cropped-img0081.jpgdi Luca Pareschi

[Questo saggio è apparso sul numero 65-66 di «Allegoria». La prima parte si legge qui]

3. Pubblicare esordienti

Gli editor indicano molti buoni motivi per pubblicare esordienti italiani: «Un po’ perché è la cosa più bella che può capitare a chi fa questo lavoro, quella di scoprire e far sbocciare una nuova voce vera, autentica, forte, necessaria, nel panorama della narrativa italiana. Un po’ perché, se vogliamo toccare un aspetto più economico, è un investimento che ha un alto margine di redditività. Gli esordienti raramente sono costosi dal punto di vista editoriale – anche se sono più rischiosi perché, quando lancio un esordiente, può vendere da zero a 100mila copie in maniera imprevedibile…» (CEm). Vediamo più in dettaglio gli aspetti che generano una forte attenzione degli editor verso gli esordienti italiani.

3.1. Il piacere della scoperta

Il primo aspetto ha a che vedere col piacere in sé della scoperta del talento letterario: «Ci sono persone che amano trovarlo, e persone che amano gestirlo. La spinta è sempre una spinta di origine culturale, psicologica, voler far emergere la bellezza» (CEg); «Per noi, chiaramente, pubblicare un totalmente inedito è più bello. Perché è una cosa che prima non c’era. È una scoperta totale, è una cosa nostra, da tutti punti di vista» (CEp). E spesso gli autori, anche se acquistano una discreta notorietà, rimangono legati a chi li ha scoperti: «Può essere che sia un buon esordio, in cui credo, che riceve dell’attenzione, che sia stato un buon investimento, in cui non perdo. E può essere una costruzione: seguire il percorso di un autore, almeno finché è possibile, almeno finché editore e autore si riconoscono entrambi. […] Alla fine ripaga, anche economicamente. Quindi è interessante seguire anche gli esordi, oltre a essere più piacevole» (CEm).

3.2. Comunicare un esordiente

È più facile comunicare l’opera di un esordiente ai media e ai librai, e questo vale in primo luogo per case editrici grandi e industriali: «Un libro d’esordio può sempre essere una sorpresa, anche per i giornali. […] C’è più attenzione, ci sono più riflettori puntati sull’esordio, soprattutto su un esordio di una grande casa editrice. Un esordio Mondadori, un esordio Einaudi, un esordio Feltrinelli, hanno comunque più attenzione da parte dei recensori» (CEg); «Soprattutto per gli editori più grossi e più spregiudicati di noi, se vuoi costruire un caso letterario è più facile farlo con un esordiente, che non con un autore che, magari, ha scritto un romanzo strepitoso ma è già alla terza opera. Perché, laddove ci sono delle opere precedenti di un autore, i librai tendono a partire dai risultati ottenuti precedentemente. Anche se tu sei convinto che questo autore ha scritto il romanzo del secolo, se ha già scritto tre romanzi che hanno venduto 2mila copie, è molto probabile che non si staccherà tanto da 2mila copie. Perché ci sono scetticismo e diffidenza da parte dei librai, che questo autore improvvisamente possa decuplicare o centuplicare quello che vende. Mentre con gli autori esordienti non ci sono precedenti» (CEm). Anche gli editori più piccoli possono cercare di lavorare coi librai: «Rispetto a 10 anni fa, quando ho iniziato io, si pubblicano molti più italiani. La percentuale di traduzioni, in Italia, è calata parecchio. […] La scrittura in Italia in generale è migliorata. Ok. Quindi, pubblicare un esordiente italiano è più facile rispetto 10 anni fa. […] È chiaro che anche in questo, ovviamente, […] una casa editrice potente, come Einaudi, è più probabile che ottenga un paginone per un esordiente su uno dei giornali principali, rispetto a e/o. […] Per quanto riguarda noi, dipende molto dal lavoro che si fa sui librai: se riesci a ottenere il loro appoggio […], riesci a ottenere qualche risultato» (CEm). Ciononostante, la categoria dei librai viene descritta come la meno sensibile, fra quelle che partecipano alla ricezione dei libri, al fascino degli esordienti. Questo, probabilmente, perché mentre un giornalista è alla ricerca della novità, il libraio è più scettico circa le effettive possibilità di vendita di autori inediti: «Ovviamente non è vero che c’è più attenzione da parte dei librai [verso gli esordienti], perché non li conoscono» (CEg).

Le case editrici più grandi si sono servite di questa maggiore facilità di comunicazione per creare, o sfruttare, casi letterari a partire da giovani esordienti. Non voglio dire che questi abbiano avuto successo solo in quanto casi creati ad arte, ma il fatto stesso che si trattasse di esordienti ha permesso agli editori di presentarli come il fenomeno del momento. «Ci sono libri, sempre per [parlare di] Mondadori – che sugli esordienti ha fatto un bel successo – come Paolo Giordano, che non sono di scarsa qualità. Però si è capito [che] su Giordano ci hanno puntato fin dall’inizio. Si è visto. […] Dal momento che Mondadori pubblica 60 novità di narrativa italiana ogni anno, non può promuoverli tutti allo stesso modo. Punta su alcuni. Su Giordano si è visto: appena uscito c’erano le vetrine piene in libreria […] Così l’operazione sulla Avallone, si riconosce quando puntano su un titolo» (CEp). Cosa che non smentisce nemmeno l’editor di Avallone, per quanto le diverse sfumature con cui la storia è presentata marchino una differenza: «Silvia è costata: abbiamo fatto pubblicità su tutti i quotidiani italiani. Siamo usciti con poche copie perché i lettori lo scoprissero. Nel frattempo avevo venduto i diritti al cinema, ma i lettori non lo sapevano. Una volta che i lettori si sono accorti [del libro], allora fai pubblicità e la pubblicità serve paradossalmente dopo» (CEg). Quindi, in sostanza, l’editor sostiene che un libro debba cominciare a vendere autonomamente, prima che gli si possa fare pubblicità. Idea condivisa anche da editor di altre case editrici di grandi dimensioni: «la pubblicità di un libro che non legge nessuno, sono soldi spesi male» (CEg). Viceversa, l’editor di una piccola casa editrice: «Non è quasi pensabile che un libro cominci a camminare con le sue gambe. Questa è una cosa che a volte pensano gli scrittori, ma c’è un lavoro dietro fin dall’inizio. Se un libro non viene presentato nei posti giusti, alle persone giuste… […] Un libraio può spostare più di una recensione sul “Corriere della Sera”. Perché se ai librai un libro piace, un libraio indipendente, che non si fa condizionare, capace che te ne vende 600 copie» (CEp). I piccoli editori, se vogliono promuovere un esordiente, devono ricorrere a canali come i librai e le presentazioni, visto che la promozione pubblicitaria è molto costosa: «Pubblicità proprio non ne facciamo, se non pochissimo: quasi nessun libro ha un budget pubblicitario. […] Promozione nel senso di organizzare incontri, presentazioni, interviste per l’autore, far uscire recensioni… questo tipo di promozione, che non è esattamente pubblicitaria, si tenta di farla per tutti i libri» (CEm). Ma non sembri che per gli editori di maggiori dimensioni tutto sia semplice: «Certe volte uno dice: questo successo l’hanno preparato. È vero: hai preso un libro, c’hai creduto, l’hai preparato ed è andato bene. […] Quello che non si sa è che questo stesso lavoro tu magari l’hai fatto su 10 libri, e te ne è andato bene uno. Quindi, alla fine, la casualità c’entra» (CEm).

3.3. Economia dell’esordio

Abbiamo solo accennato alla questione economica, ed è bene tornarci: «L’acquisizione di un esordiente è economicamente molto meno onerosa, in Italia, dell’acquisizione di un autore [non esordiente]» (CEg). Inoltre, «Molto spesso il bilancio […] di una casa editrice è fatto da uno o pochissimi libri. Perché il mercato è molto stretto: c’è come un imbuto. La maggior parte dei libri vendono pochissimo. Ci sono certi libri di cui siamo molto contenti se arriviamo a mille copie di venduto, che vuol dire che più o meno siamo andati in pari con le spese di stampa e spedizione. E questa è la grande massa. Pochi libri riescono in qualche modo ad arrivare fino alla fine di quest’imbuto e a emergere a una visibilità più ampia e generale, per i motivi più strani e diversi, e questi libri possono veramente vendere moltissimo. Noi abbiamo avuto negli ultimi anni Stieg Larsson: la prima edizione che abbiamo stampato era di 10/12mila copie, del primo romanzo, e adesso la trilogia è quasi a 2 milioni e mezzo di copie. C’è stata una crescita graduale fino a un certo punto, e quindi è arrivata la fine di quest’imbuto: quando è riuscito a emergere fra i pochi libri di cui tutti si accorgono, è stato come una palla di neve che, rotolando, diventa valanga» (CEm). Il successo commerciale di un libro, quindi, può influire fortemente sul bilancio di una casa editrice, e anche sulla carriera dell’editor che lo ha scelto, dal momento che gli editor sono valutati anche sulla base delle vendite: «Il risultato commerciale è molto importante. Perché siamo editor, ma siamo direttori di una collana intera, quindi non possiamo portare risultati che non sono quelli che ci chiedono a inizio anno» (CEg).

Se il primo libro di un autore non ha venduto, è meglio cercarne uno nuovo per via del «famoso problema del secondo libro: se uno ha avuto un successo clamoroso, ti pubblicano di sicuro e sono curiosi anche della recensione del secondo. Però se il primo non è andato granché nessuno ti vuole: difficilmente ti stanno ad ascoltare il commerciale all’interno, i giornalisti all’esterno, anche i librai» (CEg). «Anche perché spesso i primi libri godono di una certa benevolenza, da parte di critici e lettori. Si possono perdonare ingenuità, difetti, limiti: ragazzi giovani, un’opera prima. Nel secondo libro e, soprattutto in Italia, se il primo libro ha avuto successo, si tende a essere spietati» (CEm). E il risultato è che «il 70% degli esordienti non pubblica il secondo libro» (CEp).

3.4. Esiti imprevedibili

«Non è il marketing che crea questi successi. Perché, nei fatti, né Marsilio, ne e/o, né Fazi hanno la capacità di fare campagne di marketing che creano artificiosamente dei successi, come quelli che ho citato.[1] Ma non solo! Neanche Mondadori ha questa capacità, nonostante abbia delle leve di marketing molto più forti delle nostre. Mondadori ha azzeccato negli ultimi anni due clamorosi colpi editoriali, due esordienti italiani che hanno superato entrambi i milioni di copie, Giordano e Saviano, ma non lo ha fatto tramite il marketing. Lo si è visto l’anno scorso, che non c’è stato l’ennesimo esordiente Mondadori da un milione di copie: se fosse un problema di marketing, non si capisce perché non lo avrebbero potuto ripetere» (CEm). Gli esiti degli esordi possono davvero essere inaspettati: «Il successo è, in realtà, assolutamente imprevedibile. Se a me, cinque anni fa – e noi eravamo già molto attivi e impegnati su questo filone del thriller scandinavo – avessero detto che un autore di thriller svedese sarebbe arrivato ad avere vendite dei livelli di Dan Brown o Khaled Hosseini, io gli avrei riso in faccia. […] All’inizio del 2009, in realtà, sappiamo che c’è stata una riunione, più o meno riservata, dei massimi vertici di Mondadori e RCS congiunti, per cercare di analizzare la situazione e spiegarsi perché la top ten era praticamente monopolizzata da Fazi e Marsilio. […] E questo è quello che rende molto affascinante questo lavoro: a chiunque viene concessa la possibilità di azzeccare uno di questi libri» (CEm). E il successo, quando arriva, può andare oltre le previsioni degli editori: «Io sono convinto che nei casi in cui si va oltre 200mila copie [vendute], per un editore non c’è più modo di controllo. Fino a 200mila copie è un grande successo monitorabile, dopo le 200mila copie è terra incognita. Uno se lo può raccontare, si può dire un sacco di balle, scusi l’espressione, dicendo ho fatto questo, ho fatto quell’altro, ma non c’è modo di governare. È un meccanismo che si mette in atto, e questo vale per Moccia, vale per Saviano e vale per Giordano. C’è un punto in cui sfugge. Allora non è perché tutti vogliono essere più civili, caso Saviano, non è perché tutti sono adolescenti, caso di Moccia, non è perché tutti soffrono il dolore dell’adolescenza, come nel caso di Giordano. C’è un mistero ed è un mistero anche interessante. Quello che fa l’editore bravo è governare il successo» (CEg).

3.5. Cercare manoscritti o cercare autori: diversi biglietti di accesso al campo letterario

Le case editrici, per sopravvivere, devono trovare manoscritti che diano loro prestigio culturale e successo commerciale. Il riconoscimento culturale dipende da una costruzione sociale, dall’esito mutevole nel tempo; per quel che riguarda il successo commerciale, annoto un aforisma che mi è stato ripetuto da numerosi editor durante le interviste: l’unica ricerca di mercato che si possa fare per un libro è stamparlo, pubblicarlo, metterlo sugli scaffali e vedere se si vende. Gli editor, quindi, si muovono in un terreno del tutto incerto e a colpirli può essere sia un libro che un autore. Un editore può scegliere di pubblicare un’opera perché la ritiene forte, di valore, anche a prescindere dalla convinzione che l’autore, in seguito, possa ripetersi, cosa che non sempre accade. Oppure, un editor può intravedere in un autore i tratti dello scrittore di successo, anche se non dal primo libro. In questi casi lo metterà sotto contratto, convinto che, attraverso un lavoro congiunto, l’affermazione possa arrivare. È chiaro che si tratta di una distinzione analitica: è molto facile, a posteriori, capire quali sono gli scrittori da un solo romanzo e quali, invece, hanno una forza narrativa diversa. A priori, però, le valutazioni non sono così semplici. Fra questi due estremi vi è una serie di casi in cui l’editor si trova di fronte a un autore di cui riconosce il talento non ancora pienamente sviluppato. Entrano allora in gioco considerazioni che riguardano il modo migliore di valorizzare questo talento, sia per l’autore che per la casa editrice. È il caso di pubblicare un romanzo non del tutto compiuto, col rischio di “bruciarne” l’autore, o non è meglio aspettare un romanzo successivo, rischiando però di perdere l’autore, o di vederlo rinunciare alla scrittura? Vediamo ad esempio questa citazione, estratta da una scheda di lettura fatta dal lettore di uno dei principali gruppi editoriali:

Apocalittico e amaro, il libro di HHH dimostra un piglio e una capacità di scrittura senz’altro incoraggianti, oltre ad alcuni interessanti spunti narrativi. Almeno nello stato attuale, tuttavia, non si può ignorare un problema di tenuta; qualora si decidesse di pubblicare il libro, sarebbe senz’altro necessaria una riscrittura (e un ampliamento). La questione, mi pare, sta tutta nelle potenzialità dell’autore, qui espresse non ancora al meglio: conviene puntare subito su un autore giovane e bravo, rischiando però di “bruciarlo” con una storia un po’ difficile?[2]

Un caso diverso, e di più semplice risoluzione, è quello in cui il manoscritto, pur non perfetto, è quasi pubblicabile. La casa editrice cerca allora di convincere l’autore a una rielaborazione dell’opera: se l’autore accetta, viene messo sotto contratto e, insieme all’editor, procede a un lavoro di editing sul testo.

Una buona scrittura che ha bisogno di trovare ancora una nitidezza, un’idea interessante e semplice da comunicare, una storia che contiene già gli elementi giusti ma va probabilmente ripensata nel suo insieme. Il libro non c’è ancora, ma XXX ce l’ha a portata di mano e non dubito che ci sia già più di un editore pronto a scommetterci.

Qualora l’editor trovi un autore di cui apprezza lo stile, ma il cui romanzo non ritiene pronto, può intervenire nella stessa fase di genesi dell’opera: «È successo recentemente con una scrittrice che dovremmo pubblicare l’anno prossimo. Bravissima. Mi ha proposto un libro tre anni fa, scritto bene. La pagina era bellissima, però la struttura non funzionava, e soprattutto la storia che mi raccontava non mi interessava, e come non interessava a me non interessava a nessuno. E quindi a malincuore ho detto no. Me ne ha proposto un altro, […] uguale. Allora ci siamo messi lì e le ho detto: ti faccio il contratto, perché tu sei brava. Hai bisogno di una guida, per cui parliamo, non ti metti a scrivere finché non ne abbiamo parlato, ed è venuto fuori un elemento interessante, che in realtà è il rapporto coi soldi e sua madre, che la tormentava. Se tu intorno a questo mi costruisci una storia, che ovviamente, sarà una storia tua, solo tua… Però se io capisco qual è la tua ossessione, ti sono utile» (CEg).

Gli editori si muovono in un mondo estremamente complicato, in cui l’incertezza è alta sia circa cosa cercare, sia attraverso quali caratteristiche individuarlo. Spesso i romanzi e racconti, che un editore riceve in lettura o intercetta presso riviste o manifestazioni letterarie, vengono considerati come indicatori del valore del loro autore; può succedere che un autore arrivi, attraverso un intermediario, a proporre un’opera a un editore, che questo la valuti e, pur decidendo di non pubblicarla, ritenga opportuno tenere sotto osservazione l’autore, sperando che in futuro il suo talento produca un manoscritto più compiuto.

4. La versione degli agenti letterari[3]

Fino a ora abbiamo presentato il punto di vista di editor, editori e direttori editoriali, di cui abbiamo cercato di descrivere e interpretare le risposte, raccontando la selezione dei manoscritti attraverso le parole di chi lavora all’interno delle case editrici. Spostiamo ora il nostro punto di vista sui più importanti fra gli altri agenti che costituiscono il campo editoriale: gli agenti letterari. Quello che ci dicono, se da un lato è in linea con quanto ci hanno raccontato gli editor, dall’altro evidenzia un interessante parziale disaccordo. Specie quando gli agenti descrivono cosa, dal loro punto di vista, viene cercato dagli editor.

Non sono molti gli agenti letterari che cercano autori italiani inediti: raramente si tratta di un lavoro remunerativo, e in ogni caso possono dedicare poco tempo a questo compito. Che cerchino esordienti o che non lo facciano, comunque, tutti sono destinatari dell’invio di manoscritti, proprio come le case editrici.[4] Queste autocandidature, sostengono gli agenti letterari, sono di qualità media, nella grande maggioranza dei casi non adatta alla pubblicazione, ma comunque superiore a quella delle autocandidature che raggiungono le case editrici. «Normalmente uno che arriva a me si è già informato, ha parlato in giro, sa chi sono. […] I manoscritti terribili terribili sono rari. Quelli mediocri, cioè che non hanno una vera voce e sciorinano cose già sentite, sono tanti. Di cose veramente buone […] fra quelli sconosciuti ne trovo non più di due l’anno». Il lamento sul sovraffollamento di scrittori è unanime: «Se tutti quelli che scrivono leggessero, le case editrici sarebbero meno invase. Sarebbe meglio. Per scrivere devi avere un’idea, invece… Io non mi metto al piano e pretendo di comporre una sonata»; «Larga parte della popolazione, superiore a quella che sa maneggiare lo strumento, ritiene di voler scrivere»; «Io ricevo 3 proposte al giorno, gli editori 10. C’è una quantità di scrittori incredibile. Se tutti questi leggessero un libro alla settimana, avremmo risolto i problemi dell’editoria. Non le dico poi i poeti. Siamo un paese di poeti».

Nonostante, quindi, pochi agenti facciano un lavoro di ricerca vero e proprio, è interessante capire in base a quali criteri valutino positivamente un manoscritto e, di conseguenza, quali manoscritti propongano agli editor: questo ci servirà per capire se ci sia uniformità di vedute fra le due categorie. La prima similitudine è evidente: anche gli agenti letterari sostengono che non si possa razionalizzare il processo che li porta a scoprire se un manoscritto possa funzionare: «È come quando si visitano delle case: uno ne vede tante e dice no, poi ne vede una e dice sì. Perché? Boh! […] [un’opera] mi deve convincere per motivi che non sono razionali. Poi, se mi piace, mi metto lì e mi chiedo perché e razionalizzo, cercando di mettermi dalla parte dell’editore, che è un avvocato del diavolo e tendenzialmente mi smonta [il ragionamento]». Ancora: «Non è razionale, non ho una tecnica per vedere se mi colpisce. Se non ti colpisce riesci a spiegare cosa c’è che non va, ma se ti colpisce non sai dire perché. Se qualcosa mi ricorda qualcos’altro, non mi colpisce. Qualcosa che non mi ricorda niente è un buon segnale. Devo avere voglia di leggerlo. Apri un file e dalla prima frase senti una voce che ti porta per mano. Allora quella è una storia che funziona, non mi chiedo perché, mi faccio portare per mano». Insomma, è più facile spiegare cosa non funzioni, in un manoscritto, di cosa funzioni.

Nelle risposte degli agenti è più evidente qualcosa che, nelle parole degli editor, rimaneva nascosto, più in secondo piano: «Costanti sulla pubblicabilità ce ne sono tante, ma rimane che il libro ci piaccia. Sarà banale, ma se ci piace riusciamo a lavorarlo bene. […] Se un libro è difficile da promuovere posso dire di no. Ad esempio non se ne può più di noir. O se il libro è troppo alto, astruso, elitario. Anche se se ne riconosce la qualità letteraria». Per gli agenti la possibilità che un libro venda è, fin dall’inizio, al centro del processo di selezione dei manoscritti da proporre agli editori; il che è ragionevole, se consideriamo che guadagnano una percentuale sul venduto dei propri rappresentati. Gli agenti letterari sono perciò interessati a selezionare romanzi che possano vendere e sostengono, come del resto gli editor, che non ci sia un rapporto di correlazione necessaria fra valore letterario e successo commerciale. Ciononostante, qualcuno lascia trapelare che esistano libri eccessivamente letterari, che non possono avere successo commerciale. Quali libri, quindi, vendono? Quelli che hanno una buona storia. E sono questi, i libri ricercati dagli editor: «Oggi, è triste dirlo, ma quello che conta è la trama. Gli editori sono alla ricerca di una storia a effetto. La qualità letteraria conta sempre meno. I libri letterariamente molto buoni sono più difficili da vendere, perché gli editori vogliono realizzare. Basta guardare le classifiche, senza fare dei torti, ma è così. Sono operazioni di marketing, soprattutto quando le fanno i grossi editori. Se vogliono vendere un libro lo vendono, anche se è brutto». «E considerazioni commerciali? Sì, ne facciamo. Possiamo prendere un libro che non ha particolari virtù letterarie, ma che abbia un bell’intreccio, scritto bene, divertente, affascinante. Lo prendiamo perché pensiamo possa avere mercato». E, ancora più esplicitamente: «Se ci arriva il capolavoro letterario, lo capiamo e uno lo fa. Ma l’occhio che abbiamo educato, e che è quello che da noi gli editori si aspettano, è se il testo sia vendibile. Di proposte [di manoscritti] ne arrivano infinite a tutti [gli editori]. Per prendere in considerazione una proposta nostra, è abbastanza implicito che loro si aspettino che sia una cosa che funziona un po’. Se no, non hanno bisogno di avere il fastidio del nostro controllo [sul lavoro con l’autore]».

Ed è proprio per la possibilità di vendere, che gli esordienti diventano interessanti per gli editori. «C’è più attenzione agli autori italiani di qualche anno fa, quando era un’operazione in pura perdita. Gli esordienti erano guardati con molto sospetto, poi è cambiato completamente il profilo delle carriere. Adesso l’esordiente può vendere uno sconquasso di copie, meno al secondo libro, poi meno al terzo, al contrario di una volta. Quasi solo gli autori di genere hanno una crescita progressiva [delle vendite]. È anche migliorata la qualità media degli scrittori italiani: le scuole di scrittura e il fatto che gli italiani abbiano letto e assimilato la letteratura internazionale hanno fatto bene. Le storie che funzionano ora o sono molto regionali – tipo Sicilia – o sono storie che parlano globalmente alle persone. Se fai un confronto fra gli anni ’90 e i 2000 la letteratura italiana si è molto snazionalizzata». Allo stesso modo: «È più facile pubblicare esordienti rispetto a qualche anno fa. È migliorata molto la qualità e, siccome si sono verificati episodi di esordienti che hanno sfondato il botteghino, c’è attenzione da parte di molti editori. Non tutti, perché affermare un esordiente non è facile. […] Questo va a scapito del non esordiente, che non ha mai sfondato: fra l’esordiente e l’autore da 5/6mila copie, [l’editore] preferisce l’esordiente. Perché se sfonda va molto oltre le 5/6000 copie […] Penso che l’innalzamento del livello medio sia dovuto anche alle scuole di scrittura, che io credo siano molto utili. Una scuola di scrittura non fa un genio, ma comunque nello scrivere c’è una parte di mestiere, che è bene conoscere. Che le scuole di scrittura possono insegnare». Ci sono anche voci parzialmente discordanti: «È più facile per un esordiente pubblicare perché c’è più attenzione da parte degli editori, c’è la moda dell’enfant prodige. Non perché sia migliorata la roba che spediscono». C’è chi pensa che «la moda degli esordienti passerà. Con un esordiente puoi andare bene o male, ma costa meno e gli fai un contratto meno favorevole. […] Spesso io propongo un autore a un editore che mi chiede quanto ha venduto questo? 10mila. Quanto può vendere? 15mila. Hai una esordiente carina, che la schiaffiamo in tv? E poi magari fa 5mila…».

Un aspetto controverso è se sia opportuno anche per un esordiente affidarsi a un agente. Gli agenti possono lavorare sul testo insieme ai propri autori, e questo sarebbe, dal punto di vista dei primi, enormemente utile soprattutto per un autore inedito, all’inizio della sua carriera: «A volte [i manoscritti] non vanno abbandonati subito, può trattarsi di inesperienza. Una voce con difetti di inesperienza è rilavorabile. Chiedo rilavorazioni sulla base della mia lettura, e se l’autore è in grado di farlo vuol dire che ha un istinto di scrittore, e va bene. […] Lì si vede la differenza. Magari uno aveva una buona idea, ma non è in grado di renderla più spessa. Non adesso, magari fra cinque anni. Non si sa mai. Richiede tantissimo investimento emotivo e in termini di tempo, perché sono scrittori bambini». «Tutti i testi degli esordienti vanno rielaborati a livello di trama. Il nostro lavoro interviene sulla trama fino al momento in cui libro è presentabile. Non è che stiamo a correggere le virgole. L’importante è che il testo parli sufficientemente quando lo si presenta agli editori. Poi ci pensano gli editor». Il lavoro che gli agenti in molti casi conducono sul testo è, quindi, quello di indirizzare la trama, d’accordo con gli autori, più che rivedere lingua e stile: «Con alcuni italiani facciamo anche un lavoro sul testo. È un lavoro di struttura e trama, che farebbe un book doctor, non un lavoro redazionale. Togli quelle 50 pagine, aggiungine qui, fai finire la storia così, cambia quei nomi, anticipami questo… Non mi metto lì sulla frase. Esistono agenzie che fanno lavori redazionali, ma fanno appunto lavori redazionali». Il lavoro sulla trama, da book doctor, conferma quindi quello che avevamo accennato: l’attenzione per la trama, prima che per lo stile. La ricerca di una storia che funzioni, che sia appetibile per i lettori. Ecco cosa cercano gli agenti letterari , cosa si aspettano da loro gli editor.

5. La versione degli intermediari

Oltre a editor e agenti letterari, esiste un altro gruppo di operatori il cui ruolo all’interno del campo letterario è impossibile definire in maniera sintetica. Si può trattare di giornalisti, librai, critici, intellettuali in genere. O, più spesso, di scrittori, che sono anche consulenti o redattori di riviste, che tengono corsi di scrittura, che sono nelle giurie dei premi o delle classifiche di qualità. Ciò che li accomuna non è il ruolo apparente nel campo editoriale, ma il fatto che leggono manoscritti inediti, fungono da filtro e li suggeriscono a editori con cui sono in contatto più o meno stretto. Non sono necessariamente intermediari per lavoro, ma la loro mediazione risulta fondamentale per l’accesso al campo editoriale di autori inediti. Ridotti come numero, ma fondamentali per il campo, sono figure che, connesse a più organizzazioni, istituzioni e agenti, fungono da collegamento fra l’interno e l’esterno del campo editoriale.[5]

Due esempi di queste figure di intermediari mi sono stati citati a più riprese durante le interviste. Il primo è quello di Giulio Mozzi: scrittore di origini vicentine, è oggi consulente di Einaudi Stile Libero. Mozzi è stato in passato consulente di Sironi, editore milanese, ed è editore di Vibrisselibri.[6] Ma, soprattutto, Giulio Mozzi è un punto di riferimento per tutti gli aspiranti scrittori che desiderino essere letti da una persona competente e inserita nel campo letterario. Sulla sua pagina facebook Mozzi indica il suo indirizzo di casa e il suo numero di cellulare, invitando chi voglia a mandargli romanzi; il suo sito ospita l’incipit dei manoscritti da lui ritenuti interessanti. Il secondo esempio è quello di Matteo B. Bianchi: scrittore, autore per la televisione, la radio, il teatro e il cinema, ha a lungo curato una rubrica di racconti di esordienti sulla rivista «Linus». Ha curato antologie e, dal 1995, una rivista on-line, «’tina», che pubblica racconti di autori inediti. Giulio Mozzi e Matteo B. Bianchi sono probabilmente i due più importanti riferimenti per aspiranti esordienti che vogliano veder letti e valutati i propri scritti. Ciò che li accomuna ad altre figure di intermediari è l’interesse verso le nuove scritture e i nuovi scrittori: se trovano qualcosa che reputano di qualità, lo segnalano alle case editrici. Ma cosa cercano? Le descrizioni non paiono troppo diverse da quelle degli editor. Giulio Mozzi: «Posso fare esempi, non generalizzazioni. […] Un giorno mi chiama Mauro Covacich e mi manda un manoscritto: mi arriva un pacco così. Comincio a leggere, stavo andando a Pordenone. Salto la stazione di Pordenone perché ero troppo preso e chiamo Tullio Avoledo [l’autore del manoscritto]. Lì mi impressionava la meccanica narrativa perfetta, molto ammirevole, e la grande moralità del tutto. […] Ogni tanto mi capita di aprire un manoscritto e di arrivare fino in fondo, dimenticandomi di qualsiasi cosa stia facendo. […] Non mi ricordo cosa vidi nelle prime cose di Mariolina Venezia nel ’98, ma mi sembrava forte. Nelle prime cose di Diego De Silva, mi colpì la precisione dei particolari e l’economia discorso: stilisticamente è un piccolo Pontiggia». Matteo B. Bianchi è più analitico:[7] «Intanto posso dire che, anche se suona poco professionale, posso leggere le prime cinque righe o le ultime cinque righe e ho capito com’è [il racconto] nel 90% dei casi. Quello che a me convince in un racconto è la personalità. Anche una storia che non è scritta benissimo, ma trasuda originalità nella scrittura, in genere mi convince. Mi convince di più uno stile magari non particolarmente corretto e raffinato, ma vivo, rispetto a cose più classiche. A volte ci sono esordienti pubblicati in libreria che io non avrei mai accettato, ma io non ho una collocazione editoriale come consulente, anche se l’ho avuta per un po’. Quindi lo faccio per passione, il che mi libera da un sacco di vincoli. Se mi piace lo pubblico. Se non mi piace, fine. Poi a me è capitato di curare antologie o progetti collettivi: ho imparato a capire la qualità del testo a prescindere dal mio gusto personale. “’tina” rappresenta il mio gusto, le antologie no. Ho pubblicato cose che stavano benissimo in quel progetto, anche se io come lettore non avrei scelto quel racconto o quell’autore. […] In generale prediligo letteratura ironica, anche un po’ di giovanilismo. Spesso un po’ leggera: io uso la definizione pop, che abbia riferimento alla cultura pop, il contrario dell’accademico». Altri intermediari danno risposte più evocative: «Io penso sostanzialmente che i libri non siano soggetti cinematografici, e quindi mi piace trovare una scrittura nei libri. Però penso una cosa, e lo penso da quando l’ho letta in un diario di Virginia Woolf: che bisogna sempre leggere con le orecchie. Cioè che il ritmo è sovrano, perché il ritmo si porta appresso le parole, e le parole si portano appresso la storia. Il ritmo narrativo di Gadda non avrebbe mai potuto raccontare Bassani. Non l’avrebbe mai potuto fare, perché il suo ritmo si portava delle parole che raccontavano storie diverse. […] Ad esempio, io e Paolo Giordano non potremmo mai raccontare la stessa cosa, perché abbiamo ritmi narrativi diversi, che si portano dietro parole diverse, e quindi storie diverse. E questo non significa che io come lettore non apprezzi La solitudine dei numeri primi. Lo apprezzo, mi è piaciuto. […] Quindi, quando prendo manoscritti in mano, cerco di leggere con le orecchie, di mettermi in ascolto. E sembra una cosa vaga, in realtà non lo è assolutamente. Non lo è. Perché cercare il ritmo significa comunque cercare la lingua, e trovare in quella lingua delle storie che sono [belle]».[8] O, ancora: «È un mix di fiuto commerciale, pensiero laterale e intelligenza emotiva: una volta ogni 500 manoscritti, dopo pochi secondi capisci che c’è qualcosa. […] Io so quali sono le cose che mi interessano e scarto cose che interessano ad altri. Siamo come cani addestrati per l’antidroga, che hanno dei periodi finestra in cui sono attivi e altri in cui non si accorgono di nulla. I cani antidroga hanno una mezz’ora di attività ogni due ore. Noi abbiamo fasi di creatività della vita che ci costringono a cercare, e siamo dei furetti, ma cerchiamo solo un tipo di droga. Tanti sono i tipi di cane quante le case editrici».[9]

Un aspetto da tenere in considerazione, comunque, è quanto questi intermediari siano contigui alle case editrici: chi non è e non è mai stato consulente editoriale, pur suggerendo manoscritti, sembra usare come discrimine soprattutto il proprio gusto. Ad esempio, lo scrittore Paolo Nori: «Chiaramente il mio punto di vista non è un punto di vista editoriale. Ho il mio gusto, non mi preoccupo, quando leggo le cose, che una possa incontrare il gusto del pubblico. Considero pubblico me stesso… poi neanche, non ci penso nemmeno. Se il libro mi piace, lo consiglio, cercando di immaginare qual è la casa editrice [adatta]». Un caso molto interessante è quello de “iQuindici”: un gruppo di lettori volontari, costituitisi nel 2002 per rispondere a un appello dei WuMing, subissati da manoscritti che non riuscivano più a gestire. “iQuindici” sono oggi circa 40: «i profili professionali dei quindicini sono e sono sempre stati i più vari. Dal disoccupato al commerciante all’ingegnere all’insegnante all’informatico, qui è passato veramente di tutto. La cosa che ci sta più a cuore è l’amore per la lettura, e questo può essere coltivato da chiunque. Anzi, esperienze di vita diverse, crediamo, arricchiscono l’approccio collettivo alla discussione sui manoscritti più interessanti. Non mi pare ci sia mai stato nessuno il cui principale lavoro fosse nell’editoria. […] Invece, ci sono stati e ci sono scrittori tra i quindicini».[10] «Il progetto de “iQuindici” ha lo scopo di dare consigli e aiuto a chi scrive, e di promuovere un diverso concetto di accesso alla cultura, che si attua in buona parte con l’utilizzo e la promozione del copyleft[11] che ne consente una diffusione orizzontale»:[12] interessante è dunque capire come si organizza per valutare i testi questo gruppo, che in passato ha segnalato a case editrici anche testi importanti che sono stati poi pubblicati.[13] «Ogni testo che riceviamo viene assegnato a due lettori, che invieranno il loro parere all’autore. A differenza di quanto avviene nelle case editrici, ci impegniamo a leggere i manoscritti integralmente, tranne qualche raro caso in cui questo si rivela davvero impossibile, di solito per problemi tipo una insostenibile pesantezza della lettura unita a lunghezza fluviale dell’opera, oppure qualche motivo “ideologico” [contenuti razzisti, omofobi, fascisti eccetera]. In questi casi, facciamo presente all’autore le ragioni per cui la lettura ci è risultata impossibile. A questo punto, il nostro impegno con l’autore sarebbe finito. Se però uno dei due lettori, o magari entrambi, trovano un manoscritto che gli sembra, per qualunque ragione bello o interessante, lo segnalano agli altri quindicini, perciò il testo riceve ulteriori letture (che non sono più assegnate, ma sono su base volontaria). A seconda del grado di approvazione collettiva che il manoscritto raggiunge, può essere pubblicato sulla nostra rivista “Inciquid” o, in qualche caso, essere anche segnalato agli editori. In questo processo, ci aiutiamo usando voti numerici, ma questo spesso non basta a evitare lunghe discussioni e addirittura polemiche sul valore del manoscritto – che a dire il vero poi sono la parte bella del lavoro. […] Non ci siamo dati regole o criteri prestabiliti a cui attenerci nella valutazione, quindi ognuno di noi può aver dato un buon voto per una ragione differente. Del resto, è quello che accade per tutti i libri, probabilmente: ogni lettura è diversa dall’altra».[14]

Anche per quello che riguarda le considerazioni di natura commerciale, si nota una tendenza che è collegata alla maggiore o minore contiguità dell’intermediario a una casa editrice. Chi non ha contratti consulenziali è poco interessato alla vendibilità di un manoscritto. Paolo Nori, scrittore: «Faccio molta fatica a ragionare in questi termini. […] È anche abbastanza difficile dire cosa [possa vendere]. Ci sono poi dei libri che uno s’immagina che andranno bene [e non vanno bene]. Quel che piace a me, in generale, non so. Per esempio Fìdeg è andato molto bene, il primo di Paolo Colagrande, e non è un tipo di libro costruito per andare bene». Similmente anche “iQuindici”: «I princípi stessi di libera diffusione della cultura, di copyleft, di lettori volontari per passione, implicano proprio la ricerca e il desiderio di qualcosa al di fuori dei criteri di mercato. Il che non vuol dire che alcuni dei libri da noi scoperti non abbiano poi ottenuto un buon successo di vendite. […] Riteniamo che una lettura orizzontale, “dal basso”, come quella che noi offriamo, può e ha effettivamente aiutato a emergere alcuni buoni libri». Mentre Chiara Valerio, scrittrice, ma anche consulente per la casa editrice Nottetempo: «In realtà ci capita di dire questo libro è bellissimo, ma lo compriamo in tre. Ovviamente il lavoro del consulente da questo punto di vista è più facile, perché tu gli dici [all’editore] questo libro è bellissimo, è un libro clamoroso, però lo leggiamo in tre. Dopodiché qualcun altro deciderà se investire in quei tre lettori oppure no». Matteo B. Bianchi ha un approccio molto concreto: «Penso che la letteratura per sua natura sia uno dei campi in cui non vale la raccomandazione, non vale il nome, perché leggere è un piacere ma è anche un impegno. Chiaro che se sono il figlio di Berlusconi o Moravia mi fanno fare il libro subito, ma non vuol dire che avrà successo. Magari venderà per il mio nome, ma non sarà un successo, come noi intendiamo un successo letterario. Perché se il libro è brutto la gente non lo legge proprio e non farà passaparola. Mentre ad esempio Paolo Giordano, che nessuno se lo aspettava, è un libro di grande qualità. Può piacere o non piacere, ma non dici che è una schifezza, dopo averlo letto. È anche difficile, non ha il lieto fine. Gomorra è tutto tranne un libro semplice. Oppure Faletti: chiaramente la sua notorietà non giustifica un successo del genere, perché se pensi a quanti comici, anche più famosi di lui, hanno scritto delle cose… Claudio Bisio non è in classifica coi suoi libri, ma ne fa. Se il libro non piace non vai avanti». Mentre Mozzi: «Per me il rapporto fra la bellezza di un libro e il suo successo commerciale è abbastanza preciso: non è per caso se un’opera resta popolare. Resta, non diventa. Alcuni dei romanzi di Salgari, ma solo quelli e non tutti: se restano anche nella mia memoria c’è una ragione. Non sarà perché sono belli? […] Poi è chiaro che ci sono diversi tipi di bellezza. […] La bellezza è storica, se noi cerchiamo di leggere Tibullo è noioso, anche Catullo. Saffo no, perché? Non lo so. Bisognerebbe intervistare 14 filologi per aver dati su cui ragionare. La bellezza cambia nel tempo. Perché è rimasto Don Chisciotte e non gli altri scritti di Cervantes che sono più letterari? Non lo so. […] Nell’immediato non c’è nessuna relazione: la maggior parte libri brutti non ha successo, alcuni libri belli hanno successo». Ed è interessante quello che dice Mozzi circa la bellezza di un libro: «La qualità è il pudico nome della bellezza in una società industriale. Ovvero se non si ha fegato di dire che un libro è bello, si dice che è di qualità. […] Parlare di qualità e non di bellezza serve a non affrontare il tema della bellezza, cercando presupposti oggettivi, ma mi sembra filosoficamente insostenibile. La “letteratura di qualità” è una categoria merceologica».

Ma queste risposte non bastano a capire l’atteggiamento degli intermediari verso il successo commerciale. Lo stesso Mozzi, del resto, nonostante l’unanime stima che ho riscontrato nelle interviste verso la sua opera di scopritore di scrittori inediti, sembra schernirsi: «Se porto un libro in redazione viene normalmente rifiutato, perché la selezione è dura e ora è durissima. […] È più facile dire no che sì, visto che di solito porto autori senza storia alle spalle. […] La differenza fra me e gli altri sta nella forma di disponibilità che io ho scelto come metodo, è anche un’etica. Per chi sta nelle case editrici l’autore inedito non contrattualizzato prende un sacco di tempo: bisogna stargli distante. Se [invece] io porto un testo, viene guardato con attenzione e interesse, specie se è lontano dal mio gusto». Ma secondo Alberto Castelvecchi, oggi agente e consulente, ma in passato editore e fondatore dell’omonima casa editrice, che ha lanciato molti esordienti che hanno avuto successo: «Un gate-keeper fa o non fa pubblicare libri, e i libri hanno un risultato commerciale. Lui rimane a galla a seconda che gli editori lo vedano come un fastidio o una risorsa. È uno degli elementi dell’ingranaggio del mercato editoriale e ciò è incontestabile. […] Io ho una reputazione come scopritore di talenti perché ho scoperto talenti. Ma non lo dico io, bensì il risultato di mercato». Anche se l’attenzione soprattutto al risultato commerciale non accomuna tutte le realtà editoriali italiane: «Nelle case editrici piccole, e/o, minimum fax, le solite, i risultati sono soprattutto culturali. Ma i mediatori culturali di oggi hanno esercitano anche una mediazione industriale, quelli di ieri invece erano solo mediatori culturali» (Castelvecchi). Inoltre le dinamiche che determinano l’apprezzamento culturale sono cambiate: «Capisci presto chi è la serie A [dell’editoria]. La serie A è fatta da non più di 300 persone. […] Ma entro quelle 300 persone c’è una sub-mafia più ristretta, di massimo 150 persone, che determina i risultati culturali. Sono difficili da misurare. […] Una volta le recensioni valevano. Ma ora l’attribuzione di un prestigio culturale è fatta da reputazione critica, reputazione mediatica e reputazione su internet. Ma tutti sono molto sospettosi sulle pagine culturali e sulle recensioni» (Castelvecchi).

Peraltro gli agenti del campo letterario che cercano autori e opere inediti sono solo marginalmente interessati alla loro commercializzazione. E, comunque, non si ritengono particolarmente capaci di valutare questo aspetto. Eppure sono gli intermediari più stimati per la loro capacità di individuare talenti: non credo proprio che questo riconoscimento dipenda solo dalla loro disponibilità. È più ragionevole pensare che siano riconosciuti da editor ed altri agenti costituenti il campo editoriale per via di capacità e conoscenze tacite, difficilmente trasferibili e codificabili, ma fondamentali per la ricerca di opere inedite.

6. Narrazioni a confronto

Abbiamo descritto i criteri di selezione che guidano gli attori che, nel campo letterario, detengono la legittimazione a valutare, scegliere o consigliare testi per la pubblicazione. I discorsi di editor, editori, direttori editoriali, agenti letterari e intermediari coincidono nella fase di analisi: c’è convergenza nella descrizione del catalogo di tutte le caratteristiche che un romanzo dovrebbe avere per essere buono, interessante, pubblicabile. Le differenze cominciano a emergere quando si va a mettere in luce quali, di questi aspetti, siano prioritari.

Gli editor, nel loro insieme, individuano due gruppi di caratteristiche principali: lingua, voce e stile da un lato; storia, tema e struttura dall’altro. Nel raccontare il loro lavoro di ricerca, sostengono di attribuire attenzione ad entrambe le caratteristiche ma, ad un’analisi più approfondita, si vede come gli editor delle case editrici più grandi si riferiscano più spesso alla storia, che alla lingua. Viceversa, e in maniera ancora più forte, gli editor delle medie editrici sono molto più focalizzati su lingua e stile. Il motivo può essere probabilmente ricercato nel bisogno di trovare un proprio spazio nel mercato editoriale. I gruppi più importanti hanno un preciso posto negli scaffali delle librerie, un marchio riconosciuto ed una lunga tradizione. I loro sforzi non sono più diretti a farsi conoscere, differenziandosi dai concorrenti; è piuttosto importante, per loro, l’affermazione di ogni libro pubblicato. Lo confermano gli agenti letterari quando sostengono che le grandi case editrici cercano storie che funzionino, più che libri letterari. Viceversa, il bisogno degli editori medi di conquistare una nicchia, in cui affermare le propria identità, passa principalmente dall’affermazione del proprio spessore culturale. La ricerca di testi di qualità è conseguenza del bisogno di competere in maniera diversa rispetto ai propri avversari di dimensioni maggiori. Se una Minimum Fax replicasse semplicemente la strategia di una Mondadori, senza averne la forza commerciale e dimensionale, avrebbe vita e fortuna brevi. Invece la comunicazione della propria diversità, insieme alla sincera ricerca di opere che la giustifichino, permette di rafforzarsi presso fasce di lettori tradizionalmente intesi come appartenenti ad una élite culturale. Tutto questo, vale la pena sottolineare, sia detto senza giudizi di valore alcuno sul catalogo di questa o quella casa editrice: non siamo noi a doverli e poterli dare. La necessità di un “manico” o di un focus specifico per ogni libro, evocata dagli editor delle grandi editrici, ma non da quelli delle medie, conferma quanto detto: il discorso delle medie va nella direzione di caratterizzare i libri come di qualità. Nel momento in cui questo argomento è sottratto alle grandi, è necessario per queste comunicare ogni singolo libro in maniera peculiare.

Ciò in cui invece si somigliano le narrazioni degli editor è nell’indicare come fondamentali per il proprio lavoro di ricerca e selezione fiuto e altre caratteristiche inerenti una capacità tacita, non codificabile. Si tratta di un sapere pratico, un habitus, per dirlo nella terminologia di Bourdieu. Si diventa editor per fiuto e «apprendendo il mestiere come nelle botteghe artigianali del medioevo» (Castelvecchi). Non si può poi non affrontare l’annosa questione del rapporto fra successo commerciale e qualità di un’opera letteraria. Va però rimarcato come questo secondo concetto sia sfuggente ad una definizione precisa. Si invoca la qualità ma non la si può descrivere. È quello che dicono gli editor e gli altri agenti del campo letterario nelle pagine che abbiamo visto. È quello che mi ha detto un importante critico letterario quando l’ho intervistato, sostenendo che sarebbe stata necessaria un’altra intervista di tre ore, per cominciare a sbozzare il problema. Detto questo, nei discorsi degli editor delle case editrici più grandi, sono presenti in maggior misura criteri di natura commerciale, in quelli delle medie criteri che hanno a che vedere col valore letterario. Le piccole si caratterizzano maggiormente per una identificazione della linea editoriale coi gusti dell’editore. Ovviamente non si può avere la pretesa di generalizzare, ma le case editrici di maggiori dimensioni sarebbero quindi più rivolte al successo economico, le medie al riconoscimento culturale. È una conclusione che non stupisce, del resto, visto che le prime appartengono a gruppi industriali, a volte quotati in borsa, mentre le seconde hanno una diversa struttura proprietaria, con minori costi fissi. Ed è anche confermata dalle parole degli agenti letterari, che sostengono che gli editor richiedono loro opere in grado di vendere: per quello che abbiamo visto, si tratta di opere dalla storia forte, più che manoscritti molto letterari.

Quella del rapporto fra dimensione e orientamento è una chiave di lettura ragionevole, ma che appare incompleta e, quindi, parzialmente insoddisfacente: è come se ci fosse un cospicuo rimosso collettivo, specie in chi lavora per le case editrici a vocazione più industriale, che riguarda il fatto che i libri sono destinati ad essere venduti. Un rimosso che si presenta come excusatio non petita o come una narrazione di se stessi e del proprio lavoro che tende non enfatizzare l’obiettivo di vendere libri. Una narrazione della propria professione come si vorrebbe che fosse, forse, più che come effettivamente è.[15] Quasi come se vendere molti libri fosse una cosa sporca, poco etica. Lo si evince bene dal fatto che, quando ci viene detto che le case editrici sono imprese commerciali, e che quindi devono vendere per sopravvivere, questa affermazione viene fatta come se fosse una presa di posizione coraggiosa, e non una tautologia. Si tratta probabilmente della conseguenza di un pregiudizio ancora molto forte, nell’ambito editoriale, che riguarda la divisione fra una cultura alta e una bassa, una riservata alle élites e una che vende. Ne raccogliamo svariate evidenze: nella continua, trasversale a tutti gli intervistati, difesa della qualità, ad esempio, di La solitudine dei numeri primi, apparentemente messa in dubbio dal suo successo, o nel fatto che tutti sembrano avvertire la necessità di sostenere che non necessariamente un libro che vende debba essere brutto. L’idea che ci siamo fatti è che gli editor sono più interessanti a vendere libri di quanto non vogliano ammettere, temendo critiche e accusa di venalità. Non pensiamo che vendere libri ne mini il valore culturale, ma smontare questo pregiudizio va oltre il nostro obiettivo attuale. Quello che abbiamo provato a fare è stato gettare luce sui criteri adottati dai diversi attori del campo letterario nello scegliere libri, mettendo in luce alcune discrepanze emerse confrontando le rispettive narrazioni. Rimane un cammino interessante per la ricerca futura. Quello che ci interessa maggiormente, in questa sede, è constatare che, probabilmente, il timore di apparire troppo interessati alle vendite ha fatto sì che i discorsi degli editor fossero in parte normalizzati a un ideale di quello che è giusto e opportuno raccontare circa la fase di selezione e ricerca.

Il tema dell’esordio resta infine particolarmente interessante da questo punto di vista: si concentrano qui sia aspetti economici che culturali. I primi, più frequentemente evocati a giustificare la ricerca di nuovi autori. I secondi, motivati dalla ricerca di un rinnovamento: nuove voci, nuove scritture in grado di raccontare tempi nuovi. Riteniamo che l’analisi degli esordienti sia un terreno privilegiato per studiare le politiche di selezione da parte degli editor: in questo caso, infatti, tutto il potere contrattuale, tutta la forza di scelta è dalla parte loro e delle case editrici. Non ci sono successi precedenti a giustificare nuove pubblicazioni. L’analisi interdisciplinare degli esordi letterari ci può permettere di capire molto su come funziona il campo editoriale contemporaneo.

Repertorio degli intervistati[16]

Si riporta l’elenco completo degli intervistati: le citazioni testuali riportate in questo articolo riguardano solo parte di essi; cionondimeno ogni intervista è presente in filigrana, avendo contribuito alla complessiva comprensione dei meccanismi che si è cercato di descrivere.

Editor (CE grandi)

Edoardo Brugnatelli (Mondadori); Antonio Franchini (Mondadori); Silvia Demichele (segreteria letteraria Mondadori); Joy Terekiev (Mondadori); Dalia Oggero (Einaudi); Paolo Repetti (Einaudi Stile libero); Michele Rossi (Rizzoli); Alberto Rollo (Feltrinelli)

Editor (CE medie)

Laura Bosio (editor indipendente; consulente editoriale di Guanda); Gianluca Catalano (e/o); Francesco Colombo (Baldini Castoldi & Dalai); Jacopo De Michelis (Marsilio); Nicola Lagioia (Minimum Fax); Martina Testa (Minimum Fax)

Editor (CE piccole)

Marianna Martino (Zandegù); Davide Musso (Terre di Mezzo); Giorgio Pozzi (Fernandel); Claudia Tarolo (Marcos y Marcos)

Agenti letterari

Valentina Balzarotti Barbieri (ALI); Luigi Bernabò (Luigi Bernabò & Associates); Kylee Doust (Kylee Doust Agency); Agnese Incisa (Agnese Incisa Agenzia Letteraria); Roberto Santachiara (Roberto Santachiara Literary Agency); Stefano Tettamanti (Grandi & Associati); Marco Vigevani (Marco Vigevani Agenzia Letteraria).

Altri agenti costituenti il campo letterario

Paolo Nori; Luigi Bernardi; Gianluca Morozzi; Tiziano Scarpa; Michele Vaccari; Wu Ming 1; Wu Ming 4; Jadel Andreetto; Silvia Avallone; Paolo Giordano; Roberto Saviano; Massimo Vitali; Chiara Valerio; Giulio Mozzi; Matteo B. Bianchi; Giorgio Vasta; Marco Peano; Helena Janeczek; Alberto Castelvecchi; Federica Manzon; Dario Voltolini; Roberta Vasario; IQuindici; Ermanno Cavazzoni; Viktoria von Schirach; Andrea Cortellessa; Stefano Salis; Romano Montroni; Marino Sinibaldi; Cesare Sughi; Riccardo Fedriga; Angela Castellano; Luca Devigili


[1] Gli esempi erano la trilogia Millennium di Stieg Larsson (Marsilio 2007-2009) e L’eleganza del riccio di Muriel Barbery (e/o 2007).

[2] Come nella citazione che segue, per motivi di riservatezza non posso citare la fonte.

[3] Anche in questo paragrafo, per motivi di riservatezza, non attribuiremo le dichiarazioni ai singoli intervistati.

[4] Non si fa riferimento qui alla valutazione a pagamento di manoscritti inediti, realizzata da diversi agenti letterari. Si tratta infatti di un’attività che non è orientata a selezionare manoscritti da proporre agli editori.

[5] Una trattazione più diffusa di questi intermediari è oggetto di un mio altro articolo tratto dalle tesi, attualmente in revisione per la pubblicazione.

[6] Il sito http://vibrisselibri.wordpress.com pubblica, con la formula del copyleft, opere letterarie e saggistiche liberamente e gratuitamente scaricabili; è anche una sorta di agenzia letteraria, che propone alle case editrici tradizionali le opere già pubblicate in rete.

[7] Giulio Mozzi valuta romanzi, Matteo B. Bianchi racconti. La differenza non inficia il discorso sul ruolo di mediazione, serve, anzi, a presentare esempi diversi.

[8] Intervista a Chiara Valerio, scrittrice, consulente di Nottetempo, redattrice di «Nuovi Argomenti» e «Nazione Indiana».

[9] Intervista ad Alberto Castelvecchi, agente letterario, consulente editoriale, ex editore.

[10] Intervista a “iQuindici”.

[11] L’espressione copyleft indica un sistema di gestione del diritto d’autore analogo a quello delle licenze creative commons, che si articola in diverse possibili licenze, accomunate comunque dalla fruibilità gratuita dell’opera, a patto che non venga usata per scopi commerciali e, se modificata o riprodotta, lo sia sotto la licenza originaria.

[13] Tutti i romanzi segnalati da iQuindici e poi pubblicati sono disponibili gratuitamente sul sito del gruppo: www.iquindici.org/download.php?list.19

[14] Intervista a “iQuindici”.

[15] Per quello che vale, l’opinione di chi scrive è che se si pubblica un libro, desiderio condiviso dell’autore e dell’editore sia che l’opera sia letta da più persone possibili. Nell’attuale industria editoriale ciò equivale a dire che sia venduta nel maggior numero di copie possibili.

[16] Il riferimento alla sede di lavoro è riferito agli anni delle interviste (2010-2011); ringrazio per la disponibilità tutti gli intervistati, e in particolare Giulio Mozzi. Un grazie ad Anna Baldini e Michele Sisto per i preziosi consigli riguardo questo articolo.

[Immagine: Candida HöferWitt Library, London (2004) (gm)].

 

14 thoughts on “La selezione degli inediti di narrativa nel campo editoriale contemporaneo/ 2.

  1. Disanima molto interessante, che riesce a toccare vari aspetti della ‘questione’. Ma finché si parla di “piccoli” editori come Marsilio o Fazi, tutto appare più roseo di quanto non sia in realtà. Una disanima completa sull’editoria e sull’esordire non deve però prescindere dal raccontare quello che accade nelle case editrici molto più piccole, dove spesso e volentieri vengono spezzati sogni e talenti per mano di personaggi loschi, vigliacchi e narcisisticamente tirannici. Non serve fare i nomi(gnoli)… chi bazzica da queste parti li conosce già.

  2. E’ incredibile come un concetto così semplice possa essere complicato dai discorsi. La qualità dell’arte si deduce dalla sua capacità di raggiungere un numero considerevole di soggetti, non solo gli “addetti ai lavori” ma anche persone profane in materia. L’arte VERA raggiunge i sensi prima che l’intelletto (con tutte le sue artificiose strutture e in questo termine includo anche la cultura ). Faccio un esempio che m’è rimasto impresso: eravamo in tanti in una chiesa dove di lì a poco si sarebbe esibito un vero “genio” del pianoforte. Un neonato piangeva a squarciagola. Non appena le note delicate e sapienti del maestro lo raggiunsero, smise di piangere. Ecco, questa è l’arte!

  3. Mi dispiace iniziare un commento e dire che tutti coloro che scrivono in questo sito lo fanno con tante parole e quasi tutte uguali nel concetto. Io ho dato il mio primo libro a un “editor” che mi promise meraviglie. (ha ancora pubblicità nella pagina) Sparì per un tempo e dopo averlo rintracciato, dato che avevo versato un acconto e inviato il materiale, il suo seguirmi si ridusse a qualche suggerimento e nella prima parte lo inviò con periodi cambiati ma non sinonimi, cioè io descrivo un treno in percorso lineare e mi si cambia con l’arrampicarsi del mezzo, e cose di questo genere. Nella seconda parte la cosa fu peggiore alternando i capitoli cui non avevano più senso. si scusò dicendo che era dispiaciuto ma poteva rimetterlo a posto, dandogli tempo e sottinteso mas dinero. Un’agenzia letteraria mi spillò denaro e lo scritto neppure fu aperto, dato il tema mi disse impublicabile. altro mi chiese trenta milioni + togliere la parte storica, e altro che si descrive la casa più premiata chiese7.500Eu. io vedo soltanto una foresta di avvoltoi. Mi sbaglio? Cordialmente.

  4. Ottimo articolo(ne), Luca Pareschi, con interessanti interviste, giudizi, buoni propositi (concordo con chi dice che il ritmo è sovrano – Chiara Valerio?)… Poi c’è la “volgare” realtà. Non conosco gente di case editrici, ho mandato ad alcuni editor un manoscritto – ammetto che a quei tempi, due anni fa, il mio testo aveva bisogno di una spietata revisione, e poi l’ho fatta – senza aver ricevuto un cenno di risposta (tranne Einaudi), al punto che oggi non so neanche a chi l’ho inviato a chi no. Ma pazienza, è l’Italia. Conosco invece tre agenti letterari. Il primo, uomo senza nome, mi ha fatto una disamina del manoscritto, lodando le cose buone e indicando ciò che avrei dovuto eliminare e/o ampliare. Bravo. Gli sono grato. Il secondo, una donna, ha mostrato di non aver capito dei passi-chiave della storia. Ohibò! Non era di… madrelingua italiana. Soldi sprecati. Il terzo, un’altra donna, mi ha fatto un’analisi saccente, quasi infuriandosi su certe cose che non le piacevano, menzionando altri autori affermati che invece avevano scritto meglio di me, lamentandosi ripetutamente del fatto che non succedevano cose forti, ripetendo che mancava la contemporaneità, senza spiegare cosa significasse (perché la storia è ambientata nel secolo scorso). Insomma, una nevrotica. Il più onesto è stato quello (il quarto) che mi scritto: Dispiace molto, ho da fare, non ho tempo. Bene, ma allora perché non mette un cartello, off limits? In ogni caso il tratto comune era questo: tutti giudicavano secondo i concettini che immagino si insegnano nelle scuole di scrittura, quelli buoni per chi siede sui banchi per diventare scrittore (Dio santo!): questo dev’essere così, quello dev’essere cosà. Un modo per escludere una buona metà della letteratura mondiale. In Danimarca certi editor cercano di addestrare ragazzetti alla narrazione per farli diventare grandi scrittori. Ridicolo! Grazie dell’articolo, Pareschi, ci sono voci di persone in gamba. Cordiali saluti. Un giornalista.

  5. Rispondo ad “Acquirente”, secondo cui – cito – “gli editori si lamentano del fatto che gli aspiranti scrittori non leggano. Ma non mi sembra che gli autori da loro pubblicati denotino chissà quale erudizione.” Beh, sono d’accordo sul fatto che spesso escono dei libri illeggibili già dalla prima pagina (con o senza erudizione), la quale o è ancora la solita descrizione di un paesaggio, di cui non frega niente a nessuno, o nel caso “erudito”, la descrizione iper accurata e iper stucchevole, e talvolta iper intellettualistica, di qualcosa che dovrebbe essere “il terreno” da cui si sviluppa la storia (vedi Ferocia). Teniamo però presente che gli editori – lo hanno sempre detto – sono sommersi da robaccia infame scritta male e probabilmente pensata male. E ricordiamo che è grazie a loro che noi abbiamo (avuto) la possibilità di leggere delle belle storie. Però, sembra ormai che anche gli editori siano preda di una degenerazione mentale dovuta a questa stupida società dominata da sequel televisivi, film horror e telenovele. Al punto che se non presenti un romanzo dove non ci sia almeno una morte tragica (vedi Nicholas Sparks, Zafon e tanti altri), un delitto raccapricciante, una investigazione del solito acuto ispettore o roba del genere, le chances che hai sono molto poche. E’ vero, dirà qualcuno, che le pallosità filosofiche di Javier Marìas hanno ottenuto la pubblicazione, ma sono fenomeni rari. Resta il fatto che anche le agenzie letterarie si adeguano. Se non mandi una serie di scempiaggini su te bambino e la tua famiglia, o la storia trucida di una donna assassinata, sei considerato un caso strano. E gli agenti letterari non se la sentono di proporre casi strani, cioè alternativi a tali temi. E ti cestinano. Il conformismo, impastato di uno strano nazionalismo inteso come “le nostre piccinerie, papà mamma e il tricolore”, gli dà la giustificazione per cestinarti. Ma leggono volentieri – è ovvio – i lavori di tutti, a patto che tu paghi la prestazione, così anche loro, gli agenti, possono sopravvivere con onore, in attesa del fulgido capolavoro (se guardiamo i premi Strega, negli ultimi anni capolavori non se ne sono visti affatto, tutt’altro). Nel frattempo, come dice Acquirente, gli editori pubblicano roba avuta attraverso raccomandazioni. Siamo in Italia. D’altra parte il lavoro a tavolino di un bravo editor, quando si dedica alla rimodellazione di un romanzo nato moscio, può fare miracoli. Per cui non capisco quei soloni che con una smorfia sconsigliano agli esordienti di pubblicarsi a proprie spese.

  6. C’è una marea di talenti senza gloria a fronte di tanta gloria senza talento. E’ questa la vera tristezza.

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