cropped-thomas-struth-museo-del-prado-room-12-madrid-photographs-chromogenic-print-c-print-zoom-2.jpgdi Pierpaolo Antonello

[Dimenticare Pasolini (Mimesis 2013) di Pierpaolo Antonello è un libro molto interessante e molto discutibile. Antonello interviene nel dibattito sul destino degli intellettuali in epoca contemporanea attaccando il topos della crisi: gli intellettuali non sono scomparsi; si sono semplicemente trasformati. Ciò che è scomparso è la figura dell’intellettuale legislatore, il cui ricordo si incarna nel mito contemporaneo di Pasolini. Per Antonello, la fine di questo archetipo è «un fatto emancipativo, una circostanza benvenuta», l’indicazione di un passaggio epocale da una mediazione verticale, autoritaria e aristocratica a una mediazione orizzontale, anarchica e democratica, quella che troviamo incarnata nell’intellettualità diffusa delle nuove generazioni scolarizzate, nei media e nella rete.
Secondo Antonello, non è vero che il lavoro intellettuale sia antitetico ai media, né è vero che i media producano imbarbarimento culturale: è vero anzi il contrario. Allo stesso modo non è vero che la società postmoderna sia segnata dal riflusso, dal disimpegno politico e civile; esiste invece una forma di impegno culturale postmoderno che assume forme nuove, specifiche e rilevanti. «Il lamento di coloro che considerano l’Italia contemporanea un deserto culturale, intellettuale e morale, va analizzato in termini sintomatici più che come diagnosi effettiva sulle condizioni del presente, che è molto più variegato, complesso, dinamico e interessante di quanto si voglia comunemente pensare». Si può non essere d’accordo con Dimenticare Pasolini, ma non si può negare che si tratti di un libro importante per il dibattito contemporaneo].

Per una Bauhaus intellettuale

Di libri sul ruolo e sulla funzione degli intellettuali, soprattutto sulla loro crisi e presunta scomparsa, se ne pubblicano a iosa ogni anno in Italia. È una sorta di basso continuo nel dibattito sullo stato della cultura italiana, con una prevalenza di toni scettici, critici, a volte disperati per la perdita di uno dei capisaldi nella definizione non solo della cultura italiana ma della stessa identità nazionale, visto la storia particolare che ha caratterizzato il paese, dove gli intellettuali, da Dante in poi, hanno svolto un ruolo di coscienza critica e di collante identitario, rispetto alle frammentazioni politiche e sociali patite dall’Italia nella sua storia. Si tratta a volte di un cicalìo un po’ auto-indulgente di un gruppo sociale molto limitato numericamente, ma molto coeso in termini di habitus, che non trova presso il pubblico l’attenzione e l’interesse che presume di meritare, convinto della propria fondamentale necessità per la salute della vita democratica del paese e per costruire una società più giusta, ma marginalizzato dalle dinamiche socioeconomiche e politico-culturali contemporanee. Questo libro pur rendendosi evidentemente colpevole nel confermare questa moda di ascultazione narcisistica, non vuole unirsi al coro del lamento, ma intende porre l’accento su alcune questioni di base – definizione di intellettuale e i suoi miti, rapporto con i mass-media e con l’ideologia, vari luoghi comuni da rivedere rispetto al suo ruolo in epoca contemporanea – che meritano di essere ripensate da un’angolazione diversa da quella sostenuta finora da più parti, anche sulla base di alcuni cambiamenti epocali occorsi negli ultimi decenni, non solo con l’entrata dell’Italia in una fase definita come postmoderna (o tardo-moderna), ma con l’emergere dei nuovi strumenti di comunicazione di massa (web e social networks su tutti). Si tratta da un lato di rimettere in moto la discussione in termini che non si appiattiscano su formule obsolete o sulle vulgate giornalistiche; dall’altra di intercettare e di interpretare in maniera sintomatica non solo le voci dei cosiddetti «intellettuali pubblici» o «militanti», ma di quell’intelligenza diffusa e rizomatica che si sta affacciando sul proscenio della discussione intellettuale e politica globale e i cui contorni precisi, in termini di prassi e di identità, sono in piena fase di definizione.

Ma servono veramente gli intellettuali?

La tesi di fondo da cui muove questo libro è semplice, e prende spunto dall’analisi comparativa fatta nel primo capitolo fra la tradizione culturale italiana e quella inglese, due contesti dove il rapporto tra la classe intellettuale e la sua rappresentazione si pone ai poli opposti di un possibile spettro: nel caso italiano, con una vistosa richiesta e necessità strategica e funzionale di intellettuali pubblici, mentre in quello inglese, con una loro latitanza protratta e sistematica. Leggendo Absent Minds di Stefan Collini, un ampio resoconto storico sulla congenita assenza di intellettuali – nel senso continentale del termine – in Gran Bretagna, si può cominciare a chiedersi se il genere di intellettuali che abbiamo prodotto in Italia siano alla fine veramente serviti a un processo di autocoscienza e di emancipazione generale: in termini di libertà individuali, pluralismo e tolleranza, diritti civili, promozione culturale e della ricerca, alfabetizzazione diffusa, moralità ed efficienza della politica, non sembra che il modello inglese abbia maturato alcun ritardo rispetto a quello italiano, anzi. Allo stesso modo quando viene invocata la società dei consumi e il capitalismo avanzato o la pervasività dei media come responsabili della povertà culturale dell’Italia e della sua implosione politica, ci si chiede in maniera perplessa (come ha fatto recentemente Alberto Asor Rosa in Il grande silenzio), come mai gli Stati Uniti, dove la «società dello spettacolo» sembrerebbe ubiquita, abbiano prodotto Barack Obama, mentre l’Italia ha dovuto scontare 17 anni di berlusconismo. Il che testimonia semplicemente che nel discorso sugli intellettuali pubblici e nel lamento per la loro scomparsa c’è sempre stato un sovradimensionamento del potere effettivo che questi possono avere per le sorti morali e civili di una nazione moderna.

Estinzione degli intellettuali e emancipazione

Qualcosa evidentemente non quadra in molte semplifi cazioni argomentative che testimoniano, più che «l’estinzione» degli intellettuali e le relative conseguenze deleterie per la cultura nazionale, una sorta di conformismo critico da una parte, dall’altra una iper-semplificazione dei problemi soprattutto a ridosso del complesso rapporto fra intellettuali, industria culturale e mass-media, anche per la continua ridescrizione del campo che quest’ultimi impongono e che si trova oggigiorno di fronte a una ulteriore vistosa rivoluzione. Il problema relativo al lamento sulla scomparsa degli intellettuali infatti coincide soprattutto con la mancanza di cooptazione da parte dei media tradizionali, tanto vituperati come agenti del “pensiero unico edonistico-merceologico” o liberal-capitalistico, ma in realtà stimati come utili, o fondamentali, per la costruzione culturale del paese, dal momento che ci si lamenta costantemente della loro stupidità, con il desiderio neanche tanto inconfessato che possano dare spazio (e remunerazione) alla cultura, ovvero agli intellettuali stessi. D’altra parte, il fatto che la politica, sempre più chiusa in meccanismi autoreferenziali e di casta, abbia cercato sempre meno di cooptare gli intellettuali a scopi di auto-legittimazione, non vuol dire che gli intellettuali abbiano smesso di essere presenti all’interno della società e di continuare a operare fattivamente nel proprio ambito socio-culturale o che l’effetto complessivo della loro opera sia diminuito. Del resto il massiccio ricorso a governi tecnici negli ultimi decenni (l’ultimo caso emblematico, il governo Monti), ovvero pilotati essenzialmente da professori universitari, cioè da intellettuali, la dice lunga sulla possibilità di prescindere anche in politica da questa categoria sociale. È sintomatico poi come una delle iniziative culturali e editoriali dell’ultim’ora, «Alfabeta 2», che cerca di rinverdire una delle esperienze più vivaci per il dibattito culturale in Italia degli ultimi trent’anni, si apra proprio con uno speciale dedicato alla scomparsa degli intellettuali. Nonostante la rivista riesca a raccoglierne la collaborazione di svariate decine, in vari campi disciplinari, testimoniando una certa vitalità del campo (amplificata anche dalle susseguenti discussioni in rete), si preferisce comunque sposare in maniera irriflessa la trita ipotesi della loro scomparsa o carenza di rappresentazione.

È evidente che il lamento per la scomparsa degli intellettuali (pubblici) ha carattere eminentemente autoreferenziale che, oltre a sovrastimarne l’effettiva incidenza degli stessi nel costruire il dibattito e la coscienza nazionali, non tiene conto di strutture sociologiche e antropologiche consolidate, nonché di vincoli strutturali e di sistema, che hanno un’incidenza ben maggiore nella costruzione di un ethos pubblico generale e che rimangono i veri ostacoli per una più diffusa e capillare opera culturale e politica di carattere emancipativo. Inoltre perde di vista, quella intellettualità diffusa che rimane la grande risorsa civile e morale del nostro paese e che molto raramente viene considerata nella discussione su ruolo e funzione degli intellettuali in Italia.

La tesi di fondo di questo libro vuole ribaltare proprio in questa direzione i termini della questione, chiedendosi se la presunta scomparsa dell’intellettuale pubblico, dell’intellettuale vate, esemplificata dal «mito» che si è costruito attorno alla fi gura di Pier Paolo Pasolini, debba essere salutata non tanto in termini “apocalittici” o nostalgici ma come un fatto emancipativo, come una circostanza benvenuta, una salutare liberazione. È l’indicazione di un passaggio storico essenziale che tende a sciogliere la società da forme forti di mediazione e di vincoli e strettoie culturali, attraverso quel tipico esercizio di gate-keeping, di controllo del campo, che è prerogativa di qualsiasi organicità di intervento intellettuale, lasciando spazio a una mobilitazione “anarchica” e orizzontale, democratica e spontanea, delle risorse intellettuali e culturali. Una intellettualità diffusa da preferire a un intellettualismo di carattere verticistico e moralistico, prescrittivo e paternalistico, che si stabilisce attraverso meccanismi orizzontali di network e non più in termini di funzione “organica”. Se gli intellettuali storicamente hanno assorbito la funzione dei chierici, in un contesto come quello italiano, significherebbe finalmente approdare a una sorta di riforma “protestante”, con sempre meno cardinali e vescovi e sempre più curati di campagna.

[…]

Intellettuali e media

Tutto questo è diventato ancora più evidente con l’entrata in una società dell’informazione e della comunicazione, dove ormai buona parte dei rapporti privati e pubblici sono stati colonizzati dalla tecnologia. Visto da un punto di vista “interno”, questo comporta una ancora maggiore indeterminazione dell’intervento intellettuale e culturale, visto il forte filtro di mediazione imposto dai mezzi di comunicazione che non permette mai di stabilire in che modo i messaggi vengano recepiti, reinterpretati e usati (se ne discute nel secondo capitolo); visto da un punto di vista “esterno”, ovvero storico e sociologico, bisogna ricordare come le rivoluzioni tecnologiche abbiano sempre provocato delle forti accellerazioni cognitive e sociali, e mai come il tempo presente tutto lo spazio di relazione è saturato da scambi informativi che rispondono a logiche sia locali che globali e che stanno producendo rilevanti effetti sociali e culturali, già previsti all’inizio degli anni ’80 nei luoghi dove questa rivoluzione è nata, ma che ora sono sotto gli occhi di tutti. È una rivoluzione che moltiplicando esponenzialmente la capacità di distribuzione informativa e di interconnessione sociale accelera alcune trasformazioni già in atto con i media tradizionali, cambiando necessariamente lo statuto del lavoro intellettuale. L’impegno è tutt’altro che estinto in epoca postmoderna, ma è di fatto ridefinito sia in termini di auto-rappresentazione che di prassi, soprattutto quando sta diventando chiaro che l’azione politica di base passa attraverso meccanismi di network e non di più di leadership. Ne sono un esempio tutti i movimenti spontanei di protesta affi orati negli ultimi 15 anni, dai no-global agli indiñados. È una rivoluzione tecnologica che è anche umana, relazionale, culturale e conoscitiva e che mette in rete una massa di persone critiche producendo effetti di carattere sistemico e organizzativo che aumentano sia la velocità che la qualità dei giudizi collettivi, rendendo di fatto la fi gura dell’intellettuale pubblico tradizionale del tutto obsoleta.

Gramsci reloaded

A dire il vero i presupposti teorici per una defi nizione di intellettuale aggiornata al tempo presente si trovano già tutti in Gramsci, che non a caso rimane ancora oggi un punto di riferimento nel dibattito internazionale a riguardo – un Gramsci ovviamente depurato da troppa ideologizzazione. La grande risorsa del pensiero gramsciano è il suo carattere «aperto», la sua visione estensiva del lavoro intellettuale, che non riguarda solo l’intellettuale organico, a servizio di un progetto egemonico, né solo l’intellettuale pubblico, il maître à penser di turno, designato dalle mode del momento, ma tutti coloro che si occupano di cultura, della sua produzione, trasformazione e diffusione. «Per intellettuali – scrive Gramsci – occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo». È importante sottolineare l’ampiezza e l’inclusività di tale defi nizione che contiene un fondamentale aspetto democraticonel prescrivere un’azione intellettuale a una varietà di soggetti con diffe renti funzioni sociali, mentre il discorso sugli intellettuali comunemente intesi si riduce alla categorizzazione degli interventi culturali e critici di un ristretto gruppo sociale (con forti tendenze all’autoreferenzialità), limitato essenzialmente a scrittori e filosofi, cioè coloro che esercitano una funzione critico-speculativa attraverso strumenti e modalità discorsive informate da una certa tradizione umanistica (spesso caratterizzata da una visione romantica della modernità). Sempre in ambito di discussione teorica, è da sottoscrivere la considerazione di Giulio Ferroni che scorge in Gramsci la necessità di andare al di là dell’esigenza contingente e storica «di ricondurre la cultura al dominio della nuova classe», mentre resiste e si impone «la passione più disponibile per i singoli oggetti, per le situazioni, i dati, le esperienze, le materie, i libri stessi nella loro fisicità». Questo presuppone, ancora una volta, una ridescrizione della dimensione “egemonica”, attraverso uno spostamento da una concezione funzionale dell’intellettuale a una legata alla normale fisiologia della vita associata, sia in termini istituzionali che spontanei o civili. Da che ne consegue la necessità di recuperare una dimensione positiva del ruolo degli intellettuali, rispetto alla loro funzione, senza porre delle discriminazioni, come spesso si è fatto, rispetto a questa divaricazione con l’accorpamento delle ragioni dell’impegno alla sola seconda dimensione. Pierre Bourdieu, in un articolo emblematicamente intitolato Pour un savoir engagé, parla della falsa dicotomia fra «scholarship» e «commitment», tra «ricerca» (o specializzazione) e «impegno»: «per poter produrre un sapere engagé, bisogna essere uno studioso che lavora autonomamente secondo le regole della propria scienza, ovverossia una scholarship with commitment. […] Per essere un vero studioso impegnato, legittimamente impegnato, bisogna impegnarsi nella conoscenza. E questa conoscenza si acquisisce solo nel lavoro scientifico, nel rispetto delle regole della comunità scientifica». Abbandonare il lavoro scientifico per questioni di carattere “funzionale” è, secondo Bourdieu, il segno di disimpegno: si evita la fatica di un protratto lavoro di ricerca all’interno di una comunità di giudizio, e per cui si è responsabili per le affermazioni fatte e per le prove raccolte, per scegliere la strada di una funzionalità che spesso ha nell’opportunismo contingente la propria bussola. La funzione di intellettuale si esercita innanzitutto prendendo sul serio il proprio ruolo, evitando le analisi impressionistiche di molte discussioni pubbliche, che non diventano altro che una riscrittura dotta del senso comune, una forma di monetizzazione sia simbolica che economica dell’esposizione mediatica e al di fuori delle mura dell’accademia.

Rispetto al vocabolario gramsciano, si tratta inoltre di riformulare la nozione di «egemonia», comunemente compresa nei termini dell’impiego di meccanismi top-down, verticistici, dagli intellettuali al “popolo”, nei processi di formazione culturale e politica. La postmodernità è caratterizzata da quello che nell’ambito disciplinare del STS (Science, Technology and Society) viene definito come upstream engagement, o «impegno dal basso», ovvero quelle attività del pubblico, attraverso l’associazionismo, le organizzazioni non governative e la società civile in generale, che offrono un contributo attivo alla definizioni delle politiche di un determinato paese. Lo stesso si può dire per l’azione culturale: una posizione che privilegi una prospettiva post-egemonica nella definizione del lavoro intellettuale, non si pone in antitesi con le idee gramsciane sulla formazione culturale, ma approfondisce la concezione dell’intellettuale come forza diffusa, non marginale ma interstiziale, capace di produrre forme di “contagio” orizzontale e di allargamento continuo. Non si pone più al servizio di un progetto organico, ma incoraggia meccanismi riflessivi di presa di coscienza e di capacità d’azione che riguardano tutti gli strati sociali, come parte di una costruzione di forme sub-politiche (di resistenza) che si definiscono attraverso una prospettiva critica, emancipativa e costruttiva. Ponendosi contro tutte le forme egemoniche e per una società plurale, questo depotenziamento della prassi politica tradizionale incoraggia politiche orizzontali o diffuse, che vanno a toccare uno dei problemi più cruciali di questo particolare passaggio storico, contrassegnato dalla evidente crisi del sistema democratico tradizionale. Come scrive Mario Magatti, la società civile costituisce «una delle condizioni di cui abbiamo bisogno per pensare di traghettare la democrazia oltre sé stessa, data la contingenza storica nella quale ci troviamo»; servono di fatto «nuove condizioni che aiutino ad avviare un circolo virtuoso che da un lato contribuisca ad un’evoluzione positiva dell’individualismo contemporaneo […] e dall’altro generi forme istituzionali capaci di interpretare il tempo presente». Per tutto questo si potrebbe ritornare alle indicazioni di Umberto Eco, che a suo tempo riprese questa prospettiva sulla necessità di creare una «nomenklatura di massa», ovvero di investire ogni persona di un ruolo intellettuale e critico, piuttosto che di soggiacere all’imperativo di una organizzazione verticistica e elitista del sapere, come professata dalle varie «chiese» che si sono avvicendate alla guida dei movimenti sociali e culturali del Novecento, o come amministrata baronalmente dai vari gate keeper dell’industria culturale italiana. In realtà, pur muovendosi in direzione di un allargamento e democratizzazione del campo intellettuale, l’indicazione echiana, nella sua scelta lessicale, pescava in un ambito, quello burocratico-statalista, che soffriva in parte di un’indicazione che vedeva ancora come punto di riferimento le elite politico-amministrative e che tendeva inoltre a “rassicurare”, con una mossa retorica tipica di Eco, la vasta area degli interlocutori di sinistra. Mi chiedo se in epoca postmoderna o tardo-capitalistica non sia più aggiornato recuperare un altro genere di metafora definitoria, ovvero quella offerta dall’esperienza della Bauhaus, che introduceva nel contesto culturale e artistico del Novecento l’idea di una rilevanza estetica dell’oggetto industriale. Contenuti culturali e estetici possono essere trasmessi anche dall’industria e dalla produzione seriale, attraverso un miglioramento complessivo della media. Rotto il rapporto premoderno fra l’oggetto e la mano artigianale che lo produceva, non siamo necessariamente condannati a una bétise estetica, né possiamo solo rammaricarci per la perdita di «aura» dell’oggetto artistico nella sua unicità (storicamente privilegio di una ristrettissima élite), ma possiamo cominciare a pensare a una diffusione di valori estetici e culturali attraverso la produzione di oggetti seriali che entrano normalmente nella vita quotidiana delle persone, dato che, volenti o nolenti, sono queste le modalità attraverso cui nella modernità e postmodernità si produce e si distribuisce cultura. Mutatis mutandis, l’adoperarsi attivamente perché la media dei cittadini sia più culturalmente aggiornata, più consapevolmente critica, più autonoma e responsabile nelle proprie decisioni etiche e politiche, è più politicamente e culturalmente engagé che riversare la propria attenzione sulla mancante “funzionalità” di élite ristrettissime come quella degli intellettuali tradizionali. In questo senso, semplici meccanismi di ingegneria istituzionale o di gestione delle risorse strutturali, possono avere un impatto molto più ampio e duraturo che non l’affidarsi a un gruppo ristretto di opinion maker con le loro periodiche crisi di autorappresentazione, considerata inoltre l’ampia aleatorietà dei meccanismi di ricezione all’interno del contesto dei media tradizionali. […]

Tautologismi: figli di papà

Una delle discussioni pubblicistiche che hanno animato il dibattito critico e culturale degli ultimi anni è quello del rapporto intergenerazionale, uno dei problemi più strutturalmente spinosi dell’Italia contemporanea, contraddistinta da un invecchiamento complessivo della popolazione e da una sfiducia generale nelle nuove generazioni, e che coinvolge in maniera massiccia anche il lavoro intellettuale, non solo per la sua precarizzazione, ma anche per il rapporto da correggere tra tradizione, lascito dei padri, e problemi e esigenze della contemporaneità.

[…]

Se l’attenzione pubblicistica e critica generale si è concentrata soprattutto sulla presunta mancanza di personalità e voci “forti” o “autorevoli” nel panorama intellettuale italiano, questo può essere interpretato da una parte come resistenza di una visione elitaria e sostanzialmente antidemocratica nel discorso corrente sugli intellettuali; dall’altra testimonia l’ulteriore fallimento di una certa generazione rispetto al perpetuarsi di un certo modello culturale e antropologico che regola i meccanismi di reclutamento e cooptazione. Come è costume italiano questi vengono stabiliti sulla base del rispetto di norme gerarchiche, di regole basate su posizione e non su merito, che rafforzano la dipendenza intellettuale e l’ingessamento creativo (magari giustifi candosi retoricamente sotto la necessità di stabilire una “scuola”). Non è un caso che tra tutti i gruppi sociali, l’élite culturale italiana è quella più “conservatrice”, cioè con il più basso ricambio generazionale al suo interno, già in un contesto sociale in cui domina la gerontocrazia e la mobilità verticale è drammaticamente rallentata negli ultimi anni. Ci si chiede come si possa ancora invocare la necessità del ruolo critico dell’intellettuale, in un contesto culturale dove la deferenza all’autorità, il conformismo e l’opportunismo sono pane quotidiano, e in un contesto educativo che non ha mai incoraggiato il cosiddetto «pensiero critico» e l’autonomia di giudizio, preferendo invece dosi massicce di paternalismo, la fedeltà alla tradizione, l’indottrinamento, il nozionismo fine a se stesso, un rapporto rigidamente verticistico della costruzione culturale. Come scrive Goffredo Fofi , «chi vuole educare deve pensare ad aiutare le persone a diventare molto più brave di lui».

A proposito serve sgombrare il campo da uno dei luoghi comuni più triti e logori che circolano nel discorso culturale italiano, ovvero la migliore formazione e capacità intellettuale dei padri, rispetto al “deserto” culturale in cui vivono oggi i loro figli (un dato che anche Pasolini aveva constatato seppur in termini ambivalenti). Prese nella loro media, le nuove generazione sono assolutamente migliori delle precedenti. Sono più informate, più intelligenti, più partecipi, più mobili, più tolleranti, meno conflittuali di quelle dei padri. La democratizzazione dell’istruzione avrà eliminato anche le punte di eccellenza (fatto tutto da verifi care, visto che si tratta di stabile quali siano i parametri di valutazione) ma ha innalzato la media culturale generale. Nei “gloriosi” anni ’50, quando operavano i vari Vittorini, Calvino o Pasolini, solo il 10% dei giovani italiani era iscritto a un liceo, nel 1995 il 67% conseguiva un diploma di maturità. Allo stesso modo, nel 1965 solo il 16% della popolazione italiana leggeva almeno un libro all’anno contro il 45% attuale, con una crescita costante dei cosiddetti lettori forti. Solo quarant’anni fa un terzo di tutti i laureati del mondo e la metà di tutti i dottorati del mondo vivevano negli Stati Uniti, mentre oggi l’istruzione superiore ha raggiunto una dimensione globale. Per quanto scettici si possa essere su strumenti statistici di valutazione dell’intelligenza, il quoziente intellettivo delle persone nei paesi avanzati è aumentato costantemente nell’ultimo secolo, per cui, come scrive Stephen Pinker, «una persona media oggi è più intelligente del 98% delle persone che vivevano nei bei tempi di inizio Novecento»; «una persona normale nel 1910 avrebbe un quoziente intellettivo attorno ai 50 punti, il che lo indicherebbe nel contesto odierno come una persona con un moderato ritardo mentale. L’effetto è dettato dal contesto ambientale e non è basato su mutate condizioni di nutrizione o su fattori genetici». Questo è particolarmente evidente nella capacità di correlazione, nelle matrici di riconoscimento visuale e nella capacità di pensiero astratto che, secondo Pinker, sono alla base della progressiva riduzione della conflittualità e della violenza nella società contemporanea. Si sta inoltre affacciando sul proscenio mondiale una generazione post-google e di nativi digitali che nasce e cresce all’interno di questo tessuto di intelligenza distribuita che copre l’intero globo e che semplicemente si chiederà come facessero le generazioni precedenti a operare dal punto di vista culturale e intellettuale avendo a disposizione solo librerie malfornite e biblioteche che consentivano tre prestiti al mese e funzionavano a singhiozzo. Si tratta di un cambiamento cognitivo che sta producendo un gap di linguaggio tale fra le generazioni che probabilmente renderà quasi impossibile una loro comunicazione effettiva.

Insegnare l’autonomia: un approccio aneddotico

Ovviamente non si tratta di sposare una visione piattamente ottimistica della situazione culturale italiana, visto che ci sono evidentemente, sopratutto a una analisi comparativa con altri contesti nazionali, dei problemi vistosi nella democratizzazione intellettuale e nei processi di emancipazione individuale e collettiva che urgono di essere analiticamente considerati e sistematicamente affrontati. Certamente uno degli elementi più caratterizzanti del lavoro di Pasolini e del suo atteggiamento intellettuale, era la sua propensione pedagogica, la sua passione e il suo interesse per i meccanismi di trasmissione della conoscenza e per la costruzione di una consapevolezza critica (di classe). Il suo famoso proclama contro la scuola italiana vista come una sciagura da abolire, era in qualche modo estremo, ma rispondeva alla sentita necessità di una riforma sostanziale, perché la scuola pubblica è la più grande organizzazione formale del nostro paese, con più di undici milioni di persone, dai tre ai sessant’anni, che vi operano al suo interno, ed è straordinario quanto poco spazio (con poche eccezioni), questo ricopra nella discussione sugli intellettuali in Italia, visto che si tratta dell’organizzazione che, oltre a formare gli intellettuali stessi, ha un impatto fondamentale nella costruzione culturale di un paese. Basta dare un’occhiata alle cifre della scolarizzazione in Italia rispetto a altri paesi occidentali per capire come ci sia la necessità di mettere mano a riforme strutturali di sostanza e non a forme di maquillage superfi ciale come fatto da qualche decennio a questa parte. Invocare la cosiddetta Telecrazia per giustifi care il fatto che gli italiani leggono poco o “male” è in questo senso insufficiente e fuorviante. Per tutti i livelli (primario, secondario, universitario) la percentuale di spesa per l’istruzione sul Pil è in Italia largamente al di sotto della media OCSE (tra il 4 e il 5%). Se in Olanda un terzo della popolazione è laureata, in Italia solo il 13% della popolazione possiede una laurea, percentuale che è la metà di quella della Spagna e di poco superiore a quella della Turchia, ultima fra i paesi OCSE. L’Italia ha il miglior rapporto studenti/ insegnanti nelle scuole elementari, con risultati accademici superiori a molti paesi occidentali, mentre ha il peggior rapporto al mondo nelle università, con un tasso di sopravvivenza, cioè nel rapporto tra iscritti e laureati, a dir poco drammatico: circa il 35%, contro l’86% del Giappone o l’81% dell’Inghilterra. Del resto, a parte la cronica penuria di finanziamento per la ricerca, nell’Università si è consumata una delle tante contraddizioni del sistema italiano, per cui da una parte è stato conquistato un accesso universale formale all’istruzione accademica, dall’altra gli studenti sono stati poi abbandonati a se stessi, con un sistema di sfoltimento di carattere “darwiniano”, con la nient’affatto sorprendente conseguenza di una scolarizzazione insufficiente per un paese che si presuma culturalmente e tecnologicamente avanzato. E come è ormai noto da tempo c’è una correlazione stretta tra l’espansione di una cultura liberal, cioè l’elettorato di riferimento della sinistra nelle democrazie occidentali, e il livello di istruzione complessivo interno ad esse. È ovviamente difficile estrapolare considerazioni di carattere generale da cifre del genere, anche perché «l’Italia non ha mai attivato un programma nazionale di accertamento dei livelli di apprendimento», ma è chiaro che il motore per un cambiamento complessivo, sociale e culturale non può essere trovato attraverso una maggiore esposizione pubblica data agli intellettuali, o dalla vendita di qualche decina di migliaia di copie in più di un libro di Antonio Moresco o Walter Siti. Ci sono assetti culturali complessivi che richiedono riforme che difficilmente potranno essere implementate a breve termine, anche perché spesso si scontrano con conservatorismi di vario genere e con vischiosità socio-antropologiche di carattere trasversale, a prescindere da posizioni politiche o ceti economici, e a una “naturalizzazione” dei modelli pedagogici vigenti, dal momento che avendo formato le attuali classi dirigenti e gli attuali ceti intellettuali, vengono considerati sostanzialmente come positivi nella loro struttura complessiva. A questo proposito una considerazione di carattere personale riguarda la mia esperienza di studio e insegnamento di materie umanistiche nel contesto anglosassone. Una delle differenze che saltano all’occhio a un esame comparativo è la maggiore autonomia intellettuale e critica che viene richiesta agli studenti inglesi o americani, a prescindere dalle conoscenze formali di base. Molti degli italiani che, attraverso i programmi Erasmus o all’inizio della loro carriera dottorale all’estero, si trovano a frequentare lezioni seminariali, sono assolutamente sorpresi da questo approccio metodologico. Se mediamente si dimostrano più colti, la loro capacità e autonomia critiche soffrono però di alcuni irrigidimenti che hanno tutti a che fare con il principio di autorità (del docente, della critica pregressa, dell’autore, dei conformismi di campo). Prendersi dei rischi critici è una cosa che gli studenti italiani fanno malvolentieri, con un’autonomia di giudizio spesso regimentata, se non bandita da loro stessi. E questo è ovviamente frutto non solo di contesto culturale, ma di programmi formativi da riconsiderare e riformare. Esperimenti di psicologia cognitiva hanno ampiamente dimostrato come permettere alle persone di prendere delle decisioni autonome sul proprio lavoro e sulle sue condizioni di contorno, favorisca in maniera esponenziale sia la capacità di lavoro sia i risultati ottenuti. Concedere libertà espressiva, intellettuale e critica è il primo motore per ottenere persone più coinvolte, più preparate, più intelligenti e più capaci di risolvere problemi complessi. Quello che invece impedisce un sano sviluppo dal punto di vista cognitivo e decisionale di una organizzazione o di un gruppo di lavoro è, a parte la litigiosità interna, la falsa ossequiosità e la confusione tra status di una persona e sue conoscenze effettive. Ci sono abbondanti prove sperimentali fatte all’interno di organizzazioni complesse, industriali o burocratiche, che confermano i costi cognitivi, economici e sociali di un approccio verticistico alla risoluzione dei problemi e di decision-making. In organizzazioni caratterizzate da strutture decisionali gerarchiche, siano industrie, partiti o università, quello che si diffonde immancabilmente sono l’inautenticità dei comportamenti, la mancanza di trasparenza informativa, e la menzogna come strumento di interazione con i vertici, tutti elementi ipertrofi ci nella società italiana. Una progressiva decentralizzazione e una maggiore autonomia degli individui e dei gruppi sociali si traducono non solo in un impatto positivo in ambito di produzione culturale ma anche in risultanze politiche che possono andare nella direzione discussa da Gregorio Arena in Cittadini attivi. Il concetto di «autonomia politica» non va inteso nei termini di un rapporto dialettico fra centro e periferia, che indica implicitamente una gerarchia, ma in senso relazionale, che «favorisce l’intrecciarsi di relazioni paritarie fra più soggetti rappresentativi di interessi» che non si definiscono più in rapporto alla loro posizione gerarchica rispetto a un centro che non esiste più, ma attraverso «la loro capacità di rappresentanza e di soddisfazione degli interessi che ad essi fanno capo»; la logica è quella collaborativa e non prevede alcun organicismo rispetto a progetti concordati e diretti centralmente; tutti i soggetti sono portatori di risorse all’interno di una dimensione plurale del vivere civile. «Non è “soltanto” una questione di democrazia –continua Arena–ma anche di maggiore efficienza», proprio perché si dà vita a quella «cultura autonoma e critica legata alle pratiche e libera da legacci ideologici, insediata nella società, in grado di fare proposte a partire dalla conoscenza dell’autentica dimensione dei problemi per averli studiati e sperimentati».

[Immagine: Thomas Struth, Museo del Prado (gm)].

23 thoughts on “Dimenticare Pasolini

  1. Comprerò il libro. Tra l’altro, al di là delle apparenze, almeno da quanto ricavo da questa introduzione, ci sono diversi punti di contatto con le mie analisi o tesi. Anche io sono persuaso del fatto che i media, in particolare i nuovi media, siano il destino dell’intellettuale odierno. Di qui l’insistenza su una intellettualità orizzontale e diffusa. Soltanto – ecco una differenza – penso che una sorta di “élite di massa” sia necessaria: una consapevolezza critica induce a forme di dandysmo nei confronti dei mass media e della rete. Invece Antonello apre a un recupero (secondo me fuori tempo) di Gramsci. Molto difficile pensare a un nesso tra l’odierno intellettuale e l’intellettuale organico: quest’ultimo finiva con l’essere un dirigente politico, quindi si trasformava in un funzionario oppure, se organico al capitale, in un manager – cioè ancora in un funzionario. No, l’élite critica diffusa e orizzontale a cui puntare avrebbe più i caratteri di un Baudelaire o di un Wilde che quelli dell’intellettuale organico. Infine, un punto di profondo accordo circa l’importanza della scuola italiana. Dico spesso ai miei amici più giovani di cercare lavoro là (se si riuscisse a trovarlo), non nell’università che è uno zoo in attesa di chiusura.

  2. Sarà perché nella vita, fino a due anni fa, ho fatto la maestrina d’italiano nel biennio di numerosi licei e istituti tecnici, sarà perché sono una signora in età affezionata alle antiche buone cose come la nostra bella lingua, sarà perché l’estate quest’anno non arriva e mi fa innervosire… ma, insomma, in un così brillante saggio, davvero interessante e condivisibile, una messe tanta di orrori di ortografia!
    Ne elenco, impietosa, alcuni, tutti verificabili nel testo proposto: efficenza (2 volte), insufficente, un incidenza, un autonomia, si da vita… Per non dire di accellerazioni con 2 elle, amministrata baronialmente (il mio Devoto Oli 2010 non lo conosce questo avverbio), éngage, e, il più bello di tutti, ‘Mutatis mutandi’: ma come, o non lo sanno tutti che quel ‘Cambiate le mutande’ si scrive ‘Mutatis mutandis’? Sarà che il Nostro insegna in Inghilterra e bazzica poco l’Italiano, sarà che la casa editrice Mimesis ha un pessimo correttore di bozze, o sarà che le nuove generazioni mediamente più acculturate non conoscono più la grammatica? E’ vero, questo significa fare le pulci, dare peso a questioni marginali… tuttavia, please, un po’ più di attenzione alla forma! Benevolmente, Boccadirosa

  3. E’ strano per me osservare come all’interno dell’articolo manchi del tutto un elemento per me fondamentale, il fatto che l’informazione, la conoscenza, la cultura si confronti con interessi materiali ben definiti.
    Così, visto che ci sono soggetti che per i loro interessi hanno bisogno che tra la gente domini un certo tipo di cultura (la chiamerei preferibilmente ideologia, anche scontando certe ambiguità del termine), la mentalità dominante non è frutto di un processo sostanzialmente spontaneo, si tratta di un processo guidato.
    Tanto forte è questa corrente originata da tali interessi (principalmente economici, naturalmente), che resistere è arduo, molto più di quando i media disponevano di mezzi meno potenti e pervasivi. Per questa ragione, si ha il paradosso per cui più una società è liberale, più conformista essa è.
    Apparentemente, l’intero discorso dell’articolo si articola all’interno dell’ideologia liberale dominante che fa finta di ignorare come l’offerta di libertà dia luogo, paradossalmente come dicevo, al minimo di libertà effettivamente esercitata. In sostanza, mi pare che l’articolo voglia affermare che la nuova generazione è migliore perchè risponde ai richiami degli interessi dominanti in maniera più pronta ed efficiente.
    Così tuttavia, si ignora l’importanza dell’attività di approfondimento, se necessario anche in piena solitudine, che sicuramente è legata all’uso della scrittura sia per quanto attiene al leggere come allo scrivere, un ruolo insostituibile, mentre, e confesso tuttavia di non essere in possesso di dati statistici, mi pare che si vada diffondendo una cultura per immagini, e l’uso estremamente frequente di youtube, per fare un esempio significativo, sembra confermare questa dominanza della diffusione culturale per immagini.
    Per non parlare poi di come la stessa scrittura possa essere utilizzata secondo modalità differenti. Tanto per citare un esempio chiarificatore, come il leggere libri si confronti con “Twitter”, dove le regole stesse impongono una severa limitazione dello spazio argomentativo (in effetti ai confini col grugnito del maiale direi io, altro che cinguettio).
    Rimane da capire perchè l’autore non riconosca la sostanza del messaggio di Pasolini, chiaramente orientato contro questa omologazione sociale, che in effetti è un elemento non affrontato nello scritto, e declassi il tutto a un QI o a qualcosa che intrinsecamente sta all’interno della cultura omologante: che argomento sarebbe quello di contraddire Pasolini utilizzando metri di giudizio che egli non avrebbe mai approvato?

  4. @Boccadirosa

    Grazie. La colpa è nostra: avremmo dovuto rileggere attentamente il file; e invece, pubblicando una cosa al giorno, a volte siamo distratti.

  5. Mi sarebbe gradito che l’Autore, oltre a rivedere meglio le bozze o ripassare l’ortografia come sottolinea Boccadirosa, definisse meglio il termine “intellettuale”.
    Buttare nel mucchio degli “intellettuali” gli studiosi, gli eruditi, gli artisti, i poeti, i professori universitari, i giornalisti, etc., produce confusione e poco altro.
    La figura dell’ “intellettuale” nel senso moderno, con il suo mandato sociale, politico e morale, etc., nasce dopo la Comune di Parigi, si ufficializza con lo Zola del caso Dreyfus, e muore con la morte dei movimenti comunisti, negli anni Ottanta dello scorso secolo.
    In altri termini, nasce con la nascita della dicotomia sociale e culturale Borghesia/Proletariato, e muore con la morte del Proletariato e della Borghesia in quanto classi anche eticamente e costituite e dotate di una “metafisica” nel senso hegeliano (il che non implica che siano sparite le differenze di reddito, potere e conoscenza fra dominanti e dominati).
    Per intenderci: Baudelaire non era un intellettuale, né lo è il grande grecista italiano Guido Paduano.

  6. Pier Paolo Pasolini è stato un tipico rappresentante – forse il maggiore – della cultura antimodernista che, sotto vari emblemi e diverse forme, vigoreggia nel nostro paese e che, non per caso, intorno a lui ha costruito un vero e proprio culto. Con le sue radici ben affondate negli anni Cinquanta, ‘età d’oro’ di quel mondo popolare premoderno puro e incorrotto pósto ai confini tra le borgate e la campagna, e da lui sempre vagheggiato, lo scrittore friulano elevò a paradigma antropologico e poetico un sogno personale che nasceva dalle sue «buie viscere», esprimendo, in nome di quel paradigma, una negazione, tanto impietosa quanto disperata e tanto accusatoria quanto nostalgica, di tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, dai moti del Sessantotto, allorquando esaltò i poliziotti «figli del popolo» e denigrò gli studenti «figli di papà», al ‘doppio potere’ incarnato dal Palazzo, di cui còlse, con simpatetica intuizione, il volto demonìaco e perverso.
    Uomo di successo, ‘compagno di strada’ del Partito Comunista Italiano in cui vedeva, sospinto da un populismo romantico e decadente, una sorta di ‘città di Dio’ operante su questa terra, intellettuale raffinato cui piaceva giocare a pallone con i ragazzini, sempre, come ìndicano i titoli delle sue stesse opere, alla ricerca della Vita, diventò con il suo indimenticabile ‘j’accuse’ al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, lui che ebbe a definire se stesso «riformista luterano», la coscienza critica del nostro paese nella prima metà degli anni Settanta. In questo paese che, dopo decenni di pesante arretratezza, di bolsa retorica imperiale e di sostanziale provincialismo, con la liberalizzazione degli scambi, l’avvìo dell’integrazione europea e il ‘boom economico’ cercava una via di sviluppo all’altezza dei tempi e si sforzava di coniugare modernizzazione e modernità, Pasolini assunse la parte del fustigatore dei peccati del mediocre consumismo italico. Marx, se avesse potuto conoscere la pole-mica pasoliniana contro la «nuova cultura» e contro i tratti criminali e criminogeni della «mutazione antropologica» indotta dal consumismo, avrebbe classificato il suo autore tra gli esponenti del ‘socialismo feudale’, categoria che annovera nel Novecento non pochi esemplari di alto livello: da Eliot a Pound, da Gide a Céline.
    A più di trent’anni dalla fine che concluse la parabola di Pasolini, se siamo in grado di comprendere molto meglio di allora che essere orfani è la condizione per diventare adulti è anche perché dubitiamo di conoscere la risposta alla domanda che il testimone, il profeta e, da ultimo, la vittima di quel destino pose a se stesso e a tutti noi: «Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?»

  7. Da insegnante non possono che farmi piacere le seguenti idee: 1) centralità della scuola (@ Genovese, grazie del reclutamento! Però legga quello che dico dopo su un libro che ho letto di recente: a proposito di zoo in attesa di chiusura), 2) l’esistenza di un’intellettualità diffusa e interstiziale (gli insegnanti, anche? Ma come selezionati? come aggiornati? come valorizzati e non precarizzati?) 3) i giovani non sono tutti dei rimbambiti dall’industria culturale (se non speriamo in loro, tanto vale il suicidio collettivo stile Masada).

    Però mi ronzano tanti dubbi in testa. 1) la descrizione dell’intellettuale alla vecchia maniera, che ne incarnava la “funzione” e non solo il “ruolo”, è riassumibile nella figura dell’antimoderno e apocalittico (lo dico levandomi il cappello) Pasolini? L’intellettuale – il vecchio intellettuale – è solo e sempre sulla difensiva? Sempre e solo un conservatore nel senso deteriore, interessato alla rendita di posizione, nostalgico e lamentoso? La sua distanza è sempre e solo diffidenza disgustata? Calvino – il romanziere – è sordo alla modernità? Il barone rampante, e non solo lui, di che parla? Solo di reazione?
    2) occhio all’accoppiata statistica + scienze cognitive (e alla subalternità di noi “umanisti” nei loro confronti): quante cose dimostrano indubitabilmente, oh sì! Basta però scavare appena un po’ sotto la superficie delle loro dimostrazioni suffragate da dati incontrovertibili e si leggono, ancora una volta e sempre, una ideologia e una retorica, né più né meno che come nelle parole non fondate su dati sperimentali di “tutti quegli altri” (i filosofi, gli scrittori, i sociologi, gli psicologi non sperimentali, …). Pinker, per esempio, è chiaramente mosso dalla volontà di giustificare il presente, in opposizione polemica ai misoneisti, che, di norma, si trovano più facilmente nelle schiere di “tutti quegli altri”: ma a quale epoca, secolo, decennio, anno del passato pensa quando dice che si sta meglio ora? Cos’è, un blocco monolitico ‘sto passato? In quei termini, è una categoria dello spirito né più né meno che il “buon tempo antico” degli umanisti.
    E’ sicuro che siamo tutti più intelligenti. Ma, come è aumentata l’intelligenza, così è aumentata la complessità del mondo. Dunque il vantaggio dell’espansione dell’intelligenza è neutralizzato.
    Gli esperimenti di psicologia cognitiva hanno dimostrato un sacco di cose. Basterebbe riconoscerlo e adeguarsi alla fedele descrizione della realtà che hanno prodotto. Ma tra descrivere la realtà e agire efficacemente in essa c’è un abisso e si può ripetere finché si vuole che ora abbiamo le idee chiare su come fare, basta volerlo… resta sempre quel piccolo refuso della creazione che è l’uomo, che è brutto, sporco, cattivo, stupido e irrazionale (nonostante la crescita dell’intelligenza).
    3) Ho appena finito di leggere “Requiem per la scuola” di Norberto Bottani. Una lettura istruttiva – molto – e assolutamente deprimente – moltissimo – per chi nella scuola vive. Più o meno, la morale che se ne trae è che forze epocali sono in movimento, tu, piccolo insegnante, non ci puoi fare niente, tutto quello che dici sull’importanza della scuola e della sua funzione culturale serve sostanzialmente solo ad autoassolverti e giustificarti, a credere di contare ancora qualcosa, addirittura a sopravvivere psicologicamente e a non sentirti schiantato. La scuola, almeno come la conosciamo, potrebbe fra breve non esistere più, secondo Bottani.
    Molte delle affermazioni di Bottani mi lasciano perplesso, ma parla con cognizione di causa ed ha l’onestà intellettuale di riconoscere cosa i dati ci possono dire (in fondo poco) e quando invece siamo nel campo delle ipotesi, più o meno fondate (spesso). Bene, egli osserva che l’aumento della scolarizzazione non ha prodotto una riduzione sostanziale delle disuguaglianze, cioè maggiore inclusività sociale, chance di trovare un lavoro qualificato e così via. Una delle ragioni – è anche abbastanza intuitivo – è che, se quasi tutti si diplomano, il diploma diventa un titolo di pochissimo valore, dunque diventiamo tutti intercambiabili, ovvero dequalificati. Ma è solo uno degli esempi di osservazioni che mettono in crisi tutta la nostra buona fede (anche la mia, sia chiaro) sulla “centralità della scuola” e altri articoli di fede.
    Varrà anche per l’intellettualità diffusa? Basteranno tanti piccoli, ma fragili, intellettuali diffusi nelle pieghe della società e della scuola (sempre di più, sempre più in espansione) a sviluppare quel senso critico di cui parla l’autore? Bastano tanti piccoli atomi di lucida intelligenza in un soverchiante mare di opaca confusione e complessità?
    Io, tutto sommato, preferirei sentirmi, quaggiù, nella mia quotidiana fatica di “intellettuale”, rassicurato dall’ala benigna di qualche grande intellettuale lassù. Perché, è vero, al governo ci sono stati dei professori universitari. Non direi però che ci siano stati degli intellettuali. Saranno piuttosto dei tecnici? Intellettuali non dovrebbero essere piuttosto i politici? C’è proprio da rallegrarsi della fine del mandato sociale e della funzione della classe dirigente intellettuale e politica, screditata – in questo l’autore ha assolutamente ragione – da autoreferenzialità, narcisismo, cecità?

  8. Ringrazio per i commenti e per le pulci. Mi scuso con tutti per i troppi refusi, dovuti a una lunga serie di problemi redazionali. Capisco che possano rischiare di squalificare il mio assunto, ma credo che i problemi qui esposti meritino di venir discussi nel merito, come fatto del resto da molti. Se l’introduzione si sofferma sommariamente sul pasolinismo, il capitolo a lui dedicato articola più precisamente le questioni qui sollevate tenendo sempre in debito conto la sua prospettiva, giustificandola storicamente, anche senza condividerla del tutto. Sull’estensività del concetto di intellettuale mi sono rifatto esplicitamente a Gramsci, certamente depurato da ogni forma di organicità, con l’intenzione di renderlo spendibile anche in epoca contemporanea (come viene fatto del resto nel contesto anglosassone). Se poi tutti quelli che producono o diffondono cultura (più o meno animati da una certa urgenza sociale, civile, politica, etica), non possono definirsi “intellettuali”, possiamo certamente cercare una definizione alternativa, post-ideologica. La sostanza del discorso comunque non cambia.

  9. Perdonate. “A sviluppare quel senso critico di cui parla l’autore”: mi riferisco all’autore di questo post, Antonello

  10. Come si spiega il fatto che una figura topica della modernità, l’intellettuale, sembra appartenere, se la confrontiamo con l’immagine militante che di esso si era imposta nel secolo scorso, una razza in estinzione? È questo l’interrogativo che quattro anni fa Asor Rosa poneva al centro di una riflessione in cui fin dal titolo definiva il problema testé evocato con un’espressione assai efficace: “Il grande silenzio”. In effetti, come sottolinea anche Antonello, la figura dell’intellettuale è stata al centro, negli ultimi decenni, di processi professionali, tecnologici, linguistici e sociali molto complessi, che ne hanno fatto non solo una delle figure sociali maggiormente investite dal cambiamento, ma, in un certo senso, l’emblema del cambiamento stesso, dal momento che la conoscenza investe l’intero processo produttivo. Tuttavia, se da un lato tutto ciò ha spinto verso una forte specializzazione dei ruoli svolti dai ‘lavoratori della conoscenza’, dall’altro non deve sfuggire il rischio che il paese sta correndo: rischio che è quello di non avere più figure intellettuali capaci di andare oltre il proprio sapere specifico e di proporre una visione d’insieme della società.
    Se questa premessa è vera, occorre allora esaminare l’interrelazione fra quei processi e i caratteri che contraddistinguono la fase politico-culturale che stiamo vivendo in Italia: l’espropriazione della sovranità nazionale, il radicamento del populismo, la marginalità della sinistra e la debolezza dell’opposizione. Il corollario inesorabile che discende da questo teorema è, per l’appunto, “il grande silenzio” degli intellettuali, che richiama (credo intenzionalmente) il titolo di un libriccino a più voci apparso alcuni anni fa e intitolato “Il silenzio dei comunisti”. Ma se questa sequenza logica e storica è corretta, allora il problema che va posto al centro dell’analisi è proprio il rapporto tra politica e cultura: un rapporto che si è logorato a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando si verificò il rovesciamento di egemonia dalla sinistra alla destra. È in quegli anni che va ricercata la genesi della frattura fra intellettuali e politica ed è sempre in quegli anni che ebbe inizio una sordità reciproca le cui conseguenze furono, da un lato, il venir meno di una tensione verso la cultura che la politica aveva mantenuto viva e, dall’altro, una duplice reazione degli intellettuali, che portò una parte del mondo della cultura a radicalizzarsi, negando il proprio ruolo e proiettandosi nei conflitti sociali, e un’altra parte a rinchiudersi all’interno dei recinti dell’accademia.
    Da questo punto di vista, i giovani sono, fra i soggetti della società organicamente interessati alla ricostruzione del rapporto tra la politica e la cultura, non solo coloro che pagano il prezzo più pesante della frattura che è intervenuta, ma anche le vittime principali di quella “dittatura dell’ignoranza”, imposta dal regime vigente nel nostro paese, che ha dato il titolo a un bel testo di Giancarlo Majorino. Eppure, la politica è una delle forme più alte in cui si esprime l’attività sociale della persona umana. Se questo è vero, la domanda che allora ci dobbiamo porre è la seguente: come far risorgere nelle nuove generazioni la passione per la politica? Trovare una risposta a quest’ultima domanda è senz’altro arduo, se si considera che nel nostro tempo, condizionato dall’effetto congiunto della mutazione antropologica, della ‘rivoluzione passiva’ sottesa alle politiche neoliberiste e della ‘dittatura dell’ignoranza’, non vi sono più quelle figure che erano gli ‘intellettuali militanti’: non vi sono più, ad esempio (ma si potrebbero citare ancora altri nomi), i Bobbio, i Geymonat, i Galante Garrone, uomini che scrivevano per passione e nelle cui parole si avvertiva la forza dello sdegno e del coraggio, insieme con la lucidità che veniva dalla ragione e dal cuore. Scrivevano chiaro perché pensavano chiaro e pensavano chiaro perché dentro l’animo avevano chiarezza morale. L’impressione che si riceve oggi, invece, è che contro quelle figure di intellettuali militanti esista una sorta di avversione, quasi che insegnare significhi soltanto chiudersi nell’isolamento di un’indagine rigorosa o nel formalismo di una lezione impeccabile e non anche essere, come erano questi intellettuali, dei maestri; e maestri non di nozioni, ma di passioni e di convinzioni. Le loro parole cambiavano la vita di chi sentiva quelle parole, e la cambiavano non per un giorno, non per una settimana, ma per tanti anni, perché un libro di Bobbio, un saggio di Geymonat o un discorso di Galante Garrone cambiavano veramente la vita quando trovavano occhi e orecchie ricettivi e ben connessi con la mente. Oggi di queste figure, non solo in Italia ma nel mondo intero, sembra non esservi più traccia.
    In Italia, poi, vi è un’aggravante, che è rappresentata da un certo fastidio verso questo genere di figure, considerate polverose, moraliste e appartenenti al passato, mentre oggi, se si è un intellettuale, è ‘politicamente corretto’ essere leggeri, frizzanti, simpatici. In realtà, questa immagine di tipo televisivo non rende giustizia al ruolo pubblico dell’intellettuale. Quest’ultimo non ha da essere sorridente e simpatico ma ruvido e scarnificante; deve avere il coraggio di parlare e di affrontare i temi del suo tempo, sapendo che può svolgere “la missione del dotto” solo se ha passione civile e se decide di battersi all’ultimo sangue contro la ‘dittatura dell’ignoranza’, assumendo in modo programmatico l’identità con cui Tommaso Campanella definiva la propria missione in un’epoca, quella della Controriforma, a cui la nostra epoca sembra somigliare sempre di più: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia». La deriva in corso non si può fermare solo con appelli volontaristici, ma già sottolineare che il problema si pone, che bisogna ricostruire un rapporto tra la cultura e la politica, che non si può accettare che le nuove generazioni rifluiscano nel qualunquismo, nel cinismo o nella disperazione, e che è necessario ed urgente dare risposta al “che fare?” della cultura, sono altrettanti passi compiuti nella direzione giusta.

  11. Mi piace, in linea generale, su alcune cose non sono affatto d’accordo, ma è davvero notevole perlomeno la provocazio. Certo a questa affermazione lascia a desiderare: “a questo proposito una considerazione di carattere personale riguarda la mia esperienza di studio e insegnamento di materie umanistiche nel contesto anglosassone. Una delle differenze che saltano all’occhio a un esame comparativo è la maggiore autonomia intellettuale e critica che viene richiesta agli studenti inglesi o americani, a prescindere dalle conoscenze formali di base. Molti degli italiani che, attraverso i programmi Erasmus o all’inizio della loro carriera dottorale all’estero, si trovano a frequentare lezioni seminariali, sono assolutamente sorpresi da questo approccio metodologico. Se mediamente si dimostrano più colti, la loro capacità e autonomia critiche soffrono però di alcuni irrigidimenti che hanno tutti a che fare con il principio di autorità (del docente, della critica pregressa, dell’autore, dei conformismi di campo). Prendersi dei rischi critici è una cosa che gli studenti italiani fanno malvolentieri, con un’autonomia di giudizio spesso regimentata, se non bandita da loro stessi. E questo è ovviamente frutto non solo di contesto culturale, ma di programmi formativi da riconsiderare e riformare.” Aggiungerei invece, che ho trovato sconcertante la scarsa preparazione nei paesi anglosassoni. E che mi si deve spiegare come si può essere liberi di contestare qualcosa che non si conosce.
    Difatti, mi ricordo, che non si andava mai al nocciolo del problema, e c’era tanto inutile chiacchiericcio in classe. Il prof quasi si sforzava di abbassare il livello. Quello non è pensiero critico. Si critica qualcosa che si conosce. E si critica anche contro qualcosa. Come potevo andare contro? A momenti mi pulivano le scarpe i prof! Trovavo invece il tutto molto subdolo e il contrario di libero. Il problema, se c’è, è da un’altra parte, ché i miei colleghi sono anche troppo critici. Aspettano solo di poter criticare con cognizione, non tanto per criticare…

  12. @ Barone

    “Oggi di queste figure, non solo in Italia ma nel mondo intero, sembra non esservi più traccia.
    In Italia, poi, vi è un’aggravante, che è rappresentata da un certo fastidio verso questo genere di figure, considerate polverose, moraliste e appartenenti al passato, mentre oggi, se si è un intellettuale, è ‘politicamente corretto’ essere leggeri, frizzanti, simpatici” (Barone).

    Sarà dura, eh!
    Ma fa piacere che ogni tanto delle mosche bianche mandino segnali d’esistenza.
    Uno lo mandammo tempo fa anche qui su LPLC:

    http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=281:ennio-abate-roberto-bugliani-giulio-toffoli-noi-accusiamo&catid=1:fare-polis&Itemid=13

    Risultato: più o meno una trentina di mosche bianche….

  13. P. Antonello scrive:

    “Sull’estensività del concetto di intellettuale mi sono rifatto esplicitamente a Gramsci, certamente depurato da ogni forma di organicità, con l’intenzione di renderlo spendibile anche in epoca contemporanea ”

    Se non vado errato – e se mi sbaglio prego chi meglio di me conosce Gramsci di correggermi – nella concezione gramsciana gli “intellettuali” sono, in buona sostanza e al di là della loro attività specialistica, dei produttori e diffusori di ideologia che lavorano per egemonizzare culturalmente la società al servizio di una prospettiva politico-filosofica: ragion per la quale assume decisiva importanza politica la loro organizzazione e la loro organicità al “nuovo Principe”.
    Sempre nella concezione gramsciana, questa produzione ideologica a fini egemonici viene nobilitata e riscattata dal suo intrinseco strumentalismo dalla persuasione che il movimento comunista interpreti e realizzi nella storia un reale progresso umano, civile e morale, un vero e proprio salto di paradigma rivoluzionario che, in prospettiva, condurrà l’intera umanità fuori dalla “preistoria” fino alla terra promessa della libera “storia” dell’uomo: in due parole, dalla persuasione di Gramsci che il comunismo sia “la verità”.
    Il difetto intrinseco alla pur nobile concezione gramsciana mi pare questo: che legandosi organicamente a una prospettiva politica e alla sua incarnazione storica in un partito, “l’ intellettuale” rinuncia, volens nolens, alla sua funzione primaria, che è quella di ricercare, senza pregiudizi di sorta, la verità (nelle sue diverse accezioni di verità filosofica, certezza o esattezza scientifica, autenticità artistica, etc.): la quale verità è un cavallo che non si lascia mettere sella e briglie da nessun cavaliere, comunista o anticomunista che sia.
    Riattualizzare la concezione gramsciana dell’intellettuale dopo la sconfitta mondiale della prospettiva comunista mi pare ridursi a questo: che mentre ieri l’intellettuale gramsciano era organico ai partiti comunisti, oggi l’intellettuale neogramsciano sarà organico alle forze politiche ed economiche egemoni; e che in questo suo asservimento ai powers that be non avrà neanche la scusa nobilitante di credere che si è messo al servizio di un movimento che incarna storicamente la liberazione dell’uomo dalle sue catene.
    La concezione di Antonello è certamente “spendibile anche in epoca contemporanea”, ma francamente, non mi sembra un gran progresso rispetto a Gramsci: anzi, anzi…
    Perfetti esemplari di intellettuali neogramsciani, in questa concezione, sono i componenti del recente governo Monti.
    Mah.

  14. Non so se possa essere proposto in chiave di ‘imitatio’ o se, per usare la neolingua, sia “spendibile anche in epoca contemporanea”, però un testo di Brecht risalente al 1932, incluso nel volume «Scritti sulla politica e sulla società» e tradotto in lingua francese ma non disponibile in italiano, può essere utile sia per riflettere sul modello di intellettuale marxista e comunista che vi è sotteso sia per dissipare eventuali equivoci interpretativi sul concetto di ‘organicità’. Al centro di questa urticante pagina brechtiana vi sono le categorie della grande cultura borghese, di cui viene registrato l’esaurimento in una fase storica in cui non si è ancora manifestata una nuova cultura. Le domande che Brecht si pone sono le seguenti: quando si produrrà l’avvento di una nuova cultura? e come essere certi di tale avvento in un’epoca in cui è arduo distinguere, data la loro mescolanza, gli ultimi fuochi del tramonto dai primi bagliori dell’alba? La parola chiave è perciò “quando”.
    Ed ecco il testo in parola: «In breve: quando la cultura, in pieno crollo, sarà coperta di sozzure, quasi una costellazione di sozzure, un vero deposito d’immondizie; quando gli ideologi saranno diventati troppo abietti per attaccare i rapporti di proprietà, ma anche troppo abietti per difenderli, e i signori che avrebbero voluto, ma che non hanno saputo servire, li scacceranno; quando parole e concetti non avranno quasi più niente a che vedere con le cose, con gli atti e con i rapporti che designano e si potrà sia cambiare questi ultimi senza cambiare i primi, sia cambiare le parole lasciando immutati cose, atti e rapporti; quando, per poter sperare di uscirne vivi, si dovrà essere pronti a uccidere; quando l’attività intellettuale sarà stata ristretta al punto che ne soffrirà lo stesso processo di sfruttamento; quando il tradimento avrà cessato di essere utile, l’abiezione redditizia, la stupidità una raccomandazione; quando non ci sarà più niente da smascherare perché l’oppressione avanzerà senza la maschera della democrazia, la guerra senza quella del pacifismo, lo sfruttamento senza quella del consenso volontario degli sfruttati; quando regnerà la più cruenta censura di ogni pensiero, che però sarà superflua, non essendoci più pensiero; oh, allora la cultura potrà venir presa in carico dal proletariato nel medesimo stato della produzione: in rovina.»
    Trattandosi, come sempre nello stile didattico brechtiano, di un testo quanto mai percussivo, basteranno, per commentarlo, solo alcune considerazioni. La prima concerne il rapporto tra il futuro e il passato: il nuovo – gli embrioni di una cultura proletaria e socialista – non potrà affermarsi se non attraverso una sorta di appropriazione dialettica e selettiva della rovina – della decadente, ma lucida, cultura borghese -. La seconda investe il problema della lingua e della sua funzione rappresentativa rispetto alla realtà, laddove ciò che Brecht rileva in modo icastico e irrefutabile è lo stato di decomposizione della lingua, causato dal disprezzo per la chiarezza, per il rigore e per la coerenza, che accomuna i tre più nefasti nemici che annoveri ancor oggi la cultura: la tecnocrazia neoliberista, l’egemonia sottoculturale e il fondamentalismo religioso. La terza considerazione, chiamando in causa il ruolo svolto dalla menzogna nel corso di quel ventesimo secolo che, lungi dall’essere “breve”, sembra non terminare mai, incide sulla problematica dell’ideologia e dunque sul rapporto che intercorre fra la passione per la realtà e la necessità della finzione: un rapporto che lo stesso Brecht porta al livello della massima tensione teorica e pratica, attribuendo al teatro, luogo in cui abitano la maschera e la finzione, il compito rivoluzionario di “smascherare” l’oppressione e di “rivelare” la verità.

  15. Caro Brecht,
    se dal suo attuale domicilio lei continua a seguire l’attualità, concluderà con me che nel 1932, lei si lamentava del brodo grasso…

  16. @ Buffagni

    Dal domicilio in cui risiede, che è quello dei contemporanei del futuro, Brecht così risponde a chi lo accusa di essersi lamentato del brodo grasso (negli anni Trenta del secolo scorso!) :
    “Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri.
    Mia madre mi portò nelle città quand’ero nel suo grembo.
    E il freddo dei boschi
    finché morirò
    non m’abbandonerà.
    Nelle città d’asfalto mi sento a casa mia.
    Munito dall’inizio di ogni sacramento:
    giornali, tabacco, acquavite.
    Sono pigro e diffidente,
    ma contento.
    Mi mostro amico degli uomini.
    Mi metto anche il cappello duro come fanno loro,
    e dico:
    sono bestie di odore singolare,
    ma in fondo anch’io lo sono.
    Verso sera raduno attorno a me degli uomini.
    Ci diciamo l’un l’altro: «Gentleman».
    Loro tengono i piedi sui miei tavoli
    e dicono: andrà meglio.
    Io non chiedo quando.
    Al mattino, gli uccelli si mettono a gridare.
    A quest’ora vuoto il mio bicchiere
    e butto via il mozzicone.
    E m’addormento inquieto.
    Siamo vissuti noi, volubile schiatta,
    in case che credemmo indistruttibili.
    (Così abbiamo costruito gli edifici dell’isola di Manhattan.
    E le antenne sottili che attraversano l’Oceano ).
    Di queste città non rimarrà che il vento che le attraversa.
    Siamo esseri effimeri.
    E dopo di noi ci sarà
    nulla degno di nota.
    Nei terremoti futuri io spero solo
    che il mio virginia
    non si spenga per l’amarezza.
    Io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città
    dai boschi neri,
    dal grembo di mia madre,
    in tenera età.”

    (Bertolt Brecht, 1930)

  17. Caro Brecht,
    com’è diventato suscettibile! Un tempo aveva più senso dell’umorismo.
    Guardi che non l’ho “accusata” di essersi lamentato del brodo grasso.
    L’ho invitata a comparare la situazione della cultura del nostro oggi con quella del suo ieri, immaginando che avrebbe concluso: “tutto sommato, le rovine del mio ieri splendono come il Partenone, a confronto con le rovine del vostro oggi”.

    Caro Barone,
    me lo ricordo che cos’è successo negli anni Trenta del Novecento, e Brecht faceva bene a preoccuparsi. Lui però un’idea di come uscirne ce l’aveva, giusta o sbagliata che fosse. Noi, meno.

  18. Caro Buffagni,
    è difficile scherzare sui tempi in cui ho vissuto. Del resto, non mi sembra che la risposta che Le ho dato denoti mancanza di umorismo. Tuttavia, avendo una certa dimestichezza con lo stile didattico e con la dialettica sarò l’ultimo a meravigliarmi se il significato di ciò che dico dipende dal ricevente piuttosto che dall’emittente. Approfitto dell’occasione per informarLa che quassù, dove mi trovo, ho conosciuto uno scrittore italiano, anche lui contemporaneo del futuro, che ha tradotto la poesia che Le accludo: una poesia composta alla fine degli anni Trenta, e che, anche a giudicare con il vantaggio della teicoscopia che abbiamo noi inquilini di questi siti, non mi sembra davvero priva di attualità.
    Suo Bertolt Brecht.

    “Davvero, vivo in tempi bui!
    La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
    vuol dire insensibilità. Chi ride,
    la notizia atroce
    non l’ha saputa ancora.

    Quali tempi sono questi, quando
    discorrere d’alberi è quasi un delitto,
    perché su troppe stragi comporta silenzio!
    E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
    mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
    che sono nell’affanno?

    È vero: ancora mi guadagno da vivere.
    Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
    di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
    Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
    e sono perduto).

    “Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
    Ma come posso io mangiare e bere, quando
    quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
    manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
    Eppure mangio e bevo.

    Vorrei anche essere un saggio.
    Nei libri antichi è scritta la saggezza:
    lasciar le contese del mondo e il tempo breve
    senza tema trascorrere.
    Spogliarsi di violenza,
    render bene per male,
    non soddisfare i desideri, anzi
    dimenticarli, dicono, è saggezza.
    Tutto questo io non posso:
    davvero, vivo in tempi bui!

    Nelle città venni al tempo del disordine,
    quando la fame regnava.
    Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
    e mi ribellai insieme a loro.
    Così il tempo passò
    che sulla terra m’era stato dato.

    Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
    Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
    Feci all’amore senza badarci
    e la natura la guardai con impazienza.
    Così il tempo passò
    che sulla terra m’era stato dato.

    Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
    La parola mi tradiva al carnefice.
    Poco era in mio potere. Ma i potenti
    posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
    Così il tempo passò
    che sulla terra m’era stato dato.

    Le forze erano misere. La meta
    era molto remota.
    La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
    quasi inattingibile.
    Così il tempo passò
    che sulla terra m’era stato dato.

    Voi che sarete emersi dai gorghi
    dove fummo travolti
    pensate
    quando parlate delle nostre debolezze
    anche ai tempi bui
    cui voi siete scampati.

    Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
    attraverso le guerre di classe, disperati
    quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

    Eppure lo sappiamo:
    anche l’odio contro la bassezza
    stravolge il viso.
    Anche l’ira per l’ingiustizia
    fa roca la voce. Oh, noi
    che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
    noi non si potè essere gentili.

    Ma voi, quando sarà venuta l’ora
    che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
    pensate a noi
    con indulgenza.”

    Caro Buffagni,
    vi è un patrimonio gigantesco – teorico, politico e intellettuale – a cui è ancora possibile attingere, nonostante le preclusioni e gli ostracismi susseguenti alla sconfitta (temporanea) del primo grande tentativo storico di costruire una società libera dallo sfruttamento capitalistico e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione.
    Ritengo che un dovere elementare, ma essenziale, degli intellettuali che non si conformano allo stato di cose esistente sia quello di trasmettere tale patrimonio a quella parte delle nuove generazioni che manifesta la propria opposizione al sistema capitalistico.
    Con simpatia e stima,
    Eros Barone.

  19. Caro Brecht,
    grazie a lei, e a Fortini, per la traduzione italiana della sua poesia. Ho sempre apprezzato il lavoro suo e del suo traduttore.
    Quando c’era il comunismo, ero anticomunista. Non me ne pento, come certo non vi pentite voi d’essere stati comunisti. Non ero e non sono d’accordo con voi su alcune cose, in specie con l’idea, da lei plasticamente espressa anche qui, che sia possibile “essere buoni solo in un mondo buono” (Noventa). A ognuno i suoi errori e i suoi inganni: non mancano mai, in una vita d’uomo. Però c’è modo e modo di ingannarsi e di sbagliare. Nel caso vostro e dei vostri compagni, “come fu non facil gloria/consumarsi in quegli inganni”. Spero si possa dire altrettanto anche di me, e dei miei.

    Caro Barone,
    grazie dell’attestazione di stima e simpatia, che ricambio di tutto cuore.

  20. alcuni strafalcioni concettuali:

    ma davvero Obama è meglio di Berlusconi? O meglio, davvero ciò è un fatto rilevante? Il potere è cosa di un uomo solo al comando? Che fine capacità d’analisi, ecco perchè non c’è bisogno di Asor Rosa. Sarà paradossale, ma la dimostrazione dell’inutilità dell’intellettuale sopravvivente* è questa pochezza argomentativa, non il fatto che senza intellettuali legislatori (ma davvero? anche su questo ce ne sarebbe da dire, come se i think thank neoconservatori fossero fatti di braccianti agricoli, e Rush Limbaugh, chi è costui?) l’america abbia prodotto quella fuffa di Obama o quel porco di Clinton.

    le nuove generazioni sono migliori in quanto più studiate e più conformi ai criteri dei test sul quoziente intellettivo? 1) c’è una differenza tra acculturazione logico-matematico e intelligenza, tant’è che la maggior parte dei ggiovani non saprebbe farsi la casa con le sue mani, e un mucchio di altre cose utili, come invece facevano gli antenati con 50 di QI.—-> 2) diverso non vuol dire migliore, ogni configurazione sistemica ha i suoi pro e contro—–> 3) utilizzare come criterio di definizione dei livelli culturali (peraltro su una scala di valore) l’indice di adesione formale al modello di “top-down diffuso” dell’educazione pubblica mi pare quantomeno superficiale.

    altresì superficiale è demandare alla scuola un ruolo di panacea culturale che non le compete, avendo essa perso ogni centralità nella trasmissione della cultura non solo per volontà politiche di governi brutti e cattivi, ma anche per la semplice moltiplicazione dei centri di cultura dettata, peraltro, anche dalla precedente scolarizzazione di massa.
    in questo quadro di balcanizzazione dei riferimenti culturali e politici, l’incredibile alternativa di scelta tra infiniti pacchetti di ideologie e apparati simbolici pronti al consumo rende la discussione culturale una ruota che gira sì sempre più veloce, ma solo perchè ha rotto la cinghia che la collegava alla realtà, fosse la cinghia di trasmissione del partito comunista, della chiesa o di altro poco cambia.

    d’altronde, senza più grandi chiese a stabilire le coordinate spaziali della geografia culturale, la maggior parte degli intellettuali è troppo impegnata nell’autodefinirsi e autopromuoversi, reclamizzare la propria utilità e/o imprescindibilità, unirsi in cordate per scalare qualche dipartimento accademico/ambito editoriale-mediatico/nicchia politica, per essere poi davvero utile a qualcosa più che sè stesso e alla propria sopravvivenza sublimata nelle lettere.

    ciò di cui si sente bisogno a livello quasi fisico, almeno dove vivo io, è la necessità di una cultura autonoma dalle definizioni eterocentrate e deterritorializzate della cultura mediatica e scolastica: una cultura popolare, una cultura del territorio, per una territorializzazione autocentrata.
    questo è il movimento bottom-up che si sta delineando, e ovunque incappi in prime donne intrise di intellettualismo eroico questo processo è destinato a zoppicare, specialmente quando queste prime donne tentano di imporre una centralità della cultura filosofico-letteraria “hardcore” che è tramontata da decenni, se non da secoli.

    *si rimanda all’analisi di sopravvivenza e sopravvivente operata da Elias Canetti in Massa e potere. fossi uno che di mestiere fa ste cose scriverei un bel trattato sull’ipotesi che l’intellettuale à la pasolini non sia altro che una parodia sublimante del potente canettiano. gente come saviano e i wu ming si presterebbe molto bene ad offrire spassose esemplificazioni.

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