
[Deborah Willis (1982), canadese, ha esordito nel 2009 con la raccolta di racconti Vanishing and Other Stories, tradotta in italiano con il titolo Svanire (Del Vecchio 2012, traduzione di Paola Del Zoppo e Anna Baldini). Deborah Willis racconta l’assenza e le modalità con cui si abbandona o si è abbandonati con una tecnica e una sensibilità che ricordano quelle di uno dei grandi modelli cui Willis si ispira, Alice Munro. Presentiamo qui il racconto La Fiancée. In questi giorni Deborah Willis è in Italia per una tournée di presentazioni editoriali. Sarà al Salone del Libro di Torino con Anna Baldini, Daniela Brogi e Paolo Cognetti sabato 18 maggio, alle 16].
Quando Penny incespica giù dal treno, ha lo sguardo ubriaco di chi ha passato troppo tempo assorto in un libro. Per tre giorni ha viaggiato da Montreal a Calgary, leggendo Madame Bovary. Non che le sia data la possibilità di far lezione sui libri ottocenteschi, né sui libri in generale, l’università di Calgary è troppo piccola per offrire questo tipo di corsi. È lì per insegnare grammatica e pronuncia a studenti che non conoscono una parola di francese.
Ha una valigia verde, con i lati rinforzati, la stessa che sua madre ha portato a Parigi. Si era intestardita a portare il minimo indispensabile, prima di partire, in parte perché voleva impressionare Andrew sfoggiando un’attitudine socialista al bagaglio.
Lui stava lì in camera sua e la guardava piegare i cardigan nella valigia. – Perché devi andarci?
– È solo per un anno.
– Non ha senso, Penny. A ovest di Kenora finisce il mondo.
– No che non finisce. – Gli dà un calcetto alla gamba, cercando di colpirlo dove fa il solletico. – Si fa solo più piatto.
Penny si sente sperduta come doveva essersi sentita la madre i primi giorni a Parigi. Guarda il treno che si allontana; continua per Vancouver, un posto che fino ad allora non si è neanche presa la briga di immaginare.
Un cartello le annuncia che si trova sulla Ninth Avenue, di fronte all’hotel Palliser. I pochi passeggeri scesi con lei sono stati prelevati da parenti e amici e si allontanano in macchina seguendo la griglia di strade del centro. Sotto il sole brillante, le auto acquistano un’aura di sogno mentre scivolano sulle strade e sterzano verso il quieto cuore della città. C’è, qui, un’aria sottile, un caldo secco che fa pizzicare la pelle di Penny e probabilmente le farà sanguinare il naso. Sente polvere nell’aria, o forse è polline. Starnutisce due volte, e nessuno ci fa caso.
*
La prima volta che si è fidanzata, Penny e il suo fiancé avevano dieci anni. Il nome di lui era Adam; piuttosto adatto, pensa lei adesso, se si considera la purezza della loro storia d’amore.
Il loro fidanzamento durò un pomeriggio, il tempo di piegare gli inviti per il matrimonio, fatti con i fogli strappati dai loro quaderni di scuola. La migliore amica di Penny, Donna, officiò la cerimonia sul retro della scuola. Era inverno, a Montreal, e la neve inzuppava i piedi attraverso le scarpe di pelle. La sposa e lo sposo si scambiarono le muffole invece degli anelli.
Ma il giorno dopo, Penny si avvicinò per prendere la mano di Adam e lui scivolò via lontano da lei.
– Mi sono arruolato, – disse. Era l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, e i giochi nel cortile della scuola erano focalizzati su battaglie immaginarie e morti. – Non mi vedrai mai più.
Penny corse a casa, si precipitò dentro e si gettò contro le gambe della madre. Katherine stava leggendo sul divano, la biancheria non piegata formava una pila accanto a lei. Piegò l’angolo della pagina. – Perché stai piangendo?
Quando Penny lo spiegò, la mamma disse: – Tutto qui? – Poi Katherine tirò su Penny tra le sue braccia sottili, fortificate dalla danza. – Schhh, buona adesso. – Stringeva sua figlia, le accarezzava i capelli, e Penny sentiva odore di sigarette e sapone al lillà sulla sua pelle. – Incontrerai ancora un’infinità di Adam. La cosa difficile sarà scegliere.
*
Penny alloggia all’Expedition Motor Hotel, e la sua stanza è proprio sopra l’insegna del motel. Annuncia Tariffe mensili eccezionali! sotto l’immagine di un cammello con delle gobbe dall’aspetto osceno. In lontananza si vedono le montagne incappucciate di neve, e il fiume, dalla sua stanza, si intravede a malapena. Tutto intorno a lei è polvere e afa desertica che si solleva da terra.
Gli altri ospiti del motel sono giovani che arrivano da posti con dei nomi incredibili come Carstairs o Medicine Hat. Alcuni sono in città per affari, alcuni per il rodeo, e nessuno riesce ad afferrare che lei è una donna che viaggia da sola.
«Quindi sei venuta qui da sola? – chiedono e continuano a chiedere. «Puoi ripetere da dov’è che vieni?» Si comportano come se non riuscissero a sentirla o come se parlasse con un accento difficile.
Solo uno di loro dice: – Montreal. Ci sono stato. Bel posto. – È giovane come gli altri, alto e con il viso largo e innocente di qualcuno cresciuto in campagna. Porta un vestito, ha una ventiquattrore e sembra un ragazzo con indosso i vestiti del padre. Sono in piedi nella lobby dell’hotel e lui è appoggiato a una parete coperta di foto di uomini a cavallo, con le falde dei cappelli che coprono d’ombra gli occhi.
– Conosci Montreal? – Penny brama un ricordo di casa, che sia suo o di altri. – E quando ci sei stato? Per quanto tempo?
– Qualche giorno. – Ha un accento che Penny non riesce a identificare: britannico, ma con un elemento cadenzato e baldanzoso che non ha mai sentito prima. – Abbastanza per accorgermi che è un bel vecchio posto. Che non è il mio tipo di posto.
Sorride, ed è la prima volta da giorni che qualcuno guarda Penny con calore, non nel modo prudente riservato agli stranieri. La invita a fargli compagnia al Phil’s Pancake House. – È tremendo. Ma mi fa piacere se ceni con me.
– Pancake per cena? – Penny si è nutrita finora del maiale in agrodolce del Silver Dragon, l’unico ristorante decente che ha trovato in città. – Non posso.
– Hai problemi di stomaco?
– Sono fidanzata.
– Buon per te. – Lui le tende la mano. – Sono David.
*
Un mese prima di partire da Montreal, Penny si trovava con Andrew ferma in piedi in un appartamento vuoto in Craig Street. Stavano cercando una casa in affitto, una casa che sarebbe stata la loro una volta sposati. Senza volerlo, sembravano prendere in considerazione solo appartamenti nel loro quartiere. Questo, che faceva parte di una fila di edifici vittoriani in rovina, con una finestra a bovindo e due stanze da letto buie, aveva esattamente la stessa conformazione di quello in cui era cresciuto Andrew.
– Questo potrebbe essere lo studio, – diceva. – Potremmo sistemare due scrivanie, fianco a fianco.
Penny sorrise, perché dalle fiancées ci si aspetta che siano felici. E da lei ci si aspettava che non vedesse l’ora di entrare nella sua vita tranquilla, di studio, con Andrew. Avrebbe scritto la tesi, lui avrebbe finito gli studi. Avrebbero ascoltato musica classica; a lui piace Shostakovich, a lei Berlioz. E poi avrebbero letto l’uno per l’altra a voce alta, a letto.
– Possiamo dipingere le pareti come ci pare, – stava dicendo Andrew. – O appendere dei quadri.
Ma Penny pensava alla madre di Andrew, alla sua voce carica d’ansia, alle gonne di lana, ai polsini delle camicie che strofinava tutte le sere affinché rimanessero bianchi. E alla propria, di madre, che ancora indossava i suoi vecchi abiti di seta e i maglioni con i bottoncini a perla. Penny e Donna avevano riso delle proprie madri senza alcuna pietà, e creduto che le loro vite sarebbero state diverse.
– Mi hanno offerto un lavoro, – disse, – come insegnante di francese: professoressa.
– Una cucina nostra, Penny, – Andrew indicava con entusiasmo i miseri ripiani e i muri schizzati d’olio.
– La paga è buona. Ma dovrei trasferirmi. In Alberta.
– Le finestre danno a sud, quindi avremo ottima luce.
– È un contratto di un anno. Sarebbe solo per un anno.
– E guarda qui. – Andrew girò i rubinetti del lavandino, prima quello caldo, poi quello freddo. – Un lavello della cucina, Penny. Il nostro lavello della cucina.
*
Phil’s serve la colazione tutto il giorno, quindi lei ordina un Doppio Cowboy: due pancake, due fette di bacon, due uova, cottura a scelta. Quando il piatto arriva, lei dice: – Mia madre mi disconoscerebbe se mi vedesse mangiare così.
– È per questo che ci sono i genitori, – dice David. – Per disapprovare quello che fai, così ti diverti a farlo.
Dice che è del Galles e che si è trasferito in Canada tre anni prima.
– Sono più alto di oltre trenta centimetri rispetto a chiunque altro in famiglia, – dice tra un morso e l’altro a un’omelette. – È così che ho capito che il mio posto non era a casa mia. Sembravo un impostore. Tutti a Swansea mi chiamavano David Grosso.
Dice a Penny che sua madre aveva sperato che lui facesse il pastore: «Un uomo alto ispira autorevolezza», diceva lei; ma la chiesa non faceva per lui. Adesso è nell’immobiliare: compra case, le aggiusta, le rivende. Ha proprietà a Mount Royal e a Sunnyside, e sta pensando di ingrandirsi. Sarà più vecchio di Penny al massimo di qualche anno, ma lei è sicura che presto sarà più ricco di chiunque lei conosca a Montreal.
– Non riesco a star dietro agli affari, – dice lui. – Il petrolio a Leduc ha fatto molto.
– Possiedi delle case e vivi in quel motel?
– È più semplice: non devo preoccuparmi dei mobili. Posso prendere e andarmene in ogni momento.
È evidente che è straniero: ordina tè, non caffè, ed è infastidito quando la cameriera non scotta la tazza con l’acqua bollente. Ma per il resto, è tutto dell’Alberta: capitalista, pieno di idee, determinato. Alle prossime elezioni, le dice, voterà il Social Credit.
Penny immagina la profonda disapprovazione che Andrew gli riserverebbe. Ma David (lui le dice di chiamarlo Dai) ha una voce musicale, e lei la adora. Le ricorda un ballerino dei musical, un presentatore, qualcuno che si guadagni da vivere con le bugie. Si sente come quando, da bambina, si lasciava incantare dal francese di sua madre.
– Pensa che sono pazzo. Continua a scrivermi dicendomi di tornare a casa, – dice lui di sua madre. – Vive in un minuscolo cottage di pietra a Llan. Non ha il riscaldamento e il tetto perde. – Mangia in fretta, come se dovesse andare da qualche parte. – Le ho detto che, quaggiù, se ci fossero case così vecchie, – finisce le uova e allontana il piatto, – le butteremmo semplicemente giù.
*
Penny non aveva saputo nulla del suo secondo fidanzamento. Quando aveva quattordici anni, un ragazzo era arrivato nella sua classe a metà anno. Era di Boston ed era stato mandato in Canada per stare con sua zia in seguito alla morte della madre. Era un ragazzo timido e assente che dava sempre l’impressione di stare per ammalarsi. Katherine insistette per invitarlo a cena. Preparò un pollo arrosto, una delle rarissime volte che fece qualcosa di più di toast e sardine. Durante la cena spinse il ragazzo a parlare di Boston. Non sapeva dirle molto, ma Katherine si beava dei dettagli sul tempo e la strada dove aveva vissuto.
– Sembra divina, – disse. – Non sembra divina, Paul?
Il padre di Penny non rispondeva. Chino sul piatto mangiava in fretta, come se morisse di fame. Teneva il tovagliolo infilato nella camicia, la cravatta gettata dietro la spalla.
– Non c’è bisogno di mangiare così in fretta, – diceva Katherine. – Abbiamo un ospite, un ospite straniero.
Paul guardò il ragazzo e annuì, poi ricominciò a mangiare.
Penny e quel ragazzo non si dissero nulla, che era più o meno quello che si dicevano a scuola. Dopo cena, per salvarlo dalle domande di Katherine, Penny gli fece vedere la collezione di francobolli. Aveva francobolli di posti lontani come l’India e la Cina.
– Wow, – aveva detto.
Un anno dopo, molto dopo che era stato rispedito a Boston (si diceva che il padre si fosse risposato), Penny ricevette una lettera da lui, in cui si rompeva il fidanzamento di cui lei non era mai stata al corrente.
«Mi sono sbagliato», scriveva, «non ti ho mai amata».
C’era un senso di solitudine che avvolgeva la lettera che trattenne Penny dal ridere. Non la mostrò a nessuno. Si limitò a staccare piano il francobollo e ad attaccarlo nella sua collezione.
*
Penny passa il primo fine settimana nella stanza del motel, in cui manca l’aria, a preparare le lezioni. Fa delle pause solo per mangiare, dormire e, una volta, per scrivere una lettera a Donna. «Sono arrivata!», inizia, poi continua con racconti di uomini misteriosi, bruni, incontrati sul treno che la guardavano ardenti. La lettera è piena di spirito, ironica, ma alla fine non la spedisce. Forse è infantile. Forse Donna è troppo cresciuta per certe cose, dato che manca meno di un mese al suo matrimonio. Il suo fiancé è sistemato bene e lei è considerata quella fortunata, perché non sarà mai costretta ad attraversare il Paese per un lavoro.
Quando Penny arriva alla prima lezione, si sente sudata e senza fiato. Prende un pezzetto di gesso per fermare le mani e scrive il suo nome sulla lavagna. Questo le dà sicurezza: il suo nome. Si presenta, poi scorre la lista degli studenti.
Non sarà mai in grado di distinguerli: sono quasi tutte donne, e ci sono due Margaret, una Maggie e quattro Jenny. Sono quasi tutti biondi. Anche la pelle degli studenti è diversa dalla sua: abbronzata. È gente cresciuta all’aperto, le ricordano degli animali. Intelligenti, ma imprevedibili.
– Bonjour, – dice, e agita la mano coperta di polvere di gesso. – Ça va?
La guardano fissa senza interesse né malizia, come se non fosse davvero lì. Indossa una gonna verde e una camicia abbinata. La sua mise è dello stesso colore della lavagna, può darsi che si confonda con essa e che gli studenti non la vedano affatto.
Si ricorda di quando Katherine le insegnava il francese, a parlare non con l’accento di una Québécoise, ma comme une petite Parisienne.
Da bambina, Penny stava seduta con la madre in cucina esercitandosi sul vocabolario con dei cartoncini illustrati che Katherine aveva fatto ritagliando foto da riviste e cataloghi. Sua madre alzava la foto di una sedia e Penny diceva: – Une chaise.
Andò presto oltre i semplici esercizi di vocabolario e Katherine metteva alla prova anche la sua immaginazione. A volte alzava il ritaglio di un viso, una donna che era appena apparsa nelle notizie o magari un’attrice, e Penny diceva: – Une femme. Son visage.
– Sì, e che mi dici del suo viso?
Penny osservava i lineamenti. – Elle est triste? Malheureuse?
Katherine guardava la foto. – Sì, potrebbe essere triste. O forse è arrabbiata.
– En colère.
– A volte è difficile capire la differenza.
Penny guarda i visi dei suoi studenti, visi che descriverebbe come assonnati, o dolcemente annoiati. – Per la fine del semestre, – dice, – avrete una buona padronanza del vocabolario e sarete in grado di parlare al presente e al passato.
Una delle Margaret alza la mano. – E il futuro?
– Il futuro? – Penny è così grata a quella ragazza di aver ascoltato che potrebbe baciarla. – Proveremo a fare anche quello. Ma il futuro è complicato.
*
La madre di Penny amava passeggiare nelle vie di Montreal fitte d’inverno. Metteva il cappotto e la sciarpa, passava uno spesso strato di rossetto sulle labbra e toglieva i bigodini dai capelli scuri. Aveva un piccolo cappello di pelliccia, una roba bianca e soffice che aveva ereditato da una zia lontana e facoltosa.
Ogni volta, nel posarlo sul capo, ripeteva la stessa cosa: «Una donna deve fare sempre il possibile, anche se sta solo uscendo a comprare le uova». Si aggiustava il cappello e rimirava allo specchio il modo in cui scendeva di lato. «È una violenza, ma anche una verità».
Dall’età di dodici anni, Penny accompagnava sua madre in quelle passeggiate. A volte si fermavano da Morgan perché Katherine potesse ammirare un cappotto di visone in vetrina. A volte compravano un quarto di gallone di latte, sulla via del ritorno. Katherine aveva i tacchi e doveva appoggiarsi al braccio della figlia per rimanere salda sul terreno ghiacciato. Le sue scarpe ticchettavano sul ghiaccio, e Penny associava quel suono con l’avventura. Ne sentiva il ritmo lungo i binari mentre viaggiava verso Calgary.
Si dirigevano verso est, superando il confine non segnato di St–Laurent. La città si faceva notevolmente più povera, le case più vicine l’una all’altra, la neve non veniva spazzata via. Montreal era un luogo di esaltazione delle categorie, una città disegnata da differenze e pregiudizi. Molti degli adulti conosciuti dai genitori di Penny (e per estensione i loro figli, con cui Penny era cresciuta) non parlavano una parola di francese e difficilmente andavano dall’altra parte della città.
Ma il periodo trascorso in Francia aveva reso Katherine coraggiosa. Sentiva di essere a casa dappertutto, a Montreal, allo stesso modo in cui aveva attraversato i molti Arrondissement di Parigi. Aveva lo stesso disprezzo nei confronti dei canadesi francesi di qualunque protestante di lingua inglese. Ma c’era una parte di lei che li invidiava e li venerava, almeno nell’idea che aveva di loro, per i loro legami con l’Europa. Non avevano niente in comune con il suo rigido marito educato all’inglese.
Penny e Katherine si perdevano spesso in quelle zone straniere della città, e dovevano percorrere la strada del ritorno tra tram che si intralciavano e strane strade, che si intrecciavano. Dopo un’ora, il passo di Katherine rallentava e il suo ginocchio si indeboliva. Si appoggiava più pesante alla figlia e Penny la teneva diritta e la stringeva. Il volto di Katherine arrossiva per lo sforzo, e Penny la vedeva bella come non mai. – È così che ho incontrato tuo padre, – diceva Katherine. – Gli ho chiesto indicazioni.
Penny conosceva la storia: sua madre era tornata a casa, interrompendo la sua carriera di ballerina a Parigi a causa di un tendine strappato al ginocchio e trascorreva le sue giornate a vagare per la città. Il ginocchio era gonfio e il dottore aveva raccomandato un bastone, ma Katherine ignorava i consigli. Metteva i tacchi e camminava tutti i giorni. Era determinata. Stava mettendo su uno spettacolo.
– Tuo padre insistette per portarmi a casa in macchina. Pensava fosse troppa strada da fare a piedi per una donna.
E con questo, la sua vita aveva improvvisamente preso la direzione del matrimonio e della maternità. Fecero la luna di miele alle cascate del Niagara, luogo che Katherine diceva perfetto per un suicidio.
– Come ti immaginavi che sarebbe stato? – chiedeva Penny. – Quando ti sei sposata?
– Immaginare? Non immaginavo nulla. – Katherine alzava il sopracciglio scuro e ben disegnato. – Quando si tratta di matrimonio, immaginare è il più grave errore che una donna possa fare.
*
Nei pressi del motel c’è solo un alimentari, che ammucchia mele rovinate e formaggio che si fa molle in un frigorifero aperto. Ci sono negozi di pegni e una libreria di libri usati che vende il tipo di tascabili che Katherine non aveva mai voluto vedere per casa. Quando Penny sente bussare alla porta della stanza del motel, apre con cautela, la catena ancora inserita.
David ha lo stesso vestito, ma senza ventiquattrore. La cravatta è sciolta e il bottone superiore della camicia aperto. – Sono venuto a vedere se ti andava di fare una passeggiata.
– Una passeggiata?
– È quello che mi manca di più del Galles: camminare sulle colline. Qui tutti hanno una macchina, no? Muoio dalla voglia di camminare.
– Dove potremmo andare?
– Il mondo è nostro. – Indica alle sue spalle, verso la carta da parati che si arriccia staccandosi dagli angoli delle pareti del corridoio, lasciando tutto sporco di colla gialla secca. – Come on, love. Andiamo.
Finiscono a Nose Hill, una grande prateria. Il vento li sferza da ogni lato e piega i fili d’erba e fa pizzicare le calze di nylon di Penny. È grata agli occhiali che le tengono gli occhi al riparo dalla polvere.
Quando tornava a casa da scuola con Andrew parlavano. Discutevano della storia dell’Unione Sovietica e dei libri che Penny leggeva. Spettegolavano di amici comuni e ridevano delle follie dei loro genitori.
Camminare con David è diverso. Indica gli scorci di natura che ritiene degni di nota (erba paglia, trifoglio rosso) ma questo è tutto. Discendono la collina finché non trovano un riparo dal vento, e poi si siedono con le spalle al pendio. L’erba gli arriva alle spalle, e i loro corpi quasi si toccano fianco a fianco.
– Forse non era il tempo più adatto. – Nella voce di David c’è il broncio, una specie di delusione infantile. Prende un filo di erba paglia, apre la pannocchia e guarda i semi volar via dal suo palmo.
Penny guarda le colline basse, tutte di un unico colore. – Sembra tutto uguale. Come fai a trovare le strade?
David le mette il braccio intorno alle spalle. È un gesto che esprime proprietà, e c’è qualcosa di confortevole in questo, nell’essere proprietà di qualcuno.
– Mi sposo l’anno prossimo, – dice. – Si chiama Andrew.
– Lo so. – David le sorride. – Non l’ho dimenticato.
Lei dovrebbe alzarsi e andarsene. I personaggi virtuosi dei romanzi lo farebbero. Ma la sua completa mancanza di artificiosità è affascinante. È diretto e semplice come questo posto in cui l’ha portata. Il cielo è limpido e azzurro e l’erba si muove con il vento. Niente a che vedere con l’intrico di edifici e tram a cui è abituata.
– Guarda, – dice lui. – Un coyote.
– Dove?
Le indirizza lo sguardo verso una cosa a forma di cane giù per la collina. Il coyote li guarda fisso, e la sua faccia ossuta e sdegnosa le ricorda un certo tipo di donne che ha visto spesso a Montreal Est. Il tipo che guardava Penny e Katherine dalla finestra, con le braccia incrociate, e che stava a dire che erano capitate nel quartiere sbagliato.
Penny ispira, sente l’aria nei polmoni. Lascia il braccio di David sulla spalla, e il coyote salta e sparisce fra l’erba.
*
Il suo terzo fidanzamento fu con Andrew, che viveva a soli due isolati di distanza. Giocavano per strada con altri bambini e in seguito tornavano insieme a casa dall’università. E durante le passeggiate confrontavano i loro ricordi d’infanzia. Scoprirono che condividevano una comprensione lacunosa e infantile della guerra che avevano attraversato. Quando Andrew sentiva la gente parlare della Francia occupata, pensava che avesse qualcosa a che fare con la sua famiglia, perché spesso ricevevano lettere indirizzate “agli occupanti”. Il pensiero che avessero fatto qualcosa di male gli dette i crampi allo stomaco per anni e brutti sogni. Penny aveva incubi simili. Da bambina sognava di essere un soldato, che con la neve alle ginocchia non riusciva a muoversi. C’era la guerra a St–Laurent, e i suoi genitori appartenevano a fazioni opposte.
Scoprire queste similitudini li rendeva euforici, perché per la maggior parte del tempo sembravano vivere in Paesi diversi, tirati su da famiglie così diverse che avrebbero potuto esserci oceani, tra di loro. La madre di Andrew non aveva nulla del fascino e dell’eleganza di Katherine: i suoi vestiti erano ben stirati ma senza forma. E, diversamente da Katherine, non si rifugiava mai nei libri o nella sua natura litigiosa. Serviva a suo figlio di ritorno da scuola cioccolata calda e biscotti. Cucinava pasti completi e i piatti venivano lavati immediatamente dopo cena. Casa sua era pulita e in ordine, senza nessun angolo scuro e confuso da poter esplorare. Penny e Andrew dovevano restare in cucina o nel soggiorno, e Penny non poteva rimanere fino a tardi.
Per loro era più semplice a casa di Penny. Il padre di Penny ignorava Andrew per la maggior parte del tempo, e Katherine era per il laissez faire, riguardo alla sessualità della figlia. Se fosse incappata in un errore, anche l’impensabile, una gravidanza, Katherine probabilmente avrebbe incrociato le braccia al petto e avrebbe detto: «Be’, e adesso che pensi di fare?».
Andrew e Penny passavano la maggior parte del tempo in camera da letto, bisbigliando e cercando i motivi per toccarsi per caso. Penny si appoggiava sulla spalla di Andrew o magari a lui capitava di strusciare la mano sulla sua gamba. Per il resto del tempo facevano i compiti in cucina. Andrew studiava per diventare ingegnere (la sua specialità erano i sistemi di refrigerazione), ma come materia a scelta aveva preso lingua russa. Penny lo aiutava a studiare, anche se non conosceva una parola di russo. Alzava dei cartoncini con frasi semplici che Andrew pronunciava nel suo cirillico impacciato.
– Qui c’è una banana. – Leggeva lentamente dal cartoncino. – Qui c’è una matita. Qui c’è una catastrofe.
– Non ti faranno mai andare in Russia, – urlava Katherine dal soggiorno. Aveva la capacità di leggere un romanzo e origliare contemporaneamente. – A loro lì non servono a niente i frigoriferi moderni. Fa già abbastanza freddo così.
– Non avrò bisogno di andarci, – rispondeva Andrew, – libertà e giustizia arriveranno da noi.
Se Penny lo amava, in parte era per le sue convinzioni politiche e la natura romantica che rivelavano. Fu mentre lo aiutava con il russo al tavolo della cucina, sotto lo sguardo della madre (se Katherine si fosse preoccupata di alzare gli occhi dal libro) che Penny lo baciò la prima volta.
Quello fu l’inizio, la sua prima vittoria. Con ogni avance che lei assecondava, la mano sulla maglietta, poi sotto, lui si faceva più devoto.
*
Il motel serve caffè acquoso e muffin e la chiama colazione continentale. Ogni mattina, gli uomini d’affari e quelli del rodeo si riversano nella lobby. Hanno l’aspetto di chi ha i postumi di una sbornia, o ha nostalgia di casa o entrambe le cose. Mangiano in piedi e si rivolgono l’uno all’altro con frasi smozzicate e battute scherzose. Per Penny, è come una lingua straniera.
– Ho sentito che ci hai dato dentro con la tipa, la cameriera di Saan.
– Tutta apparenza, è una che non va a fondo.
Quando notano Penny entrare, smettono di parlare. Solo David le sorride. Le versa una tazza di caffè e ci lascia cadere una zolletta di zucchero. Gli altri uomini guardano in silenzio. Penny può solo immaginare cosa dicano una volta che lei è uscita.
*
A parte le segretarie, è l’unica donna nel dipartimento di francese. Per la maggior parte, i professori sono francesi, e uomini. Altri vengono dalla Spagna o dall’Italia, ma parlano il francese abbastanza bene da cavarsela in aula. Questi europei, lei non riesce mai ad averne abbastanza. La invitano a pranzo alla caffetteria dell’università. Le tengono la porta aperta. La osservano attentamente, anche se mette quasi ogni giorno gli stessi abiti.
Uno di loro, un uomo di nome Gérard, che è scappato dalla Francia durante la guerra, la invita a una festa, per la quale lei indossa la sua solita gonna verde e la camicetta. Tanto i professori sono troppo impegnati a bere e a inseguire l’uno le mogli degli altri per notare i suoi vestiti. Forse perché è giovane (ha solo venticinque anni) gentilmente la escludono dai loro programmi sessuali. Capiscono che non è sposata, e quindi ancora una bambina, o l’equivalente, una vergine. Le chiedono delle sue ricerche e si assicurano che abbia il bicchiere pieno di vino. Solo la sera tardi, quando tutti hanno bevuto troppo, qualcuno balla con lei.
La stringono così forte che lei può sentire il vino e il tabacco nel loro alito. Uno le fa i complimenti per il profumo, anche se lei non ne ha messo.
«Non crederai alle tue orecchie», scrive Penny a Donna al rientro in hotel. «La Bible Belt[1] è colma di peccato e dissolutezza».
*
Dopo altre tre passeggiate (lungo Fish Creek, giù per il fiume e una volta lungo Bragg Creek) David e Penny hanno un appuntamento diverso. Lei indossa un vestito di lana che ha comprato con il suo primo stipendio. Nel negozio ha pensato di somigliare a Jackie Kennedy: una gonna al ginocchio e grandi bottoni. La lana è rosa, un gesto di ribellione estiva contro l’inverno in arrivo. Adesso si pente della scelta. Si sente troppo appariscente. All’anulare sinistro la fascetta d’oro con il brillantino che i genitori le hanno regalato quando ha terminato gli studi.
David lo guarda. – A che serve?
Penny siede con le mani in grembo e non risponde. Come ripeteva sua madre, ci sono delle umiliazioni che una donna deve saper evitare.
Si fermano alla farmacia. La commessa ha un ciuffo blu fra i capelli. Penny avrebbe usato la parola latineggiante, dignitosa, “contraccettivo”, ma David si appoggia sul bancone e chiede un pacchetto di Goldoni. Costa 1 dollaro e 5 centesimi e Penny non riesce a credere che sia così facile ed economico cambiare la propria vita.
Sulla via del ritorno, lui accelera. Penny avverte un leggero mal d’auto, ma nulla di più. Sa che alcune decisioni si avvertono solo in un secondo momento. Niente rivelazioni, niente fitte di rimorso, solo una lenta scoperta, in seguito, di ciò che hai fatto. Una piccola ferita che va peggiorando.
– Tu sai che significa, vero? – Penny sta guardando dalla finestra i contorni sfocati delle case, e le prime raffiche di neve che arrivano sui vetri. – Adesso dobbiamo sposarci.
Sembra un bambino che spiega le regole di un gioco. E forse è per questo che David scoppia a ridere.
*
Quando David se ne va, al mattino, Penny cerca di correggere i compiti in classe, ma non riesce a concentrarsi. Più di una volta finisce per andare in bagno a fissare il cestino dei rifiuti. I contraccettivi non sono perfetti. Ha sentito dire che a volte si strappano. A volte si sfilano. Penny li tira su dall’immondizia e li controlla. Pensa: e noi affidiamo il nostro futuro a questo? Sono bianco opaco e sottili. Li tiene davanti alla luce e appaiono tristi, come se piangessero.
*
Invece di andare a passeggiare, David porta Penny in giro in macchina per strade che lei non aveva mai visto. Vanno verso i confini della città lontano dai ristoranti e dagli uffici. Qui fuori le case sono semplici e squadrate, e sembra siano state assemblate da dei bambini. Nessuno si prende cura del proprio giardino e l’erba cresce a chiazze.
– Un tempo qui c’era una città dell’esercito, – dice David, nella voce un tono di lussuria imprenditoriale. – Adesso non c’è niente, ma cambierà.
Ferma il camion davanti a un bungalow con le pareti dal rivestimento azzurro sbiadito, il suo acquisto più recente. Un lato del portico è crollato e non c’è viottolo d’ingresso, solo il terreno gelato.
– Ecco qui. – Apre la porta e le mostra le stanze vuote. Batte sui muri e le dice di ignorare la moquette che si alza agli angoli.
– Che ne pensi, angioletto? È il paradiso, no? – Le fa vedere una delle camere da letto. – Questa stanza sarà il tuo studio, – dice. – E questa la stanza dei bimbi, per Dai Junior.
Penny sa che sta scherzando. Ma comunque si permette di lasciar andare la fantasia. Le loro case sarebbero come questa, in una continua condizione di rinnovamento. Continuerebbe a insegnare per un po’, ma presto rimarrebbe avviluppata nelle idee di David, nei suoi schemi; magari diverrebbe sua socia o la sua contabile. Forse sarebbe anche brava. Avrebbero un sacco di bambini, e quei bambini crescerebbero con lo spirito pratico e la sfacciata sicurezza degli arricchiti. Nei weekend la famiglia andrebbe fuori a fare una camminata di buon passo. E probabilmente avrebbero dei cani.
– È carino, – dice, ed entra nella stanza padronale. Preme il viso contro la finestra affacciata a sud. La vista dà su altre case che somigliano a questa qui, alcuni lotti vuoti e strade senza marciapiedi ai bordi. Penny si chiede cosa riveli di David questa proprietà. Sta pensando con la mente da Montreal, una mente che associa i posti (non solo le vie, ma posti precisi nelle vie) con l’identità. Non ha ancora capito la libertà di questa città, il modo in cui permette a David di spostarsi da un posto a un altro senza affibbiargli alcun giudizio, senza intrappolarlo in una gabbia, lingua, religione, etnia. Niente etichetta il suo passato o decide del suo futuro. Non ha ancora realizzato quanto in fretta lui se ne possa andare.
[1] La Bible Belt (Cintura della Bibbia) è un’area degli Stati Uniti in cui vive una grande percentuale di persone di religione strettamente cristiana protestante, per lo più di confessione evangelica, e geograficamente si colloca a Sud–Est. In Canada non si presenta la stessa situazione, ma l’Alberta è considerato uno stato religiosamente estremista, conservatore e di destra.
[Immagine: Lucy Franco, Il buio e l’attesa (dbr) – http://www.fotocommunity.it/fotografa/lucy-franco/1287670]