cropped-Firenze3.jpgdi Cesare Cases

Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che «omnis determinatio est negatio» e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale. (C.C. 1985)

[Dal 1953 alla metà degli anni Novanta Cases è stato il principale consulente dell’Einaudi per la letteratura tedesca: sue le introduzioni al Faust, ai Buddenbrook, all’Uomo senza qualità, al Teatro di Brecht, all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a molti altri Saggi, Supercoralli o Struzzi. Meno noto è il suo lavoro sotterraneo di lettore editoriale, testimoniato da centinaia di schede e di lettere conservate nell’archivio Einaudi, in cui si giudicano libri di autori più tardi consacrati o dimenticati. Il volume Scegliendo e scartando. Pareri di lettura (a cura di Michele Sisto, Aragno 2013), che ne raccoglie 250, documenta «uno dei momenti più felici dell’editoria, della critica e della letteratura italiane». I pareri che pubblichiamo (su Gli incolpevoli di Hermann Broch, su L’assistente di Robert Walser, su Congedo dai genitori e Punto di fuga di Peter Weiss e sul carteggio tra Max Born e Albert Einstein) sono stati scritti tra la fine degli anni Cinquanta e la fine del decennio successivo. Le note in calce sono del curatore].

n. 66

Hermann Broch, Die Schuldlosen

[Gli incolpevoli] Rhein-Verlag 1950

Romanzo nato in modo strano: Broch voleva raccogliere delle vecchie novelle, ma si è accorto che esse trattavano temi affini e allora le ha leggermente modificate, le ha integrate con altre scritte apposta e dall’insieme è venuto fuori un romanzo che ha un’indubbia organicità. Il protagonista è il giovane Andreas, che ha litigato con suo padre, è scappato nel Sudafrica dove ha fatto fortuna ed è tornato in Europa, stabilendosi in una cittadina in casa di una nobile decaduta verso cui è attratto da complessi filiali. Oltre alla nobile ci sono una figlia di questa, Hildegard, marmorea e orgogliosa, e una vecchia lubrica servente, Zerline. Un artigiano divenuto apicoltore ha adottato una trovatella Melitta, che Andreas conosce e con cui, Zerline facendo da mezzana, va a letto. La fredda Hildegard, gelosa, va da Melitta e le dice che Andreas ama lei e la vuol sposare. L’ingenua Melitta ci crede e si butta dalla finestra. Passano dieci anni: Andreas è andato a vivere con la nobildonna in un padiglione di caccia ed è diventato grasso e inerte. Arriva l’apicoltore che invita Andreas a confessare la propria colpa. Andreas fa l’autocritica e poi si spara.

Questa la trama essenziale che dice poco o nulla. La problematica è la solita di Broch, qui molto simile anche nella trattazione a quella dei Schlafwandler, solo con in più l’assunzione del nazismo nella prospettiva. Questo è rappresentato da un insegnante di matematica, Zacharias, figura bellissima di filisteo prima socialdemocratico e poi nazista (Broch aveva già capito nei Schlafwandler dove andasse a finire una certa mentalità socialdemocratica tedesca). I personaggi sono «incolpevoli» del nazismo (salvo Zacharias), ma sono indirettamente colpevoli per il loro indifferentismo morale: sono politicamente innocenti ma eticamente colpevoli, dice Broch nel poscritto. Lo Zeitgeist si riflette quindi più che altro nell’esemplificazione individuale, salvo che in certe ‘voci’ liriche premesse a ogni parte, che danno i presupposti dell’atmosfera storica in cui si inseriscono le vicende. La dissoluzione del vecchio mondo è vista anche sotto aspetti psicoanalitici, esoterici ecc.: p.es. il torto principale di Andreas, rimproveratogli dall’apicoltore (il quale, artigiano che ha cambiato mestiere per l’avvento dell’industria, è una specie di custode dei valori umanistici travolti), è quello di aver abbandonato il «padre» per vivere all’ombra di una «madre» fasulla (la baronessa) che gli ha impedito di affrontare liberamente il suo destino e di assumere le proprie responsabilità (ciò che è simboleggiato dal suo ingrassamento finale).

Il libro non è sempre eguale, ma alcune parti sono bellissime, in fondo più intense degli Schlafwandler, più concentrate, probabilmente grazie alla loro origine di novelle. Certo che se si traducono gli Schlafwandler questo verrebbe a risultare in qualche modo un doppione. La traducibilità è discreta, sempre migliore di quella della Morte di Virgilio. Anche le parti liriche sono per lo più traducibili.

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Parere accluso alla lettera a Luciano Foà del 12 settembre 1957.

Nella lettera d’accompagnamento Cases scrive: «Ti mando tutti i libri che ho ancora qui. […] Quanto ai Schuldlosen, di Broch, per conto mio è preferibile ai Schlafwandler [I sonnambuli]. Se non hai ancora preso impegni per questi ti consiglierei quasi di rinunciarci e di far tradurre i Schuldlosen. I Schlafwandler hanno il vantaggio di cominciare con la storia più leggibile scritta da Broch, cioè Pasenow, ma in compenso sono troppo massicci e fanno spaventare il lettore. Mi pare che coi Schuldlosen il rischio editoriale sarebbe minore».

Il parere sui Sonnambuli, con tutta probabilità scritto durante l’estate del ’57, non è conservato.

A La morte di Virgilio si era vivamente interessato Cesare Pavese intorno al 1947, ma dopo aver sentito diversi pareri si era rinunciato a tradurlo.

Gli incolpevoli: romanzo in 11 racconti, tradotto da Giuseppina Gozzini Calzecchi Onesti, esce nei Supercoralli Einaudi nel 1963.

n. 86

Robert Walser, Der Gehülfe

[L’assistente] Holle 1955

L’autore, morto qualche anno fa in manicomio, era noto in una cerchia molto ristretta: tra i suoi ammiratori, Morgenstern e Kafka, il quale rileggeva ogni anno le sue opere. Era specialista in prosa d’arte: brevi pezzi scritti in uno stile semplice, a metà strada tra il soggettivo e il fantastico, nella tradizione che va da Jean Paul a Peter Altenberg.

Questo pare che sia il suo unico vero romanzo (pubblicato nel ’09). Altre opere conchiuse sono piuttosto diari fittizi. Del resto anche questo romanzo è autobiografico, ma è scritto in terza persona e conserva ancora molto del Bildungsroman. Il fascino di W. sta in generale appunto nel fatto che scrive tutto in uno stile tradizionale e su argomenti tradizionali, ma in modo da svuotare completamente la tradizione della sua solidità e di negarla dal suo stesso interno. Già la storia è caratteristica. Un ragazzo, Marti (che sarebbe W. stesso: si tratta di un episodio reale della sua vita, solo che W. aveva già 25 anni mentre qui il protagonista sembra più giovane), trova impiego come «aiutante» presso un ingegnere che, avendo avuto una piccola eredità, ha abbandonato l’impiego che aveva e si è stabilito in una villa presso il lago di Zurigo dove attende a certe sue invenzioni (un orologio réclame, un automatico che distribuisce cartucce – da mettere nei boschi per i cacciatori che vogliono rifornirsi –, una sedia speciale per malati e simili). Le invenzioni non hanno successo; l’ingegnere, che è un uomo spensierato e poco abile, si indebita gradualmente; la casa va in rovina senza che la bella e intelligente, ma poco energica moglie possa farci qualche cosa. Il libro non fa altro che descrivere l’anno passato da Marti in questo ambiente: la sua preoccupazione per la situazione, i suoi scrupoli di lavoro, l’oscillare tra la ribellione contro i sistemi dell’ingegnere e la riconoscenza per la bontà con cui è trattato dalla famiglia, e tra l’ammirazione per la donna e la reazione all’ingiustizia con cui essa tratta i suoi quattro figli. Dunque un intérieur borghese piuttosto banale (gli altri personaggi sono altrettanto scialbi: dei vicini e il predecessore di Marti, Wirsing, che era stato licenziato come ubriacone), ma carica di una complessa psicologia che si manifesta e si muove a contatto con la disgregazione della base economica familiare. Tutti si comportano con la dignità e le belle maniere proprie della loro classe, con in più una certa cordialità popolare elvetica nelle feste familiari e nelle partite a jass, ma al di sotto di tutto questo c’è il vuoto. Così lo stile, fine e pacato, ma sempre sotteso da una continua ironia. È un nichilismo ancora lieve e domestico, senza la carica metafisica e la disperazione di Kafka, per quanto ci siano già molti aspetti kafkiani (specie se si pensa a America, dove il carattere tragico del disorientamento dell’eroe kafkiano non è ancora evidente e questo ha molto in comune con quello di Marti). Bellissime sono le descrizioni del paesaggio del lago di Zurigo, che ritornano regolarmente segnando la presenza della stabilità in mezzo alla disgregazione. Alla fine la famiglia dell’ingegnere è costretta ad abbandonare la villa e a tornare in città. Anche Marti se ne va insieme a Wirsing.

Il libro, così falsamente vieux jeu, insieme molto civile e tradizionale e molto decadente, a me è piaciuto molto, e così spero che sia di altri. Non è certo un libro che possa avere molto successo, ma penso che i buongustai lo apprezzeranno a dovere, specie se lo si lancia un po’ come ‘prekafka’.

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Parere accluso alla lettera a Luciano Foà del 28 ottobre 1958.

Circa un anno più tardi Cases, interpellato sulle Dichtungen in Prosa di Walser (Genf/Darmstadt, 2 voll.), risponde: «Io le ho lette solo in parte. Concordo che sono spesso bellissime, ma che fare con tanta sottigliezza? Temo che in italiano non resti nulla. È un po’ come Peter Altenberg. Anche il romanzo Der Gehülfe è ricamato sul nulla, ma almeno è lungo, ha una certa struttura, dei personaggi ecc. Nei limiti di due o tre pagine tutto questo si volatilizza e resta solo una suprema intelligenza di psicologia e di stile. Comunque forse una scelta si potrà fare».

Poco dopo la pubblicazione del libro, il 27 ottobre 1961, Cases scrive a Giulio Bollati:«A Francoforte è venuta da me una rappresentante del Tascher Verlag di Zurigo per chiedere che cosa facciamo del romanzo Geschwister Tanner che abbiamo in opzione da molto tempo. Io ho già espresso il mio parere negativo su questo libro come sul terzo romanzo di Walser, ma forse voi vorreste aspettare a vedere come va L’assistente prima di rinunciare all’opzione. Resto del parere che non sia un romanzo da tradurre, a meno che L’assistente non abbia un successo folgorante, ciò di cui dubito».

Su Walser si tornerà nel Consiglio editoriale dell’8 settembre 1971, nel quale Giorgio Manganelli caldeggia di riprendere L’assistente, e Cases di rimando propone: «Si può tradurre il grande Walser, che è quello dei brevi frammenti, per cui si chiede un ottimo traduttore».

L’assistente, nella traduzione di Ervino Pocar, esce nei Coralli Einaudi nel 1961.

n. 162

Peter Weiss, Abschied von den Eltern e Fluchtpunkt

[Congedo dai genitori e Punto di fuga], Suhrkamp 1961 e 1962

Si tratta di quello scrittore presentato a Formentor da Frisé e molto apprezzato anche da altri, tra cui il sottoscritto. Oltre a questi due libri, egli ha scritto un microromanzo, L’ombra del corpo del cocchiere, che non ho letto e che è stato acquistato da Feltrinelli, il quale non ha invece voluto il primo di questi due libri e quindi non avrà neanche il secondo, che ne è la continuazione.

Si tratta in sostanza di un’autobiografia di questo ebreo praghese vissuto in Germania e poi, durante il nazismo, a Stoccolma, dove vive tutt’ora. Figlio di un ricco industriale, egli è continuamente tormentato dal rapporto con i genitori, che non riesce mai a spezzare del tutto, se non altro perché la loro ricchezza gli permette di affrontare con relativa disinvoltura le vicende dell’emigrazione. Nel primo volume si parla di questa infanzia e adolescenza tormentata, della sua formazione spirituale, dei suoi complessi d’indole prevalentemente sessuale (tra cui l’inclinazione incestuosa verso la sorella) e di questo rapporto coi genitori. Nel secondo volume troviamo l’autore a Stoccolma, dove persegue i suoi ideali di pittore astratto, con scarso successo, in mezzo ad amici e consiglieri che condividono le sue posizioni d’avanguardia, ma gli rimproverano il disinteresse per i grandi problemi del tempo e per il calvario del suo popolo. L’A. crede di risolvere i suoi problemi nel matrimonio contrastato con una ragazza della ricca borghesia svedese che gli dà l’impressione di potersi radicare in questa società chiusa, ostile a lui straniero ed ebreo. Ma anche questo matrimonio è un fallimento ed egli si ritrova alla fine con un bilancio sostanzialmente negativo, ma ancora pieno di umori e di passioni e più disposto all’autocritica nei confronti del suo egoismo davanti alla storia.

L’interesse dei libri sta prima di tutto in questo conflitto tra problematica individuale e destino collettivo, in cui la prima è troppo pesante per potere lasciare emergere la coscienza del secondo in modo soddisfacente. La questione, che affiora in parecchie opere contemporanee, mi pare qui affrontata con una sincerità e una vivezza, e insieme con una consapevolezza culturale che non si trovano altrove. In secondo luogo i libri sono scritti in uno stile bellissimo, limpido, sicuro e insieme poetico nonostante la complicazione e la confusione dei processi psichici descritti. La composizione è quella di un sapiente «poema della memoria» con strutture joyciane che vanno nel primo volume fino all’abolizione totale degli a capo. Proiezioni in avanti e indietro si alternano a riflessioni culturali, a analisi di sogni e di stati d’animo freudiani, sicché i libri non hanno la struttura cronologica di una vera autobiografia, ma costituiscono qualche cosa di mezzo tra questa e il romanzo a sfondo autobiografico di tipo proustiano ecc. Non mi sembra quindi che il carattere autobiografico di queste opere di uno scrittore altrimenti non noto debba costituire un ostacolo alla pubblicazione. Certo si tratta di un’opera per i pochi fortunati ma forse vale la pena di tradurla. Dimenticavo una cosa importante e cioè che l’evoluzione intellettuale dell’A. è da lui indicata nel trapasso da Kafka a Henry Miller, cioè dalla disperazione a una specie di vitalismo ottimistico che gli dà una specie di assicurazione contro le persistenti crisi. Questo passaggio non è tanto indicativo per lo spirito del libro, che ha poco a che fare sia con Kafka che con Miller, quanto per la cultura dell’A., il quale ha macinato e digerito tutte le avanguardie, incorporandole nei suoi drammi privati e dandone quindi un’interpretazione vissuta che è spesso di notevole interesse.

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Parere inviato in casa editrice il 25 settembre 1962.

Adolf Frisé, pubblicista e curatore delle opere complete di Musil, fa parte a più riprese della giuria del Premio internazionale degli editori promosso dalle case editrici Einaudi e Seix Barral. Il premio, le cui prime edizioni si tengono a Cap Formentor (Maiorca), nella Spagna di Franco, viene assegnato sei volte tra il 1961 e il 1967. Secondo il regolamento le diverse delegazioni nazionali presentano pubblicamente gli autori che intendono candidare. Nelle prime due edizioni del premio Cases è tra i membri della giuria italiana.

Congedo dai genitori e Punto di fuga compaiono nella collana einaudiana La ricerca letteraria nel 1965 e nel 1967, tradotti rispettivamente da Francesco Manacorda e Ugo Gimmelli.

n. 245

Max Born, Hedwig Born, Albert Einstein, Briefwechsel: 1916-1955

[Scienza e vita: lettere 1916-1955], Nymphenburger, 1969

Lettere di Max Born e di sua moglie e risposte (meno numerose) di Einstein, dal 1916 al 1955, con commento continuo (cioè tra una lettera e l’altra, non in nota o in calce) di Born. Corrispondenza di argomento prevalentemente scientifico o personale (per lo più accademico) e familiare nei periodi tranquilli, mentre nei momenti di crisi (primo e secondo dopoguerra, fascismo) si fa più ideologica e politica. Quantitativamente la parte del leone ce l’ha naturalmente la scienza, e quindi ci sono molte pagine (forse una metà del libro) poco intelligibili al profano, ma nemmeno troppo tecniche (solo verso la fine compaiono formule) e che devono essere di notevole interesse per i competenti. Si tratta soprattutto della battaglia di Born per cercare di far riconoscere a Einstein la validità della meccanica quantistica, che E. respinse fino alla fine della sua vita. Dietro c’è anche un conflitto di idee: E. è più incline al determinismo, mentre Born secondo lui crede in un «Dio che gioca ai dadi». Inoltre E. resta sino alla fine un «Don Chisciotte» che mira alle grandi sintesi e rimprovera a Born di essere divenuto troppo pavidamente empirista, secondo il proverbio per cui le puttane in gioventù diventano pinzochere in vecchiaia.

Al di là dell’interesse scientifico ci sono i due personaggi, che affascinano anche il profano. Einstein è il più estroso, anticonformista, ironico, e l’unico vero scrittore dei due. Direi anzi che in queste lettere si rivela molto meglio che non negli scritti destinati al pubblico (Pensieri degli anni difficili ecc.) che sono un po’ troppo controllati e gravati da una sia pur nobile retorica umanitaria. Qui è molto più scanzonato, mordace, disilluso, più simile insomma al suo aspetto. Alcune lettere sono veramente belle, quella del 7.9.44 una delle più belle lettere che abbia mai letto. Ma anche Born, che in qualche modo è il suo antipodo (come dice E. stesso), perché è serio, compassato, privo di umorismo, molto più teutonico (benché ebreo anche lui), è un personaggio notevole nella sua dirittura morale e nel suo attaccamento agli amici e ai discepoli. Si capisce che tra i due fosse lui il maestro, il creatore di una scuola, l’organizzatore, mentre E. rimase sempre il genio isolato e fondamentalmente misantropo nonostante il gusto per la pubblicità rimproveratogli dall’amico.

Il commento di Born risente del carattere di costui, è prolisso, pieno di ripetizioni, qualche volta ingenuo. Un elemento di disturbo è la moglie, che manda a Einstein poesie che costui (bontà sua) paragona a quelle del vecchio Goethe e che vengono scrupolosamente riportate in appendice. Inoltre Born non ha le qualità dell’‘editor’. Specie al principio, rimanda ad altre sue pubblicazioni come se il lettore dovesse necessariamente conoscerle. C’è una lettera in cui Einstein parla di una «vacca fiamminga» e Born rinvia alla spiegazione che ne dà in un altro suo scritto. Così io morirò, temo, senza sapere che cosa è questa vacca fiamminga, e me ne duole. Ma queste sono piccole ombre, in complesso il libro si legge tutto, sia pure saltando qualche equazione, con diletto e ammirazione, e va quindi tradotto. Soprattutto colpisce la straordinaria modestia di questi uomini, la loro capacità di riconoscere di aver perduto anni dietro a una chimera, l’ovvietà che ha per loro il fallimento e la scarsa consistenza che assume ai loro occhi il successo di fronte all’immensità dei compiti. Insomma, una lettura che dovrebbe essere resa obbligatoria ai letterati.

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Parere databile al 1969.

L’edizione italiana di Scienza e vita: lettere 1916-1955, tradotta da Giuseppe Scattone, esce negli Einaudi Paperbacks nel 1973.

[Immagine: Gerhard Richter, Florenz (gm)].

6 thoughts on “Scegliendo e scartando

  1. Forse le parole più esatte su Cesare Cases le ha dette Claudio Magris, quando ha affermato, in un un ricordo dedicato a questo intellettuale marxista, che la sua vita e la sua opera sono «un capitolo della nostra storia e del nostro destino». Difficile dimenticare queste parole, soprattutto allorché ci si domanda a quanti altri ci si possa riferire negli stessi termini. La lezione di Cases è, peraltro, tanto semplice nella sua essenza teoretica quanto complessa nella sua articolazione operativa, e si può riassumere nella seguente parola d’ordine: senza un sano odio per il capitalismo non è possibile combinare nulla di buono né sul piano politico né sul piano culturale.

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