Victoria and Albert Museum, Londra
23 Marzo – 11 Agosto 2013
di Francesco Giusti
Londra, giugno, David Bowie is. Se ad ogni soggiorno londinese una visita al Victoria and Albert Museum è molto gradita, in questa occasione diventa una sorta di pellegrinaggio verso un evento di risonanza globale. Con la prevendita esaurita da settimane – la più rapida e numericamente imponente prevendita di biglietti nella storia del museo – l’unica possibilità è andare sul posto e mettersi pazientemente in fila. Numeri da concerto più che da mostra. Già questo rivela un evento ibrido come il suo protagonista. Where are we now?, si chiede il sessantaseienne Bowie nel singolo uscito inaspettatamente quest’anno – dopo dieci anni di silenzio! – e la domanda è più che legittima a quarantaquattro anni da quell’altro singolo, Space Oddity (1969), che finalmente avvia il ragazzo nato a Brixton e cresciuto nell’estrema periferia sud-est di Londra sul cammino per diventare una figura dominante della scena musicale e culturale internazionale.
Dove siamo oggi? Dove siamo arrivati? Ad una mostra che celebra in vita un artista all’interno di una delle più importanti (e belle) istituzioni museali al mondo. E celebra l’artista ancor prima della sua arte, nella complessità estrema della sua creatività. Pochi possono dire di aver avuto un’influenza culturale profonda e ad ampio raggio paragonabile a quella di David Bowie. Cantautore, attore di cinema e teatro, musicista polistrumentista, pittore, innovatore nella moda e nel costume, creatore di una miriade di personae che sono diventate leggenda: dalle atmosfere extraterrestri di Ziggy Stardust alla ‘schizofrenia’ di Aladdin Sane, con il famoso fulmine rosso che gli attraversa il viso, fino al raffinato espressionismo gotico del Thin White Duke, per nominare solo le più famose. L’alieno e fragile Major Tom di Space Oddity – ironico gioco di parole sul titolo del celeberrimo film di Stanley Kubrick 2001 – A Space Odyssey (1968) – ne ha fatta di strada.
Pochi, pochissimi artisti hanno saputo cogliere lo spirito del tempo, anticipare e guidare correnti culturali come lui. Nell’anno del primo atterraggio dell’uomo sulla luna e degli entusiasmi sollevati da tale evento, il viaggio spaziale del Major Tom racchiude già in sé tutte le perplessità e le disillusioni che si riveleranno di lì a pochi anni. Esplorando tutti gli spazi offerti dalla musica (dal folk acustico all’hard rock, attraverso il glam rock, il soul e l’elettronica) e dalle innovazioni tecnologiche nel settore; proponendo al pubblico il modello di un’ambiguità sessuale che vada verso l’indistinzione piuttosto che verso il riconoscimento sociale dell’uno o dell’altro orientamento sessuale; assumendo sul proprio esile corpo la moltiplicazione dei personaggi e delle personalità come maschere prive di un volto ‘originale’ da nascondere; affrontando temi come l’isolamento, i problemi mentali, l’abuso di droga, la paura di un futuro disumanizzante, i totalitarismi e i falsi miti, Bowie è soprattutto l’incarnazione di un modello dell’umano, di quell’ibridità del poter essere quel che si vuole, senza alcun dover essere che risponda a codici socio-culturali prestabiliti, di cui tanto si è parlato in teorie successive e tanto si parla ancora oggi. Gli abiti sgargianti, femminili o ‘osceni’, i trucchi e le zeppe vertiginose, tutto l’armamentario di una vita in maschera, vogliono incarnare l’ibridità, ma ne mostrano anche i pericoli e le difficoltà. Costumi che si presentano inevitabilmente segnati dal tempo perché, in fondo, il problema della pop culture è proprio il rapido invecchiamento dei suoi oggetti, delle sue identità.
E la musica non è più ‘solo’ musica. È una comunicazione totale. Sul palco delle sue performances entrano il mimo e il clown, le antiche tradizioni del teatro Kabuki e il più stravagante abbigliamento pop, senza gerarchie culturali e senza che nessuna delle componenti abbia un valore dominante. Il contatto con Andy Warhol, incontrato a New York nel 1971, segna un punto fondamentale nella costruzione di questa figura di star che fonde talento musicale, messa in scena, look personalizzato e sapiente sfruttamento delle potenzialità dei media. Un’ammirazione comprensibile per l’artista americano che, pare, non fosse troppo ricambiata. La vera esplosione del fenomeno Bowie avviene nel 1972 con l’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars e il ‘vero’ David scompare dietro le sue figure teatrali: la finzione scenica diventa pericolosamente reale, la realtà è la scena. L’androgino e alieno Ziggy, simbolo di una libertà sessuale totale, entra nell’immaginario idolatra di frotte di teenager inglesi. Le sue dichiarazioni in materia sessuale, sfruttando in ugual misura le reazioni scandalizzate dei benpensanti e l’approvazione adorante dei movimenti di liberazione sessuale, hanno un enorme riscontro pubblicitario.
La mostra ricrea, anche spazialmente, tale complessità. La celebrazione di un essere umano, della lunga carriera di un artista, diventa un ingresso improvviso nella molteplicità delle influenze culturali che hanno stimolato, consentito e prodotto le sue continue trasformazioni. Si entra in due gallerie in cui si è sommersi dal cinema, dalla letteratura, dalla musica, dal teatro, dalla tecnologia, dal design e dalla moda, dalle geografie mentali e terrene (Londra, New York, Los Angeles, Berlino), così come esplorati e vissuti da Bowie nelle doppie vesti di vorace fruitore e di partecipe creatore. E, attraversando questa vita straordinaria, qui e lì si incrociano nomi del calibro di Lou Reed, John Lennon, Brian Eno, Iggy Pop, Freddie Mercury, Mick Jagger, Lindsay Kemp, Andy Warhol, Kansai Yamamoto, Alexander McQueen, Natasha Korniloff, Nagisa Oshima, e un’infinità di altri.
Mentre nelle orecchie del visitatore scorre un audio che non è illustrativo, bensì una colonna sonora di voci e canzoni che accompagna l’esperienza, davanti ai suoi occhi si accumulano fotografie e giornali, decine di abiti e testimonianze di un’infinità di collaborazioni, libri e strumenti musicali, videoclip e testi autografi, illustrazioni grafiche e sequenze tratte dai film che lo vedono nei panni di attore. Perché la carriera cinematografica di Bowie fa invidia a quella molti attori puri. Dal cortometraggio The Image di Michael Armstrong del 1967 all’adattamento televisivo della BBC dell’opera di Bertolt Brecht Baal (1981), dalla pièce teatrale sulla triste storia di John Merrick The Elephant Man (1980) al fantastico re dei goblin di Labyrinth (1986), da Ponzio Pilato in The Last Temptation of Christ (1988) di Martin Scorsese fino al Nikola Tesla impersonato in The Prestige (2004) di Christopher Nolan.
La mostra, molto ricca senza essere eccessivamente ampia, tenta di concludere in varie declinazioni la frase sospesa del suo titolo David Bowie is…, facendo entrare il visitatore nel David Bowie Archive, in altre parole nel metamorfico immaginario di un artista straordinariamente fecondo e camaleontico. Tenta di riempire quel che sembra il vuoto contenitore di un nome. Un percorso multisensoriale che va dalle origini piene di difficoltà e di strenuo desiderio di successo dell’adolescente londinese, fino all’apoteosi, anche volumetrica, dell’artista nel salone centrale, per concludere con un accenno alle influenze su altri artisti. Connesso alla mostra c’è anche un calendario di eventi, conferenze, incontri e workshop sulla figura di Bowie. E se nell’attesa del proprio turno di ingresso o subito dopo l’esplorazione dell’immaginario di quasi un cinquantennio di cultura occidentale ci si concede un cream tea nel Cafè del V&A, allora l’esperienza può dirsi assolutamente perfetta.
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