cropped-hoefer-witt-library1.jpgdi Luca Pareschi

[Questa è la prima parte di un saggio apparso sul numero 65-66 di “Allegoria”; la seconda verrà pubblicata nei prossimi giorni. È un lavoro interessante e sperimentale, uno dei primi tentativi di studiare, in modo sistematico e con metodi quantitativi, le categorie estetiche ed economiche che orientano le scelte degli editori italiani quando si tratta di pubblicare un’opera narrativa di autore inedito]

In questo articolo mostreremo in che modo viene effettuata la selezione di opere di autori inediti nel campo editoriale italiano contemporaneo. I dati e le analisi sono tratti da una più ampia tesi di dottorato, il cui obiettivo è studiare il settore della produzione editoriale di narrativa italiana e, in particolare, il processo di ammissione alla produzione di autori esordienti: quel processo che ha inizio con un aspirante autore, con un dattiloscritto, e termina con una casa editrice che accetta l’inedito per la pubblicazione. La tesi è così strutturata: una prima parte presenta una descrizione quantitativa della produzione editoriale italiana a partire dagli anni ’50. Una seconda descrive gli attori che partecipano alla produzione materiale e simbolica, identificando il ruolo di intermediari che risultano fondamentali per le case editrici, pur non essendo personale a loro strettamente legato. La parte qui presentata, la terza, precede un’ultima, in cui si analizza come case editrici di diverse dimensioni attivino sottocampi editoriali differenti nella loro ricerca di manoscritti.[1]

La ricerca è stata condotta in due fasi, con tecniche qualitative, attraverso interviste semi-strutturate. Nella prima sono stati intervistati editori, direttori editoriali ed editor di 13 case editrici diverse per dimensione, localizzazione e orientamento verso gli esordienti. Nella seconda si è risaliti lungo i canali di approvvigionamento dei manoscritti: qui sono stati intervistati agenti che costituiscono il campo editoriale, indicati come importanti per la ricerca e selezione degli inediti. Sono state realizzate in tutto 57 interviste, fra il 2010 e la prima metà del 2011. Ognuna è stata trascritta fedelmente e codificata per l’analisi con l’aiuto del software Nvivo.[2] Coerentemente con la letteratura sulla ricerca qualitativa, le interviste sono considerate sia come accesso ad una realtà esterna, che come narrazione: sono quindi analizzate sia per descrivere le caratteristiche oggettive del lavoro degli agenti del campo editoriale, che il senso soggettivo che ognuno ha del proprio ruolo.

Parte dell’analisi è condotta distinguendo le case editrici in piccole, medie e grandi. Tale distinzione è condotta a partire dalla tipologia di ISTAT aggiustata, editrice per editrice, per tener conto del mutato panorama della produzione editoriale.[3]

L’articolo è così strutturato: in primo luogo presentiamo le risposte degli editor circa le caratteristiche ricercate nei manoscritti; analizzeremo poi il rapporto fra ricerca di qualità o di libri che possano avere successo di vendita. Il terzo paragrafo è dedicato alla ricerca di esordienti: come e perché viene effettuata. Seguono le versioni degli agenti letterari e degli altri attori che, dalle loro posizioni nel campo editoriale, contribuiscono alla produzione materiale e simbolica dei libri.

1. Le caratteristiche dei manoscritti ricercate dagli editor

Cosa cercano gli editor in un manoscritto? Cosa, durante la lettura di un inedito, può far scattare la loro attenzione e fa ritenere l’opera pubblicabile?

Le risposte degli editor su questo punto divergono: c’è chi cerca di elencare concretamente quali caratteristiche rendano interessante un manoscritto, ma sono ancora di più coloro che dichiarano di affidarsi all’intuito o all’istinto, almeno nella fase iniziale del processo di scelta: «In realtà uno standard non c’è. Se ci fosse uno standard, se ci fosse una serie di condizioni per cui io potessi fare un decalogo, come ogni tanto qualcuno fa, sarebbe molto più facile. In realtà non c’è un criterio. Che non ci sia un criterio rigido è una cosa abbastanza intuibile però, in realtà, non c’è neanche un criterio lasco» (CEg);[4] «gli editor […] sono come delle specie di cani da tartufo, che hanno naso. Come dire, ognuno deve avere il suo su una certa lunghezza d’onda specifica e pigliare certe cose» (CEg). Non capita, quindi, che durante la lettura del manoscritto si cerchino requisiti avendo in mente una lista di controllo. Si tratta piuttosto di una costruzione di senso a posteriori: un manoscritto piace, in maniera pre-razionale; quando si cerca di spiegarne il perché, lo si riconduce ad alcune caratteristiche notevoli.

Per descrivere queste caratteristiche, gli editor hanno fatto ricorso a una serie di concetti, metafore e idee suggestive o evocative. Si tratta di descrizioni analiticamente molto ricche. Per darne un’idea sintetica, più adeguata alla mia trattazione, ho diviso gli elementi di valutazione evocati dagli editor in due gruppi principali e in altri minori.

1.1. Lingua, voce, stile

Il primo elemento di valutazione è quello che nelle interviste è stato chiamato più volte “lingua”, o “voce”, o “stile”, e che ha a che vedere con uno scarto nella scrittura, con la capacità di scrivere in maniera peculiare e non riecheggiando qualcosa di già visto e sentito. È un concetto chiaro all’apparenza, ma molto sfaccettato qualora si cerchi di descriverlo. Per diversi editor la voce, o lo stile, è la caratteristica in assoluto più importante dei manoscritti: «Ovviamente siamo fallibili nei nostri giudizi, come tutti, ma l’unico parametro che consideriamo è la qualità letteraria, [cioè] se un testo, a nostro parere, è un bel testo letterario, se lo scrittore non è uno scrittore improvvisato. È uno, appunto, che ha una lingua, una capacità di strutturare delle storie, e una forza narrativa. […] Ecco perché, secondo me, è totalmente folle… oddio, è praticato, quindi magari può avere un senso dal punto di vista commerciale, ma è abbastanza stupido dal punto di vista letterario valutare […] sulla base della sinossi. Alcuni editori si fanno mandare le sinossi […] Ma se la sinossi fosse, per esempio, “un uomo, che non ha fatto nulla di grave, però a un certo punto viene arrestato e viene condannato a morte”? Può essere una stronzata o può essere Il processo di Kafka. Io come faccio a saperlo se non leggo il libro?» (CEm). O ancora: «Vedi, le storie sono tutte uguali, ma da sempre. Dopo che è stata scritta l’Odissea, dopo che è stata scritta l’Iliade, dopo che è stata scritta la tragedia greca, dopo che è stata scritta la Bibbia, alla fine, di che cos’altro vuoi parlare? Cioè: c’è tutto. Ci sono dai gialli agli ammazzamenti, all’epica, alle storie d’amore. C’è tutto, qualsiasi cosa. Le storie sono sempre le stesse. Quello che fa la differenza è lo stile. Lo stile non è la bella scrittura, non è necessariamente quello, anche se gradisco sempre se uno scrive in italiano, fa piacere. Però lo stile significa che hai la sensazione che una persona si sia messa lì e abbia scritto con una consapevolezza di quello che stava facendo, una forte consapevolezza. […] Non mi piacciono i libri di chi è convinto di avere una storia formidabile da raccontare. E lo capisci subito, delle prime righe. Lo capisci dal fatto che non si preoccupa minimamente di fartici entrare, nella storia. E non esiste, in realtà, nessuna storia abbastanza forte da poter essere raccontata in qualsiasi modo» (CEm). La voce è la capacità di raccontare qualsiasi cosa in modo inaudito, attraverso una forma narrativa che non risulti già nota: «Si può parlare di una conversazione come la nostra in questa stanza, ecco, ma c’è uno scatto, uno scarto, qualche cosa per cui questa conversazione prende vita. C’è un non so che, un dettaglio, o uno spiazzamento del punto di vista, dello sguardo, che mi fa dire questa è la presenza di qualcuno che ha talento di autore» (CEm). Ecco perché, per tanti editor, la voce è davvero la cosa più importante: «Se tu hai un punto di vista originale, perché hai un carattere originale, […] riesci a raccontare una storia qualunque, la stessa storia di sempre, magari quindi una storia d’amore, che è la storia più raccontata di tutte, con parole nuove; con una prospettiva nuova, che è il tuo punto di vista. Quello, secondo me, riesce a renderti interessante» (CEp). E lo stile è qualcosa che ha a che fare con il controllo di quello che si sta facendo: «Avverti una voce, cioè una padronanza, una consapevolezza espressiva e stilistica» (CEm). O ancora: «Mi tengo abbastanza alla larga dai libri che mi danno la sensazione di essere scritti da persone in preda all’ispirazione e poco consapevoli di quello che stanno facendo. […] Io credo che l’arte abbia molto a che fare con l’artificio, con l’artificialità. Un’artificialità che va nascosta, che non deve vedersi. Ma artificiale nel senso che non è naturale. E lo scrittore con delle potenzialità ha una storia in cui ti accorgi che c’è una consapevolezza in tutto quello che viene fatto. C’è una consapevolezza dello stile» (CEm). Un concetto, quello della consapevolezza, che viene espresso ripetutamente, in maniera molto forte: «Mi piace il libro che abbia una ricerca stilistica, un’architettura, una riflessione dietro, del mestiere. Così, che non sia immediato, ma che si senta il lavorio, in qualche maniera». Ma, in un ambito in cui i giudizi estetici non possono essere oggettivi, si conferma l’arbitrarietà del gusto. C’è quindi chi afferma: «non mi piacciono i lavori un po’ a tavolino, nella narrativa. Sento l’artificio» (CEg).

1.2. Storia, tema, struttura

L’altro elemento di valutazione principale riguarda la storia e il tema trattati e, in secondo ordine, la capacità di controllare la struttura narrativa. Se il criterio precedente aveva più a che vedere con il come della narrazione, qui stiamo parlando del cosa: cosa si sta raccontando, che temi sono toccati, qual è la struttura narrativa scelta.

«Noi siamo una casa editrice con una tradizione di letterarietà a cui ovviamente non vogliamo rinunciare e quindi […] quello che cerchiamo è l’idea di una voce. Uno stile che ci colpisca, a modo suo. Non esistono regole che tu possa trascrivere, naturalmente: perché una frase c’arrivi dritto alle viscere, al cervello o al cuore è un’alchimia inspiegabile. Però, cerchiamo questo: cerchiamo l’emozione letteraria, in un libro, e cerchiamo anche di condividerla. […] E sicuramente la storia, anche. Cioè: la tenuta di una storia, l’intreccio, la forza, la coesione, la potenza della storia. Alle volte, anche in assenza di stile o di grande stile, se c’è una storia potentissima, ben raccontata o onestamente raccontata, può funzionare bene» (CEg). L’attenzione alla storia non dipende dalla dimensione della casa editrice: «Vorrei, molto semplicemente, regalare al lettore un oggetto che lui non ha già […]. Una cosa nuova. Fargli dire: guarda, avevi mai pensato che si potesse raccontare questa storia in questo modo? […] E poi, anche questo è un gusto mio, mi piacciono le cose basate su una storia. Una trama, dei personaggi che siano costruiti, che abbiano una struttura. Non vado tanto per le cose introspettive o autobiografiche o, insomma, in cui ci sia poca elaborazione intellettuale» (CEm). E anche: «Il manoscritto deve avere una storia ed essere scritto decentemente, e già non è semplice trovarne, di libri così» (CEp).

Per essere interessante, secondo quanto affermano gli editor, un tema dovrebbe essere originale; ed è più facile dire quali temi non funzionino. «Una cosa che mi tiene molto lontano dai libri sono le storie ombelicali, per usare un termine molto usato ma che io potrei sostituire con il termine “da tinello”. […] A me, alla fine, delle tue private sensazioni e dei tuoi privati dolori, se restano sulla carta dei privati dolori e delle private sensazioni, ti dico francamente non me ne frega niente, c’ho già i miei. […] Perché un privato dolore mi interessi, non deve essere più un privato dolore. Deve essere il dolore, qualcosa di diverso. Qualcosa che può essere percepito da tutti […] Quindi mi piace l’ironia, che non significa comicità. Ironia, capacità di distacco» (CEm). Sembra in effetti che i temi degli aspiranti esordienti siano spesso ripetitivi: «Mi piacerebbe avere a che fare con delle vicende non abusate, risapute, non con una drammaticità da fiction televisiva, con quelle situazioni già viste, straviste, di cui parlano tutti. […] Il tema classico dell’autore esordiente, tra i 25-30 anni, è un romanzo in cui il protagonista è un giovane post laureato, che non sa cosa fare della sua vita, e si sbatte tra serate al pub con gli amici, scopate più o meno interessanti. […] Questo tipo di romanzo avremmo potuto definirlo generazionale, ma non c’è più niente di nuovo in questa situazione, no? […] È una situazione già vista anche in parecchi romanzi che ho pubblicato io. […] Invece […] le donne scrivono ancora di sentimenti, stupri, bulimia, anoressia, abbandoni da parte del padre, problemi familiari in genere. Sembra che le problematiche da affrontare siano divise per sesso. Detta così è un’ipersemplificazione, però si avvicina abbastanza al vero» (CEp). Una declinazione chiarificatrice di cosa si intenda per storia interessante è quella di un editor che ci dice che «la maggior parte dei libri [che vendono] sono libri che ti vanno a intercettare un periodo», un particolare interesse del momento storico: «L’Italia è cambiata e cambiano le voci che parlano dell’Italia» (CEg), per cui sono interessanti quegli autori che si mettono al servizio di una storia attuale e la raccontano.[5]

1.3. “Qualcosa che posso passare ad altri”; “Leggo e non mi accorgo che è lavoro”

La ricerca di una voce e quella di una storia interessante accomunano tutte le case editrici: grandi e piccole, industriali o di ricerca, letterarie o popolari. Per quel che riguarda voce, stile, lingua, storia e temi, in sostanza, tutti gli editor raccontano il loro ricercare facendo riferimento a un immaginario comune. Sono analoghe le metafore utilizzate e sono simili i concetti evocati. A questo punto, però, c’è una biforcazione: da un lato gli editor che lavorano per editori più grandi, o gruppi industriali, descrivono come nel loro processo di selezione comincino a chiedersi se il libro che stanno valutando possa piacere anche ad altri (e a quanti), oltre che a loro. Gli editor delle case editrici più piccole, invece, affermano di apprezzare un manoscritto se, leggendolo, si dimenticano che lo stanno facendo per lavoro. Non si tratta di due aspetti in contraddizione, sia chiaro: la differenza fra grandi e piccole editrici è soprattutto nella diversa enfasi che gli editor conferiscono all’uno o all’altro.

Uno dei due editor di una piccola casa editrice milanese di qualità dice: «Se lavorassi in una grande casa editrice dovrei motivare maggiormente le mie scelte, o magari anche inquadrarle in un progetto. Invece devo dire che in un libro, innanzitutto, cerco proprio il piacere della lettura personale. È evidente che se un libro faccio fatica a leggerlo, faccio fatica ad andare avanti, difficilmente è un libro che posso promuovere» (CEp). Al contrario, nelle parole dell’editor di un grande gruppo: «In realtà il momento decisivo è quando ti rendi conto, o comunque ti immagini, che quella cosa lì che hai letto e che ti è piaciuta ha un pubblico» (CEg). Il che non significa che si riesca a stimare con precisione quanti potranno comprare o apprezzare un libro, come dimostrano alcuni casi clamorosi, primo fra tutti quello di Gomorra,[6] ma che si crede di poter superare un limite minimo di pubblico potenziale. Inoltre: «Se una persona si presenta con una scrittura molto alta, ma molto sperimentale, per un target di pubblico che chiaramente non è il nostro, [il lavoro] viene scartato, anche in prima battuta» (CEg). Una casa editrice più piccola ha – o può permettersi di avere – un approccio diverso: «Grazie a Dio queste cose qua [i libri che si pensa siano destinati a un pubblico ridotto] le abbiamo sempre pubblicate. […] A differenza del cinema, e di altre forme di comunicazione e di espressione d’arte, che sono già completamente industriali, l’editoria non ha bisogno, per fare un libro, di un investimento pazzesco. Un libro, se vende 2500 copie, ci sei rientrato. Quindi […] si può fare il libro, appunto, che ci leggiamo in cinque». (CEm). Anche se, probabilmente, con queste considerazioni ha a che vedere anche il modo in cui le case editrici sono cambiate e si sono industrializzate nel tempo. Giulio Einaudi sosteneva di potersi permettere un ridotto, ma significativo, numero di pubblicazioni per le quali non considerare il rendimento economico.[7] Proprio per questo case editrici piccole, che stanno crescendo, devono parzialmente rivedere il proprio approccio: «E poi arrivano tutte le considerazioni deterrenti, per cui dici sì, questo è originale, ben scritto e tutto quanto, però il lettore medio non sa che farsene. Lo leggiamo in cinque. E nel corso degli anni questa seconda componente ha preso forza, perché abbiamo fatto troppi titoli che a noi piacevano un sacco e che non si sono venduti. Per cui, a un certo punto, cominci anche a dire questa storia è un po’ troppo stravagante, questo stile è un po’ troppo sperimentale. […] E quindi, tendi pure a dire voglio una storia più compiuta, che abbia un tema, che abbia qualche spunto di immedesimazione facile, diretta, che sia comunicabile facilmente» (CEm).

L’obiettivo è lo stesso: cercare di capire se un libro possa piacere anche ad altri lettori. Quello che cambia è il modo in cui lo si persegue: da un lato si analizzano più razionalmente i motivi per cui il manoscritto potrebbe avere una buona ricezione; dall’altro ci si affida al gusto dell’editor come indicatore della presenza di un pubblico. In entrambi i casi, comunque, è l’editor a fare valutazioni, che sono la sua cifra caratteristica e che sono basate su conoscenze solo parzialmente esplicitabili e codificabili. In un caso, infatti, si fa garante, attraverso il proprio gusto, delle scelte effettuate; nell’altro, invece, è la sua capacità, comunque soggettiva, a determinare la possibile pubblicazione.

1.4. Focus, “Manico”

Un aspetto, che è stato rilevato solo da editor di case editrici grandi, e che ha sempre a che vedere con la possibilità di far arrivare il libro a un ampio pubblico di acquirenti, è quello della sua comunicabilità: «Di solito i libri che sono candidati a funzionare di più […] sono libri che noi diciamo avere una sorta di “manico”. Possono essere impugnati, descritti molto facilmente. Hanno qualche elemento vistoso, che può essere facilmente raccontato o facilmente comunicato» (CEg). Con parole diverse, un altro editor di grande casa editrice esprime concetti analoghi: «Se tu non hai il “focus”, il libro non lo vendi. [Ti spiego: Acciaio, di Silvia Avallone,] è un romanzo-romanzo, fiction pura, […] riguardo a cui puoi raccontare che c’è Piombino, c’è una delle ultime acciaierie d’Italia, c’è il declino del moderno, ci sono due ragazze a 13/14 anni, un’età che è una via di mezzo, un’amicizia che si va a confondere in altro… e ci sono storie d’amore complicate, con una morte sul lavoro. Banalmente, queste rapide informazioni che ti ho dato, che poi vengono declinate diversamente a seconda di con chi parli, sono una traduzione del libro. […]. La stessa cosa vale per Gomorra o per Giordano, no?» (CEg). E questa idea, del manico o del focus, guida anche l’editing sul testo. Può succedere infatti, che gli editor leggano un manoscritto buono, ma che manca di focalizzazione, e che cerchino di lavorare con l’autore per rivedere la struttura: «Se leggo qualcosa di bello, ma non capisco dove vuole andare, magari chiamo l’autore. È successo recentemente, con un bel libro di un professore di Forlimpopoli, che aveva scritto un romanzetto divertente, che però era secondo me sfocato. C’era troppa autobiografia, rispetto a quella che poteva essere la storia principale, fra questo professore e una bambina di sette anni. La raccontava poco e non si capivano le dinamiche interne alla scuola. Noi allora ci siamo permessi di dirgli: guardi, se diventa o un romanzo sulla scuola, o uno strano Malaussène provinciale italiano, con questa bambina un po’ sapiente che, come dire, gli fa ritrovare la giovinezza che non ha mai avuto, [siamo interessati a pubblicarlo.] Altrimenti sembra che […] il bisogno dell’autore […] prevarica quello del protagonista. E lui risponde no, a me interessa che sia così. Grazie mille e arrivederci. E quindi… No, ma, lo rispetto! Andrei ad abbracciarlo uno che mi dice che lo contatta [un grande editore], che se modifica il suo libro lo pubblica e lui dice no » (CEg). E trovare il modo di comunicare un libro fa parte dei compiti dell’editor: «Tu sei un bravo editore se te lo immagini, se crei dei percorsi virtuosi, dove tu scompari e metti il libro bene in luce, parlando con le persone giuste, ponendolo nel modo giusto, facendolo leggere nel modo giusto, trovando tu una chiave, che l’autore non ha. Perché l’autore è dentro la storia e per lui va tutto bene. Tu devi scegliere e proporre» (CEg).

1.5. Altre considerazioni

Vi sono poi altre considerazioni, che possono influire sulla scelta di pubblicare o meno un manoscritto. In primo luogo, alcuni editor hanno fatto riferimento all’opportunità di acquistare autori, anziché libri, rifacendosi alla politica d’autore che ha caratterizzato l’editoria italiana per gran parte dello scorso secolo. «[Arnoldo Mondadori] non comprava libri, comprava autori [… ] e questo è rimasto nel DNA della Mondadori perché, nonostante sia una casa editrice di bestseller, quelli che negli Stati Uniti sono chiamati one-shot, tendenzialmente […] cerchiamo più di avere autori che singoli libri. È una dinamica che […] aiuta, da un certo punto di vista, e dall’altro incasina l’acquisizione. Perché devi essere molto più sicuro di quello che fai, ma dall’altro lato ti facilita perché la gente è molto più contenta se fai un discorso di fiducia complessiva e non sulla singola cosa. Ti permette, in prospettiva, di lavorare sugli autori. Non pensare che il singolo libro è quello su cui bruci più o meno tutte le possibilità» (CEg). E questo capita anche in case editrici più piccole: «Noi abbiamo una politica, in genere, basata più sugli autori, che sul singolo titolo. Cosa che commercialmente non conviene, in verità. Però, nei 10 anni in cui ho lavorato per Minimum Fax, abbiamo sempre privilegiato l’idea di trovare un autore e di seguirlo su diversi libri. Di credere nella sua carriera, più che di prendere un titolo X, che magari funziona, ma che sentiamo che non ha alle spalle una penna già forte» (CEm).

Uno dei luoghi comuni che circolano fra gli aspiranti autori è che una biografia interessante aiuti a pubblicare il proprio manoscritto. Gli editor però non sembrano considerarla fra gli elementi più importanti, in fase di selezione. L’interesse per il “personaggio” dell’autore può entrare in campo in un momento successivo, perché può essere usato per promuovere il libro. In sostanza, una biografia interessante è utile se fornisce un valore aggiunto al pacchetto opera-autore: da sola non può sostituirsi alla qualità del romanzo, in termini di voce e storia: «Se hai una biografia fantastica, ma il libro che hai scritto è una cosa immonda, ovviamente non lo pubblichiamo solo perché c’è questa biografia fantastica. Se c’è un libro che vale la pena, e poi c’è [questa biografia] te la giochi sui giornali. Sono più i giornalisti che sono alla ricerca di queste storie. Quindi, tu cosa fai? Tu leggi il libro, dici che va bene, poi vedi questa biografia e pensi questa qua me la vendo coi giornalisti. […] Poi ci sono alcuni libri che sono espressamente legati alla biografia, per esempio, quello […] di Nicolai Lilin.[8] La sua biografia e il libro sono in qualche modo la stessa cosa, quindi quel libro non esisterebbe se lui non avesse quella biografia. […] Se bastasse una biografia, […] di gente che avuto la vita di Bukowski ce n’è un sacco. Soltanto che la maggior parte sono sotto i ponti, e solo Bukowski scrive i libri di Bukowski» (CEm). Sullo stesso tono anche un altro commento: «Il giovane autore, soprattutto se, al di là di quello che ha scritto, ha una certa apparenza, un certo personaggio, è più mediatico. È in qualche modo anche una richiesta che, implicitamente, fa il sistema di comunicazione. Presentateci autori su cui noi possiamo scrivere un pezzo in cui non si parla del libro, ma si parla di altro. Nel senso che, per andare in tv, non [basta aver] scritto un bel libro. Perché il libro in tv non passa. E ovviamente la tv, in quel poco spazio che concede ai libri, può far la differenza. I giornali stessi sono più contenti, i settimanali e mensili, se possono far un bel pezzo parlando dell’autore, della sua vita interessante, di quanto è belloccio, di quanto è elegante, di cosa fa nella vita. […] Nicolai Lilin, quello è un personaggio: devo dire che, anch’io, se mi avessero presentato il libro e l’autore, sarei stato tentato di pubblicarlo prima ancora di leggere il libro. Nel senso che il tatuatore russo, che viene da un’incomprensibile e impronunciabile paese dell’est dell’Unione Sovietica, che ha fatto la guerra, e che vive in provincia italiana, è già affascinante prima ancora di leggere il libro. Se poi il libro è appena dignitoso, sicuramente il pacchetto può funzionare. […] Non è che è solo colpa dei giornalisti, ovviamente: è un po’ l’intero sistema che va in quella direzione» (CEm).

Uno dei temi comunque più ricorrenti nelle interviste, cui fanno riferimento quasi tutti gli editor, pur declinandolo in maniere diverse, è quello dell’originalità. Originalità di voce, di storia, di temi, di lingua. «Una cosa che normalmente funziona è un tema, un libro, che rompe con una consuetudine, che apre una strada nuova. Tutto ciò che è nuovo è qualcosa che valutiamo con favore. Tutto ciò che non va in scia, tutto ciò che non segue. Per cui se hai pubblicato con successo un autore di vent’anni, dopo magari non ne fai uno di diciotto. Ne fai uno di diciotto se hai il libro che ti convince. Però, a parità di situazione puramente teorica, a quel punto se hai l’esordiente settantenne, l’esordiente settantenne va meglio. Se fai un discorso astraendo dall’opera, cosa che non si fa mai, perché l’opera resta centrale. È l’opera che conta. Però capiamo perfettamente che in certi momenti è più facile spingere un libro che non un altro. Dieci anni fa se facevi un noir era facile spingere un noir, oggi è difficile, perché tutti fanno i noir. […] Per me conta molto il tasso di novità, il tasso di singolarità dell’opera, la sua carica di innovazione, la sua capacità di prevedere, di precedere delle tendenze. Quello che facciamo è cercare di individuare quelle che saranno delle tendenze nuove, piuttosto che accodarci a tendenze consolidate che funzionano» (CEg). E anche editor di case editrici più piccole: «Noi cerchiamo una cosa originale. Nel senso di allargare le [nostre] proposte» (CEm), «che non vuol dire una storia strana, vuol dire che si stacchi dalla massa» (CEp).

A volte gli editor si lamentano del fatto che, rispetto al passato, pur essendo mediamente migliorata la qualità delle proposte di inediti, i manoscritti che davvero spiccano sulla massa, per qualità e originalità, siano pochi: «C’è un’offerta molto maggiore, oggi, ma, secondo me, inferiore rispetto al passato per quel che riguarda libri veramente interessanti, cioè con una vera originalità» (CEg). Questa ricerca di novità è così forte che si tramuta in un criterio sintetico di selezione. Nelle parole di un editor, riguardo a un dattiloscritto: «È nuovo? Sì. Venderà? Non lo so. Mi piace? Sì. Lo pubblico» (CEg). La contraddizione evidente è che, nonostante tutti gli editor dichiarino di perseguire l’originalità, spesso si pubblicano epigoni di libri che hanno avuto successo, in ondate fortemente monotematiche, in cui i nuovi libri scimmiottano i precedenti successi.[9] Sono spesso gli editor stessi a segnalarlo.

1.6. Le parole sono importanti

Fino a qui abbiamo descritto il contenuto più concreto delle risposte degli editor. Approfondiamo l’analisi e, attraverso gli strumenti statistici presenti in Nvivo, studiamo le interviste in maniera più approfondita individuando le parole ricorrenti nei discorsi, riconducendole ad alcune aree semantiche e verificando quali di queste aree sono utilizzate con maggiore frequenza. In questo modo evidenzieremo quali concetti sono evocati più spesso dagli editor nella descrizione del processo di selezione. È come se cercassimo di interpretare l’inconscio delle risposte, oltre al loro contenuto più immediato. Non si sta, con questo, cercando di perseguire un determinismo anacronistico e privo di fondamenti: si tratta semplicemente di approfondire l’analisi dei dati con tutti gli strumenti a disposizione.

Tabella 1. Caratteristiche ricercate nei manoscritti (tutte le case editrici)

Lingua/Voce/Stile

Storia/Tema

Altre caratteristiche[10]

parola

occorrenze

parola

occorrenze

parola

occorrenze

lingua

6

storia

61

biografia

4

stile

19

storie

18

linea

13

voce

15

tema

12

originale

6

linguaggio

12

struttura

3

originalità

2

scrittura

23

tematica

4

piace

30

scritture

2

piacere

12

consapevolezza

9

consapevole

2

consapevoli

1

totale

89

totale

98

totale

67

Dalla tabella 1 ricaviamo che, nonostante nelle risposte degli editor l’area Lingua/Voce/Stile fosse identificata come la più importante per la selezione dei testi, in realtà sono più usate parole che si rifanno all’area semantica Storia/Tema.

Ancora più interessante è vedere cosa succede se si conduce la stessa analisi, dividendo però le risposte date dagli editor a seconda della dimensione della casa editrice. Partiamo dalle grandi (tab. 2): anche qui sembra essere la ricerca di una storia la cosa più importante:

Tabella 2. Caratteristiche ricercate nei manoscritti (case editrici grandi)

Lingua/Voce/Stile

Storia/Tema

Altre caratteristiche

Parola

occorrenze

parola

occorrenze

parola

occorrenze

lingua

3

storia

26

biografia

4

stile

4

storie

3

linea

7

voce

11

tema

10

originalità

2

scrittura

11

piace

7

consapevole

1

piacere

5

originale

1

Totale

30

totale

39

totale

26

La differenza è davvero notevole se andiamo a vedere cosa succede nelle risposte date dagli editor delle case editrici di media dimensione (tab. 3). Qui è subito evidente l’uso insistito di parole che indicano ricerca di lingua, voce e stile:

Tabella 3. Caratteristiche ricercate nei manoscritti (case editrici medie)

Lingua/Voce/Stile

Storia/Tema

Altre caratteristiche

parola

occorrenze

parola

occorrenze

parola

occorrenze

lingua

3

storia

22

linea

5

stile

13

storie

9

originale

2

voce

3

struttura

2

piace

14

linguaggio

12

tematica

4

piacere

4

scrittura

10

tema

1

consapevolezza

9

scritture

2

consapevole

1

consapevoli

1

totale

54

totale

38

totale

25

Venendo alle case editrici piccole la situazione cambia nuovamente (tab. 4): l’area semantica Lingua/Voce/Stile quasi scompare; viceversa, l’area Storia/Tema continua a essere evocata più volte.

Tabella 4. Caratteristiche ricercate nei manoscritti (case editrici piccole)

Lingua/Voce/Stile

Storia/Tema

Altre caratteristiche

parola

occorrenze

parola

occorrenze

parola

occorrenze

stile

2

storia

13

linea

1

voce

1

storie

6

originale

3

scrittura

2

tema

1

piacere

3

struttura

1

piace

9

totale

5

totale

21

totale

16

In definitiva, sembra che la ricerca di storie sia forte presso le case editrici grandi, passi decisamente in secondo piano presso le medie e torni preponderante presso le piccole. L’attenzione a voce, stile e capacità di scrittura è presente nelle grandi case editrici, seppur in seconda linea rispetto alla ricerca di una storia. Diviene però di gran lunga il requisito più importante ricercato dagli editor delle case editrici medie, apparentemente più interessate alla ricerca stilistica, per poi quasi scomparire dai discorsi degli editor delle case editrici piccole.

1.7. Non un elenco della spesa

Abbiamo descritto tutto ciò che può far sì che un libro sia interessante e pubblicabile, tutte le caratteristiche che possono rendere un libro “bello”. «Ma bello non vuol dire niente. La categoria del bello è una categoria che in editoria ha pochissimo valore. Comunque è, in genere, una categoria poco misurabile» (CEm). Per l’irresolubile incertezza estetica che caratterizza i manoscritti, nella realtà è molto complesso valutare un inedito. Un esempio molto evidente l’ho potuto avere personalmente nell’edizione 2010 di Esor-Dire:[11] a seguito della lettura di brani inediti dal progetto editoriale di un aspirante esordiente, fra gli editor presenti si è aperto il dibattito. Due di loro, entrambi importanti, stimati e apprezzati, hanno a lungo discusso, rimanendo fermi su posizioni opposte: uno riteneva il libro pessimo, l’altro era interessato a pubblicarlo. E la cosa affascinante è che i giudizi si basavano sugli stessi aspetti del manoscritto, e che il disaccordo non era dovuto ad alcun fraintendimento. I due editor avevano letto con attenzione e, basandosi sulle stesse caratteristiche del testo, davano un giudizio opposto.

Gli editor non sono solamente tecnici specializzati, in grado di svolgere ad altissimo livello mansioni complicate ma codificabili.[12] Si tratta piuttosto di persone che, per qualche motivo, sanno scegliere i libri. Questa capacità è loro riconosciuta. Si tratta di una competenza tacita, codificabile in maniera incompleta ma che fa sì che gli stessi editor siano garanti, attraverso la loro reputazione e la fiducia che si sono guadagnati nel tempo, delle scelte che fanno e dei libri che propongono. La capacità principale dell’editor, nella scelta dei libri, è proprio questo istinto da cacciatore, che fa sì che sia in grado di individuare i libri giusti, oltre e a prescindere da considerazioni più analitiche. Si tratta di un vero lavoro da intermediario culturale, da mercante di beni dalla qualità difficilmente stimabile. E, coerentemente con la trattazione bourdieusiana,[13] si tratta di una posizione lavorativa non esattamente determinata: non esistono titoli specifici per accedervi e le mansioni di editor di case editrici diverse differiscono sostanzialmente in natura ed estensione. L’editor si fa garante del prodotto che sceglie, ed è in grado di spiegare solo fino a un certo punto cosa lo spinge a prendere certe decisioni. Le competenze necessarie sono difficilmente codificabili e trasmissibili, ma estremamente preziose. Si tratta di figure di gate-keeper che scelgono cosa ammettere alla produzione editoriale sulla base di valutazioni soggettive, di cui si prendono la responsabilità.

2. Valore letterario e successo commerciale

Esiste una contraddizione fra il valore letterario di un manoscritto e il suo successo commerciale? Capire cosa pensano gli editor del successo commerciale, e del suo rapporto col valore culturale di un opera, è importante, se vogliamo capire i criteri in base ai quali selezionano i testi da pubblicare.[14]

C’è dunque una dicotomia fra qualità e mercato? «Secondo me, no. È un problema che puoi valutare dal punto di vista della percezione. […] La percezione accademica, io non voglio dire che è una percezione distorta, ma è la percezione accademica. Ognuno ha una sua ottica da cui vede le cose. Io dalla mia scrivania vedo le cose in un determinato modo, che è comunque un modo parziale di vedere le cose. Perché io vedo l’opera nella sua genesi, […] sono chiamato a farla esistere o a non farla esistere. Per cui, devo dire, la mia concezione del fatto letterario è una concezione molto diversa da quella di uno studioso. […] Da un certo punto di vista la nostra ottica è più profonda, per altri versi discutibile» (CEg).

Il punto di vista degli editor viene presentato come molto pragmatico: gli editor si raccontano caratterizzandosi attraverso un approccio per nulla ideologico. Molti, nelle case editrici più grandi, non rilevano una contrapposizione fra successo commerciale e valore letterario: «Quando avevo la tua età ed ero uno studente appassionato di letteratura […] leggevo pochissima letteratura contemporanea. […] Eravamo diffidenti verso quello che l’editoria percepita come commerciale produceva. Cioè io, da ragazzo, difficilmente leggevo un libro rilegato Mondadori o Rizzoli. Leggevo molti Oscar, perché negli Oscar trovavo i classici, mi formavo. Quindi la percezione di un giovane motivato, di un giovane che si sta formando come letterato, nei confronti della produzione contemporanea è diffidente, ed è tanto più diffidente quanto più il successo è conclamato. […] Teoricamente non c’è nulla che dica che un testo che raggiunge un pubblico numeroso debba essere per forza di qualità letteraria bassa e un testo, invece, che penetra fortemente attraverso certe nicchie debba essere di qualità alta» (CEg). Allo stesso modo: «Mi avessi fatto questa domanda vent’anni fa, quando ho cominciato a lavorare all’Einaudi, ti avrei risposto in un modo molto diverso: adesso penso che anche il mercato ha una sua intelligenza. Un tempo avrei detto che sono due logiche diametralmente opposte, quella della qualità è quella del mercato. Adesso non sono più così manicheista: penso che moltissimi bei libri sono in classifica e, appunto, che il mercato ha una sua intelligenza. Ha anche una sua stupidità, potentissima, per cui nelle nostre top ten si mescolano libri di qualità e libri immondi, ed è vero che molti libri di qualità sono costitutivamente destinati all’insuccesso, come capita alle persone. Molte persone di qualità sono costitutivamente destinate all’insuccesso, e questo è sconfortante. […] Dire che il mercato e la cultura sono due linee destinate a non incontrarsi mai, mi sembra il lamento dei giovani scrittori senza talento. Non è così. È un miracolo che questo possa accadere, però un miracolo possibile e quotidiano» (CEg).

Nel complesso, gli editor tendono a presentare il successo commerciale e la qualità di un romanzo come variabili indipendenti. È una posizione generalmente condivisa, con alcune eccezioni presso le case editrici più piccole, rivolte alla ricerca, che hanno comprensibilmente interesse a vedere e fare esistere una differenza fra qualità e fatturato. Ad esempio, però, per un editore medio: «Il successo commerciale è oggettivo e incontestabile, è per questo che il numero delle copie vendute, molto spesso, diventa preponderante nel valutare un libro. Perché è l’unico che non ammette eccezioni: ha venduto o non ha venduto. Ha fatto guadagnare soldi o non ha fatto guadagnare soldi. Quello della qualità letteraria è sempre soggetto a revisione… […] Però, secondo me, si tratta di due variabili indipendenti: ci sono libri che hanno successo commerciale e zero qualità letteraria, e ci sono libri che hanno zero successo commerciale e altissima qualità letteraria e libri che, in qualche modo, combinano entrambi gli aspetti. Nessuna possibilità esclusa. Il successo commerciale non implica e non impedisce che un libro sia un bel libro dal punto di vista letterario, né il contrario» (CEm). Così per Mondadori: «Uno dei problemi che c’è da noi, in Italia, è che se hai un successo che supera un certo numero di copie, improvvisamente diventi di largo consumo, […], uno che si è venduto. […] È una convinzione triste, che ho condiviso anche io, […] che le cose buone riguardano solo un’élite, e che il consumo, in quanto di massa, è medio o mediocre. In realtà non è esattamente così» (CEg). E, ancora: «Pensa a un Fabio Volo, […] che ha delle tirature spaventose, e onestamente non possiamo parlare […] di un grande peso, di una grande qualità letteraria, e nonostante questo nessuno lo ferma più. […] Penso invece che ritenere – questo è molto da ambiente intellettuale chiuso – che un lavoro da grande pubblico sia per forza di down market, è una vera aberrazione. Io non lo penso nella maniera più assoluta. Perché se poi parli con autori stranieri, che si reputano dei grandi artigiani, difficilmente se la tirano come i nostri, ecco: loro fanno un lavoro quotidiano con degli orari, e sono dei professionisti straordinari, e non per questo io ritengo che abbia meno valore intrinseco» (CEg).

Anche in Feltrinelli si pensa che non ci sia contraddizione fra qualità e mercato: «Direi di no, assolutamente: vogliamo parlare di Sostiene Pereira?» (CEg).[15] E agli esempi si ricorre anche presso e/o: «Ti faccio un esempio banale. L’eleganza delle riccio, un libro da 1.200.000 copie. […] Arrivare in cima alla classifica, vendere tante copie è completamente imprevedibile. È chiaro che se fai una statistica dei libri più venduti degli ultimi 20 anni, vedrai che ci sono molti più Ken Follett e Dan Brown, rispetto a un’Eleganza del riccio o un Gomorra. Però è un rapporto causa effetto assolutamente imprevedibile» (CEm).

Solo da Marcos y Marcos ci viene una risposta un po’ più netta, sul rapporto fra qualità e mercato: «[ridendo] Prevalentemente il rapporto è inversamente proporzionale. Però ci sono delle felici eccezioni. […] Noi pubblichiamo senz’altro delle cose che secondo noi hanno un altissimo valore letterario e sappiamo che non funzioneranno. E non funzionano commercialmente. E poi però ci sono delle cose che, invece, stupiscono in senso inverso» (CEp).

Chiaramente l’incertezza estetica, che caratterizza il mondo della narrativa, rende difficile tracciare un rapporto fra qualità letteraria e successo commerciale. Perché, se quest’ultimo è semplice da definire e misurare, la qualità si basa su un giudizio non certo oggettivo: «Io posso farti il caso banale di Paolo Giordano. Quando Paolo Giordano è uscito […] veniva visto come l’anti Moccia. Nel momento in cui Giordano ha cominciato ad avere successo, sui blog – perché adesso tutto questo passa attraverso i blog – l’entusiastica adesione dei blogger a Giordano è diminuita, e nel momento in cui ha vinto lo Strega si è drasticamente abbassata, perché è stato percepito come autore di successo. Allora è cambiato il libro? No, il libro era lo stesso. È cambiata la percezione […] Tutto ciò che viene percepito come mainstream è guardato con diffidenza a prescindere dal valore oggettivo. Questo è comprensibile, però di fatto è così che succede. Per cui è ovvio che il valore letterario di un testo percepito come alto non cambia dopo che ha avuto successo, però la diffidenza comincia. È comprensibile, ma è diffidenza, è pregiudizio. Del resto la letteratura, in qualche modo, si fonda sul pregiudizio. La stessa critica è fondata sul pregiudizio. […] Tutti i grandi scrittori che hanno fatto critica, hanno fatto critica sulla base del pregiudizio. Anche critici che non avrebbero dovuto essere pregiudiziali, sono sempre stati pregiudiziali in tutti i modi» (CEg).

Il pragmatismo che contraddistingue queste affermazioni, del resto, porta anche a dire che se un libro non raggiunge un pubblico di una certa dimensione, probabilmente il problema non sta nell’inadeguatezza del pubblico, ma in quella del libro: «Sono convinto che un libro che non ha alcun successo, né oggi né mai, forse non è portatore di un grande valore culturale. Anche perché se un libro non lo legge nessuno, non porta cultura a nessuno. Se un libro è letto da 500 persone è inutile che si dica quello è un gran libro: evidentemente c’è qualcosa che non va. […] Perché è una questione di numeri. Céline: se Viaggio al termine della notte lo avessero letto tre persone, non avrebbe inciso nella storia della cultura» (CEm).

A questo punto, però, occorre discriminare fra un successo commerciale diffuso nel tempo e uno puntuale, limitato a un’unica stagione. «Penso che ci sia un successo commerciale immediato che, è innegabile, in molti casi è inversamente proporzionale alla qualità. […] Però penso si debba anche pensare a un successo commerciale sulla lunga durata. […] Se per successo commerciale intendiamo quello di Dan Brown, sì: non è proporzionale allo spessore culturale. Se per successo commerciale intendiamo libri di Salinger, di Fitzgerald, della stessa Agata Christie, che si vende per cinquant’anni, […] è un successo commerciale proporzionale alla qualità del libro. […] Il libro che resta è un libro buono, e il libro che resta è anche un libro che continua vendere. E noi lo vediamo con parecchi titoli del nostro catalogo, in piccolissimo» (CEm). O ancora: «Quando un libro di Philip Roth vende 30mila copie in hardcover è un successo. Ovviamente, facendo esempi con libri di altre case editrici perché mi sembra più elegante, è chiaro che non ha venduto come ha venduto Il codice da Vinci. E va da sé che Philip Roth ha un valore culturale più alto, ma questo valore culturale si misura lo stesso nei numeri. Perché la differenza qual è? Che Il codice da Vinci è un libro destinato a essere superato. […] Per darti un’idea, negli anni della prima guerra mondiale, c’è stato il primo grande successo popolare letterario, […] l’autore era Guido da Verona. […] Durante la prima guerra mondiale, nelle trincee, i soldati leggevano questo autore. È stato un grandissimo successo editoriale. Ovviamente Guido da Verona, forse tu non l’hai mai sentito nominare. […] Pastorale americana è un libro che nei prossimi cent’anni sarà venduto tutti gli anni con regolarità. Se questo è un uomo viene venduto tutti gli anni con regolarità. Anche se al momento dell’uscita, Pastorale Americana in hardcover può aver venduto 50mila copie […] che è tantissimo. In Italia 50mila copie è tantissimo. Il codice da Vinci ha venduto 3 milioni e mezzo [di copie]» (CEm). E il tempo dovrebbe anche permettere di scoprire libri di qualità, che in un primo momento siano passati inosservati: «È il tempo a fare giustizia di un lavoro autentico, vero, profondo, non immediatamente percepito dal mercato» (CEg). E ancora: «A volte può esserci il caso estremo in cui [autori di qualità] vengono riconosciuti post mortem, e questa è una sfiga per l’autore però, dal punto di vista culturale, cambia poco. Alla fine il libro diventa disponibile. […] Però io non credo che siano rimasti nei cassetti dei grandi capolavori che nessuno ha capito» (CEm).

Gli editor, comunque, ragionano sull’interezza del piano editoriale, e sulla base di questo vengono valutati. Quando parlano del piano editoriale, in realtà, tradiscono la consapevolezza dell’esistenza di una differenza fra libri letterari e libri che vendono. Ma è un bene, dicono, avere in catalogo libri più adatti al mercato, perché possono sovvenzionare pubblicazioni più difficili, che portano riconoscimento culturale: «Con Il codice da Vinci tu hai in circolazione liquidi, che poi puoi utilizzare per comprare dei libri letterari, che richiedono magari un po’ più di fatica per essere imposti, e che magari venderanno solo 10mila copie, che sono tantissime. E intanto magari ti costruisci l’autore, che poi un giorno diventa Philip Roth. Ed è un autore che da qua a 100 anni fa parte del catalogo e quindi la ricchezza della casa editrice. E intanto inciderà sulla cultura. […] Perché, alla fine, la casa editrice è un’impresa. Quindi deve reggersi. Altrimenti ci deve essere un filantropo» (CEm). E fare libri che portano prestigio culturale rimane spesso un obiettivo, come per esempio all’Einaudi: «Il nostro pensiero, come editori di responsabilità, dovrebbe essere quello di riuscire a dare voce, dare spazio, anche a quei libri che non hanno le ali per farcela, per arrivare ai vertici della classifica. […] Si potrebbe rovesciare il discorso e dire che può essere anche un calcolo cinico, quello di continuare a tenere viva quell’immagine [di letterarietà della casa editrice]. Si potrebbe anche dire io faccio questo libro perché è bellissimo e perché ne ho un ritorno di immagine, anche se venderà poco: comunque sia questo libro lo ha fatto l’Einaudi. In realtà non è così, nel senso che noi non facciamo mai questo ragionamento, in questi termini cinici. […] Ci diciamo: “questo libro è bellissimo, ma non vende niente. Però ci è piaciuto: facciamolo, dai! Possiamo permettercelo!”» (CEg).

Ci si potrebbe infine chiedere se ci può essere spazio, oggi, nella grande editoria, per autori esordienti difficili, non immediati: «Per rispondere alla domanda che tanti fanno, se arrivasse un nuovo Gadda, lo riconoscereste? Io dico di sì. Io non lo so se lo riconosco io. Ma se non lo riconosco io lo riconosce Alberto Rollo. Se non lo riconosce Alberto Rollo, lo riconosce Antonio Franchini. Uno fra tutti, loro sicuramente prima di me, sono molto più bravi, uno fra tutti lo riconosce. Quindi non è vero che se un capolavoro arriva, nessuno lo riconosce. Se qualcuno mi manda il Pasticciaccio, ripeto, spero di riconoscerlo, ma se non lo riconosco io lo riconosce un altro per me. E quindi i libri che devono essere pubblicati a tutti i costi, prima o dopo vengono riconosciuti» (CEm).

2.1. Le parole per dirlo

Anche in questo caso abbiamo cercato di analizzare più in profondità le risposte degli editor, valutando la frequenza d’uso di termini appartenenti all’area semantica del successo commerciale o a quella relativa al valore letterario. Nel complesso (tab. 5) hanno maggiore frequenza parole che si riferiscono al valore letterario:

Tabella 5. Mercato o letteratura: termini più frequentemente usati nelle risposte (tutte le case editrici)

Successo Commerciale

Valore Letterario

parola

Occorrenze

parola

occorrenze

commerciale

10

letteratura

13

commerciali

1

letterario

10

commercio

1

letteraria

6

mercato

7

letterarie

7

venduto

6

letterari

7

marketing

6

qualità

8

classifica

5

valore

3

culturale

3

totale

36

totale

57

Andiamo di nuovo a raffinare la ricerca. Per quel che riguarda le grandi case editrici (tab. 6) la differenza nel numero di occorrenze totali fra le parole appartenenti alle due aree semantiche è trascurabile:

Tabella 6. Mercato o letteratura: termini più frequentemente usati nelle risposte (case editrici grandi)

Successo Commerciale

Valore Letterario

parola

occorrenze

parola

occorrenze

commerciale

5

letteratura

5

mercato

3

letteraria

5

venduto

2

letterarie

1

marketing

4

qualità

3

valore

1

letterari

1

classifica

5

culturale

2

totale

19

totale

18

L’analisi si fa più interessante passando alle case editrici medie (tab. 7). Qui i termini che indicano valore letterario sono usati 4 volte più spesso di quelli che si rifanno al successo commerciale:

Tabella 7. Mercato o letteratura: termini più frequentemente usati nelle risposte (case editrici medie)

Successo Commerciale

Valore Letterario

parola

occorrenze

parola

occorrenze

commerciale

3

letteratura

8

mercato

2

letterario

10

venduto

4

letterarie

6

commerciali

1

letterari

6

letteraria

1

qualità

5

culturale

1

totale

10

totale

37

Venendo invece alla piccole case editrici la situazione si ribalta nuovamente (tab. 8): sono i termini legati al successo commerciale a essere utilizzati più frequentemente. Qui l’aspetto notevole è però lo scarso uso di parole appartenenti ad entrambe le aree. Si tratta probabilmente di due categorie che hanno un valore limitato per gli editori delle piccole case editrici, al momento di scegliere cosa pubblicare o non pubblicare. Se infatti confrontiamo il totale delle 9 occorrenze di queste due aree semantiche, con le 12 di termini che indicano il gusto soggettivo dell’editore (piace e piacere), capiamo come sia il gusto dell’editore a guidare la creazione del piano editoriale. Non significa che i piccoli editori non abbiano interesse a vendere i propri libri, ma che non è il primo pensiero che guida la selezione.

Tabella 8. Mercato o letteratura: termini più frequentemente usati nelle risposte (case editrici piccole)

Successo Commerciale

Valore Letterario

parola

occorrenze

parola

occorrenze

commerciale

2

valore

2

mercato

2

commercio

1

marketing

2

totale

7

totale

2


[1] L. Pareschi, La produzione editoriale in Italia: il processo di intermediazione nel campo letterario, tesi di dottorato in Direzione Aziendale, Ciclo XXII, Università di Bologna, A.A. 2010-2011. Il capitolo che riguarda l’analisi quantitativa è di prossima pubblicazione in un volume del Mulino, curato da Marco Santoro, che riporta indici dei diversi campi di produzione culturale. Articoli estratti dalle altre sezioni sono in revisione presso due importanti riviste sociologiche, una italiana, una internazionale.

[2] Nvivo è uno strumento che rappresenta lo stato dell’arte per la ricerca qualitativa e la costruzione di teoria a partire da dati qualitativi. Il software permette di aggregare e organizzare ampie quantità di dati, quali testi, video e fotografie. Non fa nulla che non potrebbe essere fatto manualmente, ma permette di sistematizzare la ricerca. Inoltre consente di eseguire analisi statistiche su testi, quali il conteggio delle parole occorrenti più frequentemente o ricorrenti insieme.

[3] ISTAT considera piccole le case editrici che pubblichino fino a 10 libri l’anno, medie quelle che ne pubblichino meno di 50, grandi le altre. Sono però categorie obsolete, che risentono inevitabilmente dell’esser state fissate agli inizi della rilevazione “Annuario delle statistiche culturali”. Nella ricerca è stato quindi chiesto ad alcuni degli intervistati – scelti a campione – di assegnare una categoria dimensionale alle case editrici oggetto d’indagine. Consideriamo quindi grandi Mondadori, Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli; medie, Marsilio, Guanda, Baldini Castoldi & Dalai, e/o, Minimum Fax; piccole, Marcos Y Marcos, Fernandel, Zandegù e Terre di Mezzo. Mondadori e Einaudi, pur avendo la stessa proprietà, sono considerate come editori diversi essendo le divisioni editoriali, che si occupano di scelta e lavorazione dei testi, completamente separate.

[4] I nomi degli intervistati sono elencati nel repertorio alla fine dell’articolo; per motivi di riservatezza, non attribuiremo a ognuno le singole citazioni. In questo paragrafo le sigle vanno intese come segue: CEg = editor di una casa editrice di grandi dimensioni; CEm = editor di una casa editrice di medie dimensioni; CEp = editor di una casa editrice di piccole dimensioni.

[5] L’editor si riferiva in particolare ad Acciaio di Silvia Avallone, la cui forza sarebbe quella di raccontare un’Italia che esiste, ma di cui nessuno racconta, o di cui raccontano solo i giornali: «un’Italia fatta di operai che si fanno di cocaina perché vogliono essere persone normali, uscire la sera».

[6] La prima edizione Gomorra fu di 4500 copie, la tiratura minima della collana «Strade blu» di Mondadori.

[7] Il 5% o l’8% per cento (da una discussione con un’editor Einaudi).

[8] Nicolai Lilin è uno scrittore moldavo, che vive a Cuneo, dove lavora come tatuatore. Il suo primo romanzo, Educazione Siberiana, pubblicato da Einaudi nel 2009, racconta la sua crescita e formazione all’interno di una comunità criminale di origine siberiana (Urka Siberiani) stanziata in Transnistria, regione dell’ex Repubblica socialista sovietica moldava (oggi Moldova), autoproclamatasi indipendente nel 1990, ma non riconosciuta a livello internazionale.

[9] Dopo Dan Brown le librerie sono state invase da libri cospirazionisti, dopo Moccia da romanzi per adolescenti, poi da romanzi su vampiri sexy…

[10] La terza colonna della tabella indica tutti i termini più genericamente ricompresi nelle altre caratteristiche: biografia, linea, originale ed originalità. Insieme a questi abbiamo indicato le espressioni, quali piace e piacere, che indicano un giudizio soggettivo di gusto da parte dell’editor o editore.

[11] Esor-Dire è una manifestazione, organizzata dalla scuola Holden, dedicata allo scouting letterario, con l’obiettivo di scoprire e promuovere le narrazioni di scrittori di meno di 40 anni. Nella parte denominata “Prove d’Autore”, i progetti di 8 aspiranti esordienti vengono assegnati ad altrattanti editor, perché ne svolgano una disamina. Segue un dibattito con tutti gli editor presenti.

[12] Mi riferisco, qui, all’opera di selezione dei libri, non all’editing redazionale, che esula dalla mia ricerca.

[13] Cfr. P. Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Minuit, Paris 1979; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983.

[14] Anche in questo caso, ci riferiamo solo alla narrativa. Restano esclusi dai giudizi degli editor i successi commerciali che riguardano la “varia”, come ad esempio le biografie dei personaggi famosi o le barzellette dei calciatori.

[15] Sostiene Pereira, il romanzo di Antonio Tabucchi, ebbe un grande successo, sia commerciale che di critica.

[Immagine: Candida Höfer, Witt Library, London (2004) (gm)]

16 thoughts on “La selezione degli inediti di narrativa nel campo editoriale contemporaneo/ 1.

  1. Tutto molto interessante, ma stranamente si tace sul problema preliminare e quindi fondamentale: come si fa a farsi leggere il proprio libro dall’editor?
    Voglio dire che avere rifiutata la pubblicazione di un testo perchè all’editor che l’ha letto non è piaciuto, mi pare una cosa del tutto nella norma, ma consideriamo come stanno effettivamente le cose.
    Nei fatti, scrivere romanzi è diventata una moda di tale vastità che agli editors pervengono troppe richieste di esame che sarebbe materialmente del tutto impossibile soddisfare.
    La mia curiosità quindi riguarda questa fase di selezione preliminare, non in base a quali criteri un editor promuove o boccia un testo che ha letto, quanto piuttosto in base a quali criteri un editor boccia subito o promuove provando a leggerlo, un romanzo che gli si propone.
    Temo che però tali criteri siano inconfessabili, e sarà per questo che si tenti di rimuoverli dalla discussione.

  2. @Vincenzo Cucinotta. Di alcune delle vie attraverso cui un manoscritto approda alla scrivania (e dunque alla valutazione) degli editor, l’autore si occupa nella seconda parte del saggio.

  3. molto interessante, direi che è quasi da “studiare” per cercare di capire bene i punti di vista e i “criteri”. Io sono tra quelli che cerca un “manico” e che dice: leggo e non mi sembra di lavorare.
    Grazie della segnalazione e della condivisione
    Valentina Balzarotti

  4. Davvero Molto interessante questa analisi.
    quando verrà pubblicato il saggio completo?

  5. @Valentina Balzarotti: non è citata direttamente, ma anche l’intervista che realizzammo telefonicamente ha contribuito alla comprensione generale del fenomeno!

    @Alessandro: la seconnda parte è qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=10582

    @Vincenzo Cucinotta: interessante obiezione, ma non si può trattare tutto in un solo lavoro, pena la perdita di approfondimento. Parte della risposta è, in effetti, nel prosieguo del saggio. Parte è un lavoro diverso, su cui comunque si sta lavorando. Non c’è motivo per non affrontarlo.

  6. Uno degli articoli più interessanti letti negli ultimi anni. Peccato per la lunghezza. È anti-web 2.0

  7. Molto interessante, anche se ammetto di aver letto con meno attenzione la seconda metà, su cui tornerò. Aspetterò la seconda parte, ma intanto faccio una domanda: il manoscritto arriva direttamente all’editor, o anche in Italia esistono figure di primi lettori che facilitano la selezione restituendo un parere agli editor? Perché quando stavo oziosamente considerando la possibilità di inviare un racconto a una (modesta) rivista in lingua inglese, ho scoperto l’esistenza di questa figura intermedia (pagata), così mi è venuta la curiosità. Anche perché i “lettori professionali” sono una realtà piuttosto consolidata, non mi stupisce saperne l’impiego anche in fase di selezione.
    Grazie.

  8. @Salomon: se ti riferisci ai “lettori”, esistono. Però sono personale pagato dalle case editrici, spesso non dipendente dalle case editrici, che compilano schede di lettura, che poi tornano agli editor insieme al dattiloscritto. Il loro lavoro è precedente a quello dell’editor, di cui sono collaboratori.

  9. Un vero scrittore sa rendere interessanti anche le banalità, ma se è vero che l’arte è la massima espressione della libertà, è altrettanto vero che l’obbligo di fare business, in Italia, miete troppi talenti senza gloria (come definisco me e mio figlio). Abbiamo già pubblicato un libro con la Feltrinelli, attenendoci rigorosamente al “dejà vu” (“già visto” in francese), ma vorremmo imporre il nostro vero stile, molto più coinvolgente e per certi versi trasgressivo perché esplicito e diretto. E qui comincia il bello. Chi se la sente di rischiare? Il nuovo è un’incognita che richiede coraggio. Il titolo del nostro futuro libro? “E furono…Homo sapiens et femina sapiens”. Vi piace? E’ un omaggio alla parità dei sessi!

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