Conversazione di Gabriele Pedullà con Andrea Cortellessa
[Questa conversazione fa parte di uno speciale intitolato Spatial Turn e compreso sul numero 30 di alfabeta2, dal 5 giugno in edicola e in libreria].
AC: A quasi un decennio dall’ideazione del progetto da parte tua e di Sergio Luzzatto, e passate le prime letture (e le polemiche più strumentali), la pubblicazione – lo scorso autunno – del terzo e ultimo volume dell’Atlante della letteratura italiana consente un bilancio non solo dell’operazione in sé, ma di come essa si collochi nel contesto dello Spatial turn in corso nelle scienze umane. Nel volume Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture (qui recensito da Camilla Miglio) è contenuto un tuo ampio intervento dal titolo Letteratura e geografia: la via italiana, nel quale collochi l’esperienza dell’Atlante in una genealogia di lungo periodo delle storie letterarie italiane. Rispetto al modello di De Sanctis, dichiarata è la vostra opzione per quello precedente, la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi (1772-1782). Accenni a un parallelismo suggestivo fra la sua storiografia «plurale» (e «intimamente geografica») e una situazione politica, quella del suo tempo, «frammentata in una serie di entità statali autonome» ben lontane dall’impulso unitario sotteso, nel secolo seguente, allo sforzo «narrativo» desanctisiano. Mentre, aggiungi, il primo «ritorno geografico» novecentesco, quello di Carlo Dionisotti, sarebbe in qualche modo figlio del rimescolamento intranazionale degli italiani all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ma allora a quale Italia corrisponde, oggi, questo vostro così deciso ritorno a un modello «plurale» e «geografico»? È una reazione glocal a una globalizzazione avvertita sempre più dominante nell’astrazione e nella smaterializzazione digitale?
GP: Senz’altro c’è un recupero della «pesantezza» – del vissuto dei libri, e dei corpi di chi li ha scritti – di contro alla scorporeizzazione dei testi, alla perdita in corso del loro supporto materiale. Anche la stagione dello strutturalismo faceva ampio ricorso a modelli «spaziali» (come del resto lo stesso idealismo desanctisiano), ma con un approccio ai testi che li «alleggeriva» rispetto al loro contesto storico.
Quanto alla domanda su quale Italia vi si rifletta, direi che a rispondere sono soprattutto le nostre cartine. L’Italia è collocata in un’Europa in cui quasi mai sono segnati i confini nazionali. Quella che abbiamo disegnato è una letteratura italiana che si trova a un tempo dentro e fuori i confini nazionali. Fra le città cui l’Atlante dedica specifici approfondimenti diverse sono «straniere» (Avignone nel Trecento, Lione nel Cinquecento, Lugano nel Settecento; era prevista una Buenos Aires novecentesca che poi non siamo riusciti a includere, ma c’è un ampio saggio sull’Italia coloniale del fascismo). Se per Dionisotti il problema era il rapporto tra l’italiano e i dialetti, nell’Atlante ci interessa semmai la tensione fra l’italiano e la lingua global del passato cioè il latino. E più tardi il francese e oggi l’inglese…
AC: … l’avvertimento, cioè, dell’italiano come dialetto…
GP: … o, più in generale, del costitutivo bilinguismo della nostra letteratura. Il grande spazio dato al Quattrocento non è casuale. La grande voga odierna di studi su testi neolatini, in precedenza considerati estranei al canone, reagisce al pregiudizio romantico contro una letteratura non scritta nella lingua materna.
AC: Pensando al De vulgari eloquentia, e alla cartina virtuale srotolata da Dante nel decimo capitolo del suo primo libro, si può ben dire che la storia della letteratura italiana sia nata geografica. Però quella di Dante non poteva che essere, in quel contesto, una geografia linguistica; mentre l’aspetto che più interessa voi è quello delle istituzioni letterarie. A un certo punto parafrasi la famosa immagine di Fernand Braudel sui diversi ritmi della storia della cultura: «la lingua corrisponde alle correnti oceaniche profonde che non vengono raggiunte dai cambiamenti atmosferici, mentre i diversi autori e le diverse opere assomigliano piuttosto alle onde che increspano la superficie del mare, pronte a cambiare radicalmente forma e direzione a seconda del vento. Le istituzioni, in questa immagine, dovrebbero porsi a livello intermedio, proprio per la capacità di durare e di condizionare le opere e gli autori, superando i secoli». Il rimprovero più ricorrente fra quelli mossi all’Atlante è che vi si trova un po’ tutto tranne gli scrittori. Ma tu rivendichi una frase di Tiraboschi, secondo il quale la sua era «la Storia della Letteratura Italiana, non la Storia de’ Letterati Italiani». Anche in questo caso è lecito domandarsi a quale idea di letteratura risponda questa impostazione.
GP: Penso che corrisponda a un’idea relazionale, e quindi in qualche modo conflittuale, della letteratura. L’idea è che ogni opera acquisti senso nella tensione con altre opere, contemporanee o anche molto distanti nel tempo. Se c’era una cosa che non ci interessava era un’idea monografica, una letteratura fatta di busti al Gianicolo cioè di medaglioni. In questo senso dobbiamo molto a un libro come Settanta di Marco Belpoliti. Che all’inizio degli Anni Zero si strutturava su attrazioni e repulsioni, a volte specificamente letterarie, altre volte di natura quasi alchemica… so che sei d’accordo nel considerarlo il libro di critica letteraria italiana più influente dello scorso decennio, proprio per questo nuovo modo di considerare il rapporto tra i singoli testi e tra testo e contesto.
AC: L’altro modello cui più direttamente fa pensare l’Atlante è il manuale (se così si può chiamare) di storia dell’arte della scuola di «October», Art since 1900 (curato nel 2004 da Hal Foster, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois e Benjamin Buchloh, e tradotto da Elio Grazioli per Zanichelli), a sua volta suddiviso in più di cento voci scandite da una cronologia di «eventi». Un’altra critica mossa al vostro Atlante è la stessa fatta a quell’opera, il suo essere frammentata in una miriade di fatti slegati l’uno dall’altro. Tu annoti però che quanto rende una certa data idonea all’Atlante è «il suo potenziale simbolico: vale a dire la sua capacità di evocare questioni generali a partire da un caso singolo trascendendo la sostanza apparentemente aneddotica della vicenda». Se da una «grande narrazione» idealizzante à la De Sanctis si prendono le distanze in direzione evenemenziale, dall’altra parte il correttivo tende a una narrazione meno essoterica: una criptonarrazione per correspondences e simmetrie che possono essere colte solo leggendo il complesso dell’opera.
GP: È proprio così. Alle risonanze è stata posta la massima attenzione – pur nella consapevolezza che il disegno sarebbe stato colto solo a distanza di tempo. Più di tutto ci interessava tenere assieme l’estremamente piccolo e l’estremamente grande. Non avremmo mai voluto un Atlante fatto solo di «saggi-evento» né solo di «saggi grafici» (ai quali viene demandata appunto la dimensione braudeliana, della lunga durata). Così vengono considerate le diverse scale della letteratura (termine che ben si adatta tanto alle scansioni temporali che a quelle spaziali). Perché questa ovviamente non è un’opera contro la storia, bensì per un nuovo modo di declinare la storia.
AC: Mi viene in mente l’immagine che usa Foucault nell’Archeologia del sapere, delle «storie a pendenza lieve». Una scala temporale plurale consente di discriminare le longues durées da momenti culturali, avrebbe detto invece Lotman, «esplosivi». Citando quali precedenti-chiave Foucault, la scuola delle «Annales» o quella di «October», o pensando a una concezione relazionale dell’arte, è difficile non chiederti se la vostra operazione non risponda, nel suo complesso, a un’ideologia in senso lato postmodernista. Un etimo intellettuale che forse potremmo cominciare a sua volta a considerare nella sua storicità…
GP: Se parliamo della nostra formazione individuale come negare un’influenza, per quanto inconsapevole, del Postmoderno? Dopotutto alla letteratura mi sono avvicinato negli anni Ottanta e Novanta. Però insisterei soprattutto sulla vocazione dell’Atlante alla ricostruzione, piuttosto che a una decostruzione che abbiamo trovato già compiuta. Certo è più facile insistere su questo aspetto, per un’opera di tremila pagine formata di circa 400 saggi di 180 autori, e che sovverte gerarchie codificate facendo luce, accanto ai grandi maestri, su certe figure più laterali o proprio esoteriche…. Ma questi aspetti più «postmoderni» sono stati corretti – in tutte le fasi, compresa quella di editing, che per alcuni saggi è stato molto profondo – lavorando sugli elementi di connessione e giustapposizione. A cominciare dal privilegio dato a tre momenti chiave della nostra storia sino a oggi marginalizzati (l’enfasi sul Quattrocento e in generale sul movimento umanistico nel primo volume; quella nel secondo su un «lungo Cinquecento» che non finisce col Concilio di Trento ma si estende almeno sino all’inizio del secolo successivo; e poi, nel terzo, l’attenzione posta sulla cultura del fascismo, tanto nei suoi aspetti propositivi che repressivi). Ma penso anche all’impegno profuso per rivitalizzare i secoli che più soffrono oggi negli studi letterari italiani, il Settecento e l’Ottocento, divenuti antichi senza ancora essere davvero classici…
AC: … cioè vecchi.
GP: Si trattava di sottrarli a un atteggiamento antiquariale, inevitabilmente proiettandone l’ombra sul presente. Penso per esempio al saggio di Massimo Raffaeli su Leopardi e la scrittura delle epigrafi, a quello di Emanuele Trevi sul rapporto tra mito e letteratura nella modernità, a quello del compianto Paolo Zanotti sulla letteratura carceraria, ai tanti contributi di Francesca Serra su un tardo Settecento che grazie alla sua penna diventa un periodo molto simile al nostro…
AC: Mi piace molto la conclusione del tuo intervento su Letteratura e geografia, in cui consideri anche le diverse temporalità di lettura di un’opera come l’Atlante. Quando dici che certe connessioni sono sfuggite anche a voi perché, nell’impostare il lavoro, non avevate ancora a disposizione la messe di dati che il lavoro stesso ha portato alla luce. Per cui il lettore ideale dell’Atlante non potrà che essere un lettore a venire. Ci trovo uno spirito come dovrebbe essere sempre quello dello storiografo, ossia uno spirito di servizio. È una coincidenza, ma questo lettore a venire mi ricorda un’immagine che mi ha regalato Alberto Boatto in un’altra conversazione fatta oggi. Quella delle «piste di Nazca», le figurazioni tracciate su una piana desertica in Perù cinque secoli prima di Cristo, il cui enorme formato fa sì che per contemplarle si debba salire su un aereo. Dice Boatto che la comunità precolombiana deve aver tracciato quei segni non per uno spettatore umano ma per un contemplatore di natura divina, o mostruosa. Solo che questo sguardo, divino e mostruoso insieme, è oggi quello di noi uomini del futuro. La dissimmetria tra una scala ridotta e una totalizzante è sempre, anche, una dissimmetria di tempi – o, altrimenti detto, un anacronismo. E mi viene in mente che questa tensione a uno sguardo a venire sia legata anche al vostro essere, tu e Luzzatto, studiosi relativamente giovani. In genere chi lavorava a una storia letteraria lo faceva, in passato, sulla base di una lunga esperienza e a coronamento di un lungo percorso. Per voi invece questa è una tappa importante, certo, che segna un traguardo di maturità; ma è comunque una tappa, cui ne seguiranno altre: così come per gli studi letterari nel loro complesso.
GP: Se ci sarà una forza dell’Atlante, sarà nello stimolare domande che in precedenza non ci ponevamo. Ogni tanto vedo un libro che sembra già cominciare a dialogare con l’Atlante. Ma potremo vederlo solo fra qualche anno, se e quanto avrà prodotto…
AC: È negativo il bilancio che fai dell’opera che ha preceduto la vostra in casa Einaudi, cioè la Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa fra anni Ottanta e Novanta. In particolare quando la giudichi un’opera rimasta culturalmente ineffettuale, al di là del valore dei singoli contributi in essa contenuti. Credo che questo si debba appunto al fatto che giungeva alla fine di un percorso: sia quello più innovativo dello studioso che l’ha ideata e diretta, sia del sistema culturale e ideologico che l’ha condizionata e prodotta. La stessa sfida però riguarda anche voi: per come verrà giocata, nella ricezione dell’Atlante, la sua apertura a nuovi modi di guardare al mondo piuttosto che agli aspetti più figli del tempo che abbiamo alle spalle, cioè il postmodernismo, in cui tutto andava dissolto e tutto tornava disgregato. Qui certo non vengono nascosti i frammenti, ma vengono altresì indicati i loro punti d’attacco e possibile sutura, i bordi passibili di integrarsi in nuovi insiemi, nuove costruzioni.
GP: Concordo. La nostra scommessa era assumere una rottura che c’era stata, eccome: senza più però l’euforia decostruzionista degli anni Novanta – quell’allegria di naufragi. È tempo, invece, di cominciare a ricostruire pazientemente una zattera.
AC: Perché si possa, prima o poi, riprendere il mare…
GP: Speriamo!
Si ringrazia per la collaborazione Daniela Voso
Atlante della letteratura italiana. Volume 3: Dal Romanticismo a oggi
diretto da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, a cura di Domenico Scarpa
Einaudi, 2012, 1057 pp., € 85
[Immagine: Andreas Gursky, Ocean (gm)].
Confesso: ho passato molto più tempo a guardare carte e grafici che a leggere gli articoli. E aggiungo: avendo letto un terzo circa degli articoli (dei primi due tomi: per acquistare il terzo aspetto tempi meno grami), mi è sembrato – questa è l’opinione di un dilettante – che la varietà di impostazioni e stili nuocesse alla faccenda.
Ho trovato spaventoso il formato. Sono convinto che si poteva far di meglio (ma ormai è fatta, e via).
Penso che l’opera meriterebbe un’edizione minore, con molte carte e abbondanti didascalie. Potrebbe avere successo nelle scuole.