di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota
[Piuttosto che. Le cose da non dire, gli errori da non fare (Sperling & Kupfer, 2013), di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, è un saggio sugli errori grammaticali che proliferano nella comunicazione di massa. Queste sono le pagine iniziali del libro (pp)]
Se stilassimo una classifica delle parole, espressioni e modi di dire – il più delle volte errati – che suscitano maggiore fastidio nelle persone dotate di una certa sensibilità linguistica, piuttosto che usato in funzione disgiuntiva al posto di o sarebbe al primo posto, o quanto meno nella zona alta della classifica. Chi faccia una ricerca in rete troverà decine di siti e pagine web in cui si manifesta insofferenza per l’uso di cui qui si tratta; in facebook un gruppo intitolato Aboliamo l’uso improprio del “piuttosto che” piace a un cospicuo numero di naviganti; di Carlotta, che nell’ottobre del 2011 ha lanciato in youtube una videocrociata contro il piuttosto che disgiuntivo, hanno parlato, e bene, radio, televisioni e giornali. Oltre che nel vasto mare della rete, la locuzione ha vari persecutori nel mondo della letteratura e perfino della musica pop. Edoardo Nesi, in un’intervista a “la Repubblica D” del 2 giugno 2012, l’ha definita come una parola che “nel migliore dei mondi possibili” andrebbe abolita; sulla stessa rivista, poco più di un mese dopo, il 7 luglio 2012, gli ha fatto eco Vinicio Capossela, musicista noto e apprezzato in tutta Europa, che ha detto, senza troppi giri di parole, di odiarla. Sembra nutrire profondo disprezzo nei confronti di piuttosto che anche Gianrico Carofiglio, che nel romanzo Le perfezioni provvisorie non perdona al nevrotico, malinconico, autoironico avvocato Guerrieri un “non c’è problema” che gli è scappato di bocca: “Non c’è problema? Ma come parli, Guerrieri? Sei impazzito? Dopo non c’è problema ti rimangono tre passaggi: un attimino, quant’altro e piuttosto che nell’immonda accezione disgiuntiva. A quel punto sei maturo per andare all’inferno, nel girone degli assassini della lingua italiana”.Molti nemici molto onore, potrebbero ribattere i consumatori abituali del piuttosto che in funzione disgiuntiva. Fra costoro, il primo posto spetta di diritto a Michela Vittoria Brambilla, ministra del Turismo dall’8 maggio 2009 al 16 novembre 2011 nel IV governo Berlusconi: non c’è quasi intervento pubblico che la signora in questione non abbia decorato con un piuttosto che usato al posto di o, indipendentemente dall’argomento trattato, dall’Expo 2015 ( “Intendiamo sfruttare gli eventi sportivi piuttosto che le celebrazioni dei 150 anni, l’Expo 2015, tutto quanto può essere importante per portare un incoming dal mondo nel nostro paese”, Destinazione Italia 2020, 31 gennaio 2009) al pericolo comunista (“La sinistra, in varie forme, sono mesi e mesi che continua per interesse di parte e di partito a cercare di gettare fango sulla nostra grande Italia. Io ricordo le pagine dell'”Herald Tribune” acquistate in pieno G8 dall’Italia dei Valori per parlare di mancanza di democrazia in Italia, piuttosto che dichiarazioni antiitaliane contro Italia e contro italiani”, L’ultima parola, 7 maggio 2010) via via fino alle battaglie animaliste (“La necessità di abolire la vivisezione piuttosto che la caccia e quant’altro”, La vita in diretta, 12 dicembre 2012). Le malelingue potrebbero sostenere che questa passione per il piuttosto che sia da attribuire a uno scarso dominio delle strutture dell’italiano. In effetti, l’ex ministra ha dimostrato qualche difficoltà con la grammatica anche in altre occasioni: per esempio quando, nel corso della puntata del 7 maggio 2010 dell’Ultima parola, ha chiesto a Gianluigi Paragone di poter proseguire il suo discorso con uno stupefacente “Mi facci concludere”.
E tuttavia, se riconducessimo il successo di piuttosto che al posto di o alla pura e semplice ignoranza delle regole dell’italiano, faremmo un torto sia a Brambilla sia al piuttosto che, perché ormai questa espressione la adoperano un po’ tutti: giornalisti, conduttori televisivi, medici, avvocati, stilisti, politici e professori universitari. La crescente ostilità che ha suscitato è il segno evidente del suo dilagare: chi mai se la prenderebbe con il vezzo linguistico di pochi?
Piuttosto che è un’espressione dalla storia nobile e antica. Si può ben dire che sia nata e cresciuta con la nostra lingua: compare nei testi più remoti della nostra tradizione scritta, e consolida la sua presenza nell’italiano dei secoli successivi. Si presenta come un’espressione ecumenica, nella quale più parole si combinano nell’unica funzione d’introdurre una comparazione. In origine, peraltro, le parole non erano due (piuttosto e che), ma tre: più, tosto e che. Piuttosto, infatti, nacque dall’univerbazione grafica di due termini originariamente distinti e separati nella scrittura: più e tosto. La grafia unita ha prevalso nettamente su quella separata solo a partire dal Settecento, e l’ha soppiantata completamente solo nel Novecento, visto che qualche occorrenza di più tosto si trova ancora nelle opere di Gabriele D’Annunzio (per esempio, nelle Prose di romanzi: “i mendicanti pativano la fame più tosto che mangiare la carne cotta in quelle pentole”) e in quelle di Luigi Pirandello (per esempio, nel Fu Mattia Pascal: “Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli”).
Qual è l’origine e il significato delle due componenti di piuttosto? Più, il cui valore di comparativo di maggioranza è ben noto, proviene dal latino plus, che oggi qualche anima bella anglicizza pronunciando riprovevolmente plàs; tosto, per parte sua, è un avverbio che significa ‘presto’. Alla sua origine c’è tostus, participio passato del latino torrēre ‘tostare’, che al significato originario di ‘tostato’, ‘essiccato’ (e quindi ‘sodo’, ‘duro’) aggiunse, per probabile mediazione dell’antico francese tost, quello di ‘pronto’, ‘rapido’: di qui il significato di ‘rapidamente’, ‘presto’ assunto dall’avverbio; un significato che possiamo facilmente individuare nell’esempio che segue, tratto dalla versione toscana del Milione di Marco Polo, in cui il viaggiatore veneziano parla di un vino migliore da bere di qualunque altro; un vino, scrive, “chiaro e bello”, che “inebria più tosto ch’altro vino”, cioè “che ubriaca più rapidamente di qualunque altro vino”. Dal significato di ‘più presto’ a quello di ‘molto più’ il passo fu relativamente breve; e così, più tosto divenne una variante rafforzata di più, e più tosto che (diventato in séguito piuttosto che) assunse la funzione comparativa che tuttora ha nell’italiano corretto. La Grammatica italiana di Luca Serianni segnala esclusivamente due usi di piuttosto che: uno comparativo e uno avversativo. In funzione comparativa, piuttosto che equivale a più che (come nell’esempio a); in funzione avversativa, piuttosto che equivale ad anziché (come nell’esempio b).
a: “C’è qualcosa nella selva dei circuiti del cervello che trae profitto dal diradamento, piuttosto che dalla concentrazione dei pensieri” (Edoardo Boncinelli, “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2013)
b: “Intanto, molti di noi conoscono giovani che si sono laureati brillantemente a Roma, ma poi hanno deciso di lavorare a Londra o New York, metropoli sempre a caccia di talenti, piuttosto che rassegnarsi a impieghi sottoqualificati e sottopagati in Italia” (Enrico Marro, “Corriere della Sera”, 31 dicembre 2012).
Le indicazioni offerte da Serianni non costituiscono un esempio isolato nel quadro della nostra grammaticografia. Non c’è libro di grammatica antico o moderno, scolastico o non scolastico, per italiani o per stranieri che contenga il benché minimo accenno all’uso di piuttosto che col significato di o: assenza giustificata, perché quest’uso è sostanzialmente estraneo alla storia della nostra lingua. Inutile cercarne esempi non solo in Machiavelli, Alfieri o Manzoni ma anche – se ci è consentito l’accostamento un po’ spericolato – in Mazzantini, Starnone o Veronesi. I vocabolari si spingono anche più in là delle grammatiche: alcuni dei più recenti, particolarmente attenti alle novità provenienti dall’uso, considerano il piuttosto che con valore disgiuntivo un modo di dire “improprio” (Zingarelli, Treccani), “ambiguo” (Sabatini – Coletti), che crea “confusioni” (Garzanti).
Quando e dove ha cominciato a diffondersi questa tossina grammaticale? Ornella Castellani Pollidori, che giustamente la colloca fra i tratti costitutivi del cosiddetto “italiano di plastica”, l’ha considerata una moda proveniente dall’Italia settentrionale, “sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo” a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. I primi a intercettare golosamente questa infelice novità lessicale furono – precisa la studiosa – i conduttori e i giornalisti televisivi. Dalle loro bocche il piuttosto che disgiuntivo è passato con irresistibile ascesa a quelle degli altri, contaminando linguisticamente un po’ tutti. Noi lo condanniamo senza appello, per tre buoni motivi.
Il primo motivo è che quest’uso è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua. Il secondo motivo è che il piuttosto che abusivamente equiparato a o crea ambiguità nella comunicazione. Mangerò carne piuttosto che pesce: da che italiano è italiano, una frase di questo genere ha indicato una scelta; una o travestita da piuttosto che indica l’esatto contrario di una scelta, e cioè la possibilità di un’alternativa.
Il terzo motivo – in verità poco scientifico, lo confessiamo, ma per noi non trascurabile – è che non ne possiamo più, così di questa come di altre sciatterie linguistiche.
Vogliamo precisare, però, che non ci infastidiscono allo stesso modo tutti gli errori, né ci infastidiscono allo stesso modo gli errori di tutti. Come ha giustamente scritto Valerio Magrelli, è ingiusto infierire contro i parlanti di umile estrazione, di cui si ride in tanti stupidari. Invece, è utile e istruttivo (e, lo confessiamo, anche divertente), fare le bucce a chi di comunicazione vive e vegeta.
Forti di questa convinzione, nel nostro libro abbiamo raccolto un consistente numero di errori fatti da chi, per ruolo o estrazione socioculturale, non dovrebbe permettersi di farli: politici, prelati, giornalisti, personaggi del mondo dello spettacolo e così via. Solo per fare qualche esempio tra gli svarioni più clamorosi, ricordiamo i congiuntivi trascurati o mal declinati da Giulio Tremonti («Se l’opposizione capisce questo, credo che è un passaggio positivo per l’Italia»), Massimo D’Alema («Non è che pensassi che loro vogliono mettermi sotto al camper»), Massimiliano Finazzer Flory, assessore alla Cultura del Comune di Milano della giunta Moratti «Vorrei che la cultura si dasse questa dimensione anagrafica»); l’uso del condizionale al posto del congiuntivo nel periodo ipotetico da parte di Andrea De Martino, prefetto di Napoli («Se io la chiamerei signore, lei che cosa penserebbe?»); i verbi usati come se fossero riflessivi dal cardinale Angelo Bagnasco («Penso, mi auspico di sì»), Daniela Santanchè («Mi auspico, comunque, che siano in molti a farsi avanti adesso»), Nicola Cosentino («Si è detto che mi sono litigato con Angelino Alfano»); l’accoglimento di un verbo al posto di quello di significato opposto da parte di Luca Zingaretti («A me hanno imparato che bisogna mettere in prima fila le urgenze»); i verbi coniugati male da Beppe Grillo («Si stanno liquefando in questa diarrea politica»), Gianluca Nicoletti («Quella sera che maledimmo Bossi»), Mariarosa Mancuso («pur proveniendo dalle migliori serie tv»); gli aggettivi inesistenti di Micaela Biancofiore («C’è una assoluta pervicacia volontà di alcuni di emanciparsi da Berlusconi»), gli accenti omessi da Michel Martone, docente universitario («Un ragazzo a ventitre anni raggiunge il massimo della sua intelligenza poi inizia a bruciare neuroni»). L’elenco degli errori “firmati” è lunghissimo e potrebbe continuare per molte pagine: molti, naturalmente, sono gli errori ortografici favoriti dalla scrittura veloce e sciatta dei messaggi via Twitter. Si va da Gianni Alemanno («un RTF che il mio staff a posto all’attenzione di chi mi segue») a Barbara D’Urso («Posso dire di non aver mai censurato nessuno né su twitter n’è su Facebook!!! Mai!») a Roberto Saviano («Qual’è il peso specifico della libertà di parola?»), fino a Stefano Boeri, assessore alla Cultura del Comune di Milano («Non lasciamo cadere nell’indifferenza il fatto che un’ente locale – ripeto, un’ente locale – dia spazio, a Milano, oggi, a chi predica il razzismo»).
Speriamo che gli autori degli strafalcioni da noi inventariati non ce ne vogliano: essere citati in un libro che aiuta a evitare gli errori li riscatterà dalle brutte figure e li aiuterà (forse) a non ripeterli mai più.
[Immagine: Jenny Holzer, I Can’t Tell You (gm)].
Un piccolo gioiello, grazie di averlo postato.
Segnalo che fra gli adolescenti comincio a sentir serpeggiare “anzi di” al posto di “anziché”. E aggiungo che correggerli puntualmente (e ossessivamente) spesso non porta ad alcun risultato, come d’altra parte correggere gli errori di ortografia, conteggiandoli con severità nel voto (ma questo è un altro e lungo discorso).
Una piccola perplessità sull’analisi di Della Valle e Patota però ce l’ho: in particolare parlando di errori ortografici (in specie nello scritto, insomma), molto dipenderà anche dal fatto che sui social network si scriva senza rileggersi. Immagino che a Saviano l’apostrofo sia scappato, ci può anche stare (lo notava Antonelli qualche settimana fa sul Domenicale del Sole). Non è irrilevante che un testo, prima di essere pubblicato, passi da una due tre revisioni dell’autore e magari anche di un correttore di bozze o che invece sia scritto e subito dato in pasto a lettori e followers et cet. Il problema a monte della sciatteria grammaticale, dunque – banale dirlo – è 1) il diritto a prender parola esercitato da chiunque, in qualunque forma e senza preventiva ponderazione, 2) l’eccessiva facilità di comunicazione che internet ci offre (o il fatto che in tv venga invitato a parlare chiunque, anche la Brambilla. Dite che il problema anche in questo caso è a monte? che è in tv perché era ministro? Già, avete ragione).
Grazie, grazie e ancora grazie!
Non sempre è facile accorgersi di quanto ci lasciamo contaminare dalla sciatteria (non solo grammaticale), specie se l’infezione proviene da fonti tanto “ben piazzate” come quelle citate nel libro.
Una modesta riflessione, tuttavia: agli scrittori la mia mente perdona praticamente tutto poiché in fondo la lingua parlata si modifica plasticamente anche grazie alle espressioni e ai neologismi da loro introdotti. Dei politici che dire? Nella maggior parte dei casi sarei per inserirli nella stessa categoria che Megrelli utilizza per i “parlanti di umili estrazioni”, per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti. Ma per i giornalisti e gli insegnanti non ci può davvero essere pietà!
Tempo fa, quando Umberto Bossi ancora esternava abitualmente il proprio pensiero ai microfoni delle varie televisioni, notai un simpatico “trovare la quadra”: cos’è questa quadra? Nel pittoresco linguaggio del lumbard tutto è giustificabile e comunque vale la regola che indicavo sopra. Ma come ha fatto “la quadra” a trasferirsi dai politici ai giornalisti? E in classe? Davvero, pultroppo la cosa mi perplime parecchio.
Scusate, ma volete rifare o aggiornare il vocabolario della Crusca?
Se vi piace, giocate pure a fare le bucce a « politici, prelati, giornalisti, personaggi del mondo dello spettacolo e così via» ecatalogate i loro errori linguistici.
Ma i politici dovreste valutarli per le scelte politiche che fanno, che di questi tempi son ben più dannose di un ‘piuttosto’ usato male o di altre loro «sciatterie linguistiche».
(E non mi dite che li contestate politicamente in altra sede. Non ci credo. O proprio non si vede).
Comunque, infastiditevi di meno. Tanto le braghe alla lingua parlata nessuno è mai riuscito a metterle. E non sentitevi con la coscienza democratica a posto perché non ve la prendete contro “i parlanti di umile estrazione”!
Ha vagione, Abate. Noi si eva qui, a pavlave fva cvuscanti di dotte questioni di lingua, e ci siamo dimenticati che puve la lingua è politica. Ova integviamo la viflessione con appovti mavxiani e gvamsciani e pvoviamo a stendeve un piano d’azione spavtachista pev fave la vivoluzione pvoletavia, chiedendo scusa anche per i pavlanti di umile estvazione, di cui non abbiamo mai detto male, ma contvo cui noi fighetti del salotto-blog siamo pev condizione e status in difetto.
(Abate, suvvia! Patota e Della Valle sono “solo” due linguisti! Un po’ di tolleranza per la pluralità dei discorsi! E poi chi l’ha detto che il decoro – linguistico e non – è solo borghese?).
Un “centrare” per “entrarci” (“questo non centra”, ecc.) nel “Corriere” di sabato 25 maggio 2013, in un articolo di Andrea Pasqualetto.
«suvvia! Patota e Della Valle sono “solo” due linguisti! Un po’ di tolleranza per la pluralità dei discorsi! E poi chi l’ha detto che il decoro – linguistico e non – è solo borghese? » ( Lo Vetere)
1.
Uno ha detto: non si sentano in obbligo i poeti
di scrivere versi contro la guerra. Giammai!
In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Nessuno pretenda di più da loro.
Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.
Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.
Addetta l’una al massacro permanente
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato
maîtresses entrambe di democrazia
– oh strano accoppiamento! – guerra
e poesia assieme dunque procedano?
2.
La tolleranza è un altro privilegio di chi parla con la erre moscia.
Io non me la posso permettere.
3.
Non di *decoro* ha bisogno la lingua dei non borghesi (da costruire) ma del massimo di *politicità*.
Non esiste la grammatica di destra o la grammatica di sinistra.
Esiste la grammatica.
I politici sgrammaticati sono quasi sempre dei lestofanti.
I veri proletari, che non perdono tempo con i versi stucchevolmente a effetto di Fortini, conoscono l’importanza della lingua: che è una conquista graduale, non un dono dall’alto.
Poi, si capisce, c’è chi riesce a tradurre dal tedesco senza conoscerlo. Ma questi sono eletti di spirito sovraumani…
Mi chiedevo (mentre infuria la discussione tra chi vuole solo politica – le cose – e chi vuole anche la grammatica – parole? -) se solo io provo raccapriccio per l’uso di mettere pronomi personali al dativo con verbi che reggerebbero solo l’accusativo, come “a me colpisce” , “a me spaventa” ecc. La (brutta) sensazione è che si tratti di una specie di ipercorrettismo: “a me mi” non si dice, allora togliamo il “mi”; ma il “mi” richiesto dai verbi di cui sopra non è un complemento di termine (pleonastico perché raddoppierebbe l’ “a me”,) ma è un complemento oggetto. Dei due, casomai, sbagliato sintatticamente, mi sembra, sarebbe proprio l'”a me” che a troppi dispiace sacrificare.
Ben lungi dall’essere un sostenitore dei grammatici che si divertono a fare le mine vaganti sul web correggendo da una parte e dall’altra le sviste di qualche povero malcapitato, e pur non essendo certo un ammiratore dei crociati della buona lingua italiana, non capisco tutto questo accanimento contro una divertente analisi di alcune varianti linguistiche tranquillamente percepibili (chissà per quanto ancora) come “errori” da una comunità colta di parlanti, specialmente se questa viene associata ad una ben fornita lista di criminali, cialtroni e quant’altro. Che poi Gianlorenzo Alderani sostenga che i politici sgrammaticati sono quasi sempre dei lestofanti, è una posizione condivisibile: che esista la grammatica è forse una affermazione più relativa.
Se bisogna commentare adeguatamente l’intervento di Della Valle e Patota, direi costruttivamente, mi viene più da dire che ci sarebbe da prestar forse più occhio alle varianti regionali dell’italiano per capire alcune espressioni. Se poi una affermazione come “mi sono litigato con Alfano” detta da quel criminale di Cosentino, sia una frase grammaticalmente sbagliata, a mio avviso la rilevanza non è poi così grande.
For poetry makes nothing happen: it survives
In the valley of its making where executives
Would never want to tamper, flows on south
From ranches of isolation and the busy griefs,
Raw towns that we believe and die in; it survives,
A way of happening, a mouth.
(ché la poesia non fa accadere niente: sopravvive / nella valle del suo dire dove i funzionari / mai vorrebbero mettere mano; scorre a sud / dalle tenute della solitudine e delle assidue pene, / spoglie città in cui crediamo e moriamo; sopravvive, / un modo di a accadere, una bocca. Trad. N. Gardini)
Scusate… Io che sono proletario senza figli apro il Treccani (la versione in rete, perché sono proletario, senza figli) e sotto ‘auspicare’ leggo:
Ce lo dite a quei fanfaroni della Treccani (o alla maestra, o a qualche altra autorità cruscoide) che io mi auspico non si dice, e che non importa se un’espressione la usano quattro gatti o Tre Cani, se l’autorità cruscoide dice no e l’uomo del monte invece sì, la risposta non è ni?…
Grazie!
La ‘crociata’ intrapresa da Patota e Della Valle mi trova pienamente concorde, anche perché ebbi a denunciare questa vistosa improprietà in tempi non sospetti, ossia una decina di anni fa. Volendo approfondire il discorso, si potrebbe aggiungere che a prima vista un tale fenomeno merita di essere rubricato nell’àmbito dei modismi, che sono quelle espressioni che imperversano per un certo periodo, ricorrendo ossessivamente come autentici tormentoni nei discorsi e negli scritti delle persone più disparate, dal giornalista televisivo all’uomo della strada. Un’indagine sommaria ma attendibile della genesi di questa locuzione e del crescente successo che le ha arriso nel corso degli ultimi due decenni conferma che essa può essere ritenuta a buon diritto di origine settentrionale e, più esattamente, lombarda. Ma come è stato possibile che un sintagma quale “piuttosto che”, dotato di un senso inequivocabile (in quanto adoperato per esprimere una chiara preferenza o propensione), abbia subito uno slittamento semantico che lo ha condotto ad assumere, in modo del tutto improprio, il significato della più comune tra le congiunzioni disgiuntive (la “o” per l’appunto)? Ebbene, se si assume che dietro ad ogni errore linguistico vi sia un meccanismo sociale in grado di determinarlo (meccanismo che è poi la vera forza motrice dell’Uso), allora non dovrebbe essere una forzatura interpretativa ma una fertile ipotesi di ricerca individuare nella transustanziazione di un sintagma comparativo in una congiunzione disgiuntiva l’effetto di quella riduzione della ‘preferenza’ a ‘indifferenza’ che è la legge di funzionamento dell’universo delle merci e del rapporto, nevrotico e fantasmatico, che con tale universo stabilisce il soggetto alienato, l’‘homo oeconomicus’, il consumatore-tipo. Una controprova della verità di questa interpretazione è offerta dalla circostanza che mai, nell’epoca di Giuseppe Verdi, quando il mercato nazionale e lo Stato unitario si stavano formando e sviluppando, mai dico, nonostante le non poche licenze poetiche (e incongruenze semantiche) di cui sono costellati quei testi, sarebbe venuto in mente ad un librettista di mettere in bocca a Rigoletto un’espressione così sonante: «L’una piuttosto che l’altra per me pari son…».
qualche esempio di comunicatori e classe dirigente:
saviano ha usato in diverse occasioni televisive il piuttosto che disgiuntivo, da che tempo che fa a un’intervista su repubblica tv.
in un’intervista video per la rivista marie claire lo sentii dire pure a gianluigi ricuperati, fra l’altro mentre magnificava l’importanza della cultura.
poi ricordo luigi angeletti, il segretario della uil a ballarò, che disse:
”Noi dovremmo produrre, costruire, almeno 200.000 posti di lavoro ogni anno per evitare che tutti coloro che entrano nel mercato del lavoro, cioè soprattutto i giovani, rimanghino disoccupati per chissà quanti anni”
e infine paola calvetti, che al tg3 linea notte, mentre recensiva bianca come il latte ecc di d’avenia disse “pelle diafàna”.
grazie grazie grazie…sono anni (senza esagerazioni) che tento di confutare e quindi bandire per sempre l’uso improprio di questa locuzione…credo che la stampa di questo vostro eccelso saggio (non me ne voglia il ramo che spreco) sarà per sempre con me…ma forse gli interessati arriveranno alla terza riga…
Va tutto benissimo, la vigile coscienza linguistica non va abbassata, ma forse non è il caso di indignarsi fuori misura. Non è bello sentir dire “rimanghino” a persone che, per ruolo politico o culturale, dovrebbero maneggiare un italiano almeno corretto, pur se non forbito (c’è una scala di gravità negli errori, e questo è pesantuccio davvero); però, nonostante tutto, non mi scandalizzerei troppo per l'”ipocrisia” di Ricuperati che magnifica la cultura proprio mentre usa il malefico “piuttosto che”.
Magnificare la cultura infatti è un gesto affatto consapevole, mentre il fiume di parole che usiamo quotidianamente scorre spesso ad un livello appena sotto o sopra la soglia della consapevolezza e gli scivoloni sono in agguato. Anche i colti vivono nel mondo, anche per loro la lingua quotidiana è in primo luogo un fatto istintivo di mimesi sociale: (1) capita di sapere razionalmente che un’espressione non va usata e tuttavia di “sentirsi” dirla; (2) capita di non avere coscienza di quello che all’orecchio di un altro è un orrendo strafalcione.
(1) Il sempre controllatissimo Augias, qualche settimana fa ha voluto, un po’ giocosamente e spericolatamente, fare ricorso al passato prossimo di “eccellere” e la capriola gli è riuscita male: “in quel campo è sempre eccelluto… si dice così?”, chiede all’ospite, che risponde “eccelso” (mentre Augias già gli faceva eco, con un sorriso di tale autoironia e stile che gliel’abbiamo immediatamente perdonata, anche se sogghignando).
(2) La spalla di Crozza, Andrea Zalone, venerdì scorso ha detto “non mi oso”. Immagino che nove decimi degli spettatori italiani siano inorriditi. Io, che ignoravo la sua provenienza, mi sono intenerito: “paisà”, ho pensato. Qui in Piemonte, o almeno qui a Torino, “osarsi” per “osare” è la forma ricorrente del nostro italiano regionale (credo che capiti per influsso del piemontese, ma non conosco il dialetto. Comunque io stesso ho usato con perfetta tranquillità l’espressione fino agli anni inoltrati dell’università: non veniva dalla tv, non era una moda, la usavano tutti, ma proprio tutti; dunque sarà giusta, pensavo, anzi NON pensavo). In una città sociolinguisticamente particolare come questa, dove il dialetto è stato fortemente marginalizzato, ci sfugge che anche il nostro è un italiano regionale, e pensiamo invece di parlare “L”‘italiano, lo standard, la norma valida in ogni tempo e in ogni luogo (se è vero che oggi l’italiano è il “fiorentino in bocca ambrosiana”: ma forse si dimenticano gli altri due vertici del triangolo industriale, Torino e Genova). Insomma, un romano sa che se tronca i verbi non sta a parla’ italiano standard, ma l’italiano di Roma e può correggersi: il torinese invece pensa di essere ecumenico (con una certa arroganza, pure) se dice “ho già parlato troppo: non mi oso andare oltre e qui mi fermo”.
Ah , per non parlare del nostro “facciamo che” (“facciamo che andare?”) e del nostro “hai voglia” (“hai voglia di passarmi il pane”?, cui il parlante non torinese / piemontese potrebbe anche rispondere: “no, non ho voglia”. Ma noi intendiamo “puoi passarmi” ed è cafone rispondere no ad una risposta tanto cortese: lo sappia chi parla con uno di noi).
Giuro che queste due espressioni, se non sono ipercontrollato, le uso eccome, anche oggi. Per non fare brutte figure, dovrei forse evitare di parlare con stranieri di oltre regione.
ah, dimenticavo: il piuttosto che di ricuperati era pronunciato in un’intervista che celebrava la sua fresca nomina a direttore della domus academy. io credo che dalle nostre classi dirigenti, soprattutto intellettuali, si debba pretendere almeno l’uso corretto della propria lingua (corretto, non forbito).
Ha ragione, Garufi, sono d’accordo con lei. Siamo d’accordo, se mi rilegge bene, anche sull’italiano “almeno corretto, non forbito”.
Io volevo solo rimescolare un po’ le carte fra colti e meno colti, perché non si creda che solo i primi sanno quello che dicono, mentre i secondi imiterebbero la lingua che sentono come le scimmie. Questo è talmente vero che a volte anche gli stessi colti (spero di potermi considerare nel novero), evitano certe forme più per snobismo che per vera consapevolezza: ad un certo punto decisi, irritato, che si potesse dire solo “siuspans” e non “sàspens” (e correggevo anche i miei allievi), visto che la parola – così ritenevo – si scriveva “suspence”, fino a quando, dopo una perplessa discussione con una collega, mi venne il dubbio e finalmente controllai sul vocabolario, scoprendo che la parola si pronuncia all’inglese (pure se esiste anche in francese). Per una volta, i miei concittadini “ignoranti e anglofili” avevano ragione.
http://www.youtube.com/watch?v=X6J6HEbfO38
Qualcuno che mi risolve questo? :-p
Cmq Saviano l’apostrofo su qual*è lo mette con cognizione di causa.
“io credo che dalle nostre classi dirigenti, soprattutto intellettuali, si debba pretendere almeno l’uso corretto della propria lingua (corretto, non forbito).” (Garufi)
Lo specialismo acceca. Il grammatico misura la sua classe dirigente dall’uso corretto della lingua. Il medico dall’uso corretto dei finanziamenti alla sanità. Il generale dall’uso corretto dei finanziamenti alle guerre umanitarie. E, così via corporativizzando, si potrebbe continuare.
Ma che me ne faccio di una lingua corretta e non forbita se le nostre classi dirigenti continuano a mentire, rubare, intrigare, menare il can per l’aia sulla crisi, servire padroni più potenti al posto del popolo o dello Stato di cui si dichiarano servitrici?
Senza politica vera non c’è neppure *politicità* vera (corretta e non forbita) della lingua, che è la cosa essenziale per dire verità utili per tutti.
Asservita com’è a questi corporativismi comodi e con la puzza sotto al naso, oggi la lingua serve solo per chiacchierare nelle accademie e scambiarsi salamelecchi di riconoscimento sui blog tra intimi compiacenti. Piuttosto che…
Io dalle nostre classi dirigenti pretenderei almeno che dirigessero, se possibile nell’interesse dell’Italia (che comprende anche la lingua italiana).
Riporto un episodio del recente passato (più o meno il 2003).
Convegno UE, alla presenza dei capi di stato e di governo. Si parla di economia, di globalizzazione e altre cianciafruscole.
Un megamanager di azienda pubblica francese sale sul podio, e attacca a parlare in inglese.
Chirac, il vecchio imbroglione Chirac, all’istante si alza in piedi e se ne va. Bravo Chirac, qualcosetta hanno comprato i soldini del contribuente francese che ti sei fregato.
La proposta di rendere obbligatorio all’università l’insegnamento delle discipline in lingua inglese è stata giustamente definita un atto di servilismo da Claudio Magris, uno dei pochi esponenti lucidi e sensibili di un mondo della cultura, qual è quello italiano, che sembra aver ormai rinunciato, in larga parte, ad esercitare una funzione, non dico di orientamento ma anche solo di testimonianza, nei confronti dell’opinione pubblica nazionale. La proposta è l’esatto corrispettivo, in campo linguistico e culturale, della crescente alienazione di sovranità nazionale, della colonizzazione economica e finanziaria e della tendenziale vanificazione dell’indipendenza politica, che segnano questa fase infelice della storia del Bel Paese. Così, la condizione della nostra lingua di fronte all’avanzata di quel bulldozer della globalizzazione linguistica che è il ‘basic english’ fa venire in mente, per analogia, la tragica sorte di quel popolano che, nel romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte, viene travolto e schiacciato da un carro armato americano, mentre festeggia l’arrivo delle truppe alleate in una città dell’Italia centro-meridionale.
Orbene, se è vero che sia la Francia sia la Germania, l’una sempre attenta alla difesa del prestigio della sua cultura e l’altra quanto mai cauta (per comprensibili ragioni) nel rivendicare una propria identità, hanno promosso importanti campagne per la salvaguardia e la valorizzazione delle rispettive lingue, è difficile, per converso, scorgere nel nostro paese una sensibilità diffusa per questo problema e, quindi, una capacità di iniziativa che sia all’altezza delle sfide e delle insidie che provengono dal progetto di ‘snazionalizzazione’ perseguito dall’imperialismo euro-americano. Eppure la necessità di rispondere alle une e alle altre con un’azione energica e multiforme di difesa e valorizzazione della lingua italiana è riconosciuta da studiosi non solo delle discipline umanistiche, ma anche delle cosiddette ‘scienze dure’. Né è mancata l’individuazione del punto archidemico di una politica linguistica che ostacoli l’avvento di un “medioevo prossimo venturo”, in cui la comunicazione corrente sia assegnata al linguaggio tendenzialmente non-proposizionale degli ‘sms’ inviati con i cellulari e la comunicazione culturale al ‘basic english’.
Non si tratta di restaurare il purismo lessicale, si tratta invece di garantire la centralità e l’efficienza della sintassi, vero sistema osseo di qualsiasi linguaggio, seguendo in ciò gli esempi di una lingua chiara, precisa ed elegante, che ci hanno offerto in questi ultimi decenni scrittori, poeti, saggisti e filosofi come Moravia, Calvino, Fortini e Bobbio, ciascuno dei quali ha mostrato di quali grandi potenzialità e di quale straordinaria versatilità sia dotato il dèmone che ci fa parlare e scrivere.
Certo, come ebbe ad affermare Saverio Vertone in un appello diffuso alcuni anni fa per sostenere e promuovere la lingua italiana, la nostra lingua non è così lessicalmente ricca e duttile come l’inglese, non è così geometrica e apodittica come il francese, non è così produttiva di parole e di concetti come il tedesco, non è così magmatica e melodiosa come il russo; anzi, è una lingua un po’ rigida e non particolarmente ricca di sfumature espressive nella descrizione delle sensazioni, perché è una lingua fortemente controllata dall’intelletto. Tuttavia, se si sa usarlo, l’italiano può diventare e-spressivo, geometrico, sensuale, nitido, semplice e tagliente come nessun’altra lingua. E si dimostra di saperlo usare quando si rispetta la linearità, che è l’autentico nume tutelare della nostra lingua, la forza che fa di essa, una volta eliminate le ridondanze auliche, i vezzi snobistici e le oscurità burocratiche, una lingua dura, lucida e consequenziale: una spada, non solo un fodero.
Pertanto, la fedeltà al genio segreto della nostra lingua e alla sua vocazione profonda e perenne, che è la sintassi, e la consapevolezza che i problemi linguistici sono, nella loro essenza, problemi che coinvolgono il ‘logos’, il ‘pathos’ e l’‘ethos’ (vale a dire il ragionamento, le emozioni e la moralità), debbono essere il lievito di quella rinascita di interesse e di amore per la lingua italiana cui sono chiamate a contribuire tutte le istituzioni e, in particolare, la scuola. Non solo per impedire che, a causa della solidarietà antitetico-polare fra idolatria del globale e idolatria del locale, con la de-generazione della lingua degeneri la vita stessa, ma anche e soprattutto per contribuire, pur in un periodo così folto di spinte regressive, alla difesa e al rilancio dell’identità nazionale, che nella lingua di Dante, di Machiavelli, di Galileo e di Manzoni ha il suo presidio più saldo e il suo stimolo più potente.
@ Garufi
Astemio da una vita. Tu, da come rispondi, maleducato di sicuro, anche se con i tuoi superiori e quelli del tuo giro usi un linguaggio corretto e forbito.
Complimenti a Eros Barone per il suo intervento, che sottoscrivo.
Che poi si possa maneggiare bene l’italiano ed essere, restare, diventare delle m***, non c’è dubbio (tanto per dire, alla maturità Galeazzo Ciano risultò il migliore liceale d’Italia).
Se l’alternativa fosse: classi dirigenti raffinatamente italofone e servili/classi dirigenti strafalcioniste e coraggiose, voterei con gioia per tutti i “piuttosto che” di questo mondo.
Però, l’alternativa non è quella. Anzi, direi proprio che oggi, lo squallore e peggio delle classi dirigenti italiane si sposa felicemente con il loro disinteresse e forse anche odio per l’identità nazionale, della quale la lingua fa parte a pieno titolo.
Quindi, almeno oggi, tutto si tiene: classi dirigenti pessime e dittatura del “piuttosto che”.
Francamente, solidarizzo con Ennio Abate, anche se in genere non mi piace quel che scrive.
Che razza di maniere sono queste? La redazione non dovrebbe immediatamente intervenire per cancellare gli insulti?
Che ragione c’era di dargli dell'”ubriaco” nel bel mezzo di una discussione (anche) sulle buone maniere?
Non mi piace proprio tutto questo.
la madre dei benaltristi è sempre incinta. non nego che questa deriva ioneschiana possa avere un suo fascino, tipo irrompere all’accademia della crusca urlando “che ce ne facciamo dell’uso corretto della lingua se i politici rubano?” (salvo poi obiettare la stessa cosa a un dibattito sulla corruzione in nome della carestia in africa o dell’uso di armi chimiche in siria), ma io continuo a pensare che il discorso sulla lingua sia molto meno irrilevante e da specialisti di quanto si creda. lo spirito del tempo si nutre di un linguaggio basico. è il c.d. antielitismo, fondato sul rifiuto del principio di autorità e sull’aristofobia (cioè il disprezzo delle eccellenze intellettuali, vedi l’urlo di brunetta contro le élite di merda), ad aver portato al potere berlusconi da noi e bush negli usa. e il linguaggio è il suo strumento più efficace. mentre prima il potere si esprimeva in modo quasi incomprensibile, dal latinorum dell’azzeccagarbugli che atterriva renzo agli spericolati ossimori democristiani (“le convergenze parallele”, “la sfiducia costruttiva” ecc), oggi parla come fantozzi (“rimanghino” di angeletti, ”che c’azzecca” di di pietro, “la lega ce l’ha duro” di bossi) per produrre identificazione e non suscitare soggezione nell’elettore medio. peccato che questo spirito del tempo abbia fatto presa pure sulle sue prime vittime, noi poveri amish dei libri.
@ Gianlorenzo Alderani
secondo me esageri. Garufi è stato divertente, eppoi suvvia, che insulto è “ubriaco”. Abate scrive spesso qua, ed è apotiddico come solo gli ubriachi sanno fare ( apodittismo al quadrato ). In più, e glielo dissi tempo addietro, scrive sempre come se fosse l’ultima cosa che fa, il che a suo modo è apprezzabile. Un po’ di sane scazzottate verbali ci stanno, basta un minimo di rispetto. Poi una scazzottata in una discussione sulle buone maniere è il massimo.
A me invece non è piaciuto molto il finale del commento di Eros Barone, che se non ho capito male vuole difendere e rilanciare l’identità nazionale. Vi ho letto una sorta di delirio giobertiano, giusto per spararla grossa, tanto non mi caga nessuno.
Porcaccio mondo, ma qualcuno ha visto il link che ho messo? la redazione non dovrebbe intervenire in difesa dei lettori affezionati ed emarginati?
Dfw vs Jf:
“Garufi è stato divertente, eppoi suvvia, che insulto è ‘ubriaco’. ”
“se non ho capito male vuole difendere e rilanciare l’identità nazionale. Vi ho letto una sorta di delirio giobertiano, giusto per spararla grossa, tanto non mi caga nessuno.”
Attendiamo il prossimo rilancio. Un bel bestemmione contro i deliri giobertiani, perché no?
due appunti a margine. il primo è una constatazione: lo specialismo avrà i suoi difetti, ma la tuttologia non è certo la soluzione; mentre il secondo un vero e proprio rompicapo, un paradosso che neanche zenone o crizia: chi sono i superiori di un disoccupato?
Si può dire, qui e ora, io amo Garufi, senza per questo essere accusato di arrivismo e di carrierismo, nel senso di voler togliere il lavoro a qualche fidèle habitué del commentarium dei post del prof. Buffoni?
Se sì, grazie in anticipo.
UC
per carità Buffagni, niente bestemmie. Spero che Abate non si sia offeso e a mia volta non voglio offendere. Giobertiano però penso che ci sta tutto, senza delirio ( Gioberti a parte ).
a Dfw vs Jf
Nel contesto attuale, penso che né Abate né Dio se la prendano per così poco, ci avranno fatto il callo.
Quanto a Gioberti, se anche resuscitasse dubito che gli salterebbe in mente di scrivere del primato degli italiani, né il morale né il civile; gli unici primati italiani odierni che mi vengono in mente sono nella pallanuoto, nel tiro al bersaglio, nel fioretto e nel numero di telefonini.
In questo poco esaltante panorama, fra poco allietato dallo ius soli, l’esortazione di Barone “alla difesa e al rilancio dell’identità nazionale” più che giobertiana mi pare leopardiana, nella linea di “All’armi! Sol io combatterò, procomberò sol io!”
Ciò non toglie che al parlante e scrivente italiano un minimo di interesse lo dovrebbe suscitare, la sopravvivenza presente e futura della sua lingua materna, e la sua capacità di destreggiarsi anche fuori dagli usi domestici e affettivi, insomma di non restare sempre in ciabatte. Se basta che si lavi la faccia e si infili un tailleurino per far suonare l’allarme antigiobertiano, la vedo male per i nostri figli.
P.S.:
“Giobertiano però penso che ci sta tutto”
meglio
“Giobertiano penso che ci *stia* tutto”
Beh, sull’annosa questione della lingua e dello stile io non ne so granché, mi trovai d’accordo ( se non lessi male ) con Giunta circa il difendere, anche economicamente, le istituzioni deputate al passaggio di testimone, e per il resto di non preoccuparsi troppo di difendere la lingua, una battaglia senza un vero e proprio fronte. Però circa il riferimento giobertiano, probabilmente improprio, a me colpisce non tanto l’idea che possiamo avere o meno dei primati, ma il fatto che ci teniamo a distinguerci o a chiamarci italiani. Allora prendiamo Mazzini e il suo scritto sulla letteratura europea. Parentesi OTtica (lo ius soli concettualmente ha lo stesso difetto dello ius sanguinis: si basa sull’appartenenza particolare, quando noi dovremmo aspirare alla realizzazione dei diritti universali del cittadino, contraddetti dalla carta d’identità).
Ciance paralipomeniche in omaggio all’ubriacchezza e alla lingua:
A me Baricco piace ( e ‘sti cazzi!!! ), da queste parti l’ho anche difeso, però ad esempio in una conferenza disprezzò l’uso degli emoticons, come pratica che impoverisce il pensiero. Quindi non l’abuso, ma l’uso stesso. Male.
Sul *ci stia* mi ha riportato alla mente una delle mie prime discussioni pre-adolescenziali con i miei amici: eravamo tutti ignoranti, io però stavo dalla parte del *ci stia*.
Grami i commenti su LPLC negli ultimi tempi, eh! E sempre più grama la vita di chi dissente e muove critiche. Infatti, della vivace “vecchia guardia”, quella degli inizi del blog (Massino, Averroè, Donnarumma, Gerace, ecc.), si son perse le tracce. E pare che l’unico bastian contrario sia rimasto io, assieme a Buffagni, che però s’è aggiunto dopo.
Ora non voglio distrarre dalla discussione sul tema. Però faccio notare soltanto che la mia tesi non è quella che mi viene attribuita (“che ce ne facciamo dell’uso corretto della lingua se i politici rubano?”).
Ho fatto presente, perché la cosa mi scandalizzava, che la tendenza a misurare una classe dirigente (specie quella politica) dall’uso corretto della lingua è il segno del degrado politico in cui sono precipitati gli intellettuali d’oggi. I più in vista, dalle ancora comode cellette dei loro specialismi, tacciono o non si pronunciano mai direttamente sulle malefatte di chi ci governa. (Su questo blog anche Piras negli ultimi tempi latita, mi pare…). E preferiscono o dissimulare (onestamente?) il loro pensiero sui potenti di turno o, al massimo, metterne alla berlina qualcheper versione nella vita privata o tic o sgarbo. (Ve lo ricordate il post intitolato «Volgarità di Mario Monti» http://www.leparoleelecose.it/?p=7126 ?). E questo nel Paese che si vanta (va) di aver avuto Machiavelli, ma anche il liberale Croce.
Del quale, da un sito che di politica ancora seriamente dibatte anche se a volte disperatamente e con una certa acrimonia, rubo questa citazione (sperando che anche Croce non passi per ubriaco):
«“un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della «onestà» nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica. Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo. Tutt’al più, qualche volta, episodicamente, ha per breve tempo fatto salire al potere in quissimile di quelle elette compagnie, o ha messo a capo degli Stati uomini e da tutti amati e venerati per la loro probità e candidezza e ingegno scientifico e dottrina; ma subito poi li ha rovesciati, aggiungendo alle loro alte qualifiche quella, non so se del pari alta, d’inettitudine”.»
(http://www.conflittiestrategie.it/il-movimento-5-stelle-e-gia-allo-stallo)
Quanto alla miopia o alla cecità (sempre politica) che lo specialismo comporta, una rilettura del vecchio Sartre non farebbe male. Poi si potrà dire che Sartre è invecchiato ( quanto Marx ed altri) o che oggi le cose vanno poste in modo diverso (come sosteneva Claudio Giunta qui: «La quarta cultura non farà prigionieri. Su Jerome Kagan, “Le tre culture”», http://www.leparoleelecose.it/?p=9463.), ma almeno si eviterebbe di scambiare chi critica lo specialismo per un aspirante tuttologo o un antielitario coi paraocchi.
P.s.
Ringrazio Alderani per la solidarietà. Non la redazione di LPLC che ha preferito il no comment.
A Garufi e a Dfw vs Jf dico solo: Argomentate, se ne siete capaci. Non etichettate.
Infine, non mi pare che dissentire da un’opinione (quella di Garufi; e prima di Lo Vetere) sia segno di mancanza di rispetto.
Devo confessare che la taccia di ‘giobertiano’, con i tempi che corrono, mi gratifica (anche se io sono un marxista la cui formazione gramsciana è stata integrata da apporti leopardiani, come ha osservato con la consueta acutezza Roberto Buffagni). Sono infatti fermamente persuaso che l’endiadi fra identità nazionale e lingua italiana sia oggi, particolarmente nel nostro Paese, un problema fondamentale. La lingua letteraria è stata indubbiamente uno straordinario strumento di coesione, capace di gettare ponti sulle molteplici rotture che hanno segnato la storia italiana. Qui è facile constatare che, accanto a processi di unificazione, si sono manifestati altrettanti processi di diversificazione regionale o locale, che hanno dato luogo alla policromia di un panorama tematico e linguistico che non ha eguali e caratterizza la nostra letteratura (e la nostra cultura) in modo inconfondibile.
D’altronde, se ci si pone da questo punto di vista, è facile osservare che l’identità italiana, quale si manifesta nelle opere di narratori, poeti, storici, filosofi e scienziati molto diversi fra loro, coniuga l’unità con la diversità. Diversi, spesso, ma anche uniti i nostri scrittori: lombardi, ma italiani; siciliani, ma italiani; veneti, ma italiani; romani, ma italiani. E viceversa: italiani, ma toscani; italiani, ma piemontesi; italiani, ma napoletani. In Italia è altrettanto vero che non vi è unità senza diversità quanto che non vi è diversità senza unità. Senza unità non vi è mai stata e non vi è cultura; non vi è letteratura ma solo disgregazione, folclore, mitologia tribale. E tale è stato il ‘Leit-motiv’ dei nostri più grandi scrittori, da Dante a Manzoni, da Verga a Pirandello, da Boccaccio a Calvino.
Sennonché l’identità italiana, se per un verso si inscrive storicamente nella formula “nazione antica, Stato giovane”, è per un altro verso qualcosa di instabile e, a tratti, quasi sfuggente, come hanno comprovato con le loro opere gli scrittori e i poeti che della formazione della lingua e della letteratura italiana sono stati i protagonisti. Scrittori e poeti che andavano appassionatamente alla ricerca di qualcosa che non c’era, quando non c’era, e di qualcosa che non si sapeva bene che cosa fosse, quando sembrò che ci fosse. Questa ricerca è stata una costante del modo di essere degli italiani nella storia, una forma dell’identità anche questa, per quanto assai singolare.
Alessandro Manzoni ha fornito nell’ode “Marzo 1821” una definizione dell’idea di nazione che corrisponde in modo magistrale alla realtà e alla cultura di un’epoca situata tra “due secoli, / l’un contro l’altro armato”: “Una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”. Così, riflettendo sui diversi elementi di questa definizione, è facile verificare che nell’Italia contemporanea, accanto alla difesa e al rilancio dell’unità statale e della consapevolezza storica della nazione (difesa e rilancio insidiati e perfino ostacolati dalle non poche rotture e spinte antiunitarie che hanno attraversato la storia secolare di questo paese non sempre fortunato), sono da costruire in termini nuovi, che vadano oltre i ristretti orizzonti ottocenteschi del nazionalismo, sia l’unità “di sangue” che quella “d’altare”, che oggi, a causa del sorgere e dello svilupparsi di una società multirazziale e multireligiosa, non costituiscono più le chiavi dell’identità italiana.
Resta invece sempre importante, e assume oggi un valore strategico, la salvaguardia e la ricostruzione del fondamentale fattore rappresentato dal sentimento nazionale (“una di cor”), che, intrecciato con il fattore linguistico-letterario, può contribuire, a oltre centocinquant’anni di distanza dall’Unità, a formare una rinnovata coscienza nazionale in termini di patriottismo costituzionale e di apertura e dialogo verso le altre civiltà in cui affonda le sue radici o con cui ha contratto debiti significativi la civiltà italiana. Tale valore, che va riconosciuto al fattore linguistico-letterario come chiave primaria ed essenziale per la formazione dell’identità nazionale, particolarmente fra le nuove generazioni, ha trovato una rappresentazione esemplare, per contenuto e per tono, nelle parole di uno scrittore contemporaneo, Raffale La Capria, alla cui intensa testimonianza è doveroso affidare la conclusione di queste brevi ma, si spera, non inutili considerazioni: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia e in-sieme di rendere omaggio al civilissimo senso comune dei patrii numi».
Caro Barone,
il suo bell’intervento dice tutto quel che si può dire in una pagina. Bel problema conciliarlo con chi, come Dfw vs Jf ma anche le nostre classi dirigenti, pensa che “lo ius soli concettualmente ha lo stesso difetto dello ius sanguinis: si basa sull’appartenenza particolare, quando noi dovremmo aspirare alla realizzazione dei diritti universali del cittadino, contraddetti dalla carta d’identità).”
E perché non estenderli anche alla galassia, questi diritti universali del cittadino? Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno.
In quale lingua declineranno i loro diritti universali i cittadini galattici, resta da vedere. Chissà, forse la lingua degli angeli (“Non Angli sed Angeli”, esclamava un papa medievale). E agli angeli, si sa, non hanno mamma; saltando così ad ali spiegate il fastidioso problema della lingua materna.
Caro Abate,
scusi il ritardo. Lei e Croce dite cose di elementare buon senso, e ben note, e le dite anche in buon italiano: però, a quanto pare non arrivano a destinazione.
Dipenderà da problemi linguistici o politici? Non lo so. Certo che i rivolgimenti politici alterano radicalmente almeno *la ricezione* della lingua; e il contesto sa cambiare il significato delle parole.
Diritti, democrazia, riforme, economia, nazione, Europa [segue]: pensando a quel che significavano queste parole solo venti o trent’anni fa e a quel che significano oggi, si capisce al volo che lingua e politica sono meno lontane e indipendenti l’una dall’altra da quel che pare.
Prendiamo ad esempio il discorso alla Camera che l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allora parlamentare del PCI, tenne il 14 dicembre 1978:
“Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, di ripartire dalla posizione assunta da noi di fronte alle indicazioni scaturite questa estate dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europee, combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l’euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l’euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell’Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico.
Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: ‘Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea’.
Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione.
Queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di principio favorevole e che escludesse l’entrata dal primo gennaio nell’euro, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata?
No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi a una risoluzione che assume le caratteristiche ristrette di una unione monetaria, le cui caratteristiche rischiano per lo più di creare gravi problemi ai Paesi più deboli che entrino a farne parte. Naturalmente non sottovalutiamo l’importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità, è vero anche che esse sono il riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli Paesi.
La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è finito per mettere il “carro” di un accordo monetario davanti ai “buoi” di un accordo per le economie.
Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega Cicchitto) delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci da governi amici. Queste sollecitazioni confermano l’esistenza di un reale e forte interesse degli altri Paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più presto presente nell’euro. Si sarebbe, dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando adesione immediata, per portare avanti un serio negoziato. Ma se ci si vuole, onorevoli colleghi, confrontare con i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di maniera. Si è giunti a sostenere che “l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno all’euro, ma se recidere” – dico recidere – “o meno i suoi legami con i Paesi dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico”. Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su alcun argomento razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era davanti tal nostro Paese.
Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra – eludendo la difficile strada della ricerca del consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della sua linea ispiratrice, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario.”
http://www.rivieraoggi.it/wp-content/uploads/2013/01/napolitano.pdf
Dal 1978 a oggi sono passati appena 35 anni: molti per un uomo, pochi per la lingua italiana.
Eppure, a giudicare da quel che il Presidente Napolitano dice oggi, dalla lingua italiana così com’è parlata, nel contesto della massima ufficialità, dal più alto esponente delle istituzioni nazionali, sono totalmente sparite le parole:
1) “europeismo retorico e di maniera”
2) “resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità”
3) “risoluzione che assume le caratteristiche ristrette di una unione monetaria, le cui caratteristiche rischiano per lo più di creare gravi problemi ai Paesi più deboli che entrino a farne parte”
4) “quello delle garanzie da conseguire affinché l’euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell’Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico.”
5) “decisione precipitata e arrischiata”.
E hanno assunto significato affatto opposto le parole:
6)” sinistra” e ” sostanziale distorsione della sua linea ispiratrice”.
E’ un fenomeno quanto meno interessante, se non addirittura stupefacente, del quale sarebbe bello che qualche filologo ci proponesse un’analisi.
@ Abate
Non ti volevo etichettare. Penso che Garufi abbia solo espresso una volontà e che tu ci hai visto più di quel che era.
@ Buffagni & Barone
Io non credo nell’identità nazionale. E faccio fatica a capire come un marxista ne parli continuamente. Poi resto sgomento ( no vabbè, sgomento è esagerato ) di fronte all’affermazione che senza unità non vi è cultura. Poi non credo che le nostre classi dirigenti si interessino dei diritti dei marziani.
Infine Saviano:
http://leonardo.comunita.unita.it/2011/12/23/lapostrofo-che-ha-inguaiato-saviano/
a Dfw vs Jf
S’era capito che lei non crede nell’identità nazionale. Non è solo. Non mi è chiaro che cosa vuole sostituire all’identità nazionale (forse il tesserino della metro?) ma questo è un altro discorso.
Quanto al suo stupore per il marxista che parla di identità nazionale, ha delle giustificazioni, in quanto è certo vero che il movimento comunista fu internazionalista e avverso ai nazionalismi e persino ai patriottismi.
Non parlo pro domo mea, ma se non rammento male, però, Marx rimandava la sparizione degli Stati (e dunque delle identità nazionali) alla nuova epoca che avrebbe segnato la fine della “preistoria” dell’umanità, cioè alla realizzazione piena del comunismo, utopia che non si è realizzata.
In tempi storici e a lui contemporanei, invece, invitava a sostenere la lotta di resistenza nazionale dell’ “emiro dell’Afghanistan” contro l’ Impero inglese; e per venire a tempi più recenti, i partiti comunisti europei mai si sognarono di chiedere la cancellazione delle identità nazionali a favore di una cittadinanza universale che ha l’indubbio pregio di essere impeccabilmente scevra di colpe storiche passate e future, visto che non è mai esistita né mai esisterà.
a Dfw vs Jf
Gli indirizzi inaugurali che accompagnarono il Congresso di fondazione della Prima Internazionale (Londra, St. Martins Hall, 1864) contenevano numerosi ordini del giorno approvati a favore dell’indipendenza polacca. Si riconosceva infatti alla Polonia, smembrata dall’oppressione zarista, austriaca, prussiana, lo “status” di nazione martire. Nell’atto fondativo della prima organizzazione internazionale dei lavoratori comparve quindi, assieme al riconoscimento della necessità della lotta di classe, il riconoscimento esplicito della necessità della lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli oppressi.
Già nel 1847-1848 Marx ed Engels avevano pubblicato un’infinità di articoli e lettere sulle varie riviste democratiche e liberali d’Europa e d’America, a favore delle lotte nazionali dei paesi oppressi (l’Italia era fra questi) contro la dominazione degli imperi coalizzati nella Santa Alleanza. Friedrich Engels trovò perfino il tempo per dedicarsi ad una ricerca d’archivio il cui scopo era quello di verificare se la sua compagna, Mary Burns, scozzese di origine irlandese, fosse una discendente del casato di quel Robert Burns, che fu un grande poeta nazionale scozzese e combattente per la libertà della sua terra dall’oppressione inglese. La ricerca produsse risultati deludenti, ma attesta la considerazione in cui erano tenute, da Marx e da Engels, le cause delle nazioni oppresse.
L’Irlanda era una di queste e uno dei motivi della rottura fra Marx e i dirigenti inglesi del movimento cartista (che pure il Nostro stimava grandemente) risale proprio alla questione dell’indipendenza irlandese, che questi osteggiavano. Come ci riferisce Eric J. Hobsbawm, Engels si trovò ad assistere a una strage di civili, avvenuta a Londra in seguito ad un attentato dinamitardo degli indipendentisti irlandesi. Ne risultò profondamente scosso e turbato, lui che era un vecchio soldato delle guerre antiassolutistiche che si erano combattute in Germania durante e dopo il 1848. Eppure tale evento non scalfì la sua convinzione che gli irlandesi combattessero legittimamente per la loro indipendenza. Quei capi della ex sinistra radicale italiana che (come Nichi Vendola e, prima di lui, Fausto Bertinotti) negano ai popoli oppressi dall’imperialismo americano (ed europeo) il diritto di resistere con le armi per la propria indipendenza nazionale sono lontani anni luce dalle concezioni che furono di Marx e di Engels.
Infine, una rilettura del rapporto di Georgi Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale Comunista (1935) gioverebbe sicuramente a mettere in luce il rapporto tra internazionalismo (che è cosa diversa dal cosmopolitismo) e patriottismo (che è cosa non solo diversa, ma opposta rispetto al nazionalismo).