di Tiziano Rossi
[Il volume che nel 2003 raccoglieva Tutte le poesie (1963-2000) di Tiziano Rossi (prefazione di Piero Cudini, Milano, Garzanti) sembrava fissare una volta per tutte il profilo di un poeta che si impone di volare rasoterra, di «strisciare giù basso», senza rinunciare tuttavia a intermittenti accensioni liriche. Solo tre anni più tardi, «Lo Specchio» di Mondadori pubblicava un volume di prose (poèmes en prose o brevi racconti lirici), Cronaca perduta, che – pur riprendendo motivi e soluzioni formali delle precedenti raccolte in versi – segnava un nuovo inizio, facendo di Rossi uno dei poeti maggiori del nuovo secolo. Proseguita a cadenze triennali (del 2009 è Faccende laterali, Milano, Garzanti), questa ricerca di un delicato equilibrio fra poesia e prosa, fra narrazione e lirica, ha trovato alla fine del 2012 nuovi esiti in Spigoli del sonno (Mursia 2012, collana «Argani»), dove si accentuano le note di una crudeltà grottesca, che sovverte, in uno scenario onirico e pseudo-autobiografico, l’apparente bonomia elegiaca del dettato. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, ne pubblichiamo alcuni testi (pp)].
Armadio
Non mi era mai successo, in oltre mezzo secolo di vita, di avere la forma e di svolgere la funzione di armadio, insomma di essere un armadio in tutto e per tutto. Della mia condizione statica non mi lagno, perche me ne viene un di più di gravità (i re – tanto per dire – amano rimanere fermi o comunque agitarsi poco). Provvedono le persone, eventualmente, ad aprire e a chiudere le mie ante, cosi da darmi aria e un po’ di movimento. Sono molto disordinato o, meglio, sono disordinati coloro che si servono di me, perche accumulano nei miei scomparti mille cose alla rinfusa. Potrei fornirvi un lunghissimo elenco degli oggetti che mi abitano, ma mi limiterò a citarvene solo alcuni, indicativi del caos: scarpe, portauova, sigari, fazzoletti, libri, conserve di frutta, maglioni, candele, e qui mi fermo. Questa riprovevole confusione ha tuttavia per me dei risvolti positivi, anzitutto sul piano fisico, perché chi è costretto a frugare nei miei angoli piu intimi alla ricerca affannosa – per esempio – di uno spazzolino mi provoca un gradevole solletico; e poi su un piano affettivo: difatti la caccia a un oggetto difficile a trovarsi (per via dello scompiglio) mi fa sentire come un nonno giocherellone che nasconde la caramella ai nipotini e gliela rende, come premio, soltanto dopo un divertente gioco di prestigio. Càpita però talvolta che i desiderata non saltino fuori affatto e allora devo registrare uno sbattere nervoso di cassetti e sportelli, quasi che fossi io il colpevole della mancanza e quindi meritevole di percosse punitive; e invece la mia affidabilità è fuori discussione. Nel mio doppiofondo (perché ho un doppiofondo che nessuno conosce) conservo tuttavia un segreto che – a seconda del punto di vista – si potrebbe definire vergognoso o spaventoso: no, non si tratta di un cadavere, ma di qualcosa che gli somiglia.
Anime
Pare che io sia un ragazzo di bandiera (in verità non so che cosa voglia dire) e anche per questo mio nonno mi porta in giro a vedere tanti luoghi diversi, come fabbriche, teatri, stazioni ferroviarie, stabilimenti balneari ecc. Secondo lui, conoscere la gente che lì vive e lavora è più utile che andare a scuola. Da un po’ ci troviamo però in una grandissima e buia cantina, dove – tutte in fila come scolari della prima elementare – camminano delle persone molto sottili, visibili solo se si mettono di fronte, proprio come delle carte da gioco. Hanno un’aria attonita e impaurita, anche se noi non abbiamo nessuna intenzione di fargli del male. Mi sembrano tutte deboli di mente, incapaci di ragionare e – se giudico le loro parole – di pronunciare frasi sensate. Chi sono? E perché il nonno mi ha condotto qui? Credo che non mi potranno insegnare un bel nulla, e cosi mi viene da prenderle in giro con certe smorfie comiche e di imitare – per divertimento – le loro espressioni poco intelligenti. La mia cara guida, che ha ottantuno anni, mi dà però una gomitata e mi sgrida: «Non fare cosi – mi dice – non sta bene deriderle, perché quelle sono le anime di noi; davanti a loro dobbiamo stare in silenzio e mostrare rispetto, proprio perche sono esseri dappoco. Abitano il fondo di noi stessi e poi che fastidio ti danno i deboli di mente? Devi sapere che qualcuno gli fa da guardia e li protegge nell’andare; e forse toccherà loro una sorte buona che non puoi neanche immaginare». Io allora provo vergogna e li saluto con tutta la reverenza che posso. Cerco anche, in mezzo a quella fila, la mia anima, ma non riesco a riconoscerla.
Autorità
Sono rimasto l’unico passeggero a bordo dell’autobus notturno, che adesso s’inoltra in una fumigante periferia. Il controllore appena salito mi chiede di mostrargli il biglietto e nel contempo – con un fare da giocherellone – mi fa il ganascino e mi solletica il collo servendosi di una piuma, benché io non gli abbia dato alcuna confidenza. Mi sento assai a disagio, perché lui è un pubblico ufficiale e può molto. Circa il biglietto ha parecchio da ridire: lo giudica spiegazzato («I documenti di viaggio – dice – vanno conservati con la massima cura, come del resto ingiunge l’avvertenza stampigliata sul loro retro»), mi bolla come tipo non affidabile e accompagna i rimbrotti con dei buffetti sulla guancia che probabilmente mirano a bilanciare la sua severità. Io sto in piedi perché mi piace guardare da un finestrino la metropoli che dorme o tenta di dormire, e l’ispettore (mi va di chiamarlo così) mi ordina di sedermi. Non capisco il senso di questo comando, ma lui, premendomi l’indice contro lo stomaco, mi spiega che i passeggeri dovrebbero sedersi, in modo da risultare meglio sorvegliabili, e che non è bene comportarsi da sciocco individualista. L’autobus è ormai al capolinea e io scendo con una sveltezza da bertuccia, cercando di sottrarmi ad altre imposizioni di quest’uomo con berretto gallonato e provvisto di indubbia autorità. Lui però mi segue assestandomi dei colpetti sulla schiena, amichevoli o forse ostili. Lungo il tragitto verso casa, lui, trotterellandomi a fianco, enuncia delle massime sapienziali di rilievo, cosicché io – pur mantenendo un passo spedito – lo ascolto con un certo interesse. Giunti in vista della mia abitazione (un bilocale dal calduccio confortevole) il mio seccatore estrae dalla tasca una rivoltella e me la punta alla tempia. Io, nel rispetto di un personaggio tanto qualificato, attendo solamente lo sparo liberatorio. Ma quello esita, esita.
Stalla
L’aria pare quella di un presepio, ma senza oranti né contemplanti. Giochiamo a carte (l’importante rubamazzetto) io, Pierino, Augusta e Antonietta dentro un mondo caldo per via del letame e del fiato di un bue e di una mucca, insomma in una stalla. Le nostre braccia si alzano e si abbassano tagliando come coltellini l’aria densa. Ogni tanto il bue si gira, ci guarda e dal muso umido fa uscire il suo antichissimo «muuu!», tanto da sovrastare le nostre voci puerili. Il mio amico Pierino è bravo a dire le parole tutte a rovescio (nessuno degli altri ne è capace), ma, siccome ha sporcato di merda gli zoccoli, si è messo a piedi nudi e così noi lo prendiamo in giro. Alla poca luce della lampada a petrolio Antonietta si spiana la gonna tutta a buchi sui ginocchi, lei che – pur venuta su dal male e scombinata – è bella e non piange mai. Augusta mi bisbiglia in un orecchio la carta da giocare, ma forse vuole farmi capire che tra noi c’è un’amicizia speciale, perché i condimenti dell’amore son piu di cento. Che caldo! Antonietta leva trionfalmente in alto il re di coppe: la sua carta sul banco non mangia niente, ma è tanto colorata e solenne che lei ne è fiera. Io racconto del capitombolo che ieri ho fatto in mezzo al fuoco del camino, cosi da bruciarmi il fondo dei pantaloni, e allora ci dimentichiamo della partita. Siamo ancora nell’età dei buffi perché, e mica sappiamo che ci sarà un avvenire; per adesso abbiamo il nostro complottare inoffensivo: albore, inizio. Nessuno ci chiama, i genitori non mettono il naso nei nostri meravigliosi traffici, e ci circondano solo il rumore della paglia che fuma e il ruminare testardo delle bestie. Cresce, cresce il nostro divertimento, tutto un ridere, perché c’è come uno sposalizio tra le cose e i vivi. Ma io non ci sono gia stato in un luogo e in una sera così?
Dislocazioni
Ho ricevuto l’ordine, dall’amministratore dello stabile, di muovermi nel mio monolocale unicamente in ginocchio: cosa disdicevole per un ultrasettantenne come me; ma, con una certa viltà, ho accettato, perché quello lì è meglio tenerselo buono. Ed
eccomi dunque a contatto ravvicinato con questa moquette azzurra, che con un po’ di
buona volontà posso interpretare come una gradevole distesa d’acqua. Inoltre l’amministratore (un originale che, guarda caso, si chiama Strambarini) ha fatto spostare tutto il mio mobilio: l’armadio che stava sulla sinistra, infatti, si trova ora a destra, la vecchia cassapanca è stata collocata in fondo alla stanza, il tavolo è finito presso la finestra e tutti i miei cari oggetti si sono trasferiti – in un pellegrinaggio collettivo – sul lato opposto a quello che occupavano prima. Insomma si direbbe che c’è un ordine speculare rispetto al precedente, e ciò mi procura un leggero giramento di testa e nausea. In questa mia umiliazione fisica, però, vedo tutto con occhi nuovi e – per cosi dire – puerili. Non solo, ma ora mi trabiccolo che è un piacere come un handicappato agile e, anche se mi inerpico sulle sedie con fatica, lo faccio con gioia esplorativa, quasi alpinistica. È cresciuto per me il lavoro delle braccia, ma insieme quello della mente, costretta a risolvere difficoltà inaspettate. I quadri, poi, che mi appaiono più in alto, suscitano in me maggiore ammirazione, per cui davanti a loro mi sembra giusto prosternarmi; e le mie varie carabattole così dislocate risaltano meglio, come delle accreditate reliquie. Infine sto diventando, a poco a poco, più padrone del mio pavimento blu, che si rivela un degno mare. Sia quindi ringraziato il mio amministratore, dato che adesso ne imparerò una tutti i giorni e non mi capiterà più di
dire: «Dormi, dormi, che tutto passerà».
Scena
Ci contiene una fotografia, che però è semovente. Siamo su un carro tirato da un bue macilento, che trasmette al veicolo la sua forza residua con andamento pigro e fascinoso (una mucca sta altrove con la sua maternità). Siamo deposti in un nonnesco mondo agricolo e, in quanto bambini, ci agitiamo sul carro facendo con sussiego cose da nulla, mentre alle redini un contadino spigoloso mastica tabacco e frusta l’animale per sentirsi più forte. Mio cugino – che ha la mia stessa età – si atteggia, per sua natura, a condottiero, ma io mi vedo e non mi vedo, oscillo. Mia cugina tiene in braccio un cagnolino marrone e buono, capace di servire senza chiedere contraccambi e desideroso di concorrere al nostro brusìo. Non siamo consapevoli del nostro sudiciume e cresciamo sbilenchi ma perseveranti. C’è gente che si dilegua nel folto del granoturco, e nella piazzetta un bambino piange, ma non si vede, perché è fuori inquadratura. Siamo già dentro nei rischi del mondo, eppure squittiamo come dei burattini sopra una ribalta e gesticoliamo convinti di far ridere, intanto che il carro si sposta insensibilmente verso un bordo della foto. Non sappiamo nulla degli assenti, che stanno – costernati – da qualche altra parte. Da questo perimetro scarso ma tutto nostro sentiamo sempre più vicino il rombo del cannone e lo schianto delle bombe. Una polvere bianca ci va ricoprendo per intero e sopra di noi pende qualcosa che ci pare un temporale, ma – benché ovattato – il nostro cinguettìo è ancora in corso. A poco a poco, trainati dal bue lurido e stanco, usciamo di scena sani e salvi grazie alla nostra piccolezza, e mandiamo baci maldestri a destra e a sinistra. Siamo diventati invisibili.
Ritorno
Per una sorte singolare mi trovo a percorrere una estesissima landa: lunga e larga com’è, impiego tantissimo ad attraversarla, nonostante possa contare sui miei passi giganteschi. Molti la dicono insignificante, ma è un’osservazione superficiale, perché qui – importante! – si risale alle origini del mondo, si fa la giusta sottrazione del superfluo e la vita comincia daccapo. Salgo una collinetta, poi un’altra e più in là ne spunta un’altra ancora: sono tutte verdi e viola per il colore dell’erica, e vaporose per l’aria umida che sempre incombe. Porto sulle spalle uno zainetto pieno di anni e mi fanno compagnia una pipa, tre biscotti e una volpe spelacchiata che mi segue come un cane, forse smarrita e rimasta senza tana. All’incrocio di due sentieri un gregge di pecore mi fa festa belando: qualcuno sostiene che queste bestie pensano imprecisamente, ma in realtà hanno cento risorse e ce la fanno anche senza pastore; con il loro tenero verso e con l’oscillazione dei musi mi indicano la strada da prendere. Oltrepasso poi un mastodontico ma bonario animale preistorico (degno di un simile paesaggio) e lo saluto – da avveduto impiegato di banca qual sono – con la cortesia professionale che mi appartiene. Tra me e me vado ripetendo come un ritornello le parole che più amo: «lanterna, sorriso, focolare, pagnotta, fieno» e anche così vinco la fatica. Ho il cervello un po’ intorbolito, ma miglia e miglia mi scorrono via, finché laggiù, in fondo a quella vallata, sbuca il tetto di una casa dal quale esce un po’ di fumo: dovrò solo bussare. Mando allora un grido poderoso e allegro di cui non mi credevo capace, perché ogni dolore e stato pareggiato e vivo i primordi proprio come mi aspettavo che fossero. Sulla soglia c’è – ultima sorpresa! – mio padre che mi aspetta, mi stringe forte tra le braccia e mi chiede: «Perche hai tardato cosi tanto tempo?»
Cronaca perduta è un libro straordinario. Questo, da ciò che leggo, mi dà l’idea di essere altrettanto bello, per certi versi anche più avvolgente.