica intermediale»: con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo stilistico, linguistico e quindi anche metrico. Cosa ne guadagna la poesia? Lo chiarisce molto bene in un bellissimo saggio, riecheggiando in un certo senso le parole di Voce, Paolo Giovannetti, allorché parla di una teatralizzazione della lingua poetica che ne sottolinea la «duplicità», quindi il suo grande problema statutario nell’oggi, ma anche la sua principale risorsa: quello stare sui margini o fra i margini delle frizioni mediali. Dunque, si potrebbe concludere, in una posizione che sostanzialmente assicura uno spazio di libertà: dove si può compiere l’invenzione o reinvenzione di una forma, non semplicemente «nuova» per amore di novità, ma per essere adeguata alle orecchie dei contemporanei, per sviluppare certe potenzialità.
Spostando ora lo sguardo al concreto delle pratiche di scrittura più recenti, quello che si può notare è che il verso tradizionale si modifica, esalta più certi aspetti a scapito di altri, e si plasma anche per avvicinarsi ai versi di altre lingue capaci d’incidere maggiormente nella modernità, di avere maggior presa su essa. È (di nuovo) un fenomeno di lungo corso novecentesco, per esempio, l’influenza che il blank verse britannico e soprattutto lo sprung rythm hanno esercitato anche sulla poesia italiana, principalmente nella direzione di un orientamento alla «naturalità prosodica»: non per nulla lo stesso Hopkins, che dello sprung rhythm si diceva appunto solo umile teorico e non già l’inventore, vedeva in quel verso il ritmo del «parlato» tipico della sua lingua, quale riaffiorava già nei primi poemi inglesi e nelle nursery rhymes. Più che gli esperimenti primonovecenteschi di Bacchelli, Rebora e altri (che comunque hanno lavorato sotto traccia in molta poesia sperimentale, passando attraverso autori come Delfini, Villa, Pagliarani fino a De Signoribus e Giampiero Neri e giungendo così sino a oggi), a contare per gli autori contemporanei può essere stata soprattutto la lezione proveniente dalle traduzioni di Roberto Sanesi e di altri attorno agli anni Sessanta e Settanta, i cui adattamenti dei versi anglosassoni sono stati vera palestra di stile per molti dei poeti venuti dopo.
Eppure anche dentro queste tendenze l’endecasillabo reste, per parodiare il Marinetti commentatore di D’Annunzio: come rileva acutamente Giovannetti, a proposito di versi indecisi tra suonare all’occhio o all’orecchio, è il caso dei falsi endecasillabi in Mazzoni e Gezzi, oppure del «fantasma del verso», che va a snidare in Ceriani, Pusterla e Viviani. E sempre a proposito di Mazzoni aggiungerei quanto notavo in quel vecchio scritto di metà anni Novanta: ossia come nelle prime sue prove l’endecasillabo (nella veste di verso narrativo) continui a restare dominante, magari variato dal décalage o dall’epentesi sillabica, in quelle che allora definii «narrazioni frattali» non perché frante e spezzate, ma al contrario per la costruzione ricorsiva ed i movimenti di contiguità metonimiche tra singolare e plurale. In particolare i versi eccedenti (dodecasillabici) in Mazzoni sembrano svilupparsi proprio su queste cadenze di quattro accenti forti, ad andamento prevalentemente dattilico, che possono ricordare il «rocking rhythm», in realtà basato sull’anfibraco (-+-), che però posto in successione da luogo a una sequenza -||+–+–+–+- in cui la prima atona può essere isolata come protetica: è una struttura questa, articolata su 4 o 5 piedi, che ha un’origine appunto primonovecentesca, nei poèmes en prose, ma che si ripropone come verso narrativo anche oggi (contiene molte parole e il suo sviluppo dattilico conserva echi epici o della metrica «barbara»).
Lo stesso l’endecasillabo dattilico ben si presta a contenere i 4 accenti: per esempio in Pasolini, dove si dilata lo spazio narrativo del poem, si ha la netta prevalenza dell’endecasillabo a quattro accenti, accanto a misure più lunghe come l’alessandrino. Ma già in Quasimodo sono stati notati andamenti affini, dove a endecasillabi in cui risuonano 4 accenti forti si affiancano versi più lunghi, dodecasillabi, sempre regolati dal battito a quattro. E questo approdo alle quattro battute è evidente ancor più nei poeti che usano una metrica libera: nei loro versi è infatti frequente la cadenza a tre accenti, caratteristica traccia dell’ascolto della metrica tradizionale, ma quando il verso si allunga (e la misura diventa in questo caso prevalentemente quella dell’endecasillabo), gli accenti passano a quattro. Un verso di quattro accenti in si trovava del resto già in Pavese e perfino in Montale, spesso costruito come endecasillabo ipermetro. Lo nota Fortini in un importantissimo scritto del 1958 in cui, leggendo i suoi contemporanei, afferma già che la «nuova metrica» quale si va formando all’uscita dal versoliberismo si basa proprio su un isocronismo di accenti destinato a generare nuove norme: persino negli stessi versi tradizionali, a ben guardare, la forma metrica cede a quella ritmica. Ed è poi la stessa «metrica all’occhio», quella che conta nella «lettura mentale» o «fra sé e sé», a generare una nuova regola prosodica, una dinamica del verso, in cui rientra anche l’attesa dei quattro accenti (nel caso specifico l’esempio dato è quello degli endecasillabi pasoliniani che generano la propria norma di lettura): «la promozione di un accento tonico ad accento ritmico si ha, esattamente come nella metrica tradizionale, quando si sia creata una conveniente attesa».
Un esempio, sempre secondo Fortini, verrebbe da quella lettura ritmica generata dalle convenzioni tipografiche (cita l’esempio della tipografia pubblicitaria: e viene da pensare alla ritmica di Broggi e al suo Coffee table book, che con le poesie costruite sulla base della titolistica di periodici sembra richiamare direttamente la teoria fortiniana). Una concezione affine sarebbe stata esplicitata di lì a qualche lustro nella peculiare teoria metrica di Amelia Rosselli, che si appoggia alle dimensioni spaziali della scrittura del verso, intese ovviamente non come spazio astratto percepito «in maniera del tutto meccanica o visuale», ma spazio strutturato dalla scansione logica dello scrivere e del parlare. La stessa partecipazione a una sfera di ascolti (piuttosto ampia, nel caso della Rosselli, che sovrappone tre lingue diverse) si compie ormai, lo ha notato parecchi anni fa Blanchot, come partecipazione a uno spazio di voci: non ha i contorni dell’oralità tradizionale, affidata al tempo, poiché l’ascolto si organizza su una scansione spaziale visiva che definisce uno spazio sonoro secondo un mutamento nel rapporto fra spazio e discorso che la stampa ha introdotto e che i mezzi di riproduzione moderni, fino all’elettronica (che permette di ripercorre un file audio avanti e indietro o di segmentarlo come una sequenza testuale), hanno in realtà intensificato. Detto ciò, però, ancora più forte sarà questa «attesa» metrica, o di un ritmo, laddove esso s’imponga non solo, per tornare a Fortini, come «legislazione momentanea» (instaurata dalla scansione di ciò che si ha sotto gli occhi in quel momento), ma sia rafforzato da una struttura ricorrente nel sottofondo aurale, dal fraseggio timbrico fra i più presenti nella sfera dei nostri ascolti, nel contesto della cosiddetta neo-oralità: e nelle nostre orecchie di contemporanei c’è proprio l’attesa dei quattro quarti della canzone.
È palese, questa attesa, nelle poesie di Adriano Padua, per esempio, che accanto a composizioni in endecasillabi misti (sia con tre sia con quattro accenti forti: ma nel primo caso a volte c’è il complemento di un versicolo breve, bisillabo, a precedere) propone testi organizzati su versi lunghi, pentametri ed esametri dattilici scanditi però in modo da richiamare esplicitamente la cadenza musicale del rap (sviluppando in maniera convincente un percorso già intrapreso da Lello Voce). E direi che la si possa ritrovare anche in composizioni in cui riaffiora l’endecasillabo: una traccia eclatante di questo riaffiorare, e a partire da un attesa di quattro accenti, mi pare possa essere il testo di Stefano Dal Bianco, Vento in città, che Giovannetti cita proprio quale esempio dell’uso contrastivo (un canto che si dà solo attraverso il contro-canto, direbbe Mesa) che la poesia può fare, nel suo sviluppo discorsivo, delle strutture musicali (su una scala più ridotta, interna al verso, mi viene da pensare per esempio alle pause e spezzature di Fabrizio Lombardo, nel quale l’allusione alla sfera degli ascolti rock è altrettanto esplicita che in Nove). Ma se ne possono fare molti altri, di esempi: da una parte le costruzioni miste della Divisione della gioia di Italo Testa (altro titolo che rimanda esplicitamente al rock) e delle favole morali di Francesca Matteoni, nelle cui scritture si mescolano versi differenti e a marcare la differenza fra i più brevi e gli endecasillabi (spesso pavesianamente ipermetri), è proprio il passaggio degli accenti da tre a quattro; dall’altra l’endecasillabo variato o dissimulato, in un anisosillabismo ora lieve ora marcato, di Azzurra D’Agostino (nella quale esso sembra inseguire a tratti un andamento melodico, più che discorsivo, sulla misura dell’ascolto). Si può poi aggiungere Umberto Fiori, già autore dei testi degli Stormy Six, che presenta a propria volta strutture miste, nelle quali sembra valere la stessa regola dei casi appena illustrati, ma che evidenzia in maniera chiarissima nelle poesie tutte endecasillabiche la predominanza dei quattro accenti. Predominanza che si ritrova in Marco Simonelli dove l’endecasillabo spesso è alternato (o sostituito in toto) da un doppio senario dal ritmo quaternario, del quale l’endecasillabo assorbe la cadenza presentandosi con accenti di 2a, 5a, 7a e 10a. Analogamente la tecnica combinatoria di Viola Amarelli, che in Fuorigioco mescola e assembla ritmi, alternando versi composti (doppi settenari, senar io più ottonario ecc.), a endecasillabi e a versi corti, sembra fondarsi su questa cadenza che s’impernia proprio sull’endecasillabo a quattro accenti, in assoluto il più frequente nella sua raccolta, come ha rilevato Gianmario Lucini. E similmente nell’epos melodico di Scaramuccia sono proprio i quattro accenti a costituire la misura che assicura la tenuta della gamma molto ampia di varianti dell’endecasillabo che costituisce la totalità dei versi.
Daniele Barbieri nel suo blog (che chiamandosi «Guardare e leggere» rimanda di nuovo a un ascolto anche visivo) ha molto appropriatamente parlato, a proposito della poesia di Ivan Fedeli, di un uso antipetrarchista dell’endecasillabo: un uso si potrebbe dire espressionista, visto che opera attraverso l’ossessività delle immagini e della loro elaborazione metrica, modulata attraverso la cadenza ossessiva dell’ottonario (sì, quello del signor Bonaventura). Ma come si fa a metterla nell’endecasillabo? Forse partendo proprio dall’andamento trocaico del parisillabo che si giova senza ritegno degli accenti secondari per funzionare (quì comìncia l’àvventùra): e quindi portando gli accenti più sonori dell’endecasillabo a quattro, facendo diventare il primo dei secondari, in prima o seconda posizione) uno degli accenti d’impulsione alla maniera di quelli dello sprung rhythm. Anche il già ricordato verso di Frasca, fortemente ictato dalle cesure metriche o pause grammaticali che lo dividono in emistichi paralleli, dagli enjambements e dalle sincopi, è esemplare nel produrre tale fenomeno. Si prenda a esempio in Lime qualche verso dalle autotraduzioni della sezione merrie melodies: «giunto al frìgo l’aprì, | non c’èra mòlto / sòlo l’austerità | dèlle lamière / d’allumìnio, riempì | d’àcqua un bicchière, / restò a guardàrlo ed | insìpido il vòlto / galleggiò un pò’, | poi si mìse in ascòlto…».
Ed è proprio un esito come quello descritto da Barbieri e che ritrovo in Frasca, fortemente ritmato, a sembrarmi particolarmente interessante. Nella mia personale esperienza, l’endecasillabo mi pare praticabile non come restauro antiquario, ma proprio come esito di un ritmo articolato su 4 parole-accento che riprendono le battute del rock (dove poi la prima battuta, per sincope, può spostarsi anche in seconda o terza posizione), così come sono incanalate dai versi del cantato: non posso dire che il mio sia proprio un caso di «alfabetizzazione secondaria», come la chiama Giovannetti, ma certo è un desiderio di trovare un forma che non sia mera ripresa dalla tradizione, bensì esito anche di un processo formale ex novo, seguendo le indicazioni di Mesa. In questa logica anche uno degli accenti debole (secondario) può, nella prassi, acquistare valore primario, persino quando cade su monosillabi che per loro natura sarebbero proclitici, perché nella pronuncia/lettura la successiva pausa (intonativa come spaziale) può allungarne la durata. Per spiegarmi, torno alla pronuncia effettiva del verso e prendo un esempio classicissimo: Dante, Inf. I, 2. Il «mi» iniziale che deve reggere le due atone successive, e quindi dal punto di vista di una prosodia quantitativa o per lo meno «musicale» deve fungere da ictus forte, da «battere» prima dei due «levare» (mì ritrovài per una sèlva oscùra). Lo stesso fenomeno può riprodursi anche in altri luoghi in cui manchi l’accento tonico, per esempio in parole lunghe o in quadrisillabi tronchi, che acquisiscono un accento ulteriore di sostegno alla pronuncia.
Ma, oltre a quanto rileva Barbieri, a quale scopo tanta insistenza ritmica? Ovviamente il maggior numero di accenti scandisce più fortemente all’interno del verso le sequenze sillabiche, facendo per certi versi riemergere i «piedi» del metro antico e quindi portando in primo piano la musica del verso, la sua struttura ritmica (con particolare risalto per l’ossatura percussiva, proprio come nel rock). Ma, come si vede, a giocare nell’attesa di un ritmo in quattro quarti, oltre alle ragioni formative più contemporanee, rimane nell’orecchio anche la tradizione pregressa, non si può negarlo; e del resto per tentare una forma nuova non si può certo partire da una tabula rasa o dallo smemoramento. E proprio l’uso fatto nella tradizione di tale verso può chiarirne la funzione. Nello stesso Dante, infatti, i quattro accenti ricorrono proprio dove il verso deve farsi più martellante, per particolari ragioni espressive, per accompagnare sequenze più dinamiche. Non a caso quella articolata sulle quattro battute è la cadenza degli endecasillabi più narrativi in tutta la tradizione, per esempio di quelli dell’epica cavalleresca in ottava rima: ho in mente l’attacco della Gerusalemme di Tasso o del Furioso ariostesco, nel quale per altro gli accenti di 2ª 4ª 8ª 10ª rappresentano quello che è stato definito il «ritmo normale» del poema. E persino nel «lirico» Petrarca (e guarda un po’: proprio dove nella sua poesia si affaccia il paesaggio, il racconto del paesaggio) se ne trovano ricchi esempi: su tutti la canzone Di pensiero in pensier, di monte in monte, della quale Fubini notava che «nel primo verso è impresso il movimento che si svolgerà in tutto il resto della canzone: una grande meditazione, la poesia del continuo passaggio da uno stato d’animo all’altro». Dunque si potrebbe concludere che questo endecasillabo di quattro accenti, con la sua ampiezza ritmica, risulta uno dei versi più adatti a una poesia di racconto, e in particolare a una in cui nella descrizione del paesaggio, del mondo circostante, si dispiega anche la meditazione introspettiva. Come non pensare allora (oltre ai già citati endecasillabi dei poemetti pasoliniani) alla frequenza dei quattro accenti nei Canti di Leopardi, tanto negli idilli brevi quanto nelle canzoni dove sono intercalati a i settenari? (a mero titolo d’esempio, il rapporto fra endecasillabi con quattro e con tre accenti nell’Infinito è di 4 a 1).
In sostanza, direi che anche il ridisegnarsi di tale cadenza nella contemporaneità, formato su un ascoltare – più che su un «cantare» – ma che tuttavia trova una propria «nuova musica», porta con sé al tempo stesso una dinamica che si adatta bene a una funzione di racconto: quella funzione attorno a cui, almeno a mio parere, si condensa la volontà molti dei poeti di oggi di ritrovare la capacità di «fare presa» sul reale e di restituire ai materiali spesso degradati che lo compongono (tanto a livello di erlebnis quanto a livello di forme in cui esso sedimenta) la dignità per essere detti e ricordati, attraverso pratiche che dovono certo essere accorte, e non ingenuamente «realistiche» o fatuamente mitopoietiche. Quello che a mio giudizio possono tentare i poeti adesso è, soprattutto, un raccontare articolato su una descrizione d’ambiente ben calibrata che affidi proprio al contatto ipermediale, al consapevole controcanto di letterarietà e midcult, il gioco prospettico di una sottile ironia capace di mantenere la poesia sempre al di qua di ogni mitologema (della tradizione come di ogni epica rock) e sempre viva la consapevolezza del proprio artificio (quella che ho chiamato altrove la consapevolezza di essere rappresentazione mediata, «cartografia» – in senso jamesoniano – di un territorio, e non fotografia).
Su questo tema, però, sul rapporto insomma fra percezione della spazialità e racconto di sé, e quindi sul paesaggio e sulla dimensione ambientale come strumento di rappresentazione della contemporaneità, si aprirebbe una lunga digressione di poetica personale che esula dai discorsi propriamente metrici.
Bibliografia:
G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone?, Bologna, Il Mulino, 2010;
Id., La lingua ipermedia, Lecce, Manni, 2006.
D. Barbieri, Dell’endecasillabo e del male (o della poesia di Ivan Fedeli), in «Guardare e leggere», http://www.guardareleggere.net/wordpress/tag/ivan-fedeli/
S. Dal Bianco, L’endecasillabo nel Furioso, Pisa, Pacini, 2007.
U. Fiori, Scrivere con la voce. Canzone, rock e poesia, Milano, Unicopli, 2003.
F. Fortini, Verso libero e metrica nuova, in «Officina», 12, aprile 1958, pp. 504-510.
G. Frasca, La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005.
P. Giovannetti, Che cosa può insegnare la canzone alla poesia?, in N. Merola (a cura di), La poesia italiana del secondo Novecento: atti del Convegno di Arcavacata di Rende (27-29 maggio 2004), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 85-104.
Id., Con che orecchio odono i poeti, e con che occhio?, in «Absoluteville», http://www.absolutepoetry.org/Con-che-orecchio-odono-i-poeti-e
G. Lonardi, Il fiore dell’addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale, Bologna, Il Mulino, 2003.
G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005.
G. Mesa, Il verso libero e il verso necessario. Ipotesi ed esempi nella poesia contemporanea, in «il Verri», 20, 2002, pp. 135-148.
A. Rosselli, Spazi metrici, in M.I. Gaeta e G. Sica, La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, Marsilio, Venezia 1995, pp. 217-222.
R. Roversi, Descrizioni in atto, in «Paragone Letteratura», 182, aprile 1965, p. 115.
P.V. Tondelli, Poesia e rock, ora in Id., Opere, Milano, Bompiani, 2001, pp. 333-338.
L. Voce, Avant-Pop alla riscossa, e la poesia trionferà, in «l’Unità», 17 maggio 2001, p. 29.
Id., Poesia: te la suono e te la canto, in «l’Unità», 8 luglio 2004, p. 23.
[Immagine: Joy Division, Unknown Pleasures (gm)].
Faccio ritorno qui per la seconda volta e come la prima me ne esco arricchita.
La poesia in quanto tale credo sia necessario evolva con il passare delle generazioni, certo non si deve creare un vero e proprio rifiuto per ciò che c’è stato prima ma un qualcosa in più forse.
Ho letto con interesse tutti i punti riguardanti le metriche della poesia ed è stato piacevole vederne l’accostamento ai 4/4 della canzone tipicamente rock ( io sono una frequentatrice assidua di concerti e non mi dispiacerebbe riuscire a scrivere canzoni ), vi ringrazio inoltre per i nomi che citate che ( mea culpa ) devo imparare a conoscere essendomi fermata ad approndire la poesia un po’ meno recente!
“Una canzone è più primitiva di una poesia, perché in genere è in rima e ha una metrica precisa. Una poesia, invece, può andare dove vuole.
Jim Morrison”
Riguardo la citazione di Jim Morrison credo non ci sia nulla di più vero, le difficoltà maggiori io le ho nel momento in cui provo a scrivere il testo di una canzone: bisogna seguire la base musicale ed assicurarsi che parole e musica non stonino fra loro …
La poesia invece è libera, puoi seguire una metrica o dare ascolto solo al flusso dei pensieri.
Vi ringrazio per l’articolo e nuovamente per i nomi che citate di volta in volta ( questa volta avevo presente solamente Aldo Nove e Stefano Dal Bianco, me ne vergogno non poco … Sono più ferrata in ambito musicale ).
Cari Saluti,
Elisa ( Poesie Notturne )