di Paolo D’Angelo
[Dopo I promessi sposi Manzoni non scrisse più letteratura, se non occasionalmente; l’attenzione per la verità storica e morale annientò quella fiducia nell’immaginazione che è necessaria a scrivere romanzi o poesie. Negli stessi anni in cui Manzoni decideva di comporre il Fermo e Lucia, Hegel elaborava l’idea secondo la quale l’arte, in epoca moderna, è una forma di conoscenza sospetta, arcaica e superata. La parabola di Manzoni sembra confermare sul campo le teorie di Hegel sulla morte dell’arte. Il libro di Paolo D’Angelo Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia (Il Mulino 2013) riflette sull’autore dei Promessi sposi a partire da questi problemi generali. Nell’ultimo capitolo, di cui presentiamo un estratto, il discorso si allarga alla narrativa contemporanea. Qual è oggi il rapporto fra storia, verità e finzione in generi come il non-fiction novel o l’autofiction? Qual è il contenuto di verità della narrativa contemporanea?]
Sugli scaffali delle grandi librerie, ormai, i romanzi storici spesso trovano posto tra il fantasy e i romanzi rosa. È l’epilogo inglorioso di un genere che in fondo, da Alexandre Dumas in poi, non ha mai saputo scrollarsi di dosso interamente il sospetto di essere letteratura d’intrattenimento, sospetto che infatti non si riesce a staccare del tutto persino dalle produzioni più consapevoli iscritte nel genere, per esempio, in Italia, Il Gattopardo o Il nome della rosa. Del resto, se si escludono eccezioni vistose, ma che restano pur sempre tali, come Vassalli o Scurati, nessun dubbio che il genere appaia praticato oggi, in modo quantitativamente preminente, da divulgatori ben attrezzati dal punto di vista narrativo, da specialisti del pittoresco, da capaci confezionatori di prodotti d’evasione. D’altra parte già la gran parte dei romanzi storici che apparvero nel nostro Ottocento sulla scia della fortuna dei Promessi Sposi non era poi di natura tanto diversa, e bisognerà attendere la fine del secolo per avere un altro romanzo storico di forte tenuta letteraria, I Viceré. Non solo i libri, anche i generi letterari hanno il loro destino.
Ma, se già il Discorso manzoniano poteva registrare la parabola discendente di una forma letteraria la cui stagione aurea rimane quella dei primi decenni dell’Ottocento, non per questo i problemi agitati da Manzoni nella sua riflessione teorica risultano superati e consegnati soltanto alla storia letteraria. In un certo senso, anzi, alcuni sviluppi della letteratura più recente sembrano riproporli con forza e in termini non poi troppo dissimili da quelli codificati dal nostro massimo romanziere.
Ci riferiamo, come si sarà capito, alla voga che hanno preso nella nostra letteratura le narrazioni che rivendicano un rapporto privilegiato con la realtà, ibridano forme letterarie e riscontro testimoniale dei fatti, puntano ad abbassare il tasso di finzionalità delle loro opere a vantaggio della loro funzione di denuncia. Il narratore fa concorrenza al reporter, il romanzo all’inchiesta, l’artista al sociologo o allo storico contemporaneo. È il genere ormai codificato – e il nome inglese attesta che si tratta di un fenomeno tutt’altro che limitato al nostro paese, e che infatti non è nato in Italia – come non-fiction novel[1], caratterizzato appunto dalla commistione di invenzione letteraria e resoconto di fatti reali.
Che poi questi fatti siano programmaticamente desunti dal presente, e la loro veridicità sia garantita in primo luogo dall’accesso diretto ad essi che l’autore esibisce, come è trasparente nel caso di uno dei più diffusi sotto-generi della non-fiction literature, la cosiddetta auto-fiction, è una differenza che non basta a spostare i termini della questione. Tanto che non a torto, ad esempio, Walter Siti può parlare del suo ultimo romanzo, Resistere non serve a niente, tutto giocato sull’attualità più scottante (l’espansione e poi la crisi del mercato finanziario) come di un romanzo storico in cui convivono personaggi reali e personaggi inventati[2]. Se il problema è la compresenza di fatti realmente accaduti e di dati di invenzione, diventa secondario sapere se i primi sono attinti attraverso una ricostruzione del passato o sono appresi ‘de visu’ da colui che li racconta. Ad avere interesse ad accentuare una differenza concettualmente inesistente è solo la mistica, così connaturala alla non-fiction, della testimonianza diretta e delle denuncia in prima persona, che col suo armamentario retorico tende ad occultare una semplice, elementare verità: che ogni avvenimento minimamente complesso al quale assistiamo non può essere chiarito se non attraverso il confronto con altre testimonianze, ricostruzioni di ambienti, documenti, immagini, e insomma tutti i ferri del mestiere del buon indagatore storico. Anche il presente è storia e sono solo i fatti irrilevanti e privi di effetti che possono essere compresi ‘semplicemente assistendovi’. Fabrizio del Dongo e Stendhal ci insegnano che ci si può trovare al centro di una battaglia senza capire assolutamente il senso di quello che sta succedendo.
Il lettore non pensi però che il legame tra le questioni che abbiamo dipanato fin qui e quelle che sono state chiamate “narrazioni spurie”[3] sia costituito dalla circostanza che queste ultime avvertono come una questione aperta quella commistione di reale e inventato che per tanti anni ha costituito un rovello per Manzoni. Accade piuttosto il contrario. Queste ‘narrazioni della realtà’ confidano così tanto nell’autoevidenza di quella realtà che agitano come un vessillo che si guardano bene dal farne un problema, e pensano d’altra parte che la forza della realtà sia così grande da rendere irrilevanti le difficoltà che nascono dal suo convivere con qualcosa che non è ‘vero’ allo stesso modo. Ma proprio perché la commistione di realtà e invenzione viene assunta in modo sostanzialmente aproblematico, e l’aspetto immaginativo e finzionale della letteratura e dell’arte in genere viene screditato proprio mentre si continua a farvi ricorso, può non essere inutile riconsiderare la situazione di oggi alla luce di quelle discriminazioni che abbiamo cercato di elaborare a partire dalla vicenda manzoniana.
Prendiamo ad esempio quello che viene spesso presentato come l’argomento principale a favore del ‘ritorno del reale’ che ha preso corpo nella nostra letteratura a partire dagli anni Novanta. Questo ritorno viene giustificato come reazione non solo agli sperimentalismi della neo-avanguardia e alla riduzione della narrativa ad un fatto di stile e di linguaggio, ma soprattutto al disimpegno postmoderno e alla “epidemia dell’immaginario” che lo avrebbe caratterizzato[4]. In questa ricostruzione, il postmoderno si configura in primo luogo come quella cultura nella quale sarebbe andata perduta la distinzione tra reale e immaginato, tra vero e finzione, tra fatti e spettacolo. Un’epoca nella quale era diventato impossibile discriminare tra ciò che accadeva veramente e la sua rappresentazione mediatica, e nella quale si assisteva insomma ad una vera e propria sparizione del reale a favore della sua spettacolarizzazione, creando una confusione radicale che impedisce ogni orientamento effettivo nel mondo, e impedisce in particolare una presa di posizione attiva al suo interno. Contro tutto ciò, una letteratura spuria, che si fa indagine, sopralluogo, denuncia civile, che si impegna a fare i conti con quanto di sbagliato, di perverso, di criminale si svolge sotto i nostri occhi senza che lo vediamo, perché annebbiati dalla sua trasposizione in immagine, assume appunto i connotati di un ritorno alla realtà, e insieme di una protesta contro il suo occultamento dovuto alla caduta di ogni discrimine tra la realtà stessa e l’immaginario.
La diagnosi, voglio dire la constatazione che la distinzione tra realtà e immaginario sarebbe andata perduta e l’uomo di oggi sarebbe impossibilitato a comprendere che cosa effettivamente accade e condiziona la sua vita, non mi pare così certa come si è voluta presentarla; ma questo è un altro discorso. Quello che interessa qui è piuttosto il fatto che la terapia, ciò il rimedio proposto, è certamente avventuroso e minato alla radice da una contraddizione. Se ciò di cui si soffre oggi è un’ibridazione continua tra realtà e immaginazione, se il problema è che il senso del reale è andato perduto perché il reale stesso è stato continuamente riformulato, tradotto in immagine, trasposto su di un piano in cui non risulta più possibile la distinzione tra informazione e intrattenimento, appare quantomeno problematico che la risposta possa venire da una forma letteraria che resta pur sempre una mescolanza di cose vere e di cose inventate. Se è un problema di confusione di reale e immaginario, difficilmente la risposta può essere un’altra forma di confusione. Chi prova fastidio nel vedere il proprio paese, il posto in cui vive “raccontato, iper-raccontato, straindagato, strarappresentato”[5], dovrebbe almeno essere sfiorato dal dubbio che anche quella che propone in alternativa è una rappresentazione e un racconto. Da questo punto di vista, la rinuncia alla letteratura cui Manzoni finì per approdare non può che apparirci come un gesto di straordinaria coerenza, mai o quasi mai imitato dagli adepti contemporanei della non-fiction, che si tengono ben strette le loro forme intermedie (romanzi-saggi, romanzi-inchiesta, crime stories, docu-fiction) e si guardano bene dallo scegliere generi costitutivamente votati alla aderenza alla realtà.
Sul piano teorico, la contraddizione è palese in un testo che tenta di accreditarsi come legittimazione della non-fiction, Fame di realtà. Un Manifesto, di David Shields, che da un lato è un inno alle forme che vogliono trovare un solido ancoraggio in ciò che accade veramente (“amiamo la non-fiction perché viviamo in un mondo finto”; “Le storie più belle sono quelle vere”), dall’altro proclama ad ogni passo che la distinzione tra reale e immaginario è impossibile e obsoleta (“quella tra fiction e non-fiction è una distinzione completamente inutile”; “alcune delle migliori opere di fiction oggi vengono spacciate per non-fiction”)[6]; sul piano storico, vorrà pure dire qualcosa che il capostipite riconosciuto del genere, A sangue freddo di Truman Capote, uscito in America nel 1966 come resoconto puntuale di un delitto gratuito compiuto da due balordi in un paesino del Kansas, costituisca tra le altre cose anche uno dei primi esempi di spettacolarizzazione mediatica di un fatto di cronaca nera, col suo corredo di dettagli sanguinolenti, attenzione empatica per i colpevoli (o almeno, nel caso di Capote, per uno di essi), messa in scena delle reazioni dei vicini e dei parenti: tutte cose, come sappiamo, che avremmo poi visti tante volte, soprattutto in TV.
I sostenitori della non-fiction sfidano queste contraddizioni perché credono superstiziosamente nella forza redentrice della realtà, la quale sarebbe in grado di darsi nelle loro scritture per una sorta di capacità innata di autoimporsi. Tendono a sottostimare il problema della presentazione o rappresentazione del reale, che pure in un’arte come la letteratura (o il cinema narrativo) difficilmente può essere occultato del tutto. A conti fatti, e persino quando si presenta come una meditata presa di posizione a favore dell’impegno e della protesta, questa fiducia estrema nella realtà e nella possibilità di presentarla ‘come tale’ si rivela pericolosamente simile alla fiducia ingenua che occhieggia dai manifesti pubblicitari che reclamizzano un film o un libro come “tratto da una storia vera”.
Per raffreddare questi entusiasmi a proposito della realtà e della sua funzione nell’arte sono a disposizione argomenti difficilmente confutabili. Per esempio, si può obiettare che ogni prelievo e ogni descrizione del reale presuppongono una sua elaborazione, una messa in forma che è anche una organizzazione del ‘dato’, che pertanto non è accessibile in sé, come suppongono i più acritici partigiani del ‘ritorno al reale’[7], ma implica sempre una costruzione che è anche una trasformazione. Raccontare una storia vuol dire strutturarla, scegliere gli eventi salienti e mettere sullo sfondo quelli meno importanti, presentare i personaggi, indagare l’ambiente e le cause: tutte cose che difficilmente possono essere ritenute ‘oggettive’, cioè indipendenti dallo sforzo ordinante del narratore[8]. Il ‘reale’, in letteratura e nell’arte in genere, è piuttosto un ‘effetto di realtà’, che si basa largamente su convenzioni; tanto vero che ciò che appare ‘realistico’ in una data epoca può non apparirlo altrettanto in un’epoca successiva, o che l’effetto di realismo può essere raggiunto in modi molto diversi. Nel nostro tempo, si è sostenuto con ragione, attraverso la compresenza e l’utilizzo simultaneo, all’interno della stessa opera, di strumenti comunicativi e di media diversi[9]. La realtà, insomma, quando la si vuole raccontare, è piena di finzione.
Questi argomenti sono cogenti, ma ciò non toglie che essi da un lato presentino un rischio potenziale, dall’altro si rivelino parziali, ossia scorgano solo un versante della questione. Il rischio consiste in questo: che presi alla lettera e applicati, per esempio, al discorso dello storico, possono indurre alla falsa conclusione, che già abbiamo cercato di stigmatizzare in altre parti di questo libro, secondo la quale non c’è più differenza tra opere di finzione e opere di storia, in quanto in entrambe si assiste alla organizzazione narrativa della materia trattata. Ma noi sappiamo che, se anche l’opera storiografica non si può sottrarre alla costruzione narrativa, non per questo va perduta la sua distinzione da quest’ultima. Per quanti elementi finzionali, per quanta costruzione letteraria ci sia in un racconto storico, resta il fatto capitale che lo storico non è uno che racconta storie, ma è prima di tutto uno che si sforza di stabilire come si sono svolte le cose, si documenta e mette per quanto possibile a disposizione del lettore questa documentazione. Manzoni, lo abbiamo visto, diceva giustamente che è una questione di assentimento, cioè di disposizione che il lettore prende sulla base dell’impegno preso dall’autore. E a proposito di assentimento, gli odierni esaltatori dei romanzi-inchiesta dovrebbero per lo meno prendere in considerazione il fatto che la disposizione del lettore nei confronti della letteratura di denuncia o di indagine è destinata a cambiare profondamente nel tempo. L’incanto della ‘realtà’ non dura poi così a lungo.
L’argomento del necessario carattere costruito di ogni resoconto sulla realtà è però soprattutto un argomento parziale. È una mezza verità, non nel senso in cui usiamo correntemente questa espressione, ma in senso letterale: vede soltanto una metà della questione. Perché se è vero che la realtà è piena di finzione, o, più esattamente, ogni discorso sul reale deve organizzarsi in strutture narrative e letterarie che non ha senso supporre presenti nella realtà stessa, è altrettanto vero che la finzione è piena di realtà, vale a dire che i testi di finzione non recidono affatto alla radice il rapporto con il reale. In fondo, quel che accomuna il punto di vista dei sostenitori contemporanei della non fiction con la posizione manzoniana è proprio la semplificazione dalla quale entrambi partono assumendo che siano in gioco soltanto due valori, la verità e la falsità, il reale e l’inventato, i fatti acclarati e l’atteggiamento di chi nega i fatti. L’errore è sempre quello che abbiamo individuato in precedenza: supporre che la finzione, il prodotto artistico, se non si lega alla realtà debba per forza sfociare nella sua antitesi, il falso (ricordate: “dell’inventato, che è quanto dire del falso”).
Ma ad essere contraddittori sono i termini realtà e falsità, non i termini realtà e finzione. La finzione non è un modo del falso, perché non pretende di formulare asserzioni su dati di fatto controllabili; ciò non ostante, non rinuncia per questo solo motivo ad avere un rapporto con la nostra esperienza delle cose e con i fatti della vita. Non solo grandi testi finzionali, svincolati da ogni obbligo di veridicità elementare, sono intessuti di circostanze tratte dal mondo che conosciamo o che conobbe il loro autore; questo è vero, ma non sarebbe ancora decisivo. Decisivo è piuttosto che il racconto fittizio non rinuncia perciò a illuminarci su quello che ci accade, e può riuscire altrettanto e più chiarificatore degli eventi che ci tocca di vivere. Leonardo Sciascia è in prima fila tra coloro che, nel Novecento, si sono riallacciati al grande modello non finzionale della letteratura manzoniana, ovvero hanno tratto ispirazione dalla Colonna infame piuttosto che dal romanzo. Non per nulla dobbiamo proprio a Sciascia un’appassionata lettura del testo di Manzoni[10]. Ma i libri in cui Sciascia fa rivivere il racconto-inchiesta, da La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro non sono affatto luoghi nei quali si diffida dell’immaginazione e si cerca di fare concorrenza allo storiografo: sono piuttosto, come è stato detto, tentativi di porre la letteratura in concorrenza con la realtà[11]. Lo ha detto per primo il diretto interessato: “lo scrittore non è né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità”[12]. Sembra Croce, e il termine intuizione è indubbiamente un retaggio crociano, probabilmente involontario, ma dietro Croce si delinea forse l’ombra lunga di Aristotele e delle sue vedute sul rapporto tra poesia e storia, la prima più filosofica della seconda perché coglie l’universale. E l’universale aristotelico non è certo qualcosa che ha rescisso i legami con la realtà, è anzi ciò che coglie pienamente il reale, ne interpreta la natura più autentica.
Le cose saranno più chiare se aggiungiamo ancora una determinazione a quelle che a suo luogo abbiamo addotto a proposito del concetto di finzione. Fingere una cosa, per esempio un certo comportamento, non significa affatto contraffarlo. Fingere la cosa x non significa non fare x, ma casomai farlo in un certo modo. Ne segue che se faccio qualcosa fingendo di farla, sarebbe alquanto bizzarro pensare che non stia facendo quella determinata cosa. Pensiamo a quello che avviene su di un palcoscenico: posso tranquillamente fingere di fumare fumando davvero, esattamente come se fingo di urlare di rabbia urlerò veramente. Infatti in scena normalmente gli attori non fumano, a meno che non sia richiesto dalla parte. Sicché è solo apparentemente paradossale sostenere che due attori di un film porno non stiano fingendo di compiere un atto sessuale, magari stupidamente giustificato da una delle trame strampalate che di solito sorreggono questo tipo di film, solo perché lo fanno veramente[13]. È sufficiente, allora, generalizzare: un racconto di finzione può tranquillamente incorporare una quantità di cose fattualmente vere, e tutti i grandi romanzi sono lì a ricordarcelo; ma soprattutto può prendere posizione rispetto alla realtà non meno di un testo storiografico o di un resoconto pedissequo di fatti accaduti.
Convivono nella voga contemporanea del non fiction novel due atteggiamenti antitetici nei confronti della letteratura. Da un lato, non è difficile vedere nella scelta dello strumento narrativo una fede ingenua nella capacità della letteratura di far nascere nel lettore una reazione di natura morale o politica, come se proprio degli strumenti letterari fosse il suscitare delle reazioni emotivamente forti, di attivare risposte viscerali di esecrazione che non sarebbero attingibili, si pensa, da forme di comunicazione meno ‘calde’. Si tratta di mettere sotto gli occhi del fruitore scene di violenza o di sopraffazione, fargliele sentire in maniera da attivare il suo disgusto e il suo rifiuto. Non per nulla la tanto rivendicata realtà è in primo luogo una realtà nei confronti della quale si vuole fare assumere una posizione antagonistica, il rifiuto, l’indignazione, una realtà che deve fare male. Questa fede ingenua convive tuttavia con il suo opposto, un radicale scetticismo circa la funzione della letteratura stessa e della creazione artistica, che di per sé sarebbe incapace di incidere in qualsiasi modo sui comportamenti e sulle idee di chi legge. L’esaltazione della ‘realtà’ e il predicato ‘ritorno al reale’ si configurano così, paradossalmente, come il ritrovato, presuntivamente extraartistico, che consentirebbe alla letteratura di ritrovare un senso altrimenti perduto.
Siamo al punto: un “realismo di emergenza” verrebbe in estremo soccorso di testi altrimenti condannati alla “inoffensività tipica della creazione letteraria”[14]. E quando a Roberto Saviano, certo il più noto degli esponenti di questa letteratura “della realtà”, scappa detto in una conversazione con William Langewiesche che “i giornalisti scrivono male di cose importanti, mentre gli scrittori scrivono bene di cose inutili”, è una confessione forse involontaria che nella sua non celata rozzezza (non tutti i giornalisti scrivono male, non tutti gli scrittori scrivono cose inutili) esprime pienamente un punto di vista. La letteratura, a meno che non si faccia forte dell’alleanza con il reale, è inutile e vana. Non serve. Guai ad affidarsi alla fantasia, alla invenzione. Guai a tradire la realtà con i simulacri della immaginazione.
Ma, se qualcosa la parabola di Manzoni ci ha insegnato, è una cosa che riguarda proprio questo punto. Se si rifiuta la dimensione immaginativa della letteratura e dell’arte, la strada è aperta per il suo rifiuto e la sua dissoluzione. La dissociazione tra l’impatto emotivo dell’arte e la sua funzione gnoseologica, di acquisto non solo sul piano della passione ma anche su quello della conoscenza, è il modo migliore per non afferrarne più il significato e la legittimità. La creazione di una realtà altra rispetto a quella nella quale ci imbattiamo ogni giorno non è la patologia della forma artistica, ma la sua elementare fisiologia, che consiste nel creare un supplemento di esperienza che è vitale e costitutivo per l’esperienza stessa. Una volta negata questa destinazione fondamentale, alla letteratura rimane solo aperta la strada verso l’insignificanza. La sua sorte è segnata. Lo abbiamo visto in Manzoni: tutto, in definitiva è dipeso da una scelta iniziale, espressione di una profonda angoscia nevrotica nei confronti dello spazio aperto della immaginazione. Una volta rifiutato questo spazio, il terreno libero per l’arte si è andato sempre più restringendo, fino a scomparire del tutto. I contemporanei fautori di una letteratura asservita alla realtà dovrebbero meditare questa vicenda, perché partendo da un analogo rifiuto rischiano fortemente di trovarsi tra le mani lo stesso risultato. Senza neanche l’attenuante delle nevrosi di Alessandro Manzoni.
[1] Non per nulla anche i testi chiave per l’inquadramento del genere sono W. Lehman, Matters of Facts: Reading Nonfiction over the Edge, Ohio State University Press, 1997 e . Per l’Italia, si veda R. Palombo, Narrazioni spurie: letteratura della realtà nell’Italia contemporanea, in “Modern Language Notes”, 2011, 126, pp. 200-223.
[2] W. Siti, Resistere non serve a niente, p.
[3] Si veda R. Palumbo, Narrazioni spurie: letteratura della realtà nell’Italia contemporanea, in “Modern Language Notes”, 2011, 126, pp. 200-223.
[4] L’epidemia dell’immaginario è il titolo di un libro di S. Žižek uscito nel 1997 (tr. it. Meltemi, Roma, 2004; d’altra parte l’anno precedente uno dei primi tentativi di configurare un’uscita dal postmoderno era stato Il ritorno del reale di Hal Foster (tr. it. Milano, Postmediabooks, 2006).
[5] Ch. Raimo, Prefazione a Il corpo e il sangue d’Italia. Otto inchieste da un paese sconosciuto, Roma, Minimum Fax, 2007.
[6] D. Shields, Fame di realtà. Un Manifesto, Roma, Fazi, 2011, pp. 104, 66; 78, 34.
[7] Si veda R. Donnarumma (a cura di) Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, in “Allegoria”, 2008
[8] Come è stato ribadito efficacemente nel recente Politiche dell’irrealtà di A. Mazzarella, Torino, Bollati Boringhieri, 2011
[9] J. Bolter e R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Mailano, Guerini, 2002; e P. Montani, L’immaginazione intermediale . Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile.
[10] L. Sciascia, Storia della colonna infame, ora in Id., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 101-114.
[11] M. Onofri, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 147.
[12] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Milano, Mondadori, 1979, p. 81.
[13] Si veda in proposito A. Voltolini, Finzioni. Il far finta e i suoi oggetti, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[14] Si veda, di G. Simonetti, Un realismo d’emergenza. Conversazione con W. Siti e, sempre di Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana 1996-2006, in “Allegoria”, 2008, n° 57, pp. 95 sgg.
[Immagine: Jessica Backhaus, A Single Moment (gm)].
grazie, un pezzo di estremo interesse per il lavoro che sto facendo e, più in generale, per chi voglia accostarsi alla teoria del romanzo. non solo quello “contemporaneo”; il merito, mi pare, maggiore di questo pezzo (e di altri saggi di valore sicuro sulla dialettica irrisolta fiction-realtà) è proprio collegare termini che appaiono irrelati e posticci come “autofiction” e “non-fiction novel” (e in qualche misura lo sono, data la loro genesi problematica) alla storia del romanzo, che nasce sotto il segno dello sperimentalismo e dell’illusione di realtà, cresce sulla presunzione di afferrare la successione empirica della storia passando per la via più lunga (anzi, per una strada che dal basso proprio non si riesce a vedere!).
rifarsi a manzoni risulta quindi un modo di spiegare il rapporto problematico di qualsiasi scrittore, di qualsiasi epoca credo, con la realtà “rappresentata” di auerbach. non è un caso che chi si accosta a autofiction e non-fiction, ed è di solito uno scrittore dotato di un bagaglio teorico importante anche se dispiegato in modalità contestabili, cerca di inserirsi nel solco di una tradizione narrativa sotto il cui segno, in italia, è nato il romanzo contemporaneo: altro che mancanza di consapevolezza, disinvoltura narrativa, ignoranza. per riprendere da un autore citato qui, scurati nella prefazione a “Il bambino che sognava la fine del mondo” perverte proprio un’etichetta manzoniana quando ascrive il suo libro ai “componimenti misti di cronaca e di invenzione”.
grazie ancora, penso che questo pezzo mi sarà utilissimo
sul’esaurimento della fiducia nell’immaginazione, poi, troppo c’è da dire! ma ho l’impressione che qualcosa di simile stia accadendo, accada di continuo, anche nelle forme ibride di autofiction e non-fiction. avviene quello che chiamerei una dissoluzione dell’autore-personaggio, spremuto, dopo ogni possibile sperimentalismo narrativo-autoanalitico, e buttato via. spesso l’autofiction si presenta come l’ultimo tentativo di un autore, porta in sè le avvisaglie della sua stessa, imminente fine. quante volte uno scrittore ha detto che per lui scrivere un determinato romanzo equivale a scrivere l’ultimo romanzo suo e, anzi, dell’intero genere umano (elsa morante e gide, i primi che mi vengono)? nel caso di un iper-romanzo autofittizio, avviene una cosa simile: l’autore vuole scrivere l’ultimo libro, la parola definitiva su di sé. ma forse, e questo pezzo mi aiuta a capirlo, è proprio il “macrogenere” del romanzo, da manzoni e prima di manzoni, che è costruito dall’inizio come una bomba a orologeria.
Grazie. Una riflessione molto articolata e utile. Concordo pienamente poi con quanto detto in chiusura ovvero sulla necessità di non rifiutare a priori lo spazio dell’immaginazione.
Mi permetto solo di segnalare il refuso del mio nome, non Raffaello Palombo come è scritto, ma Raffaello Palumbo Mosca. Mi permetto anche di segnalare che il mio libro sui medesimi temi (“L’invenzione della realtà. Romanzi ibridi e discorso etico contemporaneo”) che è in stampa da Gaffi e uscirà – ritardi permettendo – a breve.
Grazie ancora e chiedo venia per le precisazioni, spero non troppo autopromozionali.
E’ bello davvero vedere che finalmente, e da più parti, si sollevino critiche contro certe mode imperanti, premiate dal mercato e da una critica anche blasonata, orgogliosamente prepotenti (nel senso della pretesa superiorità morale prima ancora che letteraria), ma esteticamente invalide, prive di assolutà dignità letteraria, indipendemente dalla qualità del manufatto. Fanno dell’argumentum (si pensi a certa odierna letteratura sul precariato ad es.) motivo di autosufficienza estetica, scansando il focus dell’analisi da quello che deve essere l’unico canone di riferimento – la centralità dell’opera – e dando risalto a giudizi di valore extra-estetico – la sua incidenza sul reale, la capacità anche di coagulo ‘politico’ ecc. (così come in modo più perverso l’appeal biografico, lo stile della vita giocano a favore della vendibilità/spendibilità dell’autore sul piano del marketing editoriale).
Stesso dicasi per la frettolosa inumazione del famigerato ‘postmoderno’ (di recente l’ottimo intervento di Remo Ceserani nei confronti di un articolo di Donnarumma su “Allegoria” n.64; rivista fra le più ferventi nel proclamare il nuovo verbo ‘similrealista’). D’altronde certe pretese di verità nel prodotto ‘realista’ rispetto alla svagatezza sorniona e improduttiva del finzionale creduto ‘finto’ (l’etimo latino di fingere è assai istruttivo nella sua duplice gamma semantica), erano già condannate meravigliosamente da Manganelli ai tempi di ben altri ‘neorealismi’ con nettezza ultimativa, limpida chirurgia lessicale.
Cito da “La letteratura come menzogna”:
“Nulla è più mortificante che vedere narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della menzogna, indulgere ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica. […] Sebbene siano costretti a mentire, come vogliono le punitive leggi delle lettere, lo fanno con angustiosa cattiva coscienza, palesemente soffrendo sotto la coazione della frode, e inefficacemente nascondono l’autentico nocciolo di menzogne sotto un velo di una fittizia verosimiglianza”
Per chiudere, certe imprese ‘realiste’ anche nel secolo XIX, secolo d’oro per la letteratura di realtà variamente orientata, potevano produrre esiti fallimentari tanto per la letteratura quanto per lo scopo di denuncia, non facendo né buona letteratura né denuncia efficace. Mi sovviene “Al paradiso delle signore” di Zola, fra tutti: quasi trecento pagine patetiche e lacrimevoli sulla fine delle piccole botteghe a danno dei grandi magazzini. Se avesse speso trenta cartelle con numeri e dati per documentare la faccenda avrebbe reso un ottimo servigio cronachistico, da vero reportage, senza scomodare la forma finzionale, assai sdrucciolevole del romanzo.
Molti dei nodi che questo bel pezzo cerca di districare sono drammaticamente presenti ne Il re pallido di D. F. Wallace.
In quel romanzo incompiuto – vero buco nero contemporaneo – c’è tutta la spaventosa, vertiginosa implosione dentro cui la narrativa precipita quando lo spazio immaginativo non viene più considerato, in quanto tale, degno di essere.
La salvezza a mio avviso sta nel respiro dell’immaginazione; dal momento che non il realismo, bensì la realtà è l’impossibile, ecco che l’immaginazione torna a posizionarsi al centro della narrazione – ovvero al centro di sé stessa, laddove una nuova realtà, l’unica che conti in un testo letterario (in un testo creativo), si edifica e vive.
@ Lancetti
“di recente l’ottimo intervento di Remo Ceserani nei confronti di un articolo di Donnarumma su “Allegoria” n.64”
Mi può indicare il titolo dell’articolo di Ceserani e la rivista o altro dov’è stato pubblicato?
Grazie
Gentile Ennio Abate,
può leggerlo sul sito della rivista “Allegoria”. Il titolo è: “La maledizione degli ismi”.
Le allego il link dove può scaricarlo in formato pdf:
http://www.allegoriaonline.it/index.php/component/content/article/79-65/489-la-maledizione-degli-ismi.html
Buona lettura e buone cose,
Danilo Laccetti
Perdonate la fretta, ma le questioni poste sono così interessanti che proprio non ce la faccio a stare zitto. Promessi sposi, Del romanzo storico e tragedie con relativi apparati (più che il romanzo storico ottocentesco come genere) meritano certo di essere riletti su problemi che sono però contemporanei a noi, e ai quali Manzoni era estraneo (non mi risulta che navigasse in rete o guardasse il Tg4). Parlare dei realismi contemporanei dimenticando la virtualità in cui siamo immersi significa equivocare. Siti non appartiene, in questo, al mondo di Manzoni: del resto lo sa, e lo scrive.
Sarebbe lungo entrare nella questione vero/falso, reale/simulato: perché la questione da porre è quella della non coincidenza di realtà e verità. Se Platone o Aristotele ci leggono, spero abbiano la bontà di illuminarci. Resta però che, nella sua ansia di condannare una letteratura rozza, Paolo D’Angelo sembra non vederne la qualità propria: come funziona questa superstizione della realtà che effettivamente c’è in molti scrittori contemporanei? a cosa induce? prima ancora che dire se produce letteratura buona o cattiva (e si può pronunciare un unico verdetto, valido per tutti?), non dovremmo chiederci di quel stato del mondo è sintomo? e poi: è sempre davvero così pedagna come l’infelice ed eloquente dichiarazione di Saviano lascia supporre? possiamo accontentarci di una giusta, ma un po’ fiacca, difesa dei diritti dell’immaginazione? e chi non immagina?
Mi permetto anche io di segnalare un errore. La nota 7 attribuisce solo a me la curatela di una sezione di «allegoria» cui invece hanno lavorato anche Gilda Policastro e Giovanna Taviani; ma non mi stupisce: l’autore non deve averla letta, se crede sia opera dei «più acritici partigiani del ‘ritorno al reale» i quali, trogloditi come sono, pensano che i dati siano accessibili in sé. Resto ancora stupito di quanto il pregiudizio antirealistico possa indurre a scambiare le diagnosi per apologie; né ricordo che quando, nel 2008, uscì quel numero di «allegoria», di nuovi realismi non si parlava poi tanto.
Aggiungo:
– mi pare si faccia un uso un po’ generico e vago della nozione di non fiction novel: a quali testi si allude? tutte le scritture non finzionali vanno considerate non fiction novel? il personal o lyric essay, per confuso che sia il loro statuto, non è novel. E cosa sono i libri di Sebald? o certe cose, più vicine al reportage, di Wallace, o Littell, o Langewiesche, o Vollmann? Novel pure quelli?
– non sono affatto convinto che «Se il problema è la compresenza di fatti realmente accaduti e di dati di invenzione, diventa secondario sapere se i primi sono attinti attraverso una ricostruzione del passato o sono appresi ‘de visu’ da colui che li racconta». Come sapeva Manzoni, riscrivere la storia e attingere a documenti già scritti non è la stessa cosa che assumersi in prima persona la responsabilità di testimoniare (Agamben, Ferraris). Si tratta di strategie discorsive molto diverse;
– «Queste ‘narrazioni della realtà’ confidano così tanto nell’autoevidenza di quella realtà che agitano come un vessillo che si guardano bene dal farne un problema»: di quali narrazioni stiamo parlando? Anche qui, vorrei qualche titolo. I libri di quel tipo sono certamente scempiaggini. Ma si può documentare che i testi-vessillo di questa tendenza (e. g., Gomorra) non peccano di questa rozzezza e che, al contrario, sono animati da una palese strategia che vuol strappare il racconto alla finzionalizzazione coatta (il che non comporta niente sulla loro riuscita);
– proprio perché non tutti i racconti sono eguali, e uno storico e uno romanziere non fanno la stessa cosa, le scritture di non fiction e l’attuale statuto della fiction dovrebbero essere oggetto di un’analisi attenta. Rimarcarne le contraddizioni (quel pasticcio di Shields ne è un esempio) non può significare liquidarne il significato: questa letteratura può non piacere (ma ancora una volta: così? tutta insieme, all’ingrosso?), ma non sta affatto in chiave con il postmoderno. Se poi qualcuno si sente ancora postmoderno, liberissimo: tanto quanto di andare in giro coi coturni, la marsina o la feluca.
@ Abate
Il pezzo cui allude Lancetti è La maledizione degli ismi, e sta sull’ultimo numero di «allegoria». Seguirà, ahimè, la replica di Donnarumma.
Gentile Donnarumma,
mi riaggancio alla coda ultima del suo ragionamento: il piacere ‘reazionario’ del postmoderno (tra parentesi non ci sarebbe nulla di male a vestire desueto; sempre meglio che indossare compulsivamente abiti strampalati, di moda o di corrente). Citando il suo saggio e quello di Ceserani (quest’ultimo non solo per mie antiche convinzioni ma anche per la sua formulazione logica mi ha convinto; accolgo con piacere l’annuncio della sua replica) mi sono riferito a un dibattito che si anima parallelamente anche in filosofia sul tramonto del pensiero debole. Il fatto che il postmoderno sia agonico è chiaro da anni, ma che sia stato già abruptamente scalzato da un ritorno trionfale a un realismo variamente riformulato a me convince assai poco. Che sia in questione lo snodo e il superamento del tramonto del 900 (il postmoderno ne è in fondo il corteo funebre fin davanti al cimitero) è qualcosa che personalmente mi interroga da tempo e non riesco a trovare risposte e invidio chi ne ha; o forse una risposta la scorgo nella naturale fisiologia di tutti i processi letterari che alla grande fiammata della modernità letteraria, celebrata nei primi tre decenni del XX secolo dopo un secolo e mezzo di ascese, fa seguire di necessità un periodo di rimasticazione, di rimuginìo con la conseguente stasi in vista di future risalite che è l’epoca nostra, dissolvente come poche. Affermando che il postmoderno non può essere frettolosamente inumato senteziavo qualcosa che non solo nella produzione narrativa di genere (quella non beceramente commerciale, ovvio) così come nella narrativa più letteraria è ancora evidentemente pervasivo (e non solo per nostalgia o mercenariato, spero), ma soprattutto perché il ‘ritorno al reale’ nel mio convincimento non è la risposta; almeno non la mia e non credo l’unica e la migliore possibile. Proprio perché, come lei giustamente sottolinea, oggi la percezione della realtà è corrotta dalla virtualità della sua rappresentazione nei mezzi moderni di comunicazione e informazione, a mio avviso l’immaginario letterario correrebbe il rischio elevato non di smascherare il falso (volendo assumere questo come principio estetico) ma di farsene implicito complice o reduplicatore, un po’ come avvenne alla letteratura messa in discussione ai tempi dal cinema, i cui esiti, in taluni casi nefasti, si sono visti nei decenni anche in certa drammaturgia teatrale ad esempio oltre che nella produzione narrativa di romanzi pronti per essere tradotti filmicamente (spesso anche con un italiano inglesizzato). Che poi certe contaminazioni siano ovvie e salutari, certo, ma ciò che ne deriva spesso è un certificato di sudditanza o di resa da parte dell’uno, che ne depotenzia le virtù originarie senza nulla aggiungere. La fine della letteratura autoriale in parte rimonta anche a questo (ma andrebbero evocati anche ragionamenti sul piano delle trasformazioni economiche sul versante letterario-editoriale).
Danilo Laccetti
P.S. Lancetti, ahinoi… purtroppo è da tempi immemorabili che nel mio cognome si interpone una fastidiosa nasale al posto della geminazione palatale…
Mi scuso anch’io se intervengo in fretta, e su argomenti proprio non di mia competenza. Del resto, per entrare meglio nel merito del discorso mi sembra sia il caso di leggere il libro; e sicuramente ne varrà la pena perché D’Angelo è sempre stato uno studioso di grande serietà e consistenza.
Qui mi limito a concordare con Donnarumma circa la problematicità e l’ampiezza della nozione di non fiction novel. Aggiungo – con riferimento sia al post sia ad alcuni dei commenti – che quando si fa riferimento a specifici autori e testi la precisione non è mai troppa, tanto più se sono in gioco considerazioni di vasto respiro. E dunque perché non puntualizzare che:
– La spettacolarizzazione mediatica della cronaca c’era ai tempi di Capote, certo (e forse anche molto prima), ma non c’è nel suo libro: A sangue freddo non abbonda in dettagli sanguinolenti, anzi espone il delitto in modo sobrio e un po’ ellittico; sempre con sobrietà sono raffigurate le reazioni dei vicini, materia di narrazione, non di enfatizzazione romanzesca; l’empatia verso Perry Smith è tutt’altro che manifesta, affiora solo nella predilezione per il suo punto di vista.
– Non vedo molti punti di contatto tra L’Affaire Moro e La scomparsa di Majorana: il primo ha nella letteratura un forte punto di riferimento ma è un intervento a caldo su fatti appena successi, quasi un pamphlet, frammisto di dubbi, polemiche, intuizioni; il secondo, rievocazione di un mistero lontano, dilatata in una congettura finale, ha un taglio molto più narrativo (e molto più affine a quello di altri libri dell’autore, Il teatro della memoria, I pugnalatori).
– Il paradiso delle signore di Zola citato da Laccetti sceglie come filo conduttore una storia piuttosto banale, è vero, e ha momenti di pathos; ma è un testo duro, graffiante, a tratti ironico o cinico, che di lacrimevole non ha nulla.
Chiedo scusa, capisco che è un capitolo estratto e che andrebbe letto tutto il libro e che è una discussione alla quale partecipano specialisti, io però voglio lo stesso dire che trovo il tutto di difficile comprensione.
Il romanzo storico viene definito in declino, poi si dice che Walter Siti ne ha scritto uno.
Non capisco la differenza tra romanzo storico e non-fiction novel.
“La diagnosi, voglio dire la constatazione che la distinzione tra realtà e immaginario sarebbe andata perduta e l’uomo di oggi sarebbe impossibilitato a comprendere che cosa effettivamente accade e condiziona la sua vita, non mi pare così certa come si è voluta presentarla;”
Io vorrei sapere chi è che crede all’affermazione che “l’uomo di oggi sarebbe impossibilitato a comprendere che cosa effettivamente accade”, e soprattutto che cosa significa.
Si parla di distinzione fra informazione e intrattenimento e poi fra reale e immaginario, ma sono due cose diverse.
Ho dei problemi con la parte sul fingere. Se fumi, stai fumando. Per fingere di fumare è necessario non fumare. Si può fingere di fumare mimando con le dita, appoggiando una sigaretta spenta o accesa alle labbra, ma non compiendo l’atto del fumare. Sennò dov’è la finzione? Nel porno l’atto sessuale è vero, il resto è finto. Così come nell’urlo. L’urlo è vero, la rabbia è finta. Per essere ancora più chiari: non si può fingere la morte mentre si muore.
Mi scuso se forse ho postato due volte, ho problemi con il pc. Mi scuso anche per il tono, magari non ce n’è bisogno.
Gentile Laccetti (perdoni lo strafalcione: e purtroppo non era l’unico, nel mio commento di sopra),
prema di credere che la cultura e la letteratura postmoderna vadano inumate, credo che siano effettivamente scadute: anche se, naturalmente, continuità palesi o latenti ci sono. Lei stesso sa del dibattito filosofico; non vedo quindi come possa sostenere, un po’ apoditticamente, che «nella narrativa più letteraria [il postmodernismo] è ancora evidentemente pervasivo». A quali autori pensa? Wallace e Bolaño, che, ahimè, sono morti, hanno rappresentato secondo me il passaggio dal postmoderno a qualcosa di diverso, che io chiamo ipermoderno. Ma tutti i maggiori scrittori che si sono affermati dalla metà degli anni Novanta non sono affatto postmoderni: penso a scrittori come José Saramago (1922), Alice Munro (1931), Mordecai Richler (1931-2001), Philip Roth (1933), Cormac McCarthy (1933), Abraham Yehoshua (1936), Amos Oz (1939), John M. Coetzee (1940), Edmund White (1940), Michael Cunningham (1952), Jonathan Franzen (1959), Jeffrey Eugenides (1960), Ingo Schulze (1962), per più aspetti Michel Houellebecq (1958 o 1956) o, ancora, Jonathan Littell (1967). Se pure loro sono postmodernisti, come Gaddis o Pynchon o Rushdie o tanti altri, allora postmodernista non significa un bel nulla. Che poi i nuovi realismi possano non essere una risposta (ma anche qui, sarebbe il caso di distinguere: Siti non è Saviano) è possibile; ma per me il punto non è affatto se mi piacciono o meno, ma se segnano una frattura o meno. Il guaio è che la realismofobia è tale da annebbiare la vista: quando le forme di realismo (nuove perché in regime di virtualità coatta e di derealizzazione incombente) vengono reputate un errore, allora non vogliono dire nulla, o peggio non esistono. Invece, bisogna farci i conti, al di là del giudizio – il quale, ovviamente, non può essere totalitario e onniestensivo. Non parlerei poi di superamento del Novecento, perché il Novecento ha rappresentato cose troppo diverse per capire cosa avremmo superato, e cosa no. Non aggiungo nulla sul complesso saggio di Ceserani: vedrà, se vorrà, la mia replica proprio su LPLC.
Caro Scaramouche,
grazie per le precisazioni, una particolarmente preziosa: quella su Capote. Se uno confronta Gomorra con A sangue freddo (io ho provato a farlo) vede che sono due libri molto diversi: il secondo ha molto del novel, il primo, a mio giudizio, poco. Anche la posizione del narratore (che in Capote sostanzialmente non si costituisce in personaggio) è molto differente. Che poi lo stesso Saviano abbia definito il suo primo libro un non fiction novel non vuol dire molto: non è né un critico, né un teorico della letteratura. Aggiungo che molte delle scritture non finzionali ipermoderne (io le chiamo così) sono emancipate dal romanzo, per lasca che possa esserne l’accezione, e molto nutrite di saggistica. Liberiamoci dell’imperialismo del romanzo: non è che si possa appioppare quest’etichetta a qualunque libro di più di cento pagine, vagamente narrativo. Non vorrei fosse, pure questo, un modo per disconoscere la novità di scritture che con il romanzo hanno al contrario un rapporto contrastivo, di emancipazione. Spero di trovarla d’accordo.
Leggerò anche io con attenzione il saggio di D’Angelo. Da quel pochissimo che leggo qui, ne traggo questa riflessione banale, ma non inutile: Manzoni ragionava con categorie, e in un contesto, che non sono i nostri. È giusto e necessario proiettare sul suo tempo problemi che il nostro presente ci pone: ma fare di Manzoni il metro su cui noi oggi dobbiamo misurare i nostri scrittori è, a mio parere, poco produttivo (e un po’ aprioristicamente censorio).
questo articolo mi fa sovvenire il saggio “Eroi di carta” di Alessandro Dal Lago, che muovendo da Gomorra e Saviano sferra un attacco frontale proprio alla letteratura della confusione di realtà e finzione, che è anche letteratura della confusione di autore, narratore e protagonista, di punto di vista intradiegetico ed extradiegetico. sia chiaro, confusione non vuol dire coesistenza, ma quella indistinzione che consente la reinterpretazione nell’uno o nell’altro senso secondo la convenienza del momento.
tutto ciò, peraltro, nel funambolismo identitario dell’autore, che di volta in volta cambia di funzione e posizione rispetto al testo, mi pare decisamente postmoderno.
se si volesse davvero un ritorno al reale si vedrebbe un ritorno alla storiografia, la quale, dimenticata nei meandri delle polverose facoltà umanistiche, ha quasi perso i suoi connotati di genere letterario, per diventare perlopiù inutile collezione di curiosità erudite, salvo ogni tanto esplodere in rutilanti fuochi d’artificio di furore mediatico qualora qualche buontempone si lanci in curiose amenità revisionistiche o dietrologiche di qualche tipo (e diventando perlopiù romanzo fantastorico), e senza considerare i comodi bignami cronachistici dei vari BruniVespa.
ecco, mi sovviene anche quel bellissimo saggio storiografico di Paul Veyne che è “Come si scrive la storia”. Forse sono io che la vedo un pò di sbieco, ma questo articolo mi pare apra una finestra sullo sconfortante cedimento della capacità di visione e descrizione degli avvenimenti storici, nonchè dell’incapacità di svolgere un ragionamento serio riguardo all’annoso passaggio dalla storia come “conoscenza mutilata” alla storia come selezione degli elementi pertinenti necessario per la contemporaneità.
la storia, pubblicamente, esiste solo in funzione di ancella, come portatrice d’acqua alle tesi preconfezionate dei vari autori che si occupano d’altro. non che questa sia una novità, ma certo la solerzia con cui si è demolita la nozione di realtà nei decenni passati favorisce ogni tipo di maltrattamento e mistificazione, compresi quelli di chi si fa portatore di un presunto nuovo realismo, il quale è in genere orientato a creare racconti a chiave (così Saviano ci impone la strapotenza dei poderosi villain delle organizzazioni criminali come primo punto -pressochè unico, talmente è primo e urgente- nell’agenda politica nazionale e internazionale, con una certa tracotanza), laddove la storia scritta non è mai un racconto a chiave con buoni e cattivi, perchè la verità dei fatti ha il vizio di strabordare dalle scatole concettuali in cui la si vuole rinchiudere.
la differenza principale con manzoni mi pare sia una questione di prestigio della storia stessa.
il principale motivo per cui questo nuovo realismo non può attingere a un realismo di tipo storiografico è nella sua programmatica rinuncia (forse più una posa che altro, ma tant’è) al sedentario distacco ironico che è presupposto di un genuino interesse verso la verità storica, sempre troppo meschinamente umana per piacere davvero agli spiriti alati.
Gentile Donnarumma,
è chiaro che partiamo da un presupposto diverso, questo è evidente: non sono né uno studioso né un critico militante (per mia fortuna, aggiungo; non invidio il lavoraccio che entrambi si devono sobbarcare nell’elefantiasi odierna, e nella vita fare un mestiere per volta è già difficile, seguire una sola passione poi è d’obbligo) e la mia è una manifestazione di principi e valori, diciamo, estetici o meglio di antropologia letteraria. Io non sono un paladino del postmoderno, anche se sia io che lei vi siamo cresciuti dentro o ne abbiamo respirato il soffio pure agonico, ma ancora deciso. Che i realismi siano qualcosa di esistente “con cui fare i conti”, come lei dice, certo; lei ne studia i processi, io non ne condivido l’assunto né le risposte. Per quello che può servire e interessare, le espongo in sintesi il mio pensiero, pensiero di chi inchiostra la carta in modo finzionale, diciamo: penso che la forma romanzo abbia ancora molto da dire a quest’epoca rispetto a tante contaminazioni o ai finti romanzi in circolazione, e ancor di più il romanzo storico, e certo non quello cariato degli scaffali delle nostre librerie (vedi l’esperienza di un Consolo, come punto di partenza ad es.). Penso che i realismi siano una reazione fisiologica alla corruzione del mercato letterario e della forma romanzo, una risposta all’aggressione falsa di certi miti odierni, un tentativo di affrontarli; non l’unico io spero e auspico. Penso, però, che chi li difende o ne sostiene l’assunto spesso si ponga in modo un po’ manicheo nei confronti di chi non vi aderisce o non se ne entusiasma: la mia risposta al suo commento veniva dal fastidio, le confesso, provato dalla sua espressione di infelucarmi o impotarmi di biacca la faccia per il solo fatto di non capire la portata rivoluzionaria del nuovo verbo, anche se di certo non era nelle sue intenzioni. Cioè, ho avuto spesso la sensazione, leggendo blog o riviste (sarà magari una mia distorta percezione del reale, può essere) che uno scrittore che non si accalda o non sposa nelle cose che scrive l’avvento di questi tempi “nuovi”, ipso facto venga trasformato in uno sfaccendato scribacchino, un damigello ozioso delle lettere che si rimira l’ombelico titillando le orecchie del lettore, al peggio un pennivendolo di bassa lega. Questo io non lo accetto: quello che conta, lo ripeto ancora, è la qualità letteraria dell’opera e da lei si può eventualmente risalire alla poetica e all’estetica che la signoreggia, non il contrario. Invece in molte recensioni che leggo, dopo 3/4 di sinossi, l’ultimo quarto è una sorta di petitio principii del corollario alla base del romanzo o presunto tale, del tema che tratta ecc. I contorni extra-estetici giustificano l’estetica debole del testo. Mi piacerebbe che nel giudizio non si ragionasse per categorie estetiche di appartenenza e soprattutto – ripeto sarò io distorto – non si sottintendesse una superiorità letteraria, addirittura morale, rispetto a chi, per proprio convincimento, non sposa l’estetica dominante o nuova che dir si voglia.
Leggerò con piacere la sua replica ovviamente.
LA BENEDIZIONE DEI CAPARB-“ISMI”.
Ho letto attentamente «La maledizione degli “ismi” di Remo Ceserani («allegoria» 65/66) e riporto alcune mie riflessioni:
1.
Trovo le sue obiezioni oneste e sempre problematiche. Eppure – leggendole m’è venuto in mente il discorso di Calvino sul labirinto – quanto adattamento mimetico alla cosa “incognita” (postmoderna o ipermoderna o transmoderna – per quest’ultima vedi http://gconse.blogspot.it/2013/06/transmoderno-un-nuovo-paradigma.html – o di modernità solida o liquida) su cui indaga!
Ceserani la esamina scrupolosamente, ma mai arriva allo scatto che permetta di dire: è così, è *soprattutto* questo. Come se fosse venuta meno la *volontà di scegliere o semplicemente di scommettere*.
Anche le principali interpretazioni nostrane della «postmodernità» (Ferroni l’«apocalittico», Luperini l’«apocalittico critico», lui medesimo l’«integrato critico») sono poste l’una accanto all’altra. Come se non fossero conflittuali tra loro. E poi dichiararsi soddisfatto perché qualcuno («un’osservatrice esterna», la Jansen) riconosce la sua «volontà di non apparire schierato né con i sostenitori entusiasti né con gli oppositori apocalittici delle trasformazioni in atto»…
2.
Questa ecumenica “neutralità” delude. Ligio alla lezione di «chi vuole vedere i fenomeni sociali così come sono, e non così come li vorrebbe», memore dei fallimenti di quanti in passato hanno provato a cavalcarli «illudendosi così di poterli controllare», Ceserani si “avvita” nel compito «di capire le trasformazioni, di analizzarle ed entrarci dentro, di spiegare quello che sta succedendo». E chi dice di no: capire è fondamentale, anche se non si seguisse più l’insegnamento di Quello che diceva: Senza teoria niente rivoluzione…
Eppure, se tanto sforzo d’analisi deve concludersi con un generico: «il quadro d’insieme dei mutamenti della postmodernità è pieno di luci e di ombre», qualche dubbio dovrebbe venire sia sulla bontà del suo punto di vista “neutrale” sia sul fatto che il nobile «atteggiamento integralmente critico» possa essere *anche* un diversivo che mascheri un adattamento alla rappresentazione della realtà imposta da altri.
3.
Oltre a trovare abbastanza scaduta la distinzione tra apocalittici e integrati, a me pare che Ceserani finisca involontariamente per incoraggiare il giochetto del vedere il bicchiere (della postmodernità) ora mezzo pieno e ora mezzo vuoto. Col bel risultato che i lettori, come asinelli di Buridano, restino nell’ambivalenza.
Possibile che in questa incerta transizione dal moderno a qualcosa d’altro, non ci si possa più chiedere chi delle sue “luci” si stia avvantaggiando e chi nelle sue “ombre” stia dileguando (o crepando)? chi si arricchisce e chi impoverisce? chi sta diventando più libero (ma a spese di altri) e chi meno? E trarne qualche conclusione – provvisoria ma più decisa – che permetta di scommettere e di definire *da che parte noi siamo* in essa e *che fare*?
4.
A pensarci bene, non è che la modernità non avesse le sue ambivalenze. E perché allora ci fu chi seppe/volle leggerle come «contraddizioni» (anzi – mi riferisco a Marx – ne individuò una come principale), mentre oggi intellettuali in posizioni di rilievo e ceto medio colto o semicolto, lavoratori della conoscenza e via seguitando, non riescono ad uscire da un atteggiamento di “sofferta angoscia” o di “indignazione”?
Niente impedirebbe di pensare criticamente le evidentissime contraddizioni della globalizzazione (e della democrazia); di ragionare in base ai nuovi assetti di potere che si sono delineati (in sostanza, di dirci chi comanda davvero e se a vantaggio di pochi o di molti); e – cosa non secondaria – di tenerne conto anche quando parliamo di letteratura o, per stare al tema, di fiction o non-fiction.
Se ciò non accade, la ragione di fondo sta nell’abbandono da parte degli intellettuali (apocalittici o integrati) di uno stile di pensare che non separava la letteratura dalla politica. L’hanno trovato “vetero, “rozzo”, “provinciale”, “desueto”; e hanno abbracciato le filosofie della complessità postmodernista, accogliendo silenziosamente e sottobanco i vecchi arnesi del liberismo, però rilucidati e made in USA. Non mi pare perciò che gli intellettuali più anziani, avendo vissuto «una parte della loro vita dentro un’epoca storica e una parte dentro un’altra», serbino molto della precedente epoca o siano dei Giano bifronti. E perciò Ceserani non è così distante da Donnarumma. Il quale nel tentativo di definire la «nuova fase culturale e letteraria» (compito dei suoi studi che non contesto), mi pare miri a sostituire l’etichetta «postmodernità» con quella più precisa di «ipermodernità». Che della prima è, se non capisco male, solo una variante. Anch’egli resta, infatti, entro la cornice politica neoliberista, e penso anche in ossequio al medesimo criterio “positivistico” di Ceserani (vedere i fenomeni così come sono, e non così come li si vorrebbe). Aggiungerei che, se davvero la prospettiva che guida la ricerca di Donnarumma fosse quella che gli viene attribuita, e cioè un “ritorno alla modernità”, si passerebbe – per così dire – dalla brace (l’ambivalenza postmoderna) alla padella (l’ambivalenza moderna).
6.
Concludo. Il silenzio o il vuoto d’analisi a me pare riguardi una questione fondamentale: chi ci comanda oggi e quali conseguenze ne discendono anche per la letteratura e/o la critica. Le domande sul valore delle narrazioni di fiction o non-fiction troverebbero un metro non “endoletterario”, se davvero si riuscisse a definire *politicamente* il fuori, lo «stato del mondo». Si potrebbe, ad esempio, capire meglio se, su di esso, certe opere letterarie (quelle di fiction o di non-fiction) ci dicono di più, anche rispetto alla stessa politica. O se questo “di più” stia arrivando a noi da entrambi i generi o ce lo dobbiamo attendere solo dal secondo. (Perché va bene guardarsi dalla «realismofobia», ma anche non cedere alla “fictionfobia”).
P.s.
Per quanto detto, spero non mi accusiate di appiattire la letteratura sulla politica (mi permetto di rimandare, per questo, a un mio commento (qui:http://www.leparoleelecose.it/?p=7053) sotto il post «Romanzo e morale. Una discussione su “Resistere non serve a niente” di Walter Siti»).
Nel merito del dibattito – e lo ammetto: una diatriba che se posta in questi termini sta diventando un poco ripetitiva – vorrei che si potesse riflettere con più attenzione sulla voce autoriale che propone questo percorso fra finzione e realtà attraverso Manzoni. D’Angelo è un filosofo e ultimamente si è occupato di estetica analitica (se non ricordo male ha curato un’antologia) e di estetica della natura (ha curato una raccolta di saggi su estetica e paesaggio per Il mulino e ha scritto una “Filosofia del paesaggio” per Quodlibet).
Porto questi dati perché secondo me è riduttivo limitare il dibattito all’eterna querelle che infiamma Allegoria (sebbene immagino che i redattori che vi collaborano ne sarebbero ben contenti e disponibili…).
Le domande che pongo potrebbero trascendere il campo della critica letteraria e muoversi nelle direzioni seguenti, che delineo appena.
D’Angelo non si è mai occupato direttamente di letteratura; perché lo fa con questo saggio? O ancora: si occupa davvero soltanto di letteratura? Perché un filosofo che conosce bene il dibattito estetico della analitica “ritorna” alla letteratura? Il dibattito sul new realism citato da Donnarumma non riguarda in prima istanza la scrittura, i romanzi e le finzioni, ma gli oggetti sociali più in generale. Quello del new realism è un dibattito che nasce nel e riguarda il dominio analitico e più propriamente ontologico. La mossa di D’Angelo potrebbe essere letta sullo sfondo del pensiero filosofico contemporaneo; potrebbe essere una mossa squisitamente filosofica giocata attraversando il campo del letterario (una mossa continentale? Forse, non lo so). Potrebbe essere il tentativo di trascinare il dibattito sul “realismo” – che ripeto per Ferraris è tutto ontologico – nell’estetico.
Ancora – alla luce dell’interesse che l’autore ha dimostrato per il paesaggio – il tentativo potrebbe essere quello di condurre la riflessione non sulle cose in sé, ma sulle modalità percettive e culturali con cui i soggetti percepiscono il mondo e vi danno senso. E da questa prospettiva si può leggere l’approdo alla letteratura? Il riferimento (così determinante da scriverci un libro!) al romanzo d’inchiesta italiano, da Manzoni fino a Sciascia?
Si può ipotizzare che D’Angelo scopra nella letteratura – e nelle sua epistemologia specifica – un terreno fecondo per rendere più complessa la dialettica fra Vattimo e Ferraris? In questo senso il romanzo otterrebbe un valore centrale: sarebbe ancora il luogo a partire dal quale negoziare il concetto di “realtà” che vogliamo costruirci.
Io non so la risposta – voglio leggere il libro, almeno – ma sono queste le domande che mi porrò quando sfoglierò le pagine. E ne approfitto per porle a voi (e non a D’Angelo, che evidentemente non ci sta leggendo!).
Cari amici, non è che non vi leggessi. Ho seguito il blog, ma ho aspettato a intervenire in attesa che la discussione si esaurisse, in modo da non sovrapporre alle vostre la voce dell’autore. Apelle post tabulam.
Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti, e abbozzo qualche risposta, cercando di essere breve per non abusare della vostra pazienza. Comincio dal fondo, ossia da Migliaccio, che ha avuto la cortesia di ricordare altri miei lavori ‘en philosophe’ e addirittura di ipotizzare che il mio possa essere un intervento ‘obliquo’ nel dibattito sul ‘new realism’ in senso filosofico (quello di Ferraris, per intenderci). Non credo che le cose stiano così, perché vagheggio questo libro da parecchi anni (confesso di nutrire una passione per Manzoni addirittura dai tempi della scuola, e lavorando a questo libro ho ritrovato un cartoncino di invito del mio Liceo per il centenario Manzoniano del 1973: c’erano Paolo Mauri, Nicola Merola e il sottoscritto, all’epoca sedicenne). Tuttavia è anche vero che le connessioni tra i fatti di cultura sono molteplici, e per quanto veda pochi punti di contatto tra il dibattito attuale sul realismo in filosofia e la questione del realismo in letteratura, Migliaccio mi ha fatto pensare che almeno un punto di frizione ci potrebbe essere, nel senso che la riflessione sul realismo in arte dimostra almeno quanto sia difficile, niente affatto lineare, frutto di molte convenzioni il discorso artistico sulla realtà (ha ragione Siti-Picasso: il realismo è l’impossibile). Che questo contenga una piccola messa in guardia dal considerare autoevidente un accesso diretto alla realtà anche sul piano filosofico?
Sono contento che Laccetti, Marchese, Palumbo Mosca (il refuso Palombo nel mio libro non c’è: problemi della correzione automatica) abbiano trovato qualche stimolo nelle mie divagazioni a partire da Manzoni. E siccome qualcun altro ha invece storto il naso, chiarisco che quello che ho inserito nel blog è il capitolo finale, concepito come una postilla d’attualità, di un libro che si occupa di Manzoni e solo di Manzoni. Sono grato a chi mi ha segnalato che il contesto in cui Manzoni scriveva è diverso da quello in cui si muove la ‘narrativa della realtà’ dei nostri giorni, ma devo avvertire i miei critici che perfino il sottoscritto l’aveva intuito. Il problema non sono le differenze, ma casomai il fatto che, nonostante tutte le differenze possibili, la vicenda di Manzoni che rinunzia al romanzo ci dice ancora qualcosa sui problemi di oggi, se non altro perché Manzoni si comporta con una coerenza che mi pare ignota ai protagonisti attuali del ritorno del reale.
Debbo dire qualcosa in risposta a Donnarumma, che mi accusa di averlo illegittimamente arruolato tra i sostenitori del neorealismo quando ne sarebbe solo il disincantato diagnosta. Mi dispiace , ma non capisco. E’ chiaro che la questione non è se tutte le opere scritte in chiave di non-fiction siano buone o cattive. Come al solito, ci sono cose buone, meno buone, meno che mediocri.- Né io ho mai inteso fare un lavoro di critica letteraria. Non ho preso in esame le opere, ma l’orientamento che le sostiene. Quella che Anceschi avrebbe chiamato la poetica della non-fiction (termine che usiamo all’ingrosso, tanto per capirci), l’ideologia che la sostiene. E che Donnarumma sostiene a spada tratta, nei suoi interventi nel blog come altrove. Al punto di attribuire a Manzoni (udite udite) le rimasticature di Agamben sul testimoniare. Lo rassicuro: il problema di Manzoni storiografo è proprio che usava troppo poco i documenti, come dovrebbe fare uno storico che si rispetti. La mistica della testimonianza, che Donnarumma condivide con Saviano, è cosa seria e terribile se riguarda la Shoah, ma applicata alla storiografia e alla camorra è una distorsione, e anche una turlupinatura.
DWF vs JF (che diavolo vorrà dire?) non è convinto da quello che dico sulla finzione e la realtà. Facendo leva sul buon senso, il mio critico osserva che per fingere di fumare è necessario non fumare. Mica tanto vero. Uno che piange in scena diciamo che finge di piangere anche se sta piangendo. Uno che urla in scena forse non sta fingendo di urlare perché urla davvero? E perché le cose dovrebbero stare diversamente con il fumare? Si rassegni: l’intreccio tra realtà e finzione, tra vero e finto, è più complesso di quello che crede. E anche di quello che credeva Manzoni per il quale la finzione era soltanto falsità. Grazie ancora a Tutti.
@ D’Angelo
Mi perdoni: ma non sarà mica che ricordi d’adolescenza, spade tratte, rimasticature, mistiche e neorealismi citati fuor di proposito servono ad eludere le questioni poste sopra? Sicuramente il suo libro ci parlerà di non fiction meno all’ingrosso. Del resto la poetica è una gran bella cosa, ma anche un po’ di critica letteraria, ogni tanto…