di Gabriele Salvia
[La prima parte di questo saggio è uscita qualche giorno fa e si può leggere qui].
2. distopia di inclusione: sprawl vs fortezza
Figura 7, fotogramma da 1997 Fuga da New York di John Carpenter
Figura 8; Caracas,Venezuela, barrio 9 de Julio, foto dal catalogo della Biennale di Architettura di Venezia del 2001
Nell’utopia moderna l’inclusione riguarda soprattutto le tecniche di pianificazione urbanistica; essa innanzi tutto ispira la lettura e la progettazione della città per parti omogenee – il quartiere operaio, ad esempio, o il centro direzionale – e quindi la zonizzazione – l’organizzazione del territorio per zone destinate a funzioni anch’esse omogenee . Ma nel Novecento è altrettanto centrale il ruolo inclusivo dell’infrastruttura: dalle strade alle ferrovie fino alle reti immateriali di telecomunicazione si tratta di sistemi pensati in funzione di una potenziale accessibilità democratica alle attività.
L’organizzazione della città per parti ha favorito la creazione di separazioni fisiche tra le classi sociali da un lato, le etnie e i gruppi dall’altro, come spiega Jane Jacobs in Nascita e morte delle grandi città americane. Un tipo di assetto che è fortemente in contraddizione con le reti, fisiche e immateriali – informazione e spettacolo – che invece attraversano in maniera indifferenziata le aree.
La legge del più forte che regna nel sistema socio-culturale neo capitalista ha tra i suoi esiti più rilevanti quella della creazione di gruppi in lotta tra essi – dalla rivolta di Watts a Los Angeles del 1977 fino ai disordini nelle banlieue parigine dell’autunno del 2005. La reazione a catena coinvolge la nascita e il radicamento di ghetti ad alto conflitto sociale – le borgate come le banlieue e gli slum – e quindi, sulla scia di una rincorsa alla sicurezza e alla privacy, il moltiplicarsi di aree private fortificate, recintate e controllate. Se in Europa e negli Stati Uniti le classi povere sono confinate in quartieri periferici, autosimilari e prefabbricati, tagliati dai luoghi centrali e direzionali da bande di autostrade e zone industriali, nei paesi in via di sviluppo e del terzo mondo, la miseria metropolitana emerge negli slum, delle cittadelle autonome di costruzioni informali e per la maggior parte provvisorie, prive o carenti di opere di urbanizzazione – strade, fogne, acqua – e di servizi:
Chiedo a Sunil di portarmi nel suo slum. Con due amici del Sena ha costruito tre locali su un terreno della ferrovia. Percorriamo un vicolo buio come la pece e raggiungiamo i resti di alcune capanne appena demolite, in uno spiazzo circondato da abitazioni di cemento per gli operai delle ferrovie. Appena oltre, un terreno vasto è adibito a deposito di rottami. In lontananza vedo passare le luci di un treno suburbano. Superiamo fogne a cielo aperto camminando su tavole di legno e ci fermiamo ai margini della discarica; il terreno è fradicio di pioggia, i miei piedi, nei sandali, sono coperti di fango e dio sa cos’altro. Sunil mi indica la sua proprietà: – Quelle tre costruzioni con le lampade a petrolio. Abbiamo occupato questo terreno. [6]
Gli slum indiani e le favelas latinoamericane sono aggregati di architetture spontanee e autocostruite che con il minimo sforzo si plasmano sull’orografia cittadina, sfruttando i sentieri tracciati lungo i crinali, come a Caracas o a Rio de Janeiro. Questi agglomerati vengono sistematicamente oscurati dalle amministrazioni cittadine che, incapaci di arginare il problema nella sua estensione contagiosa, si limitano a celarne il più possibile la vista all’esterno. Alla vigilia dei campionati del mondo di calcio del 1978, ad esempio, la giunta dei Generali ordinò a Buenos Aires la costruzione di un muro di 5 metri di altezza sul lato lungo di una favela in prossimità di un impianto sportivo – la favela in questione, nei pressi della Matanza, viene da allora informalmente indicata come Ciudad Occulta. Altrettanto esemplari, ma più recenti, i lavori di adeguamento e verniciatura esterna intrapresi dalla Ciudad Autonoma de Buenos Aires sui primi edifici della Villa 31 che fronteggiano il terminal internazionale degli autobus: una fila di facciate ristrutturate in “stile Caminito” – doghe di legno in colori sgargianti, tetti in lamiera ondulata, finestre irregolari e scale in facciata – che cinge una cittadella che conta oltre 30000 abitanti che non godono di strade asfaltate nè di servizi igienici o allacci elettrici sicuri.
I fenomeni di esclusione fisica più evidenti riguardano tuttavia il dominio delle proprietà private. In ambito residenziale è in crescita, su domanda delle classi medie e alte, il mercato delle gated comunities, quartieri autonomi – residenze mono o plurifamiliari, shopping, tempo libero, a volte anche istruzione e sanità – con sistemi di sicurezza privati e barriere fisiche con l’esterno.
Il fenomeno delle gated comunities nasce negli Stati Uniti, precisamente in Florida, da alcuni recidencial di lusso dotati di sistemi di allarme molto sofisticati, mura di recinzione e corpi di guardia privati. Nelle città a maggiore criticità sociale, e quindi a maggior segregazione e violenza, la sicurezza gioca oggi un ruolo politico molto importante: le amministrazioni vengono elette in base ai rapporti di polizia, c’è un mercato molto rigoglioso dei gadget per la sicurezza privata. Inoltre si sta diffondendo una prassi progettuale, estesa dal modello residenziale di abitazione-fortezza agli store commerciali, ai palazzi di uffici, ai musei, che sottende in maniera più o meno esplicita ad una “difesa” dai ceti o dalle minoranze non desiderate. Un codice che parla non solo attraverso i sistemi di sorveglianza, ma anche tramite di facciate piene, accessi separati, posti numerati e diaframmi trasparenti che sono, di fatto, barriere antiproiettili. Decisamente esplicativa a riguardo è l’analisi condotta da Mike Davis al principio degli anni Novanta a Los Angeles:
Benvenuti nella Los Angeles postliberal, dove la difesa dei livelli di vita di maggior lusso si traduce nella continua repressione dello spazio e del movimento, appoggiata dall’onnipresente “Risposta Armata”. Questa ossessione per i sistemi di sicurezza fisica e, contemporaneamente, per il controllo architettonico delle delimitazioni sociali, è diventata lo Zeitgeist della ristrutturazione urbanistica, il tema centrale del nuovo ambiente urbanizzato degli anni ‘90.
Eppure, la teoria urbanistica contemporanea, pur dibattendo il ruolo delle tecnologie elettroniche nello spazio postmoderno e discutendo la dispersione delle funzioni urbane in una serie di “galassie” dell’agglomerato metropolitano policentrico, ha stranamente evitato di riconoscere la militarizzazione della vita cittadina così cupamente evidente a chi ne percorre le strade. […]
Queste visioni distopiche indicano quanto l’odierna escalation faraonica della sicurezza commerciale abbia soppiantato le speranze di una riforma urbana e di un’integrazione sociale. […] viviamo in “città fortezze”, brutalmente divise in “cellule fortificate” della società benestante e “luoghi di terrore” dove la polizia combatte i poveri criminalizzati. […]
Il vecchio paradigma liberal del controllo sociale nel quale gli interessi della middle class e delle classi povere non vengono più presi in considerazione. In città come Los Angeles, sulla cattiva strada della postmodernità, si può osservare la fusione senza precedenti della progettazione urbana, dell’architettura e dell’apparato di polizia in un unico, totale, sistema di sicurezza.
Questa coalescenza epocale ha implicazioni importanti per le relazioni sociali interne all’ambiente urbanizzato. In primo luogo, il mercato della sicurezza genera di per sé una sua domanda paranoica. La sicurezza diviene così un bene posizionale definito dall’accesso che il reddito consente a “servizi di protezione” privati o all’appartenenza a speciali enclave residenziali e quartieri controllati. come simbolo di prestigio -e qualche volta come linea di demarcazione fra coloro che sono semplicemente benestanti e i veramente ricchi- la sicurezza è l’unità di misura dell’incolumità personale, ma più ancora dell’isolamento dell’individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell’habitat, del lavoro e dei viaggi. [7]
Nei casi più problematici la separazione prende la forma della guerriglia. Le immagini dei quartieri residenziali e dei centri commerciali più esclusivi di Miami, Buenos Aires o Città del Messico si confondono con quelle delle carceri di massima sicurezza o dei centri di detenzione per clandestini. Gli apparati di potere interno sovvertono i fatiscenti poteri centrali tramite bande armate, nelle favelas brasiliane o argentine (come in City of God di Fernando Meirelles); nei barrios serrados tramite le squadriglie di vigilanti privati – come in La Zona di Rodrigo Plà.
Figura 9, Brick Lane market, London.
Figura 10, Il Riachuelo ad Ezeiza, Buenos Aires. Lungo gli argini alloggiano circa 15000 persone in villas miseria.
Il Novecento riserva enorme spazio ad interventi, teorie e piani centrati sull’utopia del vivere secondo natura. La ricerca riguarda soprattutto l’equilibrio di volumi, linee e materiali sul territorio – come nella grande tradizione dell’architettura organica americana ed europea – e spesso insegue un’idea di progettazione come “ascolto” filosofico cui segue una rappresentazione architettonica di un luogo – come in Christian Norberg Schultz o in Vittorio Gregotti, o nella tradizione urbanistica che va da Camillo Sitte a Aldo Rossi fino al New Urbanism americano, pronta a pensare la città come spazio dell’identità e dell’appartenenza, ricco di simboli collettivi e a misura d’uomo.
Negli ultimi anni si susseguono i dibattiti sull’architettura energeticamente sostenibile, sull’autocostruzione e sull’impiego in edilizia di materiali naturali. Anche in questo caso restiamo nella sfera dell’utopia velata di contraddizione, secondo la tradizione Moderna: l’autonomia energetica viene perlopiù risolta con metodi high-tech che affondano in processi di produzione inquinanti e dispendiosi.
Se si considera la fragilità dei fili d’erba, passare una falciatrice per tagliarli a raso è, da un punto di vista energetico, una spesa esorbitante. Senza arrivare fino al punto di sostituire una macchina con una pecora brucante, ci si può chiedere se non ci sono altre soluzioni. […] Per esempio, non avere un prato all’inglese, che resterebbe ancora il modo migliore per evitarsi un simile lavoro” [8]
Le esperienze di autocostruzione e biocompatibilità invece investono porzioni minime di territorio e, ponendosi come progetti anti-urbani, danno voce a posizioni retroattive, sostanzialmente in contrasto con l’esplosione del nuovo urbanesimo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Nella città la cementificazione esclude qualsiasi sogno di naturalezza che non sia un parco cittadino o una riserva ecologica; gli spazi di risulta della campagna o dei boschi, contaminati da costruzioni e linee del telefono ed accerchiati dalle periferie, rappresentano invece un paesaggio incerto e slabbrato, spesso sanguinante e compromesso da anni di sfruttamento industriale – come nel caso della Cuenca Matanza-Riachuelo a Buenos Aires – ma pur sempre regno del possibile. E’ un esempio di quello che Gilles Clemènt chiama “terzo paesaggio”:
Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana, subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Questo insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati delle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito ad una dismissione recente. [9]
Rispetto al “vivere secondo natura”, storico e cosmico, teorizzato da architetti e urbanisti, la distopia per eccellenza è ovviamente quella che possiamo indicare attraverso la celebre formula del ‘nonluogo’:
Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né storico si definirà non-luogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudelairiana, non integra in sé i luoghi antichi. [10]
La teoria dei nonluoghi permette tra l’altro di interrogarsi sull’autenticità degli spazi umani, e quindi sull’immagine che da essi promana; immagine che spesso precede e annulla l’esperienza, che assume una propria vita e spesso annichilisce ciò che rappresenta:
Dietro di loro, una vetrata dava su un paesaggio di edifici alti che formavano un intrico babelico di poligoni giganteschi, fino ai confini dell’orizzonte; la notte era chiara, l’aria di una limpidezza assoluta. Ci si sarebbe potuti trovare nel Quatar o a Dubai; l’arredamento della stanza era in effetti ispirato a una fotografia pubblicitaria, tratta da una pubblicazione tedesca di lusso, dell’hotel Emirates di Abu Dhabi. [11]
Il romanzo La carta e il territorio di Michel Houellebecq si snoda attraverso le fasi di straniamento e chock di un artista che vive la giostra della propria solitudine tra silenziose campagne gentrificate, lussuosi sobborghi residenziali accerchiati dalle banlieue, geografie assegnate alle compagnie aeree ed eleganti ricevimenti in stile global. La rottura dell’intrinseco legame tra l’individuo ed il suo luogo, sia quello della memoria – la campagna dei nonni – sia del quotidiano – Parigi, il 13° arrondissement – avviene emblematicamente con la realizzazione di una serie di fotografie che porta il protagonista alla notorietà: particolari ingranditi delle carte stradali Michelin.
[…] Su richiesta del padre, mentre faceva il pieno, Jed acquistò una carta stradale “Michelin Départements” della Creuse, Haute Vienne. Fu lì, dispiegando la carta, a due passi dai sandwich di pancarré avvolti nel cellophan che ebbe la sua seconda grande rivelazione estetica. Quella carta era stupenda; sconvolto, si mise a tremare davanti all’espositore. Non aveva mai contemplato un oggetto così magnifico, così ricco di emozione e significato come quella carta Michelin 1/150.000 della Creuse, Haute Vienne. L’essenza della modernità, dell’apprendimento scientifico e tecnico del mondo vi si trovava mescolata con l’essenza della vita animale. Il disegno era complesso e bello, di una chiarezza assoluta, utilizzando solo un codice ristretto di colori. Ma in ogni frazione, ogni villaggio, rappresentati secondo la loro importanza, si sentivano il palpito, il richiamo di decine di vite umane, di decine o di centinaia di anime – le une destinate alla dannazione, le altre alla vita eterna. [12]
Non è un caso che il padre del protagonista sia un architetto, che ha accantonato i propri sogni di riforma ideologica e spaziale della società, e quindi le appassionate letture di William Morris e Le Corbusier, per il più comodo successo della progettazione di sofisticati complessi turistici. Proprio il turismo di massa, attraverso i bombardamenti pubblicitari di immagini che sono scavate nei sogni collettivi, è uno dei mezzi principali attraverso cui avviene la scissione tra il luogo – storico e identitario, secondo la definizione di Augè – e la rappresentazione commerciale attraverso cui viene venduto.
Il manifesto vivente dell’architettura atopica è certo Las Vegas: i suoi parchi tematici, i suoi albrghi a cinque stelle cantati da Robert Venturi in Learning From Las Vegas:
Alla Los Angeles descritta da Davis come incarnazione del modello di città panottico fa riscontro Las Vegas come prototipo della città nonluogo. Dopo essere stata nel 1972 il manifesto ottimistico del nascente postmodernismo stilistico, con l’esaltazione del populismo architettonico kitsch [Venturi, 1985], la Las Vegas di inizio millennio diviene simbolo dell’opposto di quel mito: zeropoli, “città del nulla”, come l’ha ribattezzata Bruce Begout: “la nullità che fa quantità”. [13]
Ripensando ai luoghi identitari per eccellenza, i nostri centri storici, si può fare una considerazione analoga. Essi vivono di flussi di individui che aspettano di catturare con le loro reflex le stesse immagini che infestano le vetrine delle agenzie di viaggi e tappezzano le strade negli sfondi dei cartelloni pubblicitari. Franco Purini ha potuto per questo affermare che la “vera” Venezia in realtà è quella ricostruita fedelmente nei casinò di Las Vegas. Un discorso simile vale per Disneyland:
Il viaggio a Disneyland risulta allora essere turismo al quadrato, la quintessenza del turismo: quel che veniamo a vedere non esiste. Noi vi facciamo l’esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l’America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta di un gioco di immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto, ma che non rivedremo mai più, può mettere quello che vuole. Disneyland è il mondo di oggi, in quello che ha di peggiore e di migliore: l’esperienza del vuoto e della libertà. [14]
Al contrario dei parchi tematici e degli aeroporti – che nascono come nonluoghi – i vecchi quartieri operai delle città – che invece nascono come luoghi – svuotati dei loro valori storici, e manipolati grazie all’evocazione di immaginario vernacolare e puro, in antitesi al caotico consumismo dei sobborghi moderni, attira artisti, musicisti e professionisti in quel processo ormia noto che ha preso il nome di gentrification. Si pensi al londinese Brick Lane – presidio operaio a ridosso dei dock, poi paradiso discografico alternativo negli anni ’80, oggi villaggio pedonale brulicante di studenti alla ricerca di un posto in un ristorante o in un club per il dopocena; o al Pigneto di Roma – quartiere di ferrovieri diventato ora un attrattore del tempo libero. Ma anche tanti borghi contadini, tanti villaggi di pescatori lungo le coste che oggi attirano un turista più esigente rispetto a quello di un Club Mad. In questo caso l’irrealtà è meglio celata dalle facciate storiche, i tetti a falda e i campanili medievali:
Arrivando a Souppes rifletterono, pressappoco nello stesso istante, sul fatto che nulla era cambiato. Del resto, nulla aveva alcuna ragione di cambiare: il borgo rimaneva fossilizzato nella sua perfezione rurale destinata al turismo, sarebbe rimasto così nei secoli dei secoli, con l’aggiunta discreta di alcuni elementi di confort quali gli Internet kiosk e i parcheggi; ma avrebbe potuto rimanere così solo se ci fosse stata una specie intelligente per conservarlo in buono stato, per proteggerlo dall’aggressione degli elementi, dalla voracità distruttrice delle piante.
Il borgo era sempre altrettanto deserto, tranquillamente e quasi strutturalmente deserto; era proprio così che si sarebbe presentato il mondo, pensò Jed, dopo l’esplosione di una bomba al neutrone intergalattica. Gli alieni sarebbero potuti penetrare nelle strade, tranquille e restaurate, del borgo, rallegrandosi della sua bellezza misurata. Se si fosse trattato di alieni dotati di una sensibilità estetica anche elementare, avrebbero capito rapidamente la necessità di una manutenzione e avrebbero proceduto ai restauri necessari; era un’ipotesi al tempo stesso rassicurante e verosimile. [15]
Note:
[6] Suketu Metha, Maximum city. Bombay città degli eccessi, Torino, Einaudi, 2006
[7] Mike Davis, La città di quarzo, Manifesto libri, Roma, 2003.
[8] Jean-Paul Pigeat in Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005,p68
[9] Gilles Clemént, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005, p. 10
[10] Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano 1993. p.73
[11] Michel Houellebeques, La Carta e il Territorio, Bompiani, Milano, 2010
[12] Michel Houellebeques, Op. Cit.
[13] Leonardo Lippolis, Op. Cit.
[14] Marc Augè, Op. Cit. pp.24-25.
[15] Michel Houellebecq, Op. Cit., p.349