cropped-alunos-35-por-sala2.jpgdi Marina Polacco

Il rappresentante della commissione ministeriale parla con tono pacato e competente, che a volte diventa però vagamente ispirato-profetico. Parla di grandi conquiste, efficace razionalizzazione delle risorse, dovere etico di offrire a quasi ventinove milioni di cittadini senza diploma superiore l’opportunità di conseguire il fatidico pezzo di carta. Adopera espressioni del tipo «federalismo delle conoscenze», «pensiero collettivo precipitato all’interno di una norma», «doveroso passaggio dalla scuola dei programmi al laboratorio delle competenze»; in particolare, gli piace molto il verbo «audire», declinato in tutte le sue possibili forme. Il succo del discorso è la presentazione del regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 25 febbraio 2013, che disciplina «l’assetto organizzativo didattico dei Centri d’istruzione per gli adulti», istituzioni scolastiche autonome con il loro corpo docente e i loro organi collegiali, dai quali vengono a dipendere i percorsi di alfabetizzazione per stranieri, gli attuali corsi serali e i servizi educativi nell’ambito delle istituzioni carcerarie.

 Secondo le direttive del regolamento, l’attività dei Centri si svolgerà su tre ambiti: corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana per adulti stranieri; percorsi di primo livello suddivisi in due periodi didattici (il primo finalizzato al conseguimento del diploma di scuola media, il secondo alla certificazione delle competenze di base del primo biennio superiore); percorsi di secondo livello articolati in tre periodi didattici (primo biennio superiore, secondo biennio, quinto anno). Non a caso nel testo ministeriale non si parla di anni scolastici bensì di periodi: il tempo materiale in cui si deve svolgere ogni periodo non è indicato, perché ciascuno studente avrà la possibilità di completare ogni periodo anche in due anni (art. 5, comma 1 d), ma non è detto che non possa farlo in un solo anno scolastico. Anche se non è chiaro in che modo debba funzionare questa organizzazione, diversa dalla vigente suddivisione dei gruppi-classe su base annuale, è evidente la volontà di costituire un sistema più snello e flessibile: non un iter rigido scandito in anni scolastici di fatto equivalenti agli anni solari, ma un percorso variabile, formulato sulla specifica situazione dei singoli alunni. Apparentemente, un grande passo avanti per venir incontro alle esigenze particolari degli iscritti, più volte dichiarato nel testo del regolamento ministeriale (basti citare il comma 3 dell’art. 5, dove si ribadisce «la necessità di valorizzare il patrimonio culturale e professionale della persona a partire dalla ricostruzione della sua storia individuale»; poco più avanti, art. 6 comma 1, si sottolinea ulteriormente la volontà «di valorizzare le competenze comunque acquisite dalla persona in contesti formali, non formali e informali»).

 A emergere è il profilo di una istituzione scolastica amica, capace di prendere in considerazione e valorizzare tutti gli aspetti pertinenti alla formazione umana e professionale, a prescindere dai puri e semplici ‘risultati di apprendimento’ disciplinari. Non a caso, la possibilità di iscriversi ai Centri è estesa anche ai sedicenni e non solo ai maggiorenni (con possibilità di accogliere – in condizioni particolari – persino i quindicenni). Tale aspetto amichevole è intimamente connesso con il risparmio di tempo e l’accelerazione dei percorsi, perché adottando parametri di giudizio più flessibili, il passaggio da un periodo didattico all’altro può diventare decisamente più agevole. Sulla stessa linea si colloca l’inserimento a regime della formazione a distanza, da svolgere on-line. Una parola magica, che sa di moderno, di nuovo, di efficiente: posso apprendere stando comodamente seduto a casa, studiando quando mi pare, senza perdere tempo in spostamenti e trasbordi. Un toccasana, per chi vive in aree disagiate, per coloro che hanno difficoltà a spostarsi, o anche semplicemente per chi fa più fatica a conciliare tempi di studio e tempi di lavoro.

 Ma la più vera e profonda finalità sottesa all’istituzione dei Centri è esplicitata, senza lasciare adito a dubbi, proprio all’inizio del documento, nel comma 1 dell’articolo 1 (peraltro in un italiano molto discutibile): «il presente regolamento detta le norme generali per la graduale ridefinizione […] dell’assetto organizzativo e didattico dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti […] al fine di una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, che conferiscano una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico». Le tre parole chiave – «razionalizzazione», «efficacia» ed «efficienza» (quasi una variazione sinonimica della precedente) – sono le parole d’ordine di ogni azione politica e di governo che si voglia proporre come responsabile e sostenibile: qualsiasi istituzione deve puntare a essere ‘efficace’ ed efficiente’, deve riuscire a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E per farlo, deve razionalizzare l’impiego di risorse umane e strumentali: in altre parole, snellire, contenere, tagliare. Il diktat efficientista si traduce in quest’altro diktat, inesorabilmente. Come dimostra del resto la materia nuda e cruda del regolamento: l’orario complessivo delle lezioni deve essere il 70% di quello previsto nei corrispondenti corsi diurni (art. 5); il 20% delle ore si può (o si deve) svolgere on-line (art. 4, comma 9 c); l’organico (cioè il corpo docente) deve essere composto in modo che il rapporto non sia superiore a dieci docenti ogni centosessanta studenti (art. 9, comma 2); senza parlare del risparmio netto derivante dall’accorpamento dei gruppi di livello al posto delle classi e dall’abbreviazione dei percorsi – uno studente che completa il suo iter in tre anni invece che in cinque permette una ‘razionalizzazione’ delle risorse pari al 40%. Efficienza e razionalizzazione vengono presentate come beneficio sicuro per gli utenti (chi non vorrebbe ottenere di più, con meno sforzo?), ma si traducono, brutalmente, in taglio di ore, di posti di lavoro, di docenti. Certo, basta parlare di razionalizzazione, e le cose cambiano aspetto: è giusto ridurre gli sprechi, evitare le spese inutili, non inalberarsi in difese corporativistiche di privilegi insostenibili, non impiegare a vuoto risorse umane e materiali – nella fattispecie, per mantenere il carrozzone dei corsi serali così com’è, con le sue innegabili zone d’ombra, classi semivuote, percorsi incomprensibili, sovrapposizione di regole e ordinamenti diversi, assenteismo diffuso.

 Bisogna però riflettere meglio sul senso ultimo dell’operazione, soprattutto riguardo ai percorsi di secondo livello, cioè gli attuali corsi serali. A cosa devono servire i Centri, la cui istituzione è prevista dal regolamento in oggetto? Come ha detto il nostro amico funzionario con accento commosso, esistono in Italia ventinove milioni di cittadini senza diploma di istruzione superiore; l’obiettivo dei Centri è quello di «far arrivare al diploma il maggior numero possibile di persone, nel minor tempo possibile». Come contraddire uno scopo di così lampante, lapalissiana utilità? In fondo, è quello che tutti vogliono, in primo luogo proprio coloro che decidono di iscriversi a un corso serale. Sono le prime, immediate informazioni che chiedono: voglio arrivare al diploma, velocemente… Quanti anni posso saltare? Posso farne tre in uno, quattro in uno? Ne ho bisogno, mi serve, non ho tempo. Questo è quello che tutti (o per lo meno: la stragrande maggioranza) dicono, e quello che continueranno a dire fino alla fine, non c’è dubbio. In una video-intervista collettiva alla domanda «perché ti sei iscritto al serale» la risposta era sempre la stessa: il diploma. Questo è quello che vogliono, e questo è quello che dobbiamo dare loro. Quanto più in fretta è possibile, per non sprecare il tempo nostro e altrui (il tempo è denaro…) e, soprattutto, per non gravare sulle esangui risorse dello stato. Utenti soddisfatti e appagati, programma perfetto. L’importante è che nessuno lasci intendere troppo apertamente che si tratta di una clamorosa mistificazione: tanti sacrifici per arrivare a un diploma che non serve a nulla, che è poco più di carta straccia, che molto difficilmente servirà a riqualificare qualcuno sul mondo del lavoro perché ben diverso è lo scenario reale. Si parla di abolizione del valore legale dei titoli di studi, persino la laurea triennale vale poco meno di zero, e poi si vogliono convincere ventinove milioni di persone che arrivare al diploma nel minor tempo possibile dovrebbe essere l’obiettivo prioritario della loro vita e del sistema scolastico a cui si sono rivolti.

 Ma aldilà di queste considerazioni meramente pragmatiche, in cui la logica ministeriale cade sul suo stesso terreno funzionalista-efficientista (o forse è ancora peggio: si tratta di una mistificazione voluta, un modo tra i tanti per rinviare quanto più possibile lo scontro sociale), bisogna interrogarsi, in maniera ancora più radicale, sull’idea di scuola e di insegnamento sottesa a tutto l’edificio. Anni fa andavano di moda gli slogan contro gli ‘esamifici’ e i ‘diplomifici’ – slogan (e idee a essi collegate) che adesso appaiono terribilmente stonati, e che molti, sia da destra sia da sinistra, considerano alla base di tutte le sciagure attuali. Tanto è vero che il funzionario ministeriale se ne può addirittura vantare, come di un traguardo da raggiungere, e di cui andare fieri. Se la scuola diviene un diplomificio ben funzionante, allora l’obiettivo è raggiunto. La tanto decantata formazione on-line va esattamente in questa direzione: a distanza si trasmettono nozioni e se ne verifica l’acquisizione, nulla di meno, nulla di più. Niente che abbia a che fare con una idea solo vagamente più complessa dei processi didattici e di apprendimento. Il resto (competenze, apprendimento modulare, percorsi di studi personalizzati e flessibili) è solo fumo negli occhi, che maschera in effetti l’incapacità di dare almeno a questo diplomificio i contenuti di una volta. Perché non solo deve essere tale, ma deve essere facile, accessibile a tutti, non deve perdere nessuno per strada. Tutti promossi, ignoranti e contenti. Almeno quarant’anni fa la scuola bocciava, i contenuti – quali che fossero – erano insindacabili, pesanti e massicci come pietre. Una scuola selettiva in cui pochi, solo quelli socialmente ‘adatti’, potevano farcela ad andare avanti: non certo la scuola e l’università di massa di ora, dove tutti continuano ad andare avanti per forza d’inerzia, che è un paradosso vivente, una contraddizione in termini. La scuola che non boccia, la scuola accogliente, la scuola che aiuta tutti, che ‘abbona’ le materie alla fine dell’anno per mandare avanti il maggior numero possibile di alunni (e in questo tra sera e mattina la differenza è poca), è una scuola ancora più ferocemente classista di quella che bocciava il venti per cento dei suoi alunni, perché ha spostato altrove – rendendoli meno evidenti e dunque più inattaccabili – i meccanismi di selezione di classe.

 Tuttavia c’è qualcosa che sfugge alle logiche ufficiali. L’obiettivo esplicito, indicato da tutti come tale, è appunto il diploma, e al diploma gli studenti bene o male arrivano, soddisfatti e beffati – nell’ottica del nuovo regolamento sempre più numerosi e sempre più velocemente. Ma quello che avviene a scuola, è qualcosa di completamente diverso, ai limiti dell’ineffabile perché sfida il nostro pudore, il nostro senso del ridicolo, il disprezzo per la retorica auto-celebrativa, venute meno le categorie concettuali e ideologiche in grado di definire tutto questo. Pur tra difficoltà, stanchezza, intoppi, nelle scuole serali si crea comunque una comunità, banalmente per la presenza fisica di più persone impegnate nelle stesse attività, costrette a incontrarsi ogni giorno nello stesso luogo materiale, concreto (con buona pace della formazione a distanza), e va a finire anche che questa comunità agisce in quanto tale. Nelle aule, per i corridoi, davanti alle porte della scuola si chiacchiera, si fuma, ci si prende in giro, si mangia, si litiga. Si formano e disfano coppie, si intrecciano storie di amore e di gelosia. È una comunità molto eterogenea, in cui si realizza nei fatti una difficile prova di convivenza multietnica e multi-generazionale: italiani, marocchini, senegalesi, filippini, brasiliani, albanesi, rumeni, slavi, russi, curdi, palestinesi; ci sono diciottenni appena sbarcati dai corsi diurni e persone alle soglie della pensione; ci sono padri e figli, madri e figli. All’interno delle singole aule si discute, ci si confronta. Alcuni scoprono per la prima volta il senso di ascoltare la conferenza di un esperto, o il gusto di guardare un film che non sia la solita paccottiglia – magari persino una riduzione teatrale da Shakespeare o da Molière. Si riesce a discutere e a ragionare sui testi. Ci sono persone insospettabili (colf filippine, fornai e pasticceri che da scuola si recano direttamente al lavoro, parrucchieri, muratori albanesi, ragazzi in libertà vigilata o agli arresti domiciliari) che arrivano ad appassionarsi a una disputa sul personaggio di Amleto, che ti scrivono con convinzione e trasporto la lettera che Ofelia avrebbe potuto lasciare al suo amato. Magari piena zeppa di errori di ortografia, di doppie mancanti, di «è» senza accento, ma intensa come può esserlo un simile esercizio di scrittura. Alla domanda, che cosa ti ha lasciato questa esperienza, cosa ti ha dato più soddisfazione in questo percorso la risposta non è più il diploma, ma altro. E questo ‘altro’ non riguarda neanche la formazione professionale in senso stretto: ho capito che posso farcela; sono riuscito a prendere il mio unico ‘otto’ a un’interrogazione; per la prima volta non mi sono sentito un cretino svolgendo un compito di italiano; mi sono divertito a leggere un libro; mi sono divertito a inventare e scrivere una storia ‘alla maniera di’; ho letto il mio primo romanzo; ho capito che anche Omero e Sofocle sono dei ganzi; mi è venuta voglia di continuare a studiare.

 Don Lorenzo Milani – un altro personaggio fuori moda che non a caso è piaciuto molto ai nostri studenti serali e che, sempre non casualmente, è stato indicato come uno dei responsabili dell’imbarbarimento della scuola pubblica – diceva che l’obiettivo dei suoi ragazzi a Barbiana non doveva essere il diploma (con buona pace dei ventinove milioni attualmente in attesa). Così si legge nella Lettera a una professoressa: «Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse è volgare. Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro. Dietro a quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello». Parole che oggi suonano banali, o desuete, o addirittura false. Il nuovo regolamento ci dice proprio il contrario: il nostro obiettivo deve essere far arrivare tutti al diploma, proprio perché (ma questo ovviamente il regolamento non lo dice) il diploma è del tutto inutile, è ormai una merce alla portata di tutti, non serve né ad arricchirti, né a trovare un lavoro migliore. La scuola di Barbiana era una scuola dura, dai tempi lunghi, senza ricreazione, senza vacanze, senza pause dalla mattina alla sera. Ma il suo fine era formare i ragazzi per farli diventare ‘cittadini sovrani’: cittadini consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri e capaci di esercitarli al meglio delle loro possibilità. Per essere cittadini sovrani secondo don Milani la competenza linguistica è fondamentale, la base di tutto è la capacità di leggere e capire un testo, di saper argomentare, di esprimere le proprie ragioni: «Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere sulla carta intestata: “I capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere».

 Il nodo è tutto qui; e forse riguarda non solo i corsi serali, i Centri di nuova formazione, ma più in generale il nostro modo di intendere la funzione docente nella deriva ideologica in cui attualmente annaspiamo. Se accettiamo l’idea che la scuola abbia come obiettivo prioritario il diploma, va tutto bene, e il nuovo regolamento è perfetto: velocizzare, snellire, accelerare, formare a distanza saranno le nostre parole d’ordine. Se invece pensiamo che il nostro fine sia qualcosa di diverso che sfugge alla logica quantificabile dell’efficienza, qualcosa che ha a che fare con la sovranità di tutti i cittadini (e coloro che si iscrivono oggi a un corso serale sono molto simili ai ‘Gianni’ di Don Milani, anche se portano in tasca l’i-phone 5), allora ci servono tempi lunghi, lentezza, ore da trascorrere insieme in classe a scrivere, leggere, confrontarsi. Da questo punto di vista il diploma diventa quasi uno specchietto per le allodole: attrai gli studenti con questo miraggio, ma per dare loro altro, quasi a dispetto della loro stessa volontà. In entrambi i casi, sarebbe già un passo avanti scegliere con consapevolezza la propria posizione. Ma chi oggi vuole veramente confrontarsi con dei cittadini sovrani, in grado di cogliere le ambiguità della parola, di non lasciarsi abbindolare dalla prima pubblicità, dal primo slogan, dal primo guru che promette loro possibilità di ricchezza e di godimento illimitate, o che ne aizza il rancore scagliandoli contro il capro espiatorio più a portata di mano?

[Immagine: Aula].

7 thoughts on “Don Milani e il ministero. Sul destino dei corsi serali

  1. I problemi di fondo sono in buona parte gli stessi, dalle scuole serali all’università; e si nascondono sotto il linguaggio asettico o addirittura ipocritamente trinfalistico dei comunicati ministeriali: è importante ricordarlo, come fa qui Marina Polacco.
    Alla lettura di questo articolo, accosterei quella di un intervento altrettanto bello di Pietro Cataldi, su argomento affine. E’ uscito qualche settimana fa sul blog di Romano Luperini “Laletteraturaenoi”. Il link dovrebbe essere questo: http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-dibattito-e-noi/discussioni/131-questa-%C3%A8-la-civilt%C3%A0-una-sera-in-una-scuola-serale.html

  2. Mi associo all’elogio dell’intervento di Pietro Cataldi e gli affianco un brano – credo affine per spirito – di LA COLLEGA BIONDA, un inedito lasciatomi da un mio collega, prof negli anni Settanta e morto qualche anno fa:

    “Ci si poteva curare davvero così poco di quello che c’era intorno alla gente? Quel suo stare assieme ai ragazzi in un delirio amoroso-pedagogico non avveniva comunque in assetti di regole predisposte, ben rodate, e da secoli? La collega bionda in proposito ti disarmava, perché era disarmata. Appassionata dal suo gioco, accettava senza battere ciglio le regole imposte. Tanto per ora non si poteva far altro. Era così sollevata di colpo dall’impegno – asfissiante in certi periodi e che zavorrava una buona parte dei suoi colleghi di sinistra – di “cambiare la scuola” sotto il naso di un’immutabile, ostile ed intatta burocrazia.
    Raccontava che una volta all’inizio dell’anno scolastico, a settembre, avevano voluto metterla in biblioteca a sistemare certe carte. Lei, la supplente, con disappunto e sorpresa, si era rifiutata. No, lei quel lavoro non lo faceva. Semmai in quei giorni era disposta a venire un po’ prima a scuola per fare ripasso con gli studenti. (E allora non si usavano ancora né corsi di sostegno né di recupero). La collega bionda faceva le cose in cui credeva. Si curava anche del resto, ma solo quel tanto per non farsi intralciare nel suo rapporto con i ragazzi.
    Dalle condutture istituzionali, e dalla presidenza in particolare, s’espandevano intrighi che sfiatavano, venefici come gas, qua per bocca dei collaboratori, là nei capannelli dei leader sindacali e politici accampati più o meno provvisoriamente nella scuola in attesa di sbaraccare di soppiatto per direttive di partito o avanzamenti di carriera; e scoppiavano improvvisi con botti pirotecnici in qualche collegio o assemblea straordinaria. Lei se ne teneva fuori. E sfiorava appena anche la fitta rete di confidenze sessuali, l’ascolto parapsicanalitico dei guai familiari o delle contorsioni o delle regressioni adolescenziali del collega tizio o della professoressa caia. Tutti quei dolciastri mulinelli di pettegolezzi, di sguardi d’intesa o d’allarme fra colleghi e colleghe non li amava.
    Lei era presa dai ragazzi e dalle ragazze. Ne aveva che, prima di potersi dire davanti ad uno specchio “io sono (quasi) uno studente”, avevano da smaltire un malessere oscuro. Legato alla crescita? All’ambiente? La collega bionda non tirava in ballo analisi raffinate. Diceva: voglio stare con loro. E ci stava davvero. Aveva chiesto al preside di rimanere con un gruppo di loro al pomeriggio. Gratis. Il preside era perplesso. Certo, si poteva fare. Ma, ripensandoci paterno e subdolo, l’aveva avvertita di non dirlo in giro. Qualcuno avrebbe avuto da ridire. Agli occhi delle famiglie lei sarebbe apparsa più “brava”. E c’erano i colleghi sindacalizzati che le ore in più volevano farsele pagare.
    La collega bionda non se ne intendeva. Ma, ad analizzare i rapporti possibili nella scuola con l’ottica sindacale o politica, chissà dove si andava a finire. Lei s’intendeva del suo desiderio pedagogico. Seguiva quello. Le altre cose – un po’ evangelicamente, un po’ naturalmente – non sarebbero venute dopo, col tempo? Insomma lavorava nei sottoscala pedagogici e per conto suo. Non aveva intenzione di convincere altri a fare come lei. Non credeva che gli altri condizionassero quel suo spazio in modo determinante. O che la sua azione fosse poca cosa. Anzi la sua cocciutaggine non sconcertava gli altri? Bene, solo il tempo avrebbe dimostrato chi aveva visto giusto. Non aveva bisogno di pubblico riconoscimento, di lodi o di compensi da avversari o burocrati indifferenti alle dolcezze educative. L’idea di spazzar via tutto e di ricominciare da zero non la convinceva per nulla. Il suo tentativo rientrava nel tappabuchismo? No, il suo lavoro non era di rattoppo. Era di ricostruzione. Ma su un terreno di migliaia d’ettari, lei non coltivava un minuscolo orticello? E che c’era di male! Importante era coltivare, mentre gli altri distruggevano o neppure vedevano cosa strappavano nei ragazzi-pupazzi. Durante le pause delle lezioni se ne stava perciò a chiacchierare coi suoi studenti perché l’aveva sempre fatto. Non perché era venuta fuori di recente una circolare che l’imponeva. Non perché il preside aveva preso in mano il manganello per ricordarlo. Lei, quando stava a scuola, smorzava ogni altra esigenza mondana. Non aveva bisogno di scambiare quattro chiacchiere col collega proprio nei dieci minuti d’intervallo. Forse, diceva attenuando, lei era una solitaria e gli altri troppo socievoli. Ma lo erano a senso unico e selettivamente: no con gli studenti e i bidelli, sì endogamicamente coi docenti. A lei certo piaceva anche chiacchierare, ma così, senza impegno e prima di tutto coi ragazzi. Era politica anche questa, no? Avevano davvero poco senso quei rapporti con colleghi frazionati in cenacoli amicali o in bande per spartirsi le regalie che cadevano da industrie e case editrici nel sottobosco scolastico.”

  3. Ho letto con vivissima partecipazione. Conosco poco e male la situazione delle scuole serali e sono sconfortato, ma ahimé non sorpreso, dallo scoprire che la logica è, come dice Pellini, ovunque la stessa, inesorabilmente.

    I missi dominici si commuovono sui grandi traguardi di acculturazione e inclusività cui le nuove norme condurranno gioiosamente. A due passi, i tecnocrati, con le mani sui fianchi e il sorriso di chi non è mai stato sfiorato dal dubbio di poter avere torto, predicano nella neolingua: parlano di efficacia ed efficienza, che non traducono nella lingua comune, perché capiremmo tutti che cosa in verità intendano.
    Quante cose ci sarebbero da fare. Bisognerebbe poterne parlare. Guardare le cose in faccia e avanzare proposte. Forse – forse, neanche questo garantirebbe il risultato – qualcosa miglioreremmo.
    Invece splendide migliorie e straordinarie innovazioni sono proclamate vere e già ottenute per decreto.
    Che sia malafede o buonafede, poco importa: questa nebbia si frappone fra noi e le cose e ci impedisce di vedere e di agire.

  4. Cara Marina, grazie per avere pubblicato questo post, attirando l’attenzione sul tema dell’educazione degli adulti, importantissimo, ma su cui l’Italia è molto indietro. E grazie per la precisione dell’informazione e dell’analisi.
    Devo però dirti che non sono d’accordo sulla tua valutazione.
    Intanto, va ricordato che dei CPIA si parla dal 2007, quando si è pensato di istituirli, e non per ragioni di “razionalizzazione delle risorse” (cioè tagli): sono nati dall’esigenza di creare strutture autonome che offrissero una possibilita di formazione degli adulti più diffusa e riuscita sul territorio. E questo obbiettivo è prioritario, perché l’Italia trascura molto questa formazione. Sempre da questa esigenza è nata l’idea di avere dei percorsi con durate differenti, anche più corte. E’ evidente che un sistema veramente inclusivo non può costringere degli adulti a penare cinque anni per completare un percorso e ottenere un diploma (sul diploma più giù). Ed è anche giusto tenere conto delle competenze che gli adulti hanno già, invece di pensare che debbano fare proprio il percorso dei ragazzi nella scuola secondaria. Quindi, in vista di queste esigenze, secondo me la flessibilità di questo nuovo sistema è un’ottima cosa. Inoltre, qui in Piemonte abbiamo già una sperimentazione di questo tipo per la secondaria di secondo grado (si chiama Polis) e funziona bene; e so, da una collega che ci lavora, che anche in tre anni si forma una comunità di insegnamento forte e molto importante per la cresscita personale. Certo, su questo sono d’accordo con te nel condannare la “formazione a distanza”, online.
    Sul diploma. Intanto, non è vero che non serve a niente. Questa è una retorica diffusa in Italia, che rafforza un pregiudizio contro l’istruzione ben radicato nel nostro paese. In questa crisi economica, i laureati hanno perso meno posti di lavoro dei diplomati che ne hanno perso meno di chi non ha diplomi; e avere dei titoli ha reso più frequenti i reinserimenti. Di tutto questo dobbiamo tenere conto. Ecco perché è un obbligo per un paese democratico garantire un accesso più diffuso ai diplomi, di vario livello. In generale, bisogna garantire formazione e competenze adeguate; e queste sono attestate da certificazioni di vario tipo (qualifiche professionali o diplomi). Questo deve essere un obbiettivo fondamentale, cercando ovviamente di far corrispondere a quelle certificazioni delle competenze reali. Questo obbiettivo non è in contraddizione con altre finalità della scuola. Ma è fondamentale.

  5. Ciao Mauro,
    capisco le tue ragioni. E tuttavia, bisogna considerare in primo luogo che gli ‘adulti’ che un tempo erano i frequentatori consueti dei corsi serali rappresentano solo una minima percentuale dell’utenza di oggi. Da noi la maggior parte sono ragazzi trasbordati direttamente dal mattino e tanti, tantissimi stranieri, provenienti da frettolosi corsi di alfabetizzazione. Il riconoscimento delle competenze è sacrosanto, e noi lo facciamo sistematicamente, ma io vedo reale, terribilmente reale, la volontà di tagliare come unica giustificazione della riduzione dei percorsi. In secondo luogo, la formazione on line incombe terribile, ed è intimamente connessa con le linee guida della riforma. Contro la mia volontà, ho partecipato a un progetto (finanziamenti europei) di formazione a distanza per il conseguimento del diploma (progetto ‘vedi’, verso il diploma…) ed è stata un’esperienza allucinante: tutto, fuorché reale condivisione, scambio benché minimo di saperi. Il mulla in salsa informatica, con tanto di piattaforma e di scambi virtuali. Infine, la questione diploma. Non so, al momento non saprei fornire i dati in Toscana, ma ti assicuro che la maggioranza degli studenti continuano a fare, dopo il diploma, quello che facevano prima, se lo facevano: pulizie domestiche, assistenza ad anziani, lavori edili, cameriere. Le loro possibilità non si sono spostate di una virgola. ma, ti ripeto, su questo non ho dati certi. Ti ringrazio molto.

  6. Aggiungerei un elemento. La tendenza a snellire (di ore, di laboratori, di materie considerate “non funzionali” e vecchie, di personale, …) la scuola dell’obbligo e il triennio delle superiori è sotto gli occhi di tutti. Giusta razionalizzazione di un sistema che non regge più – stato sociale troppo costoso e scuola pletorica rispetto alle esigenze formative di una società che va di corsa – o disinteresse, miopia, ferocia?
    Ammettiamo che sia prima la vera ipotesi. Se però mettiamo questo snellimento insieme a un’altra tendenza in atto, l’affresco vien fuori a tinte fosche. Parlo della tendenza a moltiplicare corsi post laurea (master, specializzazioni, titoli e titolini vari), ovviamente a pagamento. Di fatto, un laureato – specie nelle materie più deboli oggi sul mercato del lavoro – a 25 anni, entra spesso in un girone infernale di lavori e lavoretti precari, soldi messi da parte (pochi) per pagarsi quei corsi costosi, scoperta che comunque non ci fai nulla, o comunque che servono a pochi, certo non a quella massa sfornata dall’università di massa. E’ un bel business. Qualcuno si salva e passa, qualcun altro ha avuto solo la funzione di vena da cui succhiare il sangue. Conosco personalmente diversi casi di pluridecorati (dottorati, specializzati, a volte le due cose insieme) che ancora campano con contratti co.co.pro, non versano uno straccio di contributo previdenziale, hanno lo stipendio un mese sì e l’altro no. Insomma: altissima professionalità, soldi investiti a palate, scarsi risultati.
    Se la scuola di base si fa più generalista e generica, per forza la formazione successiva si fa più lunga. Ma quella costa. E se non porta pure da nessuna parte…
    S’è rotto qualcosa, in profondità. Come è possibile che abbiamo il più basso tasso di laureati d’Europa eppure quei pochi non lavorano? Domando lumi ai sociologi. Domando lumi all’Altissimo.

    E’ morta la scuola, è nato il lifelong learning. Da sottopagati. Evviva evviva!

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