cropped-shaarawy-balotelli-italia-201472.jpgdi Ikram Labouini

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori  del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso.  È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 25 giugno 2013.

Ikram Labouini è una studentessa del Liceo Classico-Linguistico “V. Gioberti” di Torino. Nel 2012-13 ha frequentato la 4H, dell’indirizzo linguistico. Non è una mia allieva, ma l’ho conosciuta in diverse occasioni. Qualche anno fa, facendo delle supplenze nella sua classe, in alcune vivaci discussioni sull’attualità politica. Poi, quest’anno Ikram ha partecipato alle Olimpiadi di Filosofia. E abbiamo avuto un confronto, insieme ad altri studenti, sui test Invalsi. Tutte occasioni di studio e di dibattito politico comuni agli altri studenti dell’istituto. Anche una scuola come il Gioberti ha ormai una presenza visibile di immigrati di seconda generazione, nati in Italia, socializzati nella nostra lingua, nella nostra cultura e nella nostra scuola. Ikram quest’anno ha compiuto diciotto anni, e ha scoperto che, paradossalmente, la sua situazione è peggiorata. Per questo ha scritto una lettera a Repubblica, che il 30 maggio ne ha pubblicato solo una piccola parte. Questo è il testo integrale (mp)].

Una foto di Mentone, le mie compagne in fila a riproporre al festival di strada lo spettacolo che abbiamo allestito a scuola. Le foto sono arrivate stasera, alla fine della gita. Avendo già fatto teatro, mi è stato affidato il ruolo di narratore. Presento le mie compagne, chiudo lo spettacolo. Non so se fossi adatta al ruolo, ma mi è piaciuto farne parte. Ogni compagna ha un ruolo e così io; ognuna di noi si è trovata una parte. Lo spettacolo è piaciuto. È piaciuto ai nostri professori, e ai nostri compagni, sebbene non si possa dire che siamo tutte amiche, tutte legate o che saremo tutte vincolate al ricordo della nostra esistenza insieme per qualche anno di scuola; la cosa che è piaciuta è stata che partecipassimo tutte, nessuna esclusa. Chi non riteneva che il teatro gli fosse congeniale ha retto un telo, pensato alla musica, preparato le locandine.

Avevamo preparato lo spettacolo per recitarlo di fronte a una platea di compagni – più o meno della nostra età – europei. L’abbiamo proposto nell’ambito di un progetto che prevedeva la serata conclusiva di un ciclo di due anni qui, a Torino. Dato il lavoro, l’insegnante che ci ha aiutato ad allestirlo ha pensato di portarci tutte in gita a Mentone per riproporlo al festival del teatro di strada. Eravamo contente e non contente. Contente perché saremmo andate altrove e ci saremmo prese una pausa dall’asfissiantissimo mese di maggio con le sue frustranti prove. Non contente perché la partenza era prevista alle sei del mattino. Contente perché avremmo potuto fare il bagno nell’ora di pausa, forse poco contente perché avremmo dovuto ripassare le parti in pullman e, nel peggiore dei casi, studiare per le interrogazioni dei giorni successivi. Ma oltre a queste contentezze o tristezze che pure sono proprie di una gita, abbiamo accolto il progetto con entusiasmo.

Nel momento delle autorizzazioni, del pagamento e delle piccole burocrazie che riguardano lo spostamento degli studenti dalla scuola altrove, mi sono resa conto di non poter aderire. Credo che la notizia all’inizio mi avesse sconcertata, ma non le avevo dato tanto peso. Avrò sbuffato, ma non mi sentivo triste. Il passaporto mi era scaduto, avrei dovuto rinnovarlo, sapevo che ci sarebbe voluto un po’ e per un po’ mi sono rifiutata di andare. Al compimento dei diciotto anni, avevo provato ad ottenere la cittadinanza, mi sembrava lampante riceverla, come fosse un’operazione di routine, ma sono stata rimandata indietro, pecca l’avere due anni di residenza in Marocco e non in Italia. Neanche quella volta mi son sentita triste, solo frastornata, un cervo che sta per essere investito ma si ferma a guardare i fari della macchina. Ho rimandato – dicevo – il rinnovo del passaporto. A posteriori, forse mi rifiutavo per principio, come mi sono rifiutata per principio di prendere un aereo da Roma a Torino, sapendo che mi sarebbe costato un decimo del treno, perché prima del check-in sarei dovuta passare da un “ufficio immigrazione” interno all’aereoporto. In linea con il mio rifiuto ho affrontato la situazione con un fiero disgusto che non è riuscito a trasformarsi in tristezza o sgomento fino a stasera. Stasera, guardando le foto della gita, mi trovo davanti lo spettacolo di un’occasione che non avrei potuto sprecare neanche volendolo, ma che è sfumata perché non ne avevo diritto. Non sono italiana, non sono cittadina. Sono nata qua, ho studiato qua, ma sono stata poco più di due anni altrove e due anni per la legge è tanto, troppo per potermi riconoscere come italiana. La legge ha rifiutato di riconoscere me e io ho rifiutato di assecondare la legge per un po’. La sconfitta resto io, ho addosso una nazionalità – quella marocchina – che non descrive la mia cultura, le mie letture, i miei modi, pur tenendo fermo che quelle sono le mie origini, che però non possono descrivermi completamente, non possono offrire un quadro realistico di me. Tuttavia il paese in cui vivo si rifiuta di accettarmi come una parte attiva di esso, costringendomi a richiedere la cittadinanza come fossi arrivata da una settimana, un mese.

Quel che provo per la situazione ad oggi è una gran rabbia: sono arrabbiata perché io, come migliaia di altre persone nella mia stessa situazione, non posso partecipare a concorsi per cui è richiesta la cittadinanza italiana, sono arrabbiata perché la legge non mi permette di andare in gita senza fare giri inutili, perché periodicamente mi scade il passaporto. Le mie insegnanti, i miei amici accolgono la notizia della mia impossibilità di partire sgomenti. Le persone che mi circondano sembrano non poter accettare questa che, persino loro, considerano un’ingiustizia. La mia necessità, gravata dal fatto che gli altri siano d’accordo con me, mi squassa.

Oltre alla mestizia che attanaglia e fa sentire un po’ spaesati, ma che colpisce i singoli e non sempre allo stesso modo, mi chiedo perché l’Italia opponga una resistenza così forte. La cittadinanza ai figli degli “immigrati” oltre ad essere una necessità pratica, di fatto, è anche una necessità storica a cui l’Italia sembra resistere, come ha resistito per mezzo millennio prima di poter decidersi a portare a termine la propria unità. La premessa che ha reso l’unità di Italia una necessità era la formazione – o il consolidamento – degli altri stati europei; per quanto riguarda la cittadinanza questa premessa c’è già, e c’è già in tutta Europa. Ci vorrà un Cavour anche in questo caso?

[Immagine: La nazionale italiana di calcio (gm)].

70 thoughts on “Straniera in patria

  1. Cara Ikram,

    questo tuo scritto mi spinge a diverse riflessioni. Alcune sono di tipo più emotivo, altre, più tristi ancora, sorgono dall’osservazione della realtà politica e storica del nostro Paese.
    Comincio da quelle emotive, perché qualcuno avrebbe da alzare il sopracciglio sentendoti lamentare il fastidio del rinnovo del passaporto o dei controlli aeroportuali. Sei una straniera, cosa vuoi, la strada spianata? ti direbbero. Io ho provato molto, molto in piccolo il disagio di un controllo alla frontiera tra Germania e Repubblica Ceca, molti anni fa, nel ’99, quando quel paese non faceva ancora parte dell’Unione. Ero in viaggio in gruppo, proprio come sarebbe accaduto a te, per un concerto: cantavo in un coro tedesco, avevo il permesso di soggiorno in Germania come studente, e incautamente avevo aderito alla tournée del coro a Praga, senza pormi il problema del mio documento, che era solo la carta d’identità italiana e non un passaporto. Non dimenticherò mai le parole del poliziotto che, arrivato a me, dopo aver controllato uno per uno tutti gli altri, e dopo aver preso il mio documento tra le mani, esclamò: “Con questo potete forse andare a Cuba, ma certo non entrare nella Repubblica Ceca!”. Dovetti scendere dal pullman, aspettare il verbale nell’ufficio di polizia di frontiera, poi tutto fu risolto con una salata multa, per fortuna. Ma mi ricordo che mi batteva il cuore. Ero frastornata, esattamente come dici tu.
    E dunque, la ‘vostra’ questione: temo che la politica in questo momento abbia sospeso le riflessioni e le decisioni a riguardo, nonostante l’operazione di laccatura e di immagine di cui si fa bello questo questo governo, ossia un ministro di colore, e per di più donna. Eppure le urgenze ci sono: per esempio una revisione della legge Bossi-Fini, che è riuscita a saturare le carceri di stranieri, espellendoli di fatto dalla vita sociale spesso per reati minimamente gravi. Tante altre leggi e decreti hanno stabilito percorsi tortuosi come il tuo per tantissime persone, per tantissime famiglie. Lo ‘ius soli’, evocato mesi fa dal Presidente Napolitano ed offerto al Parlamento come argomento da prendere in considerazione, mi sembra uscito subito fuori dall’orbita del dibattito politico: E di che stupirsi? Ora le urgenze della politica sono economiche, e le società di tutta Europa non solo non diventano più solidali nell’emergenza, ma tendono a chiudersi ancora di più nelle loro sicurezze identitarie. Per cui la politica è impegnata in altro, ossia nella gestione della crisi economica, e la mentalità corrente sviluppa liberamente un suo pensiero più o meno velatamente razzista.
    E però: quanto lavoro vedo fare con i bambini piccoli, nelle nostre scuole, sul tema della multiculturalità. Come mi piace per esempio vedere, già nella scuola dell’infanzia, stare insieme, nello stesso gruppo, con un’attività condivisa e comune, i bambini che scelgono l’ora alternativa alla religione cattolica, perché i genitori sono musulmani, induisti, o semplicemente non religiosi. (Con questo non si offendano, per favore, i cattolici che anche lì si ritrovano, spesso senza confini di nazionalità, in nome della fede comune.) E quante letture, quanti disegni, quanta semplice esperienza di vita insieme quotidianamente, nella comunità scolastica.
    Dunque vincerete voi, cara Ikram. Soprattutto se diventerete aggressivi studiando, e ad alti livelli. Il nostro è un Paese di vecchi, intrinsecamente conservatore. Io sto in mezzo al guado, per età, e sogno di veder svanire, con i suoi portatori anagrafici, quella mentalità conservatrice che blocca il Paese in tanti aspetti. Compreso questo, quello dell’identità nazionale. Mi piace molto la foto che accompagna il tuo pezzo, quella dei due calciatori. Vedi con che ritardo siamo arrivati lì dove altre squadre nazionali erano già da tempo, certo per ragioni storiche precise, ma insomma. Insomma, basta, apriamo gli occhi.

  2. Ma sì, a che cosa servono, gli stati, le nazionalità, le patrie, le cittadinanze, le frontiere? Tutte antiquate seccature. Gli unici che la pensano diversamente paiono essere i palestinesi, dei noti straccioni e terroristi…

  3. Caro Buffagni,
    se ho capito bene il suo argomento è: se si allarga il diritto di cittadinanza lo stato scompare. Mi sembra un po’ riduttivo. Ma forse ho capito male la sua posizione.
    Le faccio anche notare che l’autrice di questa lettera si sente “in patria” in Italia.

  4. Caro Piras,
    il mio argomento è: introdurre lo ius soli in Italia è un suicidio della nazione e dello stato italiani: suicidio assistito da collaborazionisti dello straniero e/o traditori della nazione e dello stato, molti dei quali benintenzionati e/o in buonafede. In casi come questo, considero la buonafede un’aggravante come l’ubriachezza nei fatti di sangue.
    Detta così è un po’ brusca, e quindi aggiungo l’argomento sociologico avanzato da Sartori sul “Corriere della Sera” [http://www.corriere.it/opinioni/13_giugno_17/sartori-ius-soli-integrazione-catena-equivoci_686dbf54-d728-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml] e tratto dal suo libro “Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei”, che trovo corretto anche se non esauriente (e neanche il più importante fra i motivi per respingere lo ius soli).
    Quanto a Ikram, sì, mi sono accorto che “si sente in patria” in Italia. Se sceglie di condividere il destino dell’Italia, per sé e per i suoi discendenti, chieda la cittadinanza, e adempiuti gli obblighi di legge a tempo debito l’avrà. Mi spiace per i fastidi in cui incorre, ma siccome la patria non è il luogo dove c’è il miglior rapporto costi/benefici o dove ci sentiamo più comodi, li accetti con pazienza, come si accettano pazientemente le fatiche i disagi che affrontiamo per ottenere qualcosa che reputiamo prezioso e insostituibile.
    Devo anche dire che non mi predispone a una completa simpatia nei suoi riguardi il tono di disprezzo, di noncuranza e quasi di vergogna con il quale Ikram parla delle sue origini, di quel Marocco del quale è cittadina, e da dove vengono i suoi genitori, il suo sangue, il suo nome, la sua lingua materna, forse la sua religione. Se considera così poco la cittadinanza e l’identità che già possiede, come considererà la cittadinanza alla quale aspira, una volta che l’avrà ottenuta?
    Le suggerisco altresì di lasciar perdere Cavour, il risorgimento e il processo di unificazione nazionale, o di studiarseli meglio, magari in controluce al processo di decolonizzazione del Marocco e alla sua conquista dell’indipendenza. Per potersi dire cittadini italiani, o cittadini marocchini, molti uomini hanno versato il sangue proprio (e altrui), e hanno affrontato, in condizioni disperate, prove in confronto alle quali i fastidi alla frontiera o l’impossibilità di candidarsi ai concorsi pubblici ai quali va incontro Ikram sono un’allegra vacanza.
    Identità nazionale e cittadinanza non sono l’iscrizione a un circolo (dove peraltro di solito è necessario che gli iscritti accettino la nuova candidatura). Sono cose serie, di importanza vitale, che decidono il destino di generazioni. Come spesso accade, ci accorgiamo che sono cose serie soprattutto quando non le abbiamo ancora o non le abbiamo più (per questo mi riferivo ai palestinesi, che hanno sperimentato e sperimentano entrambe queste condizioni). Le cose serie e di importanza vitale non si danno e non si prendono così.

  5. Capisco che è scortese per l’articolista ed anche per i commentatori, ma proprio devo dirlo, leggere quasi tutto ciò che è stato scritto prima di me, mi fa cadere le braccia e davvero disperare sulla possibilità che ci sia un futuro migliore per l’Italia ed il mondo intero.
    Mi chiedo come si possa trasformare una questione obiettivamente marginale e soprattutto di buon senso, in una questione di principio su cui imbastire lotte furibonde, ognuno protetto dalle proprie barricate.
    Partiamo dalla constatazione che in Italia la cittadinanza è attualmente regolamentata secondo un criterio misto. Non è che viga lo ius sanguinis, la norma che permette al conseguimento della maggior età ai residenti dalla nascita, è con tutta evidenza una forma di ius soli, e quindi ci ritroviamo con un criterio misto che mi pare non funzioni così male. Mi rifiuto di entrare negli aspetti più tecnici che tra l’altro ignoro, si tratta di vedere di limare, di eliminare gli aspetti meno equi dell’attuale legislatura in materia, ma per favore, la contrapposizione tra i due sistemi è nei fatti e nel diritto già saltata da tempo, perchè andare a schierarci da una parte e dall’altra? Possibile che su tutte le questioni, si debba finire come se si trattasse di un derby stracittadino di calcio?

    Ciò tuttavia che mi fa davvero cadere le braccia, è il tono delel motivazioni, l’articolista che si lamenta di dovere avere rinunciato a una gita (sic!), la Caprara che basa le sue opinioni su un’esperienza di blocco ad una frontiera come se le opinioni debbano sorgere da esperienze vissute sulla propria carne, come se un punto di vista meno personale sia impossibile, il che taglierebbe via di colpo l’esistenza stessa della filosofia…
    Questa cosa mi ha sempre colpito, come uno spot promozionale per la ricerca sui tumori di un famoso testimonial che ha deciso di contribuire finanziariamente a tale ricerca perchè ne è stato colpito personalmente: possibile che lo dica senza vergognarsene?
    Allo stesso modo, trovo alquanto rozze le argomentazioni di Sartori che non capisco perchè trasforma un problema etnico in un problema interreligioso. Personalmente, trovo che l’integrazione nelle odierne società occidentali sia perfino eccessiva. Dato il livello di omologazione, un po’ di resistenza all’integrazione sarebbe estremamente benvenuta.

  6. Cari Buffagni e Cucinotta,
    rispondo, come sempre, alle vostre osservazioni, ma prima una considerazione generale: vi pregherei di abbandonare questi toni aggressivi, che possono risultare fastidiosi per le persone criticate. Possiamo argomentare serenamente, senza assumere atteggiamenti irritanti.
    Vengo alle vostre critiche.

    Caro Buffagni,
    grazie per la risposta e per la citazione dell’articolo di Sartori, che non avevo letto. La sua (di Sartori) proposta di una residenza permanente trasmissibile ai figli è interessante, ma sotto spiegherò perché, a certe condizioni, secondo me è giusto concedere la cittadinanza piena. Il resto dell’articolo lo trovo molto debole: intanto, gli argomenti sociologici non bastano, quando si devono trattare questioni di principio; poi, adottare lo ius soli non vuol dire “porte aperte a tutti”, cerco di chiarirlo sotto; infine, ci sono molti immigrati di seconda generazione che sono integrati, perché socializzati qui da noi, e se poi questa integrazione iniziale avrà successo o fallirà dipende proprio dal carattere inclusivo della società in cui abitano: se la società li respinge e isola, allora avremo l’ostilità, altrimenti no (noto tra parentesi che anche l’articolo di Sartori ha un tono intollerabile: non c’è bisogno di assumere questo atteggiamento di supponenza nei confronti del ministro, sembra davvero di sentire il maschio bianco che deve dimostrare il suo senso di superiorità).
    Sulla tesi generale: la sua posizione, Buffagni, si fonda sulla identificazione di stato e nazione. Non è così scontata, ma la accetto come premessa per semplicità. Bene, io non credo che concedere la cittadinanza ai figli nati in Italia da immigrati distrugga l’unità nazionale. Ovviamente, si tratterà di stabilire dei criteri: che i genitori abitino e lavorino regolarmente nel paese da tot anni, e altre condizioni che i giuristi possono definire. Quindi non si parla di concederla al figlio del primo che passa.
    Detto questo, il problema è nei termini seguenti.
    I confini di una comunità politica possono essere tracciati, semplificando molto, in tre maniere: 1) sulla base dell’appartenenza a una comunità storica, culturale, se si vuole anche etnica; 2) sulla base dell’appartenenza a una comunità politica da cui si traggono benefici, e a cui si contribuisce, generando così degli obblighi reciproci tra cittadini e stato; 3) sulla base della comune appartenenza alla specie umana. Solo la terza via fa saltare l’idea di nazione e anche quella di stato. La prima ovviamente è a fondamento dello stato-nazione, e la seconda, io credo, non è altro che la lettura democratica di tale stato, che permette di adattarlo alle esigenze di una società interdipendente, in cui i confini sociologici della nazione sono più fluidi, e di individui liberi e eguali, che hanno diritto a essere riconosciuti come tali. Io parto dalla seconda prospettiva, che porterebbe a questa idea: se una persona vive e lavora regolarmente in un paese genera degli obblighi reciproci con lo stato, per cui questo deve riconoscerlo come cittadino a pieno diritto (faccio notare che questa è la questione della cittadinanza per i residenti, non è la questione della gestione dei flussi migratori). Questo criterio permette di stabilire dei vincoli: non si dice “apertura a tutti”, perché si devono individuare quegli obblghi reciproci; quindi andranno fissati dei criteri, anche per i figli di immigrati nati in Italia. Però vale il principio che non puoi escluderli solo perché non nati da italiani. Inoltre, per quel che riguarda gli immigrati di seconda generazione, viene applicato in parte anche il primo criterio: se si è socializzati in un paese, si sviluppa naturalmente un senso di identificazione culturale e legato alle tradizioni, quindi questo permette di giustificare la concessione della cittadinanza.
    Sulla conclusione del suo intervento: non condivido la sua concezione “eroica” della appartenenza a una nazione. Chi ha lottato per una nazione lo ha fatto perché i propri successori potessero godere di diritti senza dover lottare.
    Quanto al rapporto di Ikram Labouini con le sue due appartenenze, sarà lei a risponderle, immagino.

    Caro Cucinotta,
    sulla mia posizione teorica generale sull’argomento, la rimando alla mia risposta a Buffagni, sopra.
    Sulle altre sue osservazioni:
    – non è una questione marginale (anche se è vero che va risolta anche con il buon senso e che non hanno senso le contrapposizini da derby), perché le rivendicazioni di diritti sono costitutive delle democrazie;
    – vero che il sistema attuale è misto, ma bisogna andare oltre, credo (veda la mia risposta a Buffagni);
    – confesso che la conclusione del suo intervento mi ha irritato non poco: intanto, è assolutamente normale che i problemi generali vengano posti come casi particolari, dal momento che le norme regolano i casi particolari e che la gente vive difficoltà concrete nelle proprie vite particolari, e non nella sfera del pensiero astratto; poi, perché lei, senza rendersene conto, tende a trasferire il suo disprezzo “teorico” per il particolare ai suoi interlocutori, trattandoli come insignificanti perché non “fanno filosofia”: se le conoscenze ci venissero solo dalla filosofia, e non anche dalla conoscenza dei particolari, che ci possono dare, per esempio, la storia, la letteratura o il racconto di esperienze vissute, allora staremmo freschi.
    Nella chiusa, mi sembra che confonda omologazione (contro cui si può lottare da sinistra, lo ammetto) e integrazione (contro cui non capisco molto come si possa lottare da sinistra).
    mp

  7. Caro Piras,
    come credo ormai sa, non condivido l’ideologia liberale, e di conseguenza non condivido la sua visione contrattualistica (gli obblighi reciproci tra cittadino e stato). Le motivazioni implicano la mia visione politica generale e sarebbe fuori luogo parlarne qui.
    Gli stati a mio parere sono essenzialmente giustificati solo su base storica, il fatto che ci siano è di per sè una giustificazione del loro permanere. Naturalmente, ci sono mille motivazioni che possono determinare variazioni anche drastiche della ripartizione statale, ma come sappiamo non si tratta di operazioni indolori, costano fiumi di sangue che secondo me bisognerebbe evitare con la massima cura di spargere. Semmai, il tema che oggi è di massima attualità è come gli stati-nazione possano convivere con la globalizzazione. Sulla base della natura effettiva e non dei nostri desideri, della globalizzazione, credo che la difesa dello stato-nazione debba essere massima.
    E’ altresì mia convinzione che la sovranità nazionale debba innazitutto esprimersi sul piano economico ed anche monetario. Vedo invece che c’è una risposta che potremmo definire di destra che pretende massima libertà di circolazione delle merci ma minima se non nulla delle persone, mentre a mio parere dovremmo fare l’esatto contrario, difendere la nostra sovranità economica ed essere ragionevolmente tolleranti con la mobilità degli uomini. Non capisco la logica di Sartori che perora il diritto di residenza purchè non comporti diritto di cittadinanza. Mi pare sia un modo di creare una discriminazione tra cittadini a tutti gli effetti e residenti che non godono di almeno taluni diritti. Eppure, se questi immigrati dessero problemi, questi non mi sembrano collegati al possesso della cittadinanza ma alla loro stessa presenza, ove si creassero condizioni di sovraffollamento, l’unica motivazione che io considero seria per limitare gli afflussi.
    Troverà irritante la mia prosa ma se ne dovrà fare una ragione. Non è che io dica che dobbiamo soltanto filosofare, ma dico piuttosto che le considerazioni politiche dovrebbero essere possibili anche senza l’esperienza diretta. Aspetteremo di morire per convenire sull’esigenza dei cimiteri?
    Inoltre, qui sicuramente facciamo considerazioni teoriche. Se devo montare un mobile, nulla è meglio dell’esperienza diretta, ma se elaboro teorie, le nostre personali vicissitudini non contribuiscono positivamente ad esse, e non si prestano a condivisione, proprio perchè teorizzare è astrarre dagli specifici contesti.
    Infine, la vorrei invitare a non nascondersi dietro le parole. Non è che io faccia confusione, è che davvero sono convinto che integrazione ed omologazione siano quasi sinonimi. Sta a lei illustrare perchè li considera come aspetti del tutto differenti.

  8. IN MEMORIA.
    Locvizza il 30 settembre 1916

    Si chiamava
    Moammed Sceab

    Discendente
    di emiri di nomadi
    suicida
    perché non aveva più
    Patria
    Amò la Francia
    e mutò nome

    Fu Marcel
    ma non era Francese
    e non sapeva più
    vivere
    nella tenda dei suoi
    dove si ascolta la cantilena
    del Corano
    gustando un caffè

    E non sapeva
    sciogliere
    il canto
    del suo abbandono

    L’ho accompagnato
    insieme alla padrona dell’albergo
    dove abitavamo
    a Parigi
    dal numero 5 della rue des Carmes
    appassito vicolo in discesa

    Riposa
    nel camposanto d’Ivry
    sobborgo che pare
    sempre
    in una giornata
    di una
    decomposta fiera

    E forse io solo
    so ancora
    che visse

    (Giuseppe Ungaretti)

  9. Sono per la doppia cittadinanza universale, quella del quartiere in cui ognuno di noi nasce e quella del mondo intero. Ci si arriverà, piaccia o non piaccia all’oramai anzianotto Sartori. Andrà regolato solo il modo in cui si potrà risiedere in un posto piuttosto che in altro.

  10. Caro Piras, Caro Cucinotta,
    vi rispondo insieme. Ciascuno distinguerà quali argomenti meglio si attagliano alle sue repliche. Premetto che mi dispiace se qualcuno si sente offeso o irritato dai giudizi che esprimo. Non amo l’estremismo, neanche quello verbale. Se mi esprimo così è perché penso esattamente quel che dico, e anzi cerco di formulare i concetti con moderazione.

    1) Il nonno costruisce una fortezza, il nipote si sdraia sugli spalti ad abbronzarsi, bevendosi un gin tonic con la cannuccia. Perché no, piace anche a me il gin tonic. Però, se il nipote butta giù le mura, finisce (se gli va molto bene) a portare il gin tonic sul vassoio a uno straniero che si abbronza lui, sugli spalti ex suoi. Gli Stati, che siano nazionali o meno, sono anzitutto presidi difensivi di una comunità politica e della cultura che in essa si incarna. Può non piacere, ma è così. Qui non è questione della mia concezione “eroica” della cittadinanza: è questione della realtà storica, la quale ci insegna che “chi si fa agnello, il lupo se lo mangia.” Per i nostri padri e i nostri nonni, essere cittadini italiani ha significato prendere parte, volenti o nolenti, a una guerra rovinosa. L’evento non risale al Giurassico, e la Seconda Guerra Mondiale non è l’ultima guerra europea della storia. Ce ne sono state e ce ne saranno altre. (Rammento qui che l’Italia ha recentemente partecipato, illegalmente, all’aggressione contro la Jugoslavia che l’ha definitivamente frammentata e ha dato vita allo Stato criminale del Kosovo). Essere cittadini significa anche questo: condividere il destino di una patria usque ad sanguinem. Ecco perché la cittadinanza è una cosa seria: perché è una questione di vita o di morte, non solo una questione di timbri sul passaporto, di concorsi pubblici, di gite scolastiche.

    2) Cucinotta dice che il dibattito sullo ius soli è “una questione obiettivamente marginale e soprattutto di buon senso”. Dissento. Lo sarebbe se la sovranità e l’identità nazionale italiane fossero ben difese e in buone condizioni di salute, e se il dibattito avvenisse in un parlamento che decide autonomamente orientandosi sull’interesse di lungo periodo della patria. Purtroppo non è così. L’introduzione dello ius soli è un dettato ideologico e una manovra politica. L’ideologia alla quale si ispira è il neoliberalismo nichilista, il cui modello antropologico è *l’uomo vuoto* (così da poter essere “stuffed”, come dice Eliot, imbottito di paglia e chiacchiere). Questo *uomo vuoto* si definisce per quel che *non* è: non ha un’identità nazionale, non ha un popolo, non ha una patria, non ha un’origine, non ha un destino, non ha una religione: o se le ha, tutte queste cosette devono restare un fatto privato con lo stesso rilievo politico e spirituale dei suoi gusti alimentari. Aggiungerò, per completezza, che quest’ *uomo vuoto* non ha un lavoro fisso (noioso), non ha uno stato sociale (costoso), non ha una stirpe (familismo amorale), non ha una lingua materna (se non come dialetto riservato agli affetti e alla spesa al mercatino). In compenso è democratico, è progressista, ha un codice fiscale, un C/C bancario, paga le tasse, vota, e chiacchiera tanto, perché ha il diritto di esprimere le sue opinioni, tutte ugualmente valide (tanto nessuno lo ascolta).
    La manovra politica di cui fa parte l’introduzione dello ius soli è il mondialismo a guida statunitense e UE, che per esprimersi deve disgregare anzitutto gli Stati nazionali, e dunque le determinazioni antropologiche che si oppongono all’omologazione, tra le quali primeggiano le identità nazionali, principale sostegno spirituale degli Stati sovrani.

    3) Come Cucinotta giustamente rileva, la legge italiana prevede già una forma di cittadinanza per ius soli, cioè la concessione della cittadinanza al figlio di stranieri che sia nato in Italia, vi abbia risieduto continuativamente fino ai diciott’anni, e ne faccia richiesta (perché bisognerebbe anche rammentare che esistono stranieri che pur lavorando e risiedendo qui desiderano, com’è onorevole e giusto, conservare la cittadinanza della loro patria, che non è una patria inferiore anche se ha un PIL inferiore). Però, dice Piras, “bisogna andare oltre”. Perché? Qual è l’interesse dell’Italia ad “andare oltre”? Quali “lendemains qui chantent” ci aspettano, oltre a questo oltre? Non si sa. Più United Colors of Benetton? “Più Europa”? Più Europa con un presidente UE congolese, eschimese, marziano che ci fa il discorso di Capodanno in inglese?

    4) Sartori, notevole studioso dei sistemi politici, è una delle persone che meno mi stanno simpatiche in Italia, proprio per la sua spocchia baronale e narcisista. Con la ministra Kyenge è stato sgarbato assai, come del resto è sgarbato con chiunque non gli dia ragione a priori e non lo riverisca srotolandogli davanti ettari di tappeti rossi. Segnalo però che la ministra Kyenge, mia concittadina (sono modenese) è ministro del governo italiano per un’unica ragione: perché è negra e congolese, cioè appartenente a un’etnia e a un popolo che con l’Italia non c’entra niente. Dell’Italia, della sua cultura, dei suoi interessi, dei pregi e dei difetti del suo popolo sa zero, e le interessa zero. Se ne va in giro come una Vispa Teresa facendo affermazioni a) fattualmente sbagliate b) inopportune c) provocatorie d) irresponsabili politicamente, perché propaganda una scelta politica e culturale di principio che nessun parlamento, neanche questo parlamento di burattini, ha mai dibattuto in aula (i ministri non sono agit prop, e quando parlano in pubblico dovrebbero esprimere la linea del governo, non le loro opinioni personali). La funzione della signora Kyenge è di essere il Balotelli governativo, il testimonial del fatto che una congolese, popolo che con l’Italia mai ebbe significativi rapporti culturali e politici, può essere ministro del governo italiano, e ciononostante la Torre di Pisa non crolla, le cavallette non piovono, e la tivù continua a trasmettere le partite della nazionale. In breve, ella serve esclusivamente a comunicare, con la sua faccia, che è *normale* che una persona che con l’Italia, la sua identità, la sua tradizione culturale, i suoi interessi, la sua etnia, la sua religione prevalente, non ha assolutamente niente a che fare, sia non solo cittadina italiana, ma un ministro del governo italiano: il che è certamente legale, ma legittimo e sensato, no. Dal punto di vista immediatamente politico potrei anche compiacermene, perché ogni esternazione della signora Kyenge irrita milioni di italiani. Però, non amando né il tanto peggio tanto meglio né l’ipocrisia e la falsità, preferirei che la signora tornasse al suo gabinetto oculistico modenese. Le miopie sono uguali qui, in Congo e in Lapponia. Le culture e le nazioni, no.

    5) Possono certo esistere nazioni senza Stato nazionale. Un esempio insigne di nazione senza Stato è proprio l’Italia, che fu tale per secoli. Possono esistere Stati multinazionali, multietnici, multireligiosi, quali l’Impero Austro-Ungarico. Non sono un fanatico esclusivista dello Stato nazionale. Segnalo soltanto che le nazioni senza Stato, quali l’Italia prima dell’unificazione, o la Palestina oggi, incontrano un difficile problema storico ricorrente: sopravvivere, senza vedere annullata la propria identità e la propria cultura, alle aggressioni e alla dominazione di chi lo Stato ce l’ha, e se ne serve per quel che è, cioè una macchina da guerra che serve tanto per la difesa quanto per l’offesa.
    Chi si ricorda della tradizione culturale, dell’identità nazionale, della lingua dei Marcomanni e dei Quadi?
    Quanto agli Stati multinazionali, sopravvivono e prosperano solo in presenza di un solido centro imperiale, capace di legittimità e autorità, spirituali e politiche. Di questi animali io non ne vedo, in circolazione. L’UE, questo ferro di legno, tutto mi pare tranne questo.

    6) Trovo particolarmente appropriata, anche se contraddittoria rispetto al suo precedente intervento, la poesia di Ungaretti riportata dalla signora Caprara. Moammed Sceab, del quale Ungaretti ricorda la vita sventurata e la morte per suicidio, non si uccide perché non gli hanno concesso la cittadinanza francese o italiana o marziana. Si uccide perché non sa più chi è né chi vuole essere: e l’Ungaretti, nato povero italiano ad Alessandria d’Egitto, lo rammenta commosso proprio perché teme di fare la fine del suo amico. E infatti, l’Ungaretti che non vuole fare la fine di Moammed Sceab, arruolatosi nell’esercito italiano impegnato in una guerra tremenda, dal fronte dirà di stare nell’uniforme “come nella culla di mio padre”.
    Distribuendo cittadinanze come mentine a bambini che hanno fatto i bravi non faremo altro che moltiplicare gli Moammed Sceab: gli uomini divisi, incrinati, vuoti, che non sanno più chi sono e chi vogliono essere, e che rivolgeranno la violenza della loro disperazione contro di sé, o contro gli altri, come vediamo accadere di continuo dovunque ci siano immigrati di seconda e di terza generazione, ad esempio nelle banlieues francesi.

  11. E’ così raro leggere, da un/a ragazzo/a, un pezzo intimo, personale, sentito, dettato da ragione proprie e non orecchiato sul buon senso vulgato o sul politicamente corretto che lo studente immagina che l’insegnante si aspetti da lui, che io direi innanzitutto a Ikram bene, brava. Hai scritto (non tutti sono capaci di farlo), hai scritto bene (ancora meno sono in grado di farlo), hai scritto cose tue, dunque vere (rara avis), hai preso una posizione su un problema enorme (rarissima avis). O forse non è così raro. Comunque, resta bello.
    Non lo dimenticherei, quando discutiamo queste opinioni, né dimenticherei che si tratta di una diciottenne. Sotto questa luce, a me pare che i rilievi sul tono troppo personale e sui richiami non abbastanza motivati alla storia patria non siano pertinenti. Do ai loro autori 4. Fuori tema.
    Do invece almeno un 9 al pezzo di Ikram. E, ironici giochetti professorali a parte, inviterei a riflettere sul fatto che un articolo del genere a un esame di maturità prenderebbe davvero quel voto. Se non ci credete, venite a leggere i temi con noi, e vedrete quelli cui si dà 6.

    Maledizione Buffagni, lei rende la vita a un insoddisfatto del liberalismo politico come me davvero difficile, perché mi metterei in ascolto di quello che dice, se non fosse introdotto dalle seguenti parole: “suicidio assistito da collaborazionisti dello straniero e/o traditori della nazione e dello stato, molti dei quali benintenzionati e/o in buonafede. In casi come questo, considero la buonafede un’aggravante come l’ubriachezza nei fatti di sangue”.
    Nonostante questo, commenterei due sue affermazioni, ma forse, facendolo, più che a lei mi rivolgo a Ikram e ai ragazzi della sua età, spero ce ne siano che leggono. Mi pare così bello che LPLC abbia dato spazio a questa lettera, che un blog dove adulti leggono e parlano di letteratura e attualità possa essere avvicinato anche da futuri adulti, che non sovrasterei con le nostre infinite dissertazioni questa bella notizia.

    Ma dicevo, le due affermazioni di Buffagni. La Kyenge è ministra perché negra e congolese? Sì. Come Renzi spacca perché è ggiovane, come Luxuria era in parlamento perché transessuale, come Berlusconi piace (ad alcuni, comunque non pochi) perché è l’arcitaliano, come Kennedy vinse il dibattito con Nixon perché giovane e bello e perché l’altro era arcigno ed aveva appena schiantato il ginocchio contro una portiera ed era pallido e sofferente. In politica si sale alla ribalta perché simboli di qualcosa e perché la maschera scelta è quella giusta. E’ da sempre così, non è che la Kyenge abbia una colpa particolare o particolarmente nuova. A me personalmente ciò rattrista, vorrei verità e autenticità, ma queste due cose non sono di questo mondo. Beato lei, Buffagni, che, da cristiano, almeno può sperare di averle nel prossimo. Io manco quella consolazione ho.

    Su una cosa sono d’accordo con Buffagni. Ikram non dovrebbe dimenticare la sua identità marocchina. Non ora forse, ma prima o poi scoprirà che le identità sono degli abissi, profondissime, e che non si negano, al massimo si possono rimuovere, ma non è mai salutare farlo. Io ho pallidissimi ricordi della Sicilia profonda, contadina, immemoriale, identica da secoli, dei miei nonni paterni. Eppure ce l’ho ancora nel sangue, io, integralmente metropolitano e nordico. Scusate se l’ho buttata sul personale, ma credo (@ Cucinotta), che la filosofia sia povera e nuda senza i miei privati privatissimi e idiosincratici vestiti.
    Tutto questo, comunque non c’entra molto con lo ius soli e con lo ius sanguinis, che, per quanto riduttivo sia, sono temi che vanno risolti sul piano giuridico e politico.

  12. Dimenticavo. Che male c’è se un diciottenne prende la cittadinanza per potersi sentire come i coetanei che vanno in gita, partecipano a un concorso, fanno con nauturalezza tutto quello che è naturale fare? O meglio, che la si prende a fare, se no? Penso che ci si possa sentire italiani per ragioni spirituali e fortemente identitare anche senza quel pezzo di carta, che è pur sempre solo un pezzo di carta. Che serva ad andare in gita, a partecipare a un concorso…

  13. Caro Buffagni,
    è evidente che lei non rispondeva a me se non su dettagli, ma certo non pretendo che lo faccia, ognuno può utilizzare ciò che scrivo come meglio crede, e se anche fossi frainteso, è mia responsabilità per non essermi espresso in modo sufficientemente chiaro.
    Tuttavia, ci tengo a precisare che le sue argomentazioni sull’uomo vuoto, le condivido pienamente come forse si dovrebbe desumere dalla mia critica all’ideologia liberale, che poi è con tutta evidenza la causa di tale credenza. Sarebbe utile precisare che nei fatti, l’uomo si pretende vuoto, ma nei fatti è lungi dall’esserlo, e quella paglia con cui lo si riempe è assai sostanziosa e determinante per la stessa sorte dell’umanità, ma imponendo il modello dell’uomo vuoto, si facilita il compito a chi sa bene quanto sia importante ficcarci dentro ciò che egli ha interesse ad introdurre.
    Tuttavia, la mia obiezione riguarda il modo in cui si difende la nostra sovranità e le nostre specificità. Nel precedente intervento, mi pronunciavo appunto contro un metodo che da’ nei fatti per scontato la totale apertura al commercio mondiale, al flusso dei capitali, al martellante tamtam multimediale di chi ha gli interessi ed i mezzi finanziari per bombardarci come meglio gli aggrada, puntando tutto sulle limitazioni alla mobilità umana. Aldilà di considerazioni più generali, questo metodo è del tutto inefficace perchè come si sa, l’assedio più pericoloso è quello che opera dall’interno stesso della fortificazione.
    Abbiamo così due urgenze contro due emergenze che io considero esiziali per la stessa sorte dell’umanità. L’una è l’emergenza ambientale con il progressivo degrado nelle condizioni di vivibilità umana del nostro pianeta. L’altra, che naturalmente ha implicazioni anche sulla prima, della trionfante ideologia liberale di cui anche lei parlava, per la sua intrtinseca tendenza a far prevalere il peggio degli istinti umani, quelli più distruttivi nella loro inarrestabile voracità.
    Per tutte queste ragioni, perchè nei fatti si dovrà ancora adottare un metodo misto tra ius soli ed ius sanguinis, devo ribadire che la questione rimane marginale, almeno finchè rimarrà nel proprio contesto e non verrà invece utilizzata per una lotta che non può che essere di natura ideologica, tutte le vere battaglie, quelle che contano, non possono che coinvolgere l’aspetto ideologico.

    Infine qualche parola ancora sul rapporto tra esperienza e convincimenti. Certamente che come dice giustamente Piras, le nostre esperienze sono determinanti nel fare maturare le idee che guidano la nostra vita, ma il momento dell’astrazione è fondamentale. Seppure traiamo dall’esperienza praticamente tutto ciò che siamo e che pensiamo, non possiamo permetterci il lusso di trasferire tal quale quel contenuto informativo che l’esperienza vissuta ci da’, dobbiamo invece maturarlo, fargli assumere quei caratteri di universalità che lo rendono utile ed a volte prezioso anche per gli altri, è un passaggio che non possiamo trascurare.

  14. La parola ‘negra’ è abitata dallo stigma e dalla violenza. Si può chiedere a commentatori, liberali e non, di pensare a quale carico di orrori evocano quando la usano in toni fintamente neutri (Buffagni) o paradossali (Lo Vetere)?
    Quanto al fatto che l’Italia sia stata per secoli una nazione senza stato, credo che lei, Buffagni, dovrebbe andare a ripassare un po’ di storia, magari rilegga un po’ di Dante.

  15. Ed ecco che fin troppe righe che contengono ironia, attenzione pedagogica, un po’ di sentimentalismo personale, vengono inchiodate a una parola, per quanto usata in tono paradossale, e, per altro, in forma di citazione da un altro commentatore.

    No, gentile Savattieri, io lì volevo proprio usare “negra” perché aveva un senso, non razzista. Non l’ho mai gridata né la griderò mai come offesa. Il testo e il contesto sono tutto, le parole singolarmente prese dal vocabolario sono delle nebulose assai poco definite. Poi, aggiungerei, quella parola (che viene semplicemente dal latino) si è caricata di connotazioni che sminuiscono la dignità di altri esseri umani solo col tempo, non è mai stata “in sé” razzista. Se ci bada, anche il più accettabile “nero” ormai, in certi contesti, ha sfumature striscianti di razzismo. Che fare? Che dire? “Persone di colore”? “Persone diversamente colorate”? Di slittamento in slittamento, di ipocrisia linguistica in ipocrisia linguistica? Dov’è la fine della corsa? No, se quella parola si è così violentemente caricata di quei significati, è perché noi abbiamo problemi con la cosa (l’alterità), non con la parola, che non serve a molto cambiare.
    Io credo valga la pena usare tutte le parole, non averne paura. Penso che sia l’atteggiamento etico che vi si legge dietro il solo a contare.
    Guardi, se ci facciamo prendere dal politicamente corretto, diamo implicitamente ragione a Buffagni. Che, stavolta, ha proprio torto. Non diamogli questa soddisfazione.

    Saluti

  16. Avete dato la cittadinanza alla bambina neonata del mio vicino di casa, che se la fa nel pannolino ad ogni ora, che neanche parla italiano, che più che strillare non fa, così come la madre daltronde.
    Lei si che dovrebbe fare regolare domanda di cittadinanza e portare pazienza fino al momento della sua approvazione…..
    Ikram…già da subito può essere la nuova contribuente che pagherà le vostre pensioni…suvvia, suvvia un po’ di senso pratico. ;o)

  17. Sbaglio o si sta parlando di identità? Sbaglio o quello che esprime Ikram è null’altro che il suo senso di “spaesamento”?
    Ma qui, qualcuno è subito salito in cattedra, scollandosi di dosso quasi con fastidio, – peggio- con beffarda ironia, quello che per lei è, al momento, niente più e niente meno che un impressionante e annichilente senso di vuoto. Un assordante: chi sono?
    Ikram ha scoperto che deve obbligatoriamente sentirsi estranea. E qualcuno le ha, con dotte argomentazioni, fatto capire, qui, che sì. Perchè è con un altro sangue. Perchè ha geni differenti.
    Perchè il mondo lo si possiede per credito , in virtù di un sacrificio che, invece, anche a chi pontifica e si straccia le vesti, non è costato niente.
    Bene, se è di identità che si parla, di persone e di Paesi -dovreste saperlo-, queste sono mutevoli, cambiano, si trasformano. A volte col sangue, a volte con la TV. Vogliamo parlare un poco di storia di identità patria?

    Ikram non lo sa, ora. Le verrà desiderio di tornare e sarà allora che saprà la sua terra.
    Quello che chiede, qui, ora, a noi, per lei e per tanti come lei, è perchè deve sentirsi defraudata, da un giorno all’altro, nientemeno che della intera storia della “sua” esistenza.
    Null’altro.

  18. a Cristina Savattieri.

    “Negro” è termine offensivo solo se si traduce mentalmente dall’americano “nigger”. In italiano, “negro” è puramente descrittivo. Se ho voglia di insultare la signora Kyenge o un’altra persona del suo colore le do della cretina, non della “negra”.
    Dante vale sempre la pena di ripassarlo; però, l’Italia è stata per secoli “nazione senza Stato” nel senso, ben noto, che non ha compiuto il processo di unificazione statale se non nel XIX secolo, come la Germania; mentre Inghilterra e Francia si sono formate come Stati nazionali secoli prima.

    A Daniele Lo Vetere.
    Certo che Ikram è brava e coraggiosa. Proprio per questo la prendo sul serio, le rispondo senza trattarla da bambina, e le dico la (mia) verità.
    Poi non c’è niente di male, anzi, se una ragazza vuole andare in gita, ed essere come tutti gli altri.

    Ringrazio tutti gli intervenuti per le repliche. Risponderò meglio appena possibile.

  19. La disputa su ‘jus sanguinis’ e ‘jus soli’, che ho seguito con grande interesse a partire dalla bella testimonianza di Ikram Labouini, conferma che è difficile svincolare il dibattito su questo tema dai due poli, formalmente antinomici ma sostanzialmente equivalenti, di un beneducato cosmopolitismo di tipo kantiano che resta cieco e sordo di fronte agli effetti prodotti dalla globalizzazione sulle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, da un lato, e un neo-nazionalismo, di cui peraltro condivido alcune (non tutte le) ragioni, che tende a riproporre, in chiave sovranista, la coincidenza fra Stato e nazione. Può forse allora essere utile, anche per svincolare il dibattito dalle solite opposizioni fra razzismo e antirazzismo, demonizzazione ed edulcorazione, ghettizzazione e integrazione, pregiudizio e apertura, inserire il discorso in un quadro più ampio e articolato. Che l’attuale immigrazione in Italia e in Europa sia decisiva per il mantenimento del nostro sistema di ‘welfare’ e, in particolare, del nostro sistema pensionistico, e che svolga altresì una funzione fondamentale nel riequilibrio del rapporto ‘natalità/mortalità’ in aree del mondo caratterizzate, come il nostro paese, da un progressivo invecchiamento, sono ormai dati di fatto ampiamente riconosciuti. Paolo Cinanni, in “Emigrazione e imperialismo” (Editori Riuniti, Roma, 1968), fu uno dei primi analisti a tracciare un’analisi semplice e, nel contempo, originale di ciò che significa importare a costo zero, cioè gratuitamente, milioni di esseri umani in età lavorativa, uomini e donne che sono cresciuti e sono stati formati a spese di altri paesi o di altre comunità, in un paese che ha bisogno di braccia. Cinanni si serve, per far comprendere questo ragionamento, del calcolo di redditività relativo agli animali da lavoro (per es., buoi e cavalli), alla fine di un periodo in cui questi animali erano stati importanti per la produzione agricola: si tratta di un vantaggio enorme. In un’economia in cui la risorsa umana (cioè l’intelligenza umana) è decisiva per lo sviluppo, il calcolo è più problematico, ma i valori di questa risorsa, a parità di soggetti, possono decuplicare, centuplicare ecc. Non è un caso che si stiano affermando, accanto alla costruzione di muri e barriere come quelli sollecitati e promossi dai nostri governi in una delle stagioni più infami della nostra storia recente, ipotesi di interventi (in Italia), che sono già attuati praticamente altrove (in Germania, Usa ecc.), vòlti ad agevolare e incentivare l’immigrazione di cervelli cresciuti e prodotti dal Terzo Mondo: un’altra colossale rapina posta in atto dall’imperialismo. L’immigrazione è infatti un formidabile trasferimento di energie e di valori economici e culturali da un paese ad un altro: il paese che riceve questa risorsa non ha investito nulla per la sua crescita e per la sua formazione fisica ed intellettuale e si ritrova senza alcun contraccambio con un bene enorme che, a rigore, non gli spetterebbe. Paesi come gli Usa o il Canada o l’Australia, debbono in gran parte ciò che sono a questa semplice condizione; paesi come la Germania hanno prosperato grazie a questa disponibilità. Paesi come l’Italia, che hanno esportato gratuitamente le proprie risorse umane essenzialmente per l’incapacità, derivante dall’arretratezza, di gestirle e valorizzarle, li stanno ora emulando. Del resto, il fenomeno emigratorio ritarda sempre l’evoluzione dei paesi di origine e la stessa storia italiana del ’900 potrebbe essere letta, almeno parzialmente, anche in questa chiave. Nel mondo attuale sono oltre 200 milioni le persone in movimento da un paese ad un altro paese; si tratta, se le mettiamo tutte assieme, del 4° o del 5° paese del mondo per dimensioni. Se sommiamo i flussi di migrazione interna anche in grandi paesi, come la Cina o il Brasile, o in altri paesi asiatici e africani, questa popolazione in movimento supera le dimensioni della popolazione degli Stati Uniti d’America: ciò significa che dopo Cina ed India il popolo migrante è il terzo popolo del mondo. È indubbio che esso costituisca la linfa della produttività e della valorizzazione capitalistica ovunque esso si trovi, come è indubbio che rispetto ad una massa così ampia di persone il sistema di diritti nei singoli paesi e a livello internazionale stia rivelando carenze impressionanti. Porvi rimedio, almeno in parte, con il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia mi sembra pertanto il minimo che si possa (e si debba) esigere dallo Stato italiano. Sarebbe, inoltre, interessante discutere di altri due punti, che sono strettamente connessi a questa problematica: il flusso di denaro che si muove in senso inverso (cioè le rimesse) rispetto ai flussi migratori e la crescente emigrazione italiana, provocata dalla crisi economica, verso i paesi euro-americani e i paesi del Terzo Mondo.

  20. @ Daniele Lo Vetere
    Mi spiace, non era mia intenzione inchiodarla a una parola. Apprezzo sempre i suoi commenti e proprio per questo la mia sensibilità mi ha segnalato qualcosa che ho trovato fuori posto. Sul politically correct non sono d’accordo con lei, le parole hanno effetti ‘performativi’ sulla realtà, lei che è un insegnante userebbe mai la parola ‘negro’ in classe con i suoi studenti o proporrebbe mai loro di iniziare a usarla in maniera nuova perché originariamente il termine non aveva alcuna connotazione negativa? Detto questo, sono d’accordo con tutto quanto lei ha scritto in risposta a Buffagni.
    Penso che potremo iniziare a lamentarci della futilità di certe osservazioni ‘politicamente corrette’ quando la realtà avrà reso inutili le nostre cautele linguistiche.

    @ Roberto Buffagni
    Sul fatto che ‘negro’ non sia termine offensivo la rimando a quanto ho scritto in risposta a Lo Vetere. Lei crede che normalmente le persone usino le parole tenendo presenti le etimologie e i significati impliciti che esse contengono? Quando qualche settimana fa una consigliera di quartiere leghista di Padova si è augurata che il ministro Kyenge venisse stuprata e la sua bacheca di facebook si è riempita di ‘negra’, secondo lei quei commentatori hanno ragionato sulla traduzione mentale da ‘nigger’ o sulla etimologia latina del termine o sul suo significato originario non razzista?
    Quanto alla questione stato-nazione: l’Italia non è mai stata una nazione senza stato, semplicemente perché non è mai stata una nazione. Lo è diventata, un po’ artificialmente, col Risorgimento, con tutti i problemi che questo ha comportato.

    @ Lo Vetere e Buffagni
    Il mio cognome è SavEttieri

  21. Non è cortese far attendere troppo le repliche agli intervenuti, ma purtroppo in questi giorni sono di corsa. Rispondo quindi molto brevemente, scusandomene.

    a Daniele Lo Vetere.
    Ha ragione, non è proprio un’apertura diplomatica parlare di traditori e collaborazionisti; e sarebbe più opportuno non dire sempre tutto quel che si pensa. Mi scuso dello sgarbo, ma ormai la voce è dal sen fuggita, la formula rispecchia esattamente il mio pensiero, e smentire sarebbe metterci una toppa peggiore del buco. Abbia pazienza, e tolleri le mie intemperanze verbali come io tollero quelle altrui (non le sue, lei è sempre molto moderato e cortese).
    Quanto alla funzione simbolica e mediatica dei politici in ispecie oggi, concordo con lei. Il simbolismo di Berlusconi, ad esempio, richiama la grande tradizione italiana del varietà e dell’avanspettacolo, nella linea di Johnny Dorelli, Carlo Dapporto, etc. La ministra Kyenge, però, esprime un simbolismo tutto particolare: simboleggia una che non c’entra un tubo, un’ aliena rispetto a qualsiasi tradizione e identità nazionale italiana. E’ curioso, che la si metta al governo, non le pare? Diciamo che io domani vada in Congo, vi apra uno studio di chiropratica o lettura dei tarocchi, ottenga la cittadinanza congolese. Del Congo e dei congolesi so zero (ho letto “Cuore di tenebra”, to’), parlo correntemente il francese, non sono un criminale. Entro in politica nel Partito Democratico Congolese, il quale mi piazza al governo: ministro dell’integrazione. Rappresenterei senz’altro una buona occasione per alcune tonnellate di umoristici articoli di colore (bianco) sulla stampa internazionale, ma per gli elettori congolesi che cosa rappresenterei? (E qui, per scusarmi del fastidio che le ho provocato, le ho fatto un passaggio gol: piazzi il pallone nel sette).

    a Vincenzo Cucinotta.

    Concordo sillaba per sillaba con lei quando si pronuncia “contro un metodo che da’ nei fatti per scontato la totale apertura al commercio mondiale, al flusso dei capitali, al martellante tamtam multimediale di chi ha gli interessi ed i mezzi finanziari per bombardarci come meglio gli aggrada, puntando tutto sulle limitazioni alla mobilità umana.” Anzi: in ordine logico e politico, il nemico principale è proprio chi promuove il mondialismo come “totale apertura al commercio mondiale”. Gli immigrati non, ripeto *non* sono nemici del popolo italiano, per quanti disagi, costi e problemi possa suscitare la loro presenza. L’immigrazione va, a mio parere, limitata e scoraggiata, e comunque contenuta, perché:
    a) nessuna comunità politica e culturale tollera senza disgregazione e/o reazioni di rigetto, anche violente, la presenza di un grande numero di allogeni.
    b) l’emigrazione di massa è un grande male anzitutto per gli emigrati, che si sradicano, e per i paesi da cui provengono, che perdono così proprio la quota di popolazione di più fresche energie.
    Se ripensiamo al progetto di rapporto con i paesi del Levante in particolare, e con i “paesi in via di sviluppo” in generale che fu elaborato e attuato da Enrico Mattei, vediamo quale sarebbe la strada giusta e generosa da riprendere, per la nostra nazione (e ci viene un attacco di depressione o di furia omicida se la paragoniamo all’attuale politica mediterranea italiana, il capolavoro della quale è stata la partecipazione all’aggressione contro la Libia culminata nel macello di Gheddafi).

    a Eros Barone.

    Molto interessante la chiusa del suo intervento, quando invita a “discutere di altri due punti… il flusso di denaro che si muove in senso inverso (cioè le rimesse) rispetto ai flussi migratori e la crescente emigrazione italiana, provocata dalla crisi economica, verso i paesi euro-americani e i paesi del Terzo Mondo.”
    Io non ne so abbastanza per parlarne con serietà, e mi piacerebbe che lei o altri lo facessero.
    Quanto al resto del suo intervento, solo due note.
    Uno. Non sono nazionalista, né neo né vetero. Patriottismo e nazionalismo sono cose diverse, e per molti versi antitetiche. Preferisco il patriottismo.

    Due. Sono assai ignorante delle materie che lei brevemente illustra nel suo intervento. Non dubito che si tratti di argomentazioni fondate e rilevanti. Dal canto mio le ribatto una cosa sola: che una nazione e uno Stato non si costruiscono e non si difendono solo con le politiche economiche. Una nazione e uno Stato vivono, anzitutto, nella coscienza di chi compone la comunità nazionale e politica. Se muoiono nella realtà invisibile, muoiono anche nella realtà visibile.
    La comunità nazionale e politica, certo, non è esclusivamente una comunità d’origine, ma può e deve (sottolineo *deve*) essere una comunità di destino. Per essere una comunità di destino bisogna anzitutto accorgersi che un destino lo si ha, sceglierlo, e poi perseguirlo nonostante gli ostacoli e le battute d’arresto. Ci vuole dunque quel che la scienza politica chiama un “idem sentire” nella comunità nazionale. Non è facile, che nasca e prosperi in Italia questo idem sentire, se da un canto la classe dirigente non perde occasione per diffamare gli italiani, attribuendo loro in esclusiva mondiale le colpe e i difetti più meschini, squallidi e disonoranti, e dall’altro incrementa l’afflusso di popolazioni allogene, di costumi e cultura spesso diversissimi dai nostri: le quali, per comprensibili ragioni, nell’Italia vedono anzitutto un’occasione per sbarcare (con dura fatica) il lunario.
    Difficile, amare un avaro e duro padrone che dimostra, lui per primo, di disprezzarsi.

  22. a Cristina Savettieri.

    Mi scuso per il refuso che ha storpiato il suo cognome.
    Il suo giudizio sull’Italia come nazione artificiale o inventata è condiviso da alcuni. Non da altri e non da me. Come sa il dibattito sul tema è antico e vasto.

    Negro parola offensiva. In italiano non lo è. Se qualche becero la usa con l’intento di offendere, la cosa riguarda lui. C’è anche chi usa con intento offensivo le parole “italiano”, “cattolico”, “conservatore”, “militare”, tutte qualificazioni che mi si attagliano. Non smetto di usarle per questo, né vorrei che altri lo facessero. Quando una parola o una formula, di per sé neutre, vengono usate con intento di offendere, si capisce benissimo dal tono e dal contesto. Come può constatare rileggendo quanto ho scritto, non ho chiamato “negra” la signora Kyenge con l’intenzione di offenderla.

  23. Cara Caprara,
    ho apprezzato molto la sua risposta e, a differenza di altri, anche il fatto che abbia portato una sua esperienza. Come lei dice probabilmente ad un certo punto vinceremo e sottoscrivo quel che afferma sullo studio ad alti livelli, anche perché basta che una diciottenne pubblichi una lettera su un blog per essere testimoni di una repressione linguistica o culturale.

    Caro Buffagni,
    la ringrazio per i suoi preziosi commenti, ma ciò che mi preme è – intanto – rispondere soprattutto al primo. Tralasciando la prima parte che proprio non riesce a suscitare in me una risposta che sia costruttiva, poiché trovo il lessico anacronistico e la premessa inaccettabile, in quanto non applicabile di questi tempi, né in questi luoghi,
    ho aperto il link che ha allegato come argomento con interesse: non avrebbe potuto deludermi di più. Oltre ad essere infarcito di una spocchia e una frustrazione che lasciano un po’ basiti, temo di non riuscire a individuare né l’argomento sociologico forte che lei propugna e – temo – neanche qualche verità.
    Nello specifico e tralasciando gli elementi di frustrazione – siamo tutti costretti a leggere Sartori per sentirci individui completi e capirne di multiculturalismo? – trovo inappropriato la sua supponenza nei confronti del ministro Kyenge, la quale è sì un’oculista, ma non le manca un curriculum in fatto di integrazione e multiculturalismo, appunto. Dico questo evitando ogni elogio gratuito, non nutrendo una particolare simpatia per il ministro.
    Mi sembra naturale, inoltre, che la proposta di Sartori riguardo alla residenza permanente sia stata rifiutata, proprio perché creerebbe cittadini di diversa lega, come dice Piras. E non informalmente attraverso la burocrazia e la negazione della cittadinanza (quindi di un diritto), ma lo sancirebbe a chiare lettere e lo sottolineerebbe senza ritegno né coerenza con i principi costituzionali di uguaglianza. Temo, perciò, che abbia poco da lamentarsi.
    Inoltre come si può contrastare un’idea come quella del meticciato? Non è negabile neanche scientificamente. L’italia – in senso lato – è un paese meticcio, esiste forse una razza italiana? Non ci sono stati conquistatori di ogni origine? Lo stesso modello di “umano” è diffuso per tutta la penisola? E’ un’allucinazione che qualche calabrese o siciliano o napoletano sia in tutto dissimile esteticamente da un Brambilla o un Pautasso? Ma oltre a un aspetto del tutto superficiale come questo, non è stato proprio James Watson , bianco e razzista fino ad affermare che i neri son meno intelligenti dei bianchi, a scoprire che aveva il 16% di geni africani contro la media dell’1% degli europei?
    Per quanto riguarda il riferimento che fa allo ius soli/sanguinis non posso che ribattere che il diritto non è una questione di comodità: non si concede per nascita solo perché un paese è spopolato come poteva esserlo il nuovo mondo. La cittadinanza e il diritto a riceverla riguarda qualcosa di più alto che è inerente alla dignità umana e non può essere relegato a un semplice fatto di popolamento/spopolamento. Il che mi porta a ribadire sempre l’argomento portato da Piras: la cittadinanza non riguarda per forza i flussi migratori.
    Temo anche che la negazione del fattore di crescita conferito all’Italia dal lavoro degli immigrati sia campato per aria. Sarebbe divertente far sparire ogni immigrato dall’Italia all’istante per renderci conto di che fattore destabilizzante sarebbe. Non capisco come il lavoro degli immigrati c’entri con il fallimento degli imprenditori italiani, né condivido la maniera classista secondo la quale vengono individuati imprenditori di alto e infimo livello, non vedo come l’economia possa andare avanti solo con grandi imprenditori o tanti Marchionne. (credo siano note senza doverle riportare le ottime qualità del capitalismo italiano, la delocalizzazione delle industrie; la collusione con la politica)
    Il dato sui matrimoni da dove è stato preso? Per quanto mi riguarda mi sembra più frequente “mia figlia non si deve sposare con un arabo” che non il contrario, ma non mi sognerei mai di portarlo come dato di fatto, perché non lo so. Invidio chi ha la noncuranza di portare le sue idee come certezze, in modo non dissimile da una mia compagna che in prima superiore, durante un’ora di religione, proclamava a gran voce che il 99% degli italiani è cattolico.
    I casi e le situazioni sono diverse da persona a persona, e in un paese come questo in cui le unioni “miste” non sono così frequenti non so come si possa affermare una cosa del genere con certezza così granitica.
    Per quanto riguarda il riferimento storico non penso di poter entrare nel merito, perché non padroneggio abbastanza la materia, quel che posso dire è che ci sono casi nella storia nei quali stati e imperi islamici sono stati decisamente più tolleranti e pronti all’integrazione (di ebrei o cristiani) dei loro omologhi cristiani. (penso alla Spagna medievale o all’impero ottomano) Inoltre questa scelta non era dettata solo da una questione pratica (come poteva essere per la Prussia del ‘700), ma per l’Islam è un preciso dovere quello della “tolleranza” nei confronti della gente “del libro” (per la cronaca: terza sura, versetto 64. Per la cronaca 2: “cerca di persuadere”, non “metti al rogo”). E guardi un po’, fa parte proprio di quella cultura delle mie origini che secondo lei (Buffagni) tanto disprezzo.
    Mi chiedo quindi, in conclusione, se l’argomento sociologico di cui parla Sartori è “mogli e buoi dei paesi tuoi”, lascio a chi mi legge il compito di decidere se un’argomentazione sociologica basata solo sulla “saggezza contadina” sia valida.
    Temo che il più disintegrato qui sia Sartori e non gli studenti neri, gialli o verdi che forse hanno una percezione del reale più ponderata.
    Non amo l’auctoritas, né chi fa riferimento ad essa, però mi aspetto che sia quanto meno valida, soprattutto se serve come base e sostegno delle proprie opinioni in contrasto con quelle altrui.

    Come accennavo su, mi chiedo, carissimo Buffagni, dove esattamente nel mio testo ha letto “ll tono di disprezzo, di noncuranza e quasi di vergogna con il quale Ikram parla delle sue origini”, perché pur avendola scritta io, questa lettera, non riesco a rintracciare nulla del genere, né c’è qualcosa da fraintendere. Non c’è davvero materia da fraintendere, e dicendoglielo sorrido, perché l’accenno è così vago e così lampantemente privo di malizia o disprezzo che davvero non riesco a capirla.
    Le chiedo anche qual è il suo problema con il riferimento storico con cui concludo la lettera. E’ ovvio che io non volessi fare un testo storiografico sul Risorgimento e che non ho presentato tutto il quadro risorgimentale, ma sono sinceramente convinta che l’Italia si sia unita anche per motivi di necessità storica e che la figura di Cavour abbia avuto un ruolo di rilievo nel pilotare le varie forze politiche, e non, presenti in Europa ed in Italia. Questi due elementi di quel periodo storico mi son sembrati utili e calzanti per concludere la mia lettera. La necessità storica (nella mia metafora, dato che mi mette nella condizione di dover spiegar tutto eccetto la punteggiatura) è che in Europa e altrove, la questione della cittadinanza per le “seconde generazioni” – che pure è un termine che non condivido tanto e che funziona solo come categoria di comodo – non è più di attualità da un pezzo; mentre la domanda su Cavour è un gioco di semplificazione per chiedere IRONICAMENTE se ci voglia uno statista di quel tipo per poter superare questo anacronistico medioevo. Ma poi proprio in quel Risorgimento che mi chiede di ripassare ci sono una o due anime (ma diciamo di più) che credo si darebbero al suicidio stoico leggendo quello che lei presenta e difende proprio in nome loro. Farebbe una fine analoga Cavour se vedesse che l’Italia che lui tentava tanto di sprovincializzare si provincializza da sola in nome di ideali medievali, di sangue, fede e nazione intesa come feudo. Eppoi: che cosa c’entra il riferimento storico al Marocco? Mi illumini, perché non capisco. Ognuno sceglie dal suo bagaglio culturale ciò che ritiene più appropriato. Se fossi angolana mi avrebbe consigliato di rifarmi alla lotta di indipendenza contro il Portogallo salazarista (qualora le venisse in mente di correggermi: sì, Salazar era già morto)?
    Mi chiedo anche come si permette di elevarsi a giudice del grado di merito della o di una cittadinanza. Lei ha versato il sangue? E’ stato sulle barricate per potersi chiamare italiano e per poter agire da così fervente patriota? Il suo discorso mi ricorda la retorica con cui vengono infarcite affermazione come “chi è ricco se lo merita”, anche se lo sforzo per il raggiungimento della ricchezza è stato operato dagli avi. Il nipote che sorseggia gin tonic non ha fatto niente per aiutare il nonno a costruire la fortezza e tanto meno se la “merita”, se di merito si parla. Gode di qualcosa che non ha davvero conquistato. Come eredi di certi diritti – stando fermo il sentimento di gratitudine nei confronti di “coloro che hanno versato il sangue proprio e altrui” affinché le generazioni successive ne disponessero che si deve tradurre nel cercare di mantenere e rinnovare quei diritti – io vedrei più sensato l’affermazione perpetua del carattere universale di questi e non l’esclusione di altri da tale diritto, perché non fa altro che prendere la forma di un privilegio, cosa che svilisce l’intenzione con cui questi diritti sono stati conquistati.
    Non ritengo che si debba per forza versare il sangue per un diritto e ritengo fondamentale calare ognuno nel suo contesto. Se gli uomini di fossero fermati a confrontare ogni piccola lotta quotidiana con le grandi imprese ed eventi della storia, il mondo si sarebbe bloccato da un pezzo. I problemi vanno dimensionati. I ricercatori potrebbero fermarsi a pensare a quanto siamo miseri e a quanto poco possiamo pronunciarci sulla realtà rispetto ai grandi della scienza creando uno stallo all’interno del progresso umano e scientifico.
    Per rispondere all’ultimo punto: proprio perché non ho la cittadinanza percepisco la sua mancanza e andare in gita con le mie compagne non mi sembra una questione così marginale, non perché il motivo in sé sia assolutamente necessario, ma perché avendo fatto un percorso e una vita in tutto simile alle mie compagne non vedo perché ad un certo punto io debba essere messa un gradino sotto a loro o debba essere respinta in questo modo. Non è tanto la gita, ma il diritto negato a disporre liberamente di me stessa a farmi imbestialire. Non so in quale caso lei – che invece è cittadino e libero di muoversi – possa provare una condizione simile, forse solo nel momento in cui la rapissero, la incarcerassero o la dichiarassero insano mentalmente.
    Sinceramente una tale isteria nell’argomentazione delle proprie idee e una forza di ostentazione così grande la trovo solo in chi, consapevole di condividere la miseria umana di cui parlavo poco sopra, cerca in tutti i modi di rifugiarsi in una superiorità fittizia nell’illusione di far parte di un’aristocrazia del genere umano. Mi auguro per lei che non sia così.

    Caro cucinotta,
    l’unica cosa che vorrei dirle è che se trova la mia lettera lamentosa, me ne dispiaccio. Perché la mia intenzione era un’altra e come dice Tremoloso esprimo il mio spaesamento: non ho voglia di piagnucolare. Cose così fanno diventare furibondi e fanno venir voglia di lottare.

  24. @ Savettieri. Scusi per la storpiatura del cognome.

    Sull’usare o no in classe parole che per la strada sono usate come offesa, direi questo: sogno ancora una scuola che sia spazio di parola (silenzio, ascolto, riflessione), in cui, perciò, possa permettermi di usare “negro” e molte altre parole con l’avallo e la garanzia della mia presenza, della mia personalità etica, del mio tono di voce, dei miei gesti, dei miei discorsi tutti, che ne chiarirebbero immediatamente il senso. Se necessario, corredando il tutto con riflessioni sull’uso della lingua, sui suoi valori psicologici, sociali, performativi, poetici. Temo il politicamente corretto solo perché inautentico. A scuola dobbiamo provare ancora ad essere autentici. Ovviamente autentico non significa libero in assoluto, libero di fare e dire tutto quello che mi pare, sempre e comunque, e se gli altri non capiscono, il problema è loro. Mi pare un’altra forma di inautenticità, di dogmatismo. Dunque, insegnando a non aver paura di nessuna parola, inviterei anche a scegliere quelle giuste a seconda della situazione. Ci sono situazioni in cui le parole si usano come slogan, alla buona, semplicisticamente: in quei casi meglio tenersi ai codici sociali più stringenti, pure al politicamente corretto, diversamente si rischia di naufragare nell’incomprensione, nell’ostilità preconcetta e non si raggiunge lo scopo, che – sono d’accordo con lei – è performativo, fare delle cose con le parole, ad esempio farsi ascoltare o convincere.
    Quando però si parla, si parla davvero, allora è un’altra storia. Ritengo che LPLC sia un luogo in cui si possa ragionare distesamente, pacatamente, in cui eventuali fraintendimenti possano essere corretti ed eventuali dissidi composti, come stiamo facendo ora io e lei.
    Detto ciò, non mi incaponisco, se, per lei, la parola “negro” è inascoltabile, cercherò di non usarla. Ma è disponibilità verso l’interlocutore, non correttezza politica.
    Saluti

    Propongo alla commissione 10 per il secondo tema di Ikram. ;-)

  25. Cara Ikram,
    grazie per la risposta. Le assicuro che non trovo affatto la sua lettera lamentosa, anzi lei esibisce una bella prosa, anche se, al contrario di altri che non esitano un solo istante a dare i voti, non ho nè ruolo nè titoli per giudicarla. Dire che lei si lamenta di qualcosa, non significa dire che l’intera lettera abbia un tono lamentoso, credo che ciò fosse ovvio.
    Rimango tuttavia dell’opinione che le nostre esperienze in un ambito in cui tendono a fornire elementi su questioni di interesse generale, vadano preliminarmente filtrate dagli aspetti più individuali.

    Caro Buffagni,
    immagini di essere un medico. Le basterebbe curare una setticemia con un antipiretico?
    Voglio dire che sapere che la febbre deriva dalla setticemia, non può significare che basti abbassare la temperatura corporea per vincere l’infezione.
    La verità su cui mi pare concorda, è che le cause delle migrazioni stiano ben a monte, dipendano essenzialmente a ciò che noi facciamo ai paesi meno sviluppati come tipicamente all’Africa. Lì, esportiamo armi, imponiamo le monocolture, di recente sequestriamo gli stessi terreni agricoli (vedi i sauditi in Etiopia), esportiamo il nostro modo di vita tramite satellite, prendiamo tutte le risorse che possiamo, e poi vorremmo risolvere i problemi di migrazione bloccando le frontiere?
    O si ha un antibiotico adeguato per bloccare la setticemia, o quindi si genera nel corpo stesso del mondo sviluppato una politica capace di restituire agli africani quanto è loro, soprattutto la loro stessa cultura a cui attentiamo continuamente con la nostra invadenza culturale, oppure rassegnamoci a subire le migrazioni, visto che gli mostriamo un tavola imbandita e suscitiamo tali tentazioni: l’antipiretico no, non serve a nulla in questi casi.

  26. Cara Ikram,
    grazie per la risposta, e complimenti per la combattività.
    Sono in viaggio, ti replicherò entro un paio di giorni. Ti do del tu perché hai l’età di mia figlia, e darti del lei mi sembrerebbe un’affettazione. Se ti dà fastidio, avvertimi, e cambio registro. Ciao.

  27. Caro Buffagni,
    per quanto concerne i due punti che ho sollevato nella chiusa del mio intervento, e che hanno suscitato il Suo interesse, Le rispondo che, avendo vissuto per alcuni decenni in provincia di Varese ed essendomi scontrato con la Lega Nord su tutti i piani (da quello politico a quello culturale, da quello ideologico a quello giudiziario), ho dedicato una particolare attenzione al tema dell’immigrazione, cavallo di battaglia, come è arcinoto, del populismo leghista. Ho così scoperto, nel corso delle mie ricerche, che il denaro che viaggia dai paesi di arrivo dei migranti verso i paesi di origine supera di gran lunga la somma degli Ide (investimenti diretti all’estero) e degli aiuti allo sviluppo, sommati assieme. In altri termini, l’emigrazione dai paesi poveri e in via di sviluppo verso i paesi ricchi o verso i paesi di nuova industrializzazione finanzia lo sviluppo dei paesi di origine ben più del complesso delle misure di cooperazione, di assistenza e degli investimenti diretti di capitali privati. L’emigrazione, dunque, come un novello Re Mida trasforma in oro tutto ciò che tocca: i paesi di arrivo e i paesi di partenza. O almeno potrebbe farlo, se non fosse che gli enormi flussi finanziari prodotti dai redditi della popolazione migrante sono gestiti da altri soggetti: il sistema finanziario internazionale con le proprie banche o i singoli paesi, la cui azione raramente garantisce l’investimento mirato, soprattutto sociale, che sarebbe necessario per la loro crescita. Accade così che questa enorme massa di denaro, che si aggira sui 250 miliardi di dollari l’anno, affluisca, come un canale artificiale debitamente orientato, nel bacino di contenimento del capitale finanziario internazionale, oppure venga gestita in termini clientelari dalle istituzioni, spesso contrassegnate da ampi fenomeni di corruzione, dei singoli paesi. È lo stesso fenomeno che si è verificato nel secolo scorso con le rimesse dei siciliani o dei sardi o dei campani emigrati, che sono state gestite più da Milano e da Torino che da Palermo o da Napoli o da Cagliari. Il ritardo di sviluppo delle nostre regioni meridionali può essere letto anche in questa chiave: non solo sono partiti uomini e donne, ma sono ripartiti, o sono state malamente utilizzati, anche i capitali che questi uomini e donne avevano inviato ai luoghi di origine. In sostanza, i flussi dei capitali di ritorno in cambio dei flussi di risorse umane non sono sufficienti a riequilibrare la perdita netta di grandi possibilità di sviluppo. Sarebbe necessaria infatti un’altra condizione: che, accanto all’emigrazione di imponenti masse di persone e alla disponibilità di capitali derivanti dai loro redditi, si organizzasse l’immigrazione bilaterale, concordata e programmata, di masse, meno imponenti, di capitale umano qualificato dai paesi avanzati verso i paesi poveri e, parallelamente, di investimenti nei sistemi di ‘welfare’ locali che consentano la crescita dei sistemi di educazione, della salute, della piccola impresa familiare e cooperativa soprattutto in agricoltura ecc. Questa potrebbe essere una delle condizioni decisive che un governo orientato in senso progressista dovrebbe realizzare per consentire che le rimesse, provenienti dagli emigrati nei paesi ricchi, possano essere valorizzate ‘in loco’.
    Se si considera l’alto livello di disoccupazione intellettuale esistente nei paesi ricchi, questo tipo di immigrazione perequativa e bilaterale non solo sarebbe possibile, ma per molti potrebbe risultare perfino soggettivamente più coinvolgente della cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ da occidente ad occidente. Parallelamente, sarebbe necessario impegnarsi a stimolare le rimesse degli emigrati sulla base di accordi bilaterali o multilaterali che prevedano investimenti mirati allo sviluppo. Utopia, si dirà; ma l’utopia, come ebbe ad osservare una volta Victor Hugo, è “la verità di domani”.
    Per quanto concerne invece le considerazioni che Lei svolge a proposito della nazione come ‘comunità di destino’, ‘idem sentire’ ecc., non nego che esse abbiano una certa fondatezza soprattutto in un paese che soffre, come l’Italia, di una serie di ritardi storici nel processo di unificazione, ulteriormente aggravati dalla sconfitta dell’‘imperialismo straccione’ nella seconda guerra mondiale (con tutto ciò che ne è conseguito: crollo del fascismo, 8 settembre, guerra civile ecc.) e dagli effetti di lunga durata che tale evento ha prodotto. Tuttavia, mi permetto di osservare che un certo modo di concepire lo Stato nazionale e il relativo sistema dei diritti mi sembra mutuato più dalla categoria del populismo che da quella del patriottismo. E il populismo, per quanto appaia oggi politicamente rampante, è in realtà segnato, come ha giustamente rilevato Nicolao Merker nel suo saggio sulle “Filosofie del populismo” (2009), da un congenito difetto epistemico, quello derivante dalla contrapposizione tra generale e particolare, che, se può spiegare la sua momentanea incidenza di massa nella fase attuale caratterizzata dal disorientamento politico-culturale e dall’assenza di visioni complessive della società e della storia dotate di forza mobilitante, ne determina in modo altrettanto necessario quello che è il suo limite intrinseco e insuperabile. Quest’ultimo emerge non appena si considera il rapporto inversamente proporzionale che intercorre, nel concetto logico di ‘popolo’, tra l’estensione di tale concetto, che designa la ‘totalità’ degli oggetti che si riferiscono ad esso, e l’intensione, che designa soltanto uno o più oggetti che rientrano nella classe logica in parola. Così, in base al primo significato abbiamo il popolo come ‘demos’, mentre in base al secondo abbiamo il popolo come ‘ethnos’. È evidente allora che il ‘demos’, in quanto ha un significato estensivo, è anche inclusivo: ciò implica che una popolazione che ha un’identità comune in forza di un territorio comune, di una storia comune e di una lingua d’uso comune, nonché di istituzioni e di diritti comuni, ‘include’ anche l’‘ethnos’, ossia un popolo che ha caratteri più specifici, quali la razza, la religione e particolari diritti. Al contrario, il popolo in quanto ‘ethnos’ esclude costitutivamente da sé coloro (altri popoli) che non hanno tali caratteri, ossia non appartengono a quella razza, a quella religione ecc. Di conseguenza, chi vuole comunità aperte opterà per il popolo come ‘demos’, mentre chi le teme sceglierà il popolo come ‘ethnos’. Dal punto di vista economico, sociale e culturale dovrebbe essere altrettanto evidente (non solo la superiorità etica ma anche) la maggiore utilità politica, rispetto a quella ‘etnica’, della prospettiva ‘democratica’, che è in grado di produrre, soprattutto per la convivenza civile e per le generazioni future, risultati a lungo termine di gran lunga più vantaggiosi. È sufficiente chiedersi: utilità per chi e per quanti? In tal modo risulta palese come un certo concetto di popolo risulti utile a tutti e perché un altro concetto di popolo, quello ‘etnico’, venga adoperato per legittimare (non i diritti di tutti ma) i privilegi particolari di gruppi ristretti. Sempre a questo proposito, vi è poi da fare un’altra considerazione, e cioè che, da quando il genere umano esiste ed opera, la storia ha dimostrato che la strada maestra dell’incivilimento passa (non attraverso i recinti e i ghetti ma) attraverso le mescolanze e il meticciato, che è quanto dire attraverso l’universalizzazione dei diritti contrapposta alla istituzione dei privilegi per questa o quella razza, per questa o quella regione, per questa o quella classe.

  28. Ringrazio Ikram Labouini e Mauro Piras per avere pubblicato questo post e avere animato la discussione. Il post e i loro commenti non solo toccano un tema centrale oggi in Italia, ma lo fanno anche in un modo che trovo molto efficace. Trovo interessante ed efficace l’intreccio fra il discorso teorico e dei dati concreti: in questo caso il racconto di eventi ed emozioni che segnano una storia di vita.

    In particolare, nella lettera di Labouini questo intreccio permette di aprire il discorso a una riflessione sul rapporto fra emozioni, storie di vita, diritto e politica – è una riflessione che trovo molto interessante e su cui ha lavorato Martha Nussbaum e che è stata ripresa in Italia anche da Rodotà – anche se in un altro contesto.

    Un aspetto interessante di questa riflessione che emerge dalla lettera di Labouini e dalla discussione su LPLC mi sembra questo. Uno dei modi per tenere degli individui e delle categorie di individui in stato di minorità, è proprio considerare le loro emozioni e reazioni come trascurabili; si pensa di non dovere tenere conto di ciò che può offenderli e si pensa invece che le proprie reazioni siano sempre giustificabili. Basti pensare al tono aggressivo o condiscendente che spesso si usa, quando si parla delle vite degli altri – soprattutto se li si considera dei “minori”.

    So che è un aspetto non centrale del suo discorso, ma vorrei chiedere @ Labouini se può dire qualcosa in più sul rapporto fra emozioni, storie di vita, diritti e politica.

    Vorrei aggiungere una postilla metodologica, per non essere frainteso. Per ragioni professionali – insegno lingua e letteratura italiane come lingua e letteratura straniere -, mi trovo più a mio agio con gli aspetti qualitativi del discorso sulla società e le istituzioni; ma questo non vuol dire che non avrei trovato efficaci e decisivi anche i dati quantitativi.

  29. Cara Ikram,
    eccomi qua, scusa il ritardo. Comincio dal principio della tua replica.
    1) L’argomento di Sartori.
    Siamo d’accordo che Sartori è antipatico, spocchioso, e sgarbato con la signora Kyenge. Ti dirò anzi che ho fatto male a citare il suo articolo. Le cose dette da Sartori avrei dovuto ridirle meglio io, con le mie parole, e mettendo in rilievo quel che pare più importante a me, che è diverso da quel che pare più importante a lui. Andavo di fretta, e ho messo il link per fare prima. La fretta è una cattiva consigliera. Non sono però campate per aria, le cose che dice Sartori. Te le ripeto, stavolta mettendoci del mio, così le critiche le rivolgi direttamente a me.

    a) L’Italia è un “paese meticcio”, come dice la ministra Kyenge?
    No, in effetti non lo è. L’Italia è una nazione etnicamente compatta. Con questo, intendo semplicemente che, al contrario di quanto avviene ad esempio in Brasile o in Libano, in Italia la mescolanza etnica, sia nella forma di frequenti matrimoni misti, sia nella forma della convivenza di diverse etnie, è una realtà marginale. Ci sono, certo, milioni di immigrati, appartenenti a popoli diversi, che risiedono in Italia: tra i quali, tu e la tua famiglia. Non per questo appartenete automaticamente al popolo italiano: ne siete ospiti, come io e la mia famiglia saremmo ospiti del popolo marocchino se emigrassimo là.
    Sto parlando di etnia, e non di razza. Il concetto di etnia non è identico al concetto di razza, perché si basa sulla storia di un popolo, l’identità del quale si forma nella secolare comunanza di lingua, religione e cultura, mentre il concetto di razza cataloga i popoli in base alle caratteristiche somatiche: criterio che, ci dicono i biologi, non ha fondamento scientifico, perché tutti i geni sono presenti in tutte le popolazioni, anche se in proporzioni diverse.
    Che l’Italia non sia un paese etnicamente meticcio non è un bene o un male; è un fatto, un risultato della storia italiana: da molti secoli l’Italia non viene conquistata e abitata in permanenza da popoli di diversa etnia; le conquiste coloniali italiane sono poche e di breve durata rispetto alle francesi e inglesi; insediamenti di altri popoli quali quello, nella Piana degli Albanesi, di seguaci e parenti del principe Skanderbeg sono rari; il Sudtirolo/Alto Adige è un piccolo acquisto territoriale, e recente; e grazie a Dio, l’Italia non ha mai importato masse di schiavi.
    L’affermazione della signora Kyenge che l’Italia è “un paese meticcio” è dunque sbagliata, e sembra piuttosto proporsi come una prescrizione (“l’Italia *deve diventare* un paese meticcio”), visto che come descrizione non descrive la realtà dei fatti. L’affermazione “l’Italia è un paese meticcio” è esatta solo nel senso razziale, se si intende la razza nell’accezione scientifica che ci propone la biologia; ma in questo senso è esatta per l’Italia come per tutti i paesi della terra, perché da quando Adamo ed Eva uscirono dall’Eden, in nessun luogo del mondo esiste la “purezza razziale” biologica. Le scienze biologiche e la (inesistente) purezza razziale non c’entrano niente con quel che fa di un’etnia un’ etnia, di un popolo un popolo, di una nazione una nazione, di uno Stato uno Stato, che sono la storia, la lingua, la cultura, la volontà e le armi. Qui nessuno, né io né Sartori, definisce il popolo italiano conteggiandone i geni, o scrutinandone la purezza razziale. Il candeggio biologico lo lasciamo alla lavatrice.
    Togliamo dunque di mezzo la faccenda della razza e del razzismo, che almeno nella discussione fra noi due non c’entrano niente. Tu sei musulmana, non so se credente ma certo per cultura; io sono cristiano cattolico. Dunque, né per te né per me è accettabile il razzismo. Tutti gli uomini hanno pari dignità davanti a Dio, che Lo si creda Uno o Trino, che si veneri Gesù come grande profeta o Lo si adori come Figlio di Dio.

    b) L’immigrazione è un fattore di crescita economica per l’Italia?
    Negli ultimi decenni, l’immigrazione in Italia e in generale in Europa è stata favorita e promossa, da chi ne aveva il potere e l’interesse, allo scopo principale di creare un “esercito di riserva” di manodopera disposta, per dura necessità, ad accettare salari e condizioni di lavoro molto peggiori di quelle faticosamente conquistate nei decenni precedenti dai lavoratori italiani ed europei: una manodopera che così fa dumping – concorrenza al ribasso – sul mercato del lavoro ai lavoratori italiani. Scopo: dividere e indebolire politicamente i lavoratori, deprimere i salari, tagliare lo Stato sociale, accrescere i profitti. All’immigrazione si è accoppiata, nel quadro del progetto mondialista e delle sue direttive, la libera circolazione dei capitali, con il correlato delle delocalizzazioni, delle svendite del patrimonio industriale italiano, etc.
    In sintesi io direi che l’immigrazione è senz’altro un fattore di crescita dei profitti economici di chi la sfrutta: un fattore di crescita economica per l’Italia nel suo insieme, non so e non credo. Poi, certo: se domani qualcuno, sventolando la bacchetta magica, facesse “sparire ogni immigrato dall’Italia all’istante”, sarebbe “un fattore destabilizzante”. E che cosa c’entra con il nostro discorso, che riguarda i modi e le ragioni della concessione della cittadinanza agli stranieri in generale, e a te in particolare?
    La responsabilità politica delle tensioni sociali e culturali che conseguono all’immigrazione non è degli immigrati, ma dei centri direttivi del mondialismo, di chi lo asseconda e di chi ne profitta: che non siete voi. Purtroppo, voi vi si vede molto bene; le direttive mondialiste e i trasferimenti di capitale, si vedono molto male. Così, il risentimento degli italiani che vedono peggiorare le loro condizioni di vita spesso si indirizza contro di voi. Sbagliano, quegli italiani? Sbagliano, ma per correggerli non basta intimargli di credere contro l’evidenza che l’Italia è una nazione meticcia: anzi.
    2) “La cittadinanza e il diritto a riceverla riguarda qualcosa di più alto che è inerente alla dignità umana e non può essere relegato a un semplice fatto di popolamento/spopolamento”.
    Qui ti sbagli. La cittadinanza è la conferma giuridica e politica dell’appartenenza a uno Stato e al popolo (o ai popoli) che gli ha dato vita, e non dell’appartenenza all’umanità (che è un concetto religioso e filosofico, non una formazione storico-culturale come un’etnia, o politica come uno Stato). Per appartenere all’umanità ed essere titolari della dignità che va universalmente riconosciuta a ciascun uomo, basta nascere uomini e non animali o piante; e non esiste provvedimento giuridico o politico che possa certificare l’umanità di un uomo. (Nella storia si è invece dato il caso, purtroppo, di provvedimenti giuridici e politici che hanno certificato la *non-umanità* o la *subumanità* di alcune categorie di uomini: in base alla razza, alla classe sociale, etc.).
    Come potrebbe esistere un diritto “inerente alla dignità umana”- cioè universale, spettante a ogni essere umano – a fare parte di un popolo diverso da quello a cui si appartiene per nascita? Un diritto universale a scegliersi il popolo come si sceglie un abito, uno Stato come si sceglie un posto di vacanze? I popoli e gli Stati sono, per definizione, determinazioni particolari, e non universali; come lo sono, ad esempio, le famiglie: e le determinazioni particolari da un canto includono, dall’altro escludono. Tu appartieni, come me, all’umanità, ma della tua famiglia e del popolo marocchino fai parte tu, non io: e viceversa.
    Si può certo entrare a far parte di una famiglia o di un popolo diverso dal proprio, e integrarvisi. I casi più frequenti di integrazione in una famiglia o in un popolo diverso sono il matrimonio, o l’adozione. L’integrazione dello straniero in un popolo può avvenire per mezzo di un processo di progressiva assimilazione ed elaborazione personale di lingua, tradizione, valori e costumi del popolo che lo ospita; un percorso non immediato e non facile, che ricalca il processo di integrazione attraverso l’educazione familiare e sociale normalmente esperito da chi in seno a quel popolo nasce. Il senso della concessione della cittadinanza è: confermare giuridicamente e politicamente l’avvenuta integrazione dello straniero in un popolo e in uno Stato diversi da quelli a cui apparteneva, di solito per nascita. La concessione della cittadinanza rende colui che, fino a un istante prima, era un ospite straniero, anche formalmente partecipe dei diritti e doveri politici, e del destino storico, che a quel popolo competono; ed esige, per compiersi, che vi sia consenso delle volontà di entrambi: dello straniero che non vuole più esserlo, e del popolo che lo accoglie non più come ospite ma come suo membro a pieno titolo.
    Tu hai vissuto in Italia quasi tutta la tua vita, conosci molto bene la lingua, frequenti (senz’altro con ottimo profitto) le scuole italiane, “la *tua* cultura, le *tue* letture, i *tuoi* modi” sono quelli dei tuoi coetanei e amici italiani; e desideri essere cittadina italiana. Hai dunque, in effetti, compiuto quel processo di integrazione di cui parlo più sopra. Non puoi ricevere immediatamente la cittadinanza italiana, perché la legge prevede la residenza ininterrotta su suolo italiano per i primi diciotto anni di vita, mentre tu, per due anni, sei tornata in Marocco. Capisco che per te sia spiacevole, ma ogni legge che stabilisca termini temporali per l’esercizio di una facoltà ha un elemento arbitrario: perché si può prendere la patente a diciotto anni e non a diciassette e undici mesi? Perché il cittadino italiano può votare per il Senato a venticinque anni e non a ventiquattro o ventisei?
    Potrai comunque ricevere la cittadinanza italiana per “naturalizzazione”, che si concede a chi risieda legalmente in Italia da almeno dieci anni e non abbia carichi penali pendenti (che non è certo il tuo caso). Se sei nata in Italia, il termine è più breve (non ricordo di quanto). Insomma: mi dispiace per il fastidio in cui incorri, ma la legge italiana non ha violato né i tuoi diritti di ospite straniera, né la tua dignità di essere umano (la quale non dipende dalla concessione della cittadinanza italiana).
    Quanto alla questione “popolamento/spopolamento”, anche qui, la dignità umana e i “valori più alti” non c’entrano. C’entra un’elementare considerazione di opportunità. Concedere automaticamente la cittadinanza a chiunque nasca all’interno dei confini di un paese favorisce e incoraggia l’immigrazione straniera. Se una nazione ha molti disoccupati autoctoni, per quale motivo dovrebbe favorire l’immigrazione? Per alimentare una guerra per i posti di lavoro fra poveri indigeni e poveri stranieri? Il caso contrario degli Stati Uniti d’America, addotto anche da Sartori, è esemplare. In un paese selvaggio, vasto quanto un continente, assai scarsamente popolato, che i primi europei colà stabilitisi volevano colonizzare, la concessione della cittadinanza statunitense con il criterio dello ius soli servì a incoraggiarvi l’immigrazione di massa. L’impresa di colonizzazione è riuscita; con il danno collaterale del genocidio subito dalle popolazioni amerinde, ma è riuscita.

    3) “Ci sono casi nella storia nei quali Stati e Imperi islamici sono stati decisamente più tolleranti e pronti all’integrazione (di ebrei o cristiani) dei loro omologhi cristiani”[…] inoltre questa scelta non era dettata solo da una questione pratica […], ma per l’Islam è un preciso dovere quello della ‘tolleranza’ nei confronti della ‘gente del libro’”.
    Verissimo. Però Il Corano che ho io (la traduzione di Roberto Hamza Piccardo), al v. 64 della terza sura che citi, recita così : “Di’: ‘O gente della Scrittura, addivenite ad una dichiarazione comune tra noi e voi: [e cioè] che non adoreremo altri che Allah, senza nulla associarGli, e che non prenderemo alcuni di noi come signori all’infuori di Allah ”. A suffragio della tua affermazione conosco altri versetti, ad esempio il v. 62 della seconda sura: “In verità, coloro che credono, siano essi giudei, nazareni o sabei, tutti coloro che credono in Allah e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti.”
    Nel Vangelo, Gesù (“In verità, per Allah Gesù è simile ad Adamo, che Egli creò dalla polvere, poi disse: ‘Sii’, ed egli fu.” Terza sura, v. 59) dice addirittura “A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano” [Lc. 6,27-38].
    Subito dopo la conquista di Costantinopoli e il massacro della sua popolazione per opera delle armate di Mehmet II, la dieta di Ratisbona, convocata nell’ottobre del 1453, auspica una mobilitazione dell’Europa contro i Turchi. Nicola Cusano viene invitato a partecipare all’organizzazione di una crociata militare. La sua risposta è il “De pace fidei”, “atti” di un dialogo religioso e filosofico fra un greco, un italiano, un arabo, un indù, in quel che Nicola chiama “Il Concilio celeste”. Composto negli ultimi mesi del 1453, il “De pace fidei” raccomanda il confronto pacifico fra i cristiani e i musulmani, fra l’Occidente e i Turchi. Nota bene che Cusano non era affatto un ingenuo utopista. Oltre ad essere un grande filosofo e umanista che in vita fu fatto cardinale, e dichiarato dopo la morte Dottore della chiesa, fu ambasciatore a Costantinopoli e in Germania, e comandò le truppe pontificie all’assedio di Foligno.
    Quanto precede, per concordare pienamente con te: sì, nella tua religione, e anche nella mia, sia nelle Scritture che riteniamo rivelate, sia nelle elaborazioni teologiche e filosofiche dei credenti, è chiaramente indicata la via alla “tolleranza” reciproca, e non solo alla “tolleranza” ma alla pace e alla concordia.
    Poi, c’è il mondo dell’effettualità storica; quello che s’inaugura dopo la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, e dove Iblis è principe; dove insomma le cose non sempre vanno come prescrivono i testi sacri, e sperano e ci indicano con le loro opere e il loro esempio gli uomini santi. Non ti sto ad illustrare gli episodi antichi e recentissimi di inimicizia e crudeltà tra popoli diversi, perché li conosci già.
    E’ certo vero che l’affetto e la solidarietà che legano i membri di un popolo tra di loro si tramutano spesso in inimicizia e odio per i popoli stranieri: il che dipende dal fatto, da sempre noto, che nel cuore umano la radice dell’odio e dell’amore è la stessa. E’ possibile, per popoli diversi, vivere insieme nel medesimo organismo politico? Certo che sì. Non è facile, ma è possibile. Nell’esperienza storica del nostro mondo abbiamo due grandi esempi di Imperi multietnici e multireligiosi: l’Impero Ottomano, e l’Impero Austriaco (poi Austro-Ungarico). Non è casuale che Impero Austriaco ed Ottomano siano la risultante politica del lunghissimo conflitto fra la Cristianità europea e l’Islam. Sulla mobile linea del fronte dove si combatteva quella lunga guerra – anzitutto nei Balcani – persone, popoli e regioni intere passarono, più volte, di qua e di là. Il Principe Giorgio Skanderbeg che ho nominato più sopra, per esempio, un albanese cristiano ortodosso, fu nella prima parte della sua vita condottiero agli ordini della Sublime Porta (fu il sultano a dargli l’appellativo onorifico di Skanderbeg, cioè “Iskander Bey”, che allude al grande conquistatore macedone); per poi mettersi a capo del suo popolo cristiano, e guidarlo, senza fortuna, in guerra contro i Turchi.
    Per necessità storica di integrare diversi popoli e diverse religioni, Impero Ottomano e Impero Austriaco hanno preso a somigliarsi, nelle strutture, sempre di più. Entrambi furono imperi il cui sovrano aveva legittimazione trascendente e religiosa (grazia di Dio e cattolicesimo, discendenza dal Profeta e Islam), guidati dall’aristocrazia di un popolo dominante (austro-tedesco, turco) a cui erano gerarchicamente subordinate le altre etnie, alle quali il centro garantiva, con un minuzioso sistema di precedenze, franchigie, libertà, e partecipazione (limitata) alla vita politica comune.
    E’ un grande male per il nostro mondo – il tuo e il mio – che Impero Ottomano e Impero Austro-Ungarico siano stati distrutti e frammentati, anzi sbranati, nella Prima Guerra Mondiale. Ricostruirne oggi un analogo, non credo sarebbe possibile: per tanti motivi, tra i quali mi sembra prevalere questo. Che per tenere efficacemente e pacificamente insieme tanti popoli diversi, e lontani per religione e cultura e storia, ci vorrebbero proprio un sistema di credenze e delle strutture politiche simili a quelle antiche gerarchie, nelle quali le comunità riuscivano (non sempre, e non senza conflitti e fatica) a ricondursi a unità rapportandosi a un centro imperiale che le guidava e le moderava. L’egualitarismo democratico moderno, in ragione del quale un uomo, comunque nasca pensi senta e creda, vale un voto, funziona quando all’eguaglianza formale corrisponda, almeno in parte, un’eguaglianza sostanziale nella cultura, nelle aspirazioni e nei valori. Altrimenti, tende a succedere quel che abbiamo visto accadere nell’ex Jugoslavia, o nei paesi africani disegnati con riga e squadra, senza tenere conto delle realtà etniche e religiose, dalle potenze coloniali: che i partiti politici si formano secondo le linee di divisione etnica, e il conflitto democratico facilmente si trasforma in (raccapricciante) guerra civile fra etnie.
    4) “mi chiedo…dove esattamente ha letto ‘Il tono di disprezzo, di noncuranza e quasi di vergogna con il quale Ikram parla delle sue origini’ “
    L’ho letto in questa tua frase: “La sconfitta resto io, che ho addosso una nazionalità – quella marocchina – che non descrive la mia cultura, le mie letture, i miei modi, pur tenendo fermo che quelle sono le mie origini, che però non possono descrivermi completamente, non possono offrire un quadro realistico di me”.
    Quel tuo “ho addosso”, detto a proposito della tua nazionalità marocchina, non mi è piaciuto; anzi, mi ha infastidito, e irritandomi mi ha portato a formulare la mia argomentazione “con una tale isteria…e una forza di ostentazione così grande” che tu trovi solo “in chi sia consapevole di condividere la miseria umana” e “cerca in tutti i modi di rifugiarsi in una superiorità fittizia nell’illusione d far parte di un’aristocrazia del genere umano.”
    Perché mi ha irritato leggere che tu senti di “avere addosso” la tua nazionalità marocchina, che ti infastidisce e ti impastoia come un abito della misura sbagliata? E che dunque la vorresti gettare via il più presto possibile, per sostituirla con la nazionalità italiana che meglio descrive “la *tua* cultura, le *tue* letture, i *tuoi* modi? Perché sento che come te la pensano, a proposito stavolta della nazionalità italiana, molti, troppi italiani, tuoi coetanei e no: i quali, non avendo il problema del passaporto, in buona sostanza di appartenere al popolo italiano sì e no se ne accorgono, e quando se ne accorgono non gliene può fregare di meno, come si dice a Roma.
    Lì per lì, leggendoti e commentando la tua lettera, non me n’ero accorto. Però, leggendo la tua replica e ripensandoci, vedo che è proprio così. Ecco il perché della “isteria” dei miei commenti, delle parole grosse come “traditori”, “collaborazionisti”, eccetera. Perché per me, questa “noncuranza” o addirittura “disprezzo e quasi vergogna” di tanti italiani (non tutti, per fortuna) per il loro popolo e la loro nazione è un vero, personale dolore, e al dolore spesso si reagisce con la rabbia. La mia famiglia e io stesso siamo legati, da molte generazioni, alla nazione italiana: è la nostra casa. Un mio antenato fu martire dei moti risorgimentali; altri hanno combattuto nelle Forze Armate italiane; qualcuno ci ha perduto la vita; io stesso, indossando la divisa, qualche gocciolina di sangue l’ho versata (sulle barricate risorgimentali non ci sono salito, sono vecchio ma non abbastanza vecchio da essere un reduce delle Cinque Giornate di Milano).
    Ho un’età in cui ci si comincia a preoccupare seriamente di che cosa si lascerà ai figli, dopo la morte. L’Italia che lascio, che lasciamo ai nostri figli mi sembra una casa meno solida, meno abitabile, meno bella di quella che lasciarono a me, a noi, i nostri padri (e che già aveva parecchie crepe). Chi riceve un’eredità preziosa dovrebbe trasmetterla ai figli almeno intatta; se invece non la curi, la svendi, la lasci andare in malora, al momento di fare il rendiconto o il testamento ti viene un gran freddo nelle ossa, cara Ikram. Tu che sei giovanissima non lo puoi sapere, ma tuo padre di certo lo sa.
    Ecco che cosa voleva dire il mio piccolo apologo del nonno che costruisce la fortezza e del nipote che la trascura e si ritrova a fare il servo in casa sua. Certo, non è sempre necessario versare il sangue, per difendere e conservare una nazione o un popolo o uno Stato (e tutti speriamo che necessario, lo sia molto di rado o mai). E’ però necessario, sempre, rispettare la casa propria e dei propri vecchi, e conservarla in buone condizioni, e se possibile migliorarla e consolidarla. Temo che noi italiani non l’abbiamo fatto, e me ne dispiace molto. Non fare così anche tu.
    Ti ringrazio di questo dialogo, che mi ha fatto pensare molto, e ti auguro tutte le buone cose che desideri e meriti. Un saluto affettuoso.

  30. @ Buffagni

    Capisco che la cosa ti sta a cuore, ma credo che c’è un punto che sostieni con il quale non si possa essere d’accordo. Il punto dell’appartenenza. Forse non te rendi conto, o magari mi sbaglio io, ma concettualmente replichi il concetto di razza, cambiandolo in etnia, popolo, famiglia. Le razze non esistono perché volendo ce ne possono essere a iosa, quindi non ha senso parlarne, ma se uno vuole, arbitrariamente, di razze ne trova, come appunto di popoli, basta spostare l’asticella della differenza. L’appartenenza che tu vorresti riconosciuta è un’imposizione inaccettabile. Ognuno si sentirà di far parte in un certo modo, ma certamente non si appartiene per nascita ad alcunché.

  31. a Dfw vs Jf

    Grazie (sul serio) per la comprensione, però guarda che la tua idea che nascendo non si appartenga ad alcunché è un’idea tutta tua, e anche piuttosto strana.
    Tu nasci, e non appartieni a una famiglia? (che puoi respingere e odiare, ma è sempre la tua famiglia); a un popolo? (che può anche farti schifo e contro il quale puoi combattere irrorandolo di napalm, ma è sempre il tuo popolo); e per finire non appartieni alla specie umana? (alla quale puoi preferire i platelminti, ma è sempre la tua specie).
    Siamo definiti e determinati dalla nostra origine, e dal destino o se preferisci dal progetto di vita che scegliamo, che quell’origine può volere o negare: siamo liberi, ma siamo liberi solo a partire dalle nostre determinazioni (ripeto: accettate o respinte).
    L’origine sarà anche una imposizione (non mia, rivolgersi ai piani superiori), nel senso che non la scegliamo su un catalogo prima di nascere; ma senza di essa, semplicemente non esistiamo.
    L’origine non è tutto, e la volontà non è tutto. Le etnie e i popoli esistono, e volente o nolente ne hai uno anche tu. Poi tu dici, siamo tutti uguali, le differenze sono imposizioni. Bè, mi sembra un vasto programma di liberazione…

  32. Caro Barone,
    grazie per la sua risposta, come sempre interessante e ben argomentata. Vorrà scusarmi se non le replico subito. Sono in viaggio, e ho preferito impiegare il poco tempo disponibile anzitutto per rispondere a Ikram. Cordiali saluti.

  33. Vedo che sono costretto a “giocare” per conto mio, non potendo convenire con due opposti punti di vista che trovo gravemente errati.

    Da una parte, c’è la rispettabile posizione di Buffagni che iniste sul concetto di identità, apparentemente senza accorgersi che le identità sono a rischio di distruzione nel mondo contemporaneo, ed ormai si tratta di un fenomeno pluridecennale, e quindi in avanzato stato di realizzazione. L’effetto congiunto dello sviluppo tecnologico e della logica predatoria capitalista ha reso la civiltà occidentale, quella oggi più tecnologicamente sviluppata, invadente oltre ogni limite immaginativo. Come dicevo nell’intervento precedente, con la potenza della trasmissione satellitare, la nostra ideologia riesce a penetrare nei luoghi più remoti e sperduti della terra (per la verità, tentiamo di espandere i nostri segnali anche nello spazio, non ci facciamo mancare proprio niente). E’ evidente che certi contenuti culturali convivono con i nostri, che le tradizioni locali non vengono estirpate di colpo, ma il messaggio vincente è il nostro. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto culturale di lunga durata, i cui risultati si rendono evidenti in tempi non brevissimi, ma il cammino è quello, bisognerebbe essere ciechi per non vederlo.
    Se uno si chiedesse perchè le migrazioni che oggi osserviamo, non c’erano anche soltanto pochi decenni fa, a mia memoria sono fenomeni divenuti quantitativamente significativi solo nella seconda metà degli anni novanta, la risposta non può che essere perchè solo allora la tecnologia delle comunicazioni c’ha fatto arrivare dove prima eravamo esclusi se non con la nostra stessa presenza fisica. Il processo di depredazione delle risorse materiali era già in atto da tempo, la monocoltura si è diffusa da forse già un secolo, ma mancava l’ultimo decisivo tassello, quello dell’esportazione della nostra cultura. Alle folle affamate che si accalcano attorno al palazzo, abbiamo mostrato in diretta il nostro lauto pasto in tutti i suoi particolari più attraenti (per un affamato, s’intende), ed adesso essi vogliono entrare nel palazzo a condividere questa abbondanza: questo è ciò che conta, il resto è dettaglio.

    Dall’altra parte, vedo coloro che anche per motivi anagrafici, sono vissuti nell’ideologia liberale che hanno così profondamente assorbito, fino a scambiarla con l’unica verità possibile.
    In particolare, l’intervento di Dfw vs Jf è disarmante, egli nega di essere un individuo concreto, l’hanno così bene convinto che crede che egli si stia costruendo da sè. Come questo si concilii con l’esperienza dei limiti del proprio corpo ad esempio, o con la comune credenza sul fatto che ognuno di noi dispone di un proprio unico patrimonio genetico che credo egli condivida, non è chiaro. Come non è chiaro come sia possibile conciliare questa potenzialità assoluta che egli rivendica, implicita nel negare la propria specifica determinazione, col fatto che egli essendo nato in Italia da genitori italiani (suppongo), parla in italiano, probabilmente gesticola più degli stranieri, tutto ciò che siamo e facciamo è così strettamente legato a dove e da chi siamo nati, che solo un furore ideologico illimitato può portare a questa totale cecità.
    Così, seppure siamo esseri liberi, sono tanti e tali i condizionamenti sociali che subiamo, essendo esseri sociali, che le differenze interindividuali sono così tenui da potere essere apprezzate solo da chi vivendo in questa società, sconta già in partenza le caratteristiche comuni. In verità, nessuna società potrebbe vivere se ognuno si comportasse liberamente, l’esistenza stessa di un’entità sociale è possibile, e quindi presuppone, uno spazio della libertà individuale minimo, anche se ciascuno di noi naturalmente considera questo spazio minimo come massimamente importante.

    Se quindi contrapponiamo un vuoto cosmopolitismo di tipo liberale, quello che efficacemente Buffagni illustrava con l’uomo vuoto pronto ad essere riempito di paglia e chiacchere, a una costituzione di stati in base a identità nazionali ormai ridotte all’osso dal globalismo culturale imperante e quindi quasi inesistenti, se cioè non comprendiamo questa dittatura dell’economia, per cui gli uomini vengono totalmente condizionati da un infernale meccanismo di accumulazione di ricchezze, perfino fittizie se necessario (vedi la massa di cartaccia finanziaria che sta sommergendo l’attività produttiva e la stessa possibilità di sopravvivenza umana), non ne usciamo più. Dobbiamo fermare chi comanda, non chi viene indotto da quel potere imperante a comportamenti che potrebbero danneggiarci.

  34. Caro Cucinotta,
    scusandomi della concisione dovuta alla fretta, preciso: me ne sono accorto sì, che “le identità sono a rischio di distruzione nel mondo contemporaneo, ed ormai si tratta di un fenomeno pluridecennale, e quindi in avanzato stato di realizzazione”; e proprio per questo insisto con la mia posizione a difesa dei popoli, delle identità e delle differenze.
    Aggiungo poi che nei panni di chi vuole distruggere le identità, aspetterei un bel po’ prima di vendere la pelle dell’orso, animale robusto e ben provvisto di denti e artigli, in genere pacifico ma se provocato assai combattivo e pericoloso.

  35. @Buffagni
    solo lei ha interpretato quel “ho addosso” come un pensiero negativo di Ikram nei confronti delle sue origini.. era chiarissimo il pensiero della ragazza, siamo noi semmai a sovrastarla e schiacciarla utilizzando le sue origini per imporle, con l’arma legislativa, la sua estraneità al popolo Italiano, siamo noi con le nostre leggi anacronistiche, vecchie, decrepite, che siamo in grado di conferire un peso alle sue origini. La legge c’è e va rispettata, ma va aggiornata, e non vi è legge che lo neghi, per non offendere la dignità umana di un italiana che è cresciuta e si è formata “egregiamente” in italia.

    Questa Italiana è il futuro positivo dell’italia, un Italia che ci viene lascia sfregiata e annichilita da anni di “falso amor patrio”.

  36. No, io non appartengo affatto, né alla mia famiglia né alla specie o al regno animale o all’insieme di tutti gli esseri viventi. Non perché odi la famiglia o il popolo, in nessun senso, ma perché non li riconosco come fondativi di qualcosa di speciale in quanto tali. Io condivido, partecipo. Ovviamente mi sento più affine e provo sentimenti per le persone a me vicine, e non per altre, ma non in base alla loro appartenenza. Visto che siamo in un sito letterario il paragone è con i generi letterari e con il concetto di letteratura stessa. Tanto è vero che nel parlare comune si dice spesso “tizio non è uno scrittore”, “tale opera non è letteratura”, “letteratura con la L maiuscola”; oppure “è un giallo, un noir, fantasy” eccetera, riducendo l’opera alla sua appartenenza Espressioni che rivelano uno schema mentale che ha sì la sua giustificazione per come ci siamo evoluti, ma che va preso con le pinze.

    Poi @ Cucinotta, non vedo cosa c’entri il liberalismo, ma probabilmente hai solo frainteso il mio intervento, perché non nego affatto ciò che mi dici starei negando; non credo neanche nel libero arbitrio. Nego semmai la specifica determinazione e la sua rilevanza, nel senso che è arbitraria. E le società, anche quelle animali, esistono perché siamo fatti in questo modo, non perché ne siamo consapevoli. Ma questo non vedo cosa c’entri.

    Su migrazioni e conflitti culturali poi, la vedi un po’ a senso unico. Ti consiglio questo:

  37. Trovo che il dichiarare il proprio orgoglio di essere…italiani, tedeschi, americani, padani ecc. ecc. sia una manifestazione di inguaribile egocentrismo. Eppure basta una semplice riflessione razionale per rendersi conto del fatto che non ha senso dichiararsi orgogliosi di qualcosa che non si è scelto e il cui verificarsi non è dipeso da noi. Ad un fatto del tutto contingente, il nascere in un determinato luogo, vengono attribuiti, per un verso, i caratteri di una realtà metafisica di ordine superiore (‘Deutschland über alles’) e, per un altro verso, la natura propria di un oggetto di scelta personale (ma di quale scelta è possibile parlare, quando non esiste un’alternativa?).
    Il primo comportamento, ossia l’attribuire un carattere metafisico ad un fatto contingente, dà luogo, così, ad una proiezione paranoica di carattere mitologico, mentre il secondo comportamento, ossia il considerare come una scelta ciò che non è dipeso da noi, è una forma abbrutente di reificazione della propria personalità (come dimostrano, oltre alle manifestazioni di ‘orgoglio padano’, le molteplici manifestazioni di ‘orgoglio omosessuale’, di ‘orgoglio femminista’ ecc. ecc., che si dispongono lungo la stessa scala differenzialista).
    Non è necessario aggiungere, in questa sede, che entrambi i comportamenti sono determinati dalla logica spettrale del capitalismo postmoderno che, negando la dialettica, esalta e assolutizza i particolarismi, i localismi e le differenze, ignaro della lezione che il grande Platone fornisce nel mirabile dialogo del “Sofista”, allorquando dimostra che la relazione fra l’identità e la differenza è dialettica, poiché nell’identità vi è la differenza (infatti l’identità è differente dalla differenza) e nella differenza vi è l’identità (infatti la differenza è identica a se stessa).
    ‘Toto coelo’ diverso è, invece, il naturale attaccamento ai luoghi in cui si è nati e vissuti (Dante la chiamava ‘la carità del natio loco’, sottolineando la natura generosa e inclusiva di questo sentimento): quell’attaccamento che mi permette di dichiarare il mio legame con uno o più luoghi, a me cari per un motivo o per l’altro, senza che questa dichiarazione implichi alcuna contrapposizione (palese o latente) verso chi in quei luoghi non è nato o vissuto, o verso chi non apprezza quei luoghi nella misura in cui io li apprezzo. Anche qui, la differenza è costituita dalla ragione, che è universale, contrapposta al sentimento, che è particolare: due fattori di un’esistenza equilibrata che non vanno contrapposti ma integrati. Diversamente, la logica culturale del postmoderno ci fa ripiombare o nel pozzo nero dei micronazionalismi di marca antiunitaria o nelle tenebre dei fondamentalismi di stampo medievale, che vigoreggiano qua e là nel mondo contemporaneo.

  38. Caro Barone,
    vado di gran fretta, mi scuserà la concisione. L’orgoglio è un peccato mortale, il nazionalismo politicamente pericoloso, nessuno sceglie dove nascere, Platone ha ragione.
    I popoli però esistono, esistono le patrie, ed esistono gli Stati che a quelle patrie danno una forma, ed è bene che continuino a esistere, perché nessuno accede agli universali direttamente, facendo una telefonata all’Iperuranio; e non mi risulta che sia tanto facile amare l’umanità in blocco: tant’è vero che anche le religioni universali prescrivono (con risultati deludenti) di amare il prossimo, non i 7 miliardi e rotti di uomini che abitano il mondo.
    E’ poi vero, come insegna il Dante da lei citato, che è per amore – amore mal diretto – che si finisce all’inferno. Qui c’è un difetto di progettazione della macchina uomo, che non si aggiusta smontando il pezzo “amore”. Se lo togli, la macchina non parte.

  39. Ma davvero davvero le identità e le culture sono così a rischio come sostengono Buffagni e Cucinotta?
    Le identità e le culture, per come le interpreto io, sono oggi più forti che mai… così come sono tanti e forti i movimenti identitari che colla scusa di “difenderci” dalla globalizzazione fanno man bassa dei diritti sociali e civili dei poveri e delle minoranze. Vedi le oscene leggi sull’immigrazione che dobbiamo a quei due grandi scienziati della politica e statisti di Bossi e Fini, buone evidentemente solo per lasciare sul territorio manodopera clandestina alle imprese che lavorano col nero e alle mafie e tenere in stato di privazione e povertà strati sempre più cospicui di popolazione letteralmente sommersa.

    Le identità e le culture ahimè esistono, sennò non saremmo il paese schifoso che siamo. Anche se, devo ammetterlo, siamo un paese schifoso qualunque (ma soprattutto qualunquista).
    Le differenze poi ci saranno sempre, se non altro per la sempre maggiore difformità di accesso ai beni di consumo (d’ogni tipo, da quello alimentare a quello culturale, d’istruzione ecc) che regna qua da noi. La partita infatti signori miei è economica, altro che. Poi semmai antropologica (che è una parola che fa sempre più ribrezzo – per come viene adoperata)… e poi folkloristica.

    Chiudo chiedendo se davvero qualcuno qui sopra crede che non permettere a una ragazza come Ikram di avere la cittadinanza e ostacolare lo ius soli dovrebbe salvare le identità italiche… o addirittura la “kultur”italiana… Mah. A me sembra che non c’entra niente, ma devo essere uno dei pochi bolliti che camminano sopra al suolo dell’antico impero romano senza provarne alcun senso di orgoglio né di effettivo legame… aaaaa…
    Infine, volevo esprimere la mia solidarietà a Ikram per quel poco che vale e serve. Un saluto

  40. E no no caro Buffagni, le religioni universali dicono proprio di amare i 7 milioni e rotti di uomini che abitano il mondo.. perché potenzialmente potresti trovarli tra i piedi in qualsiasi momento…a maggior ragione oggi in pena globalizzazione, Ikram ne è l’esempio… vuole farsi trovare impreparato ?!?!?! suvvia, suvvia !!!

  41. Caro Seligneri,
    si tranquillizzi, lei non è solo.

    Caro Ares,
    le religioni universali non prescrivono di amare l’umanità, che è un concetto filosofico, prescrivono di amare il prossimo. Chiunque può essere prossimo, come ben illustrato nella parabola del buon samaritano (popolazione che dagli ebrei contemporanei era poco gradita e considerata di serie B, nella quale lei potrà facilmente trovare un’analogia con gli extracomunitari odierni, anche clandestini).
    Non prescrivono di amare l’umanità, perché amare i concetti filosofici e in generale le astrazioni è impossibile. Si amano le persone, ed è già abbastanza difficile così.
    Per amarle, lei m’insegna che bisogna amarle così come sono, con le loro a volte spinose e irriducibili differenze, e non amarle astrattamente per quel che vorremmo che fossero o dovrebbero essere in accordo ai nostri modellini di uomo.
    Allo stesso modo, l’unico amore disponibile, almeno in questo mondo, è il moto di attenzione che parte dagli esseri umani concreti, determinati, con una loro identità, una loro storia, etc., e verso altri esseri cosiffatti si dirige.
    Sintesi: l’amore va dal particolare al particolare, dalla persona alla persona. Amare l’umanità è da un canto facilissimo, perché impegna solo la chiacchiera umanitaria, che non costa niente; dall’altro falso, perché si ama un’idea fasulla che ci bricoliamo a nostro piacimento per sentirci buoni.

  42. A me è chiaro come il vero problema – non suo – di Ikram Labouini sia il suo essere italiana di fatto perché lo è nella lingua. L’italiano scritto – e quindi pensato – di Ikram Labouini, nella sua lettera e nel suo secondo intervento, non lascia scampo: è italiana, lo è: scomodamente, perché lo è intelligentemente, e maturamente; ha una maturità, Ikram nelle sue lettere, che sì, questa sì, mi mette la contrazione all’occhio: perché a diciotto anni se hai educato fino a questo punto la tua fredda rabbia significa che già hai dovuto imparare a far fronte alle scottature delle ingiustizie e le ingiustizie iniziano quando a te è vietato ciò che a altri è concesso perché la legge è vecchia e la vita si trova nell’imbarazzo, l’imbarazzo di non sapere cosa sperare: che la legge tiri al più presto le cuoia? o sarebbe meglio accudirla con sopportazione, aspettando che si spenga con quiete? Ikram è scomodamente italiana per chi vorrebbe, nel suo limite, provare empatia verso una vittima-ahilei, e non sentirsi superato in un confronto da chi ha più titoli – perché ha più parole e competenze, linguistiche e perciò via via tutte le altre – del lui/lei a giro di essere italiana, cittadina, persona scomodamente intelligente, che non ricorre a sociologie, preistorie della storia patria, teorie che annaspano mentre le pratiche le inscatolano per toglierle dalle scatole a tutti e condurle nel loro habitat d’elezione: soffitte muffose, cimeli museali da albi di famiglia nazionale. A Ikram tocca convivere con la pazienza: lei è in sincrono col suo tempo, ma vive in una Italia che va sempre con, in media, venti-trenta anni di ritardo. Leggendo la lettera di Ikram ho pensato – Già che ci sei, impegnati per diventare europea! Perché accontentarti di un diritto così provinciale come il diventare italiana? Mi rendo conto però che Ikram ha il senso superiore: quello pratico, e non perde di vista le cose, ben sapendo che le tocca vivere circondata da una miopia che, a tu per tu, non sa riconoscere una italiana nonostante la sua evidenza, figurati se sa vedere la strada che porta a una cittadinanza europea.

    I miei saluti, a tutti e a Ikram!, che dà onore a una cittadinanza che sa darsene così poco.
    Antonio Coda

  43. Bravo Buffagni vede che piano piano ci arriva: Ikram chiede di essere amata e rispettata come individuo che ha fatto un percorso ed è diventata “già” quello che è: un Italiana, e che chiede solo del rispetto per quello che è, senza essere disriminata per le sue origini. Ikram è il suo prossimo Buffagni, a lei affine per identità, e “affine” per storia a quella dei suoi coetanei, che sono già italiani per legge.

    Ora Buffagni non le resta che capire, che per casi come quello di Ikram la legge italiana, così come è( cioè vetusta) sta cominciando a recar danno, danno al processo identitario della ragazza: paradossalmente la legge che lei difende, sta producendo l’effetto opposto a quel per cui è stata promulgata. Certamente Ikram non si farà scalfire da una legge italiana vecchia ed ingiusta, più fastidiosi sono invece i commenti di Italiani conservatori, fino allo spasmo irrazionale, come lei.

  44. @Dfw vs Jf
    Sì, non ci capiamo, a partire dalle tua parole sin dal primo intervento.
    Appartenere significa far parte, e dire che tu non fai parte della famiglia dei tuoi genitori o della tua nazione mi pare significa ignorare il senso stesso delle parole, senza cui anche il dialogo diventa senza senso ed infine impossibile.
    Io so bene cosa significhi il senso di estraneità rispetto alla cultura in cui si nasce, è una cosa che vivo autobiograficamente, ma ciò non mi consente di negare di essere siciliano. Per quanto mi possa sentire estraneo a questa cultura, nello stesso tempo non potrei mai negare di appartenervi, e ciò anche in un secondo significato, che in me affiorano nei miei piccoli atti quotidiani caratteristiche tipiche siciliane, come mi fanno notare le persone a me più vicine, soprattuto quelle che siciliane non sono.
    Su questo punto, penso che tu abbia usato impropriamente il termine “appartenenza”.

    Un altro punto è quello che concerne il, ahimè lungo, filmato che hai riportato. Ebbene, ti dirò che Aime non mi ha convinto neanche un po’.
    Se ricordi, egli stesso all’inizio sottolinea come la cultura si possa interpretare come il mezzo attraverso cui una collettività umana (non l’inidividuo uomo, questo lo sottolineo io) mette ordine, anzi da’ senso a ciò che chiamiamo realtà che da sè non ci restituisce senso, occorre la rielaborazione umana perchè a questo senso si pervenga.
    Così, trovo che il conferenziere faccia un elenco che in sè non intepreta, che quindi non ci aiuta a capire meglio la direzione in cui le cose si muovono.
    L’errore è credere che, visto che ogni cultura tende a sopravvivere e quindi resiste all’influsso esterno, ciò nega l’effetto dell’invadenza indiscutibile mi pare della cultura occidentale, l’una cosa con tutta evidenza non nega l’altra. I segni di tale invadenza ci sono tutti e non si possono certo negare. Ormai, è praticamente impossibile rintracciare culture davvero isolate, forse solo nel Borneo esistono comunità umane incontaminate, e quindi gli studi antropologici di natura comparativa sono pressocchè impossibili.
    Quando Aime dice che nelle isole Samoa, la musica è stata influenzata dai Beatles, dice appunto questo, che la cultura musicale locale è stata profondamente trasformata dal contatto con la nostra civiltà. Egli dice che queste contaminazioni ci sono sempre state, e chi potrebbe negarlo, tanto è vero che formidabili civiltà sono letteralmente sparite e ne abbiamo ormai solo testimonianze di natura archeologica. La specificità dell’oggi, sta nella formidabile potenza tecnologica che consentirebbe perfino ad un unico uomo di influenzare i 7 e passa miliardi di abitanti della terra, Inoltre, il contenuto culturale prevalente è la religione degli oggetti a cui credono ormai tutti, anche i musulmani più integralisti. Interpretare significa anche discriminare tra ciò che è significativo e ciò che non lo è, come nel definire la direzione prevalente. Le vie possono essere le più tortuose ma finiscono per andare a sud-est o a nord, da qualche parte vanno, non facciamoci distrarre dalle tortuosità che una strada deve avere per evitare gli ostacoli che le si frappongono.

    Dette queste cose, mi fermo qui perchè, pur assicurandoti che ho provato a leggerti con grande attenzione, devo alla fine ammettere di non capire come la pensi.

  45. Ares, Buffagni non è un conservatore, ma un fiero reazionario, spiritualista e antillimunista. E’ diverso…

  46. Cara Ikram,
    a differenza di molti lettori ho il piacere di averti conosciuta di persona, qualche anno fa.
    Prima di tutto lasciami fare i complimenti per la giovane donna in gamba e colta che sei diventata.
    Secondo poi, a parte tutte le eleganti esposizioni storico-sociali-politiche, trovo aberrante che tu non abbia ancora avuto la cittadinanza italiana.
    Sia moralmente (e qui noto parecchia chiusura da parte di molti ancora a condividere la nostra “preziosa” cittadinanza), ma anche dal pragmatico punto di vista di “investimento” effettuato dallo stato.
    L’Italia è un paese che da troppo tempo regala i suoi migliori cervelli agli stati esteri, ma nel tuo caso la cosa raggiunge addirittura il ridicolo.
    L’Italia ti ha cresciuta, di ha dato scuola, assistenza medica, educazione, ti ha comunque aiutata a diventare la giovane donna in gamba che sei… e dopo aver ottenuto questo splendido risultato… ti nega la cittadinanza.
    Mi sembra una follia.
    Comunque spero che tu non ti stufi di combattere e che tu decida di arrivare ad ottenere la cittadinanza italiana…
    Spero anche che tu mantenga il tuo prezioso cervello qui da noi.

  47. Caro Massino,
    trono e altare non sono il mio programma politico. Comunque, le autodiagnosi valgono quel che valgono. Se mi vede così, ci sarà un perché.
    Dico solo che la repubblica italiana mi andava bene, finché c’era, e quella l’avrei conservata volentieri. Pare però che sia ormai cosa del passato remoto, alla quale restiamo affezionati solo noi reazionari, spiritualisti e antilluministi.
    Ieri, per esempio, il Consiglio Supremo di Difesa, presieduto da Napolitano in qualità di comandante le FFAA, a proposito della vicenda della commessa per gli F35, ha dichiarato che il Parlamento “non ha diritto di veto” sulle sue decisioni. Secondo tutti i costituzionalisti del mondo, il Parlamento ce l’ha eccome. Una cosetta del genere non hanno osato dirla neanche i militari egiziani che hanno appena fatto un colpo di stato.
    Nella repubblica italiana, il Parlamento è (o almeno sarebbe in teoria) sovrano. Se il Parlamento non ha diritto di rovesciare le decisioni del Consiglio Supremo di Difesa, il livello decisionale massimo, cioè il sovrano, è il Consiglio Supremo di Difesa.
    A casa mia, questo si chiama colpo di Stato. A casa sua, non so.

  48. OH Buffagni è in queste battaglie che lei deve volgere la sua fiera opposizione, che mi auguro non si fermi a questo suo ultimo commento.

  49. Cara Signora Predazzi,
    che Ikram sia ragazza di valore se ne accorgerebbe un cieco, e mi fa piacere che desideri la cittadinanza italiana, alla quale, evidentemente, ella attribuisce un valore superiore a quello che le riconoscono molti italiani per nascita.
    Da qui a definire “aberrante” il fatto che non abbia già ricevuto la cittadinanza italiana, ce ne corre. La disposizione che le permetterà di riceverla presto c’è già, ed è quella sulla naturalizzazione. Non ha potuto riceverla in base alla disposizione che richiede la residenza continuativa per diciotto anni, perché per due anni ha risieduto in Marocco.
    E’ una seccatura e un fastidio per Ikram, non un’aberrazione della legge italiana, la quale, noto per inciso, prevede *già*, in casi determinati, la concessione della cittadinanza in base allo “ius soli”. Non la prevede come criterio unico o prevalente.
    Se vogliamo discutere dell’opportunità o meno di concedere la cittadinanza in base allo ius soli a chiunque nasca entro i confini nazionali, facciamolo, e prendiamo seriamente in esame tutte le ragioni e le conseguenze di un provvedimento di grande importanza. Però non usiamo il caso di Ikram – che non ha subito nessuna ingiustizia o discriminazione dalla legge vigente sulla cittadinanza, e che presto potrà essere cittadina italiana senza bisogno di mutarne una virgola – a fini di propaganda politica.

  50. Buffagni, si fidi che è molto più in compagnia lei con i suoi discorsi di difesa dello status quo che io (basta ascoltare i discorsi in giro e gli andamenti elettorali).
    A scanso d’equivoci, però, io per il fatto della solitudine ci sto bene, per giunta ho sempre seguito il detto delfiniano che meglio soli che ben accompagnati.
    Saluti Buffagni

  51. @ Cucinotta

    Beh, non mi sembra che siamo così lontani, cosa comunque non preoccupante.
    A me sembra che il senso delle parole di Aime stia nel concepire in maniera diversa la cultura e le culture, non come blocchi indipendenti, ma come pratiche che si modificano a vicenda, proprio perché non è possibile stabilirne i confini. Un gioco arriva da un posto, viene giocato da altra gente in maniera diversa e oggi a chi importa dire di chi è quel gioco, o qual è il vero gioco? Le influenze in musica mica sono a senso unico. Quindi non nega l’invadenza, la descrive in maniera diversa.
    Perché mai dovrebbero resistere culture incontaminate e poi che vuol dire ( qual è il lasso di tempo senza contatti con il mondo esterno minimo? È possibile riscontrare all’interno di una cultura più sottoculture o sono culture diverse? )? Appartenere ha tante sfumature, mica nego le influenze del posto in cui sono nato, ma nel rispondere a Buffagni dico non appartengo, perché il popolo italiano non lo penso in quanto tale, vorrei sapere quando ha avuto inizio e quando finirà, le specifiche d’appartenenza ( che non mi interessano ). Non direi mai il popolo italiano è il mio popolo, ma non per disprezzo, ma perché per me non ha senso. Così come non ha senso dire che esiste un popolo milanista, o un popolo democratico. Lo diciamo per capirci, alla buona, gli italiani i francesi eccetera. Non ho problemi a dire che sono italiano, ma è un puro fatto accidentale, mentalmente risuona “e quindi?”, senza voler offendere nessuno.

  52. Caro Buffagni,
    sottoscrivo le Sue valutazioni sull’operato del presidente della repubblica. L’espropriazione del potere decisionale del parlamento sulla questione degli F-35 conferma che il periodo in cui siamo entrati è un periodo tecnicamente ‘rivoluzionario’. Lo stesso risultato delle elezioni politiche è stato, sia in senso letterale che in senso figurato, un risultato ‘mostruoso’, poiché ‘ha mostrato’ con un’evidenza spettacolare la crisi della democrazia borghese. Se il governo Monti è stato un puro governo di classe, quale era richiesto a gran voce dai centri del grande capitale italiano molto prima che dall’Europa, e se quel governo fintamente tecnico è servito a fare, attraverso la sospensione della democrazia e dei partiti stessi, ciò che nessuno schieramento e nessun partito poteva permettersi di fare, perché ciò avrebbe significato pagare un prezzo assai salato, con le recenti elezioni e con quel che ne è seguito ‘si mostra’, per l’appunto, il frutto velenoso che quella sospensione e la ‘dittatura commissaria del presidente’ hanno prodotto: un eccezionale aggravamento, per alcuni aspetti potenzialmente rivoluzionario e per altri organicamente reazionario, della crisi politico-istituzionale del nostro paese. Occorre, dunque, prendere coscienza che la situazione è profondamente cambiata e che l’opposizione non può più continuare a giocare solo in difesa. Ma occorre anche prendere coscienza che limitare al solo berlusconismo il pericolo che incombe sulla democrazia italiana significa avere una visione miope e parziale delle dinamiche in corso. Al contrario, la nuova fase storica che si è aperta determina la possibilità e la necessità di un’alternativa globale allo ‘stato di cose esistente’, poiché viviamo in tempi rivoluzionari, ma non vogliamo prenderne atto, abbarbicati come siamo ai consunti rituali di una democrazia borghese che è stata liquidata dalla stessa borghesia. Una democrazia borghese, ossia, come diceva Lenin, “un paradiso per i ricchi e un inferno per i poveri”. Il richiamo ad una Costituzione sfigurata dall’introduzione del federalismo cripto-secessionista e dall’obbligo ultraliberista del pareggio di bilancio, richiamo cui si aggrappa la vecchia sinistra, ha peraltro la stessa efficacia dell’espediente cui ricorse il barone di Münchausen aggrappandosi al proprio codino per tirarsi fuori dalle sabbie mobili in cui stava sprofondando. Se non bastasse a legittimare la qualificazione di colpo di Stato, che Buffagni giustamente attribuisce al comportamento di Napolitano, a chi ancora pretende di sostenere che Napolitano è il garante della Costituzione sarebbe sufficiente rispondere con una contro-istanza fulminante: il comportamento verso il trattato di amicizia con la Libia, in cui si è potuto osservare il rispetto di Napolitano per l’articolo 11 della Costituzione e per i trattati internazionali. La legge del 6 febbraio 2009 ratificò infatti il trattato italo-libico, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008. L’articolo 3 del trattato recita: «Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite.» Il secondo comma dell’articolo 4 recita: «Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.» Sappiamo tutti quale funzione di garanzia costituzionale svolse Napolitano, affiancato da La Russa e Frattini, allorché impose all’esitante Berlusconi, sotto la pressione inglese, francese e statunitense, l’intervento militare in Libia, che si concretò non solo con l’uso delle basi italiane, ma con massicci bombardamenti dell’aviazione italiana. Ebbene, se il trattato reca la firma di Gheddafi e Berlusconi, la legge che lo ratifica reca anzitutto quella di Napolitano. Così il ‘garante della Costituzione’ in un sol colpo ha liquidato l’art 11 e l’antico principio secondo cui i patti sono da rispettare. Questa è la repubblichetta di re Giorgio, degna erede della monarchia sabauda e, insieme, del regno borbonico.

  53. Ecco pronto un altro suo inciso, delle 13:17 di oggi :

    ” – che non ha subito nessuna ingiustizia o discriminazione dalla legge vigente sulla cittadinanza, e che presto potrà essere cittadina italiana senza bisogno di mutarne una virgola – ”

    – Perché ha sritto quella lettera Ikram?
    – cos’è quella lettera?
    – ha una ragione per esistere quella lettera?
    – Ikram è una folle ? Una ragazza capricciosa? o incapace di intendere è volere?

    Non trova offensivo questo suo inciso che tende a “negare” le ragioni di Ikram, i motivi della letta di Ikram e l’oggetto della nostra discussione?

  54. Caro Barone,
    concordo sulle rotture costituzionali da lei rilevate. L’insediamento del governo Monti fu almeno una forzatura, la partecipazione all’aggressione della Libia una rottura vera e propria; quest’ultima rivendicazione della sovranità del Consiglio Supremo di Difesa sul Parlamento è un gesto eversivo che non provoca fermissime reazioni delle Camere solo perché, evidentemente, i rappresentanti del popolo sovrano neanche si rammentano più di esserlo.
    Per la verità, le violazioni eversive della costituzione cominciano con il governo d’Alema, insediato con manovra parlamentare contromano, disegnata da Cossiga, appositamente per consentire la partecipazione dell’Italia all’aggressione contro la ex Jugoslavia (guerra del Kosovo). In quel caso, l’illegalità era patente, perché l’azione di guerra fu compiuta senza foglie di fico ONU o NATO.
    In questo caso, il motivo della rottura costituzionale è un fatto occasionale: l’urgente necessità pratica di assicurare chi di dovere che la commessa dormirà sonni tranquilli.
    Toccare gli F35 equivale più o meno a toccare i fili dell’alta tensione: non so se ricorda Pym Fortuyn, il politico populista olandese che nel 2002 veniva dato come certo vincitore delle elezioni.
    Bene. Nel 1998, in una riunione riservata, un gruppo di alti ufficiali e di industriali del settore sicurezza olandesi, senza mandato politico, si erano accordati con la Lockheed Martin e con i colleghi USA, garantendo che l’aviazione olandese avrebbe scelto il JSF35.
    Nel marzo 2002, il governo olandese firma il contratto per la commessa, che andava però ratificata dal parlamento. Il 15 maggio seguente si sarebbero tenute le elezioni politiche.
    Nella campagna elettorale , Fortuyn, dato per sicuro vincitore dai sondaggi, dichiarò che in caso di sua vittoria, il governo olandese non avrebbe firmato la commessa, per gli stessi motivi che anche oggi, a pezzi e bocconi, emergono sulla stampa italiana: lo F35 è un aereo malriuscito, enormemente costoso, che non c’entra niente con i compiti delle FFAA olandesi o italiane (è un cacciabombardiere stealth pensato per l’attacco preventivo contro Stati equipaggiati di sistemi antiaerei moderni, e può trasportare anche armamento nucleare: insomma, serve per una guerra con la Russia, non per le “missioni di pace” NATO) . Soprattutto, i sistemi di controllo a terra restano sotto l’esclusivo controllo USA: se il governo acquirente li utilizza contro la volontà del venditore, esso schiaccia un bottone e l’aereo non parte.
    Nel maggio 2002, Fortuyn incontrò una delegazione guidata dall’ambasciatore USA Clifford Sorrel, della quale facevano parte alti ufficiali olandesi, e rifiutò di garantire la ratifica parlamentare della commessa F35.
    Il giorno dopo fu assassinato. Coincidenza? Mah.
    Forse è una coincidenza anche il fatto che a sostituire Fortuyn a capo del suo partito fu, l’indomani della sua morte, Mat Herben, per 22 anni funzionario del Ministero della Difesa olandese. Il primo atto del nuovo parlamento fu il voto favorevole alla commessa F35. Tutti i parlamentari del partito di Fortuyn votarono a favore, rovesciando la posizione ufficiale del partito e del defunto fondatore.
    Dopo il voto, Herben diede le dimissioni dal partito, e chi s’è visto s’è visto. La sua carriera politica finisce così.
    (Qui le informazioni di base: http://www.guardian.co.uk/world/2002/jun/28/thefarright.politics/print)
    Insomma, coincidenze sfortunate. Giorgio Napolitano e Gianni De Gennaro, futuro presidente di Finmeccanica, che essendo napoletani alla jella ci credono, hanno pensato bene di premunirsi con uno scongiuro, non si sa mai.

  55. Caro Ares,
    no, “Non *trovo* offensivo questo *mio* inciso che tende a “negare” le ragioni di Ikram, i motivi della letta di Ikram e l’oggetto della nostra discussione”.
    Ho risposto lungamente alla replica di Ikram, argomentando perché, a parer mio, la legge italiana non l’ha discriminata e non ha violato i suoi diritti.
    In sintesi, penso che Ikram sbagli, e le ho spiegato, rispettosamente, perché.
    Posso naturalmente sbagliarmi, e ascolto volentieri le ragioni di chi dissente da me, in primo luogo le ragioni di Ikram, visto che è proprio del suo caso che si parla qui.
    Manifestare un dissenso anche profondo, se lo si fa con sincerità, serietà e cortesia, non offende nessuno. Anzi: la prima forma di rispetto che si deve agli altri è proprio dir loro, sinceramente e cortesemente, la (propria) verità.

  56. Anche io *trovo* di nn essere stato scortese nei suoi confronti.

    Se ciascuno di noi non *trova* vorrà dire che continueremo a cercare..

    Buona serata

  57. Sì, caro Barone, in effetti esiste un’enorme questione Napolitano, un macigno sulla politica italiana. Un aspetto di questa questione l’ha affrontato lei nel suo intervento, ma ve n’è un altro che è costituito dalle forze che per i motivi più vari (includerei tra questi un istintivo terrore ed ossequio per il potere) lasciano colpevolmente che avvengano questi scivolamenti dei principi della nostra costituzione, omettendo il loro dovere istituzionale di fare sentire la propria voce critica, e stiamo parlando dei due più importanti dei partiti italiani tradizionali, PD e PDL.
    Da questo punto di vista, tutto ciò che può scuotere questi due partiti, è da considerarsi benvenuto. Per questa ragione, la presenza e le iniziative intraprese da parte di Renzi, un politico di cui pure non condivido quasi nulla, le considero comunque salutari, mettono in crisi quel mostruoso coagulo di potere oligarchico che il PD oggi rappresenta, e per questa via anche quella che sembra costituire la fanteria di Napolitano, che ha riservato per sè stesso la testa della cavalleria.

  58. Carisissimo Buffagni, la Repubblica è ed è stata contenitore di ben peggio delle sue visioni reazionarie e antilluministiche della società. Quello che lei chiama colpo di Stato io lo chiamo interpretazione corretta delle regole. Ma non sono un Costituzionalista.

  59. Caro Massino,
    la scopro militarista a oltranza. Dittatura del Consiglio Supremo di Difesa! Proprio vero che in Italia le soprese non finiscono mai.

  60. Caro Piras,
    è finita così, la discussione? Peccato.
    Comunque la prego di salutarmi Ikram, quando la vede.

  61. Caro Buffagni,
    purtroppo non ho più avuto il tempo di seguire da vicino la discussione. Inoltre, sul tema fondamentale non ho molto da aggiungere rispetto a quanto ho già detto. Vorrei però dire qualcosa su tre temi emersi negli interventi, il primo centrale, gli altri due più marginali, ma comunque importanti.

    1. Il problema dell’appartenenza. Io non sento alcun bisogno di negare l’appartenenza di una persona a una comunità, per difendere un allargamento del diritto di cittadinanza. Dipende dalla valutazione di questa appartenenza, e dal peso che si vuole dare alle esigenze delle persone. Io parto dalle persone concrete. Non le intendo come soggetti astratti e razionali, svincolati dalla loro storia, ma come individui empirici, in carne e ossa, con identità particolari, legati a contesti sociali e storici determinati. Penso che l’ultima fonte di legittimazione del potere politico siano gli individui. Intendendoli come persone concrete, penso che tra i beni che essi perseguono e difendono ci sia anche la loro appartenenza culturale; ecco perché lo stato deve avere anche il compito di tutelare quella identità. Questo giustifica il fatto che esistano delle politiche di regolazione dei flussi migratori, e di regolazione della concessione della cittadinanza. Se si partisse da una idea astratta di umanità (“l’unica nostra appartenenza è la specie umana”) queste restrizioni non sarebbero giustificabili. Invece lo sono, perché tra le tante cose che deve fare un potere politico c’è la preservazione dell’identità storica e culturale dei propri cittadini. Come si vede, non sono né un astratto universalista né un contrattualista puramente formale. Però parto dalle identità particolari delle persone, non dalla identità di una comunità come valore ultimo. Questo è il discrimine. Se si parte dall’identità di una comunità, questo è il valore ultimo di legittimazione del potere politico. Ciò potrebbe giustificare una formula come “condividere il destino di una patria usque ad sanguinem” (Buffagni). Per me invece questa formula è ingiustificata, perché il limite ultimo di legittimazione del potere politico sono gli individui. Perché sono gli individui, e non entità per me astratte, se prese in sé, come la nazione, la patria, la comunità, la religione, la tradizione ecc., è troppo lungo da argomentare qui. In una frase, giusto per capirci: la modernità, cioè il processo di disicanto del mondo, con le conseguenti crescita delle soggettività e affermazione dell’immanenza, ci proibiscono di imporre quelle entità astratte agli individui, senza violenze inaudite, a causa delle resistenze inevitabili che ciò provocherebbe.
    Quindi parto dagli individui, ma determinati, e appartenenti a qualcosa. Ciò, dicevo, giustifica le limitazioni sulle immigrazioni: per tutelare l’identità delle persone che vivono in una certa comunità. Ma ciò giustifica anche il pluralismo, dal momento che convivono diverse identità. E giustifica l’allargamento del diritto di cittadinanza: se si è socializzati in quella comunità, e si appartiene a essa, proprio l’identità concreta della persona, e non un’idea astratta di essere umano, esige la concessione automatica della cittadinanza. Il rifiuto, invece, impone un’idea astratta di nazione a un individuo concreto; quindi nega le sue stesse premesse.

    2. Il rapporto tra esperienze particolari e teoria. Credo che lo stato attuale della riflessione filosofica, e delle conoscenze nelle scienze umane in generale, ci neghino la presunzione della teoria di poter procedere semplicemente sussumendo sotto di sé i casi particolari. La teoria non può non esporsi alla negazione determinata che può venire dal caso particolare che la teoria stessa non aveva previsto, dell’aconcettuale che viola i confini della sintesi teorica. A meno di credere ancora nella potenza del pensiero speculativo, che però deve dimostrare, all’inizio di tutto, l’identità di soggetto e oggetto. Mi sembra troppo, per un pensiero a cui oggi è imposta l’umiltà. E che deve apprendere necessariamente dal particolare: quello vero (la storia, le biografie, le memorie ecc.) e quello verosimile (la letteratura).
    Solo l’esperienza particolare può trasmettere la privazione personale, la sofferenza ecc. Ecco perché concordo del tutto con l’affermazione di Baldini: un modo efficace di tenere un soggetto in condizione di inferiorità è quello di negare l’importanza dei suoi stati d’animo. Invece questi sono proprio la dissonanza che infrange il quadro teorico.

    3. La parola “negro/a”. La semantica ha le sue leggi. Non concordo con quanti (Daniele Lo Vetere, per esempio) pretendono di usare una parola neutralizzandone quanto in essa risuona di offensivo. Lo si può fare se si tematizza l’uso stesso della parola, cioè se la parola diventa oggetto di studio. Ma quando una parola viene usata, necessariamente il suo significato porta con sé le appropriazioni che ne sono state fatte, perché il significato deriva proprio da queste. Di conseguenza, il singolo locutore non potrà mai cambiare, da solo, l’uso della lingua. Non posso usare in modo neutro la parola “negro/a”, se non voglio essere insultante, perché ormai la parola ha quella connotazione. Posso usarla ironicamente, questo sì.

    Grazie a tutti per gli interventi, non penso che avrò occasione di intervenire ancora su questo post. L’autrice valutarà da sola se farlo.

    Caro Buffagni, le saluterò sicuramente Ikram, ma comunque lei legge il blog, come tutti.
    Un caro saluto,
    mp

  62. Carissimo Buffagni, scopre male… Io sono antimilitarista e per l’abolizione dell’esercito (e delle gerarchie, militari e no). Lei?

  63. No, caro Massino, io no. Le ricordo però che il Consiglio Supremo di Difesa, del quale criticavo la pretesa di sovranità sul parlamento, non si occupa della coltivazione delle orchidee. Se lo dichiariamo livello decisionale superiore alle Camere, diciamo che le FFAA contano di più del popolo sovrano. Poi veda lei come questo si accorda con il suo programma di smantellamento dell’esercito e delle gerarchie.

  64. Caro Piras,
    grazie della replica. Ho già detto come la penso sui temi da lei toccati, e non ci ritorno su per non annoiare. Se Ikram ha voglia si proseguire la conversazione, sono qui. Cordiali saluti.

  65. Caro Mauro, io ribalterei quello che dici: proprio perché la tendenza del linguaggio della comunicazione è ormai quella di spuntare le connotazioni indicibili, normalizzare, appiattire, banalizzare, farsi prendere da pudori da educande più per riflesso condizionato che per coscienza linguistica viva e vera (insomma la tendenza è proprio – come dici tu – quella di neutralizzare: certi aspetti del linguaggio, pensando di neutralizzare con essi anche i loro referenti), io preferisco usare e insegnare a usare un linguaggio fatto di luci e ombre. Come la realtà. Il rischio se no è sempre lo stesso: che ti ritrovi a domandarti come è possibile che quella cosuccia o cosaccia che sembrava cancellata dalla storia sia tornata in forme brutali. Non cancelliamo le cosucce e le cosacce neanche nel linguaggio.
    Poi, come dicevo, c’è contesto e contesto e opportunità e opportunità.
    Saluti

  66. La legge sullo “ius soli temperato” e sullo “ius culturae” viene affossata in questi giorni. Ancora una volta, il funzionamento delle nostre istituzioni e l’inadeguatezza della classe politica, frammentata, litigiosa, cinica, miope, hanno fermato una legge già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, quasi due anni fa. Di questa riforma si discute da tredici anni (http://www.ansa.it/sito/notizie/speciali/2017/02/24/cittadinanza-da-13-anni-la-discussione-in-parlamento.-che-fine-ha-fatto_b4ef8f75-fce3-4d2c-aa2b-c62ccaddcec8.html) senza concludere nulla. Quello che sconforta non sono tanto le posizioni delle destre, sempre più forti, né la prevedibile debolezza del Pd, quanto percepire che per molti concittadini che “non si ritengono di destra” e per certi “intellettuali” questo non sarebbe un problema, non ci sarebbe bisogno di concedere la cittadinanza alla nascita o con la scolarizzazione, perché “tanto quello che conta è il diritto di voto”, che si può ottenere a diciotto anni chiedendo la cittadinanza, che ci vuole.
    Vorrei rilanciare questo pezzo, vorrei che circolasse e se ne discutesse, perché mostra bene che cosa significa crescere in un paese e non essere considerati cittadini di questo paese.
    Vorrei che si capisse che su questo come su altro (le unioni civili, a suo tempo) i mille distinguo servono solo a nascondere le paure di un paese fermo, senza coraggio, sempre rivolto al passato.

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