di Giancarlo Liviano D’Arcangelo
[Pubblichiamo un estratto dal libro di Giancarlo Liviano D’Arcangelo Invisibile è la tua vera patria (Il Saggiatore): raccolta-reportage di sopralluoghi narrativi in sette territori dell’industria italiana che non c’è più.
Questo è il terzo libro dell’autore, dopo Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod, 2007) e Le ceneri di Mike (Fandango, 2011 (dbr)]
[…]
L’energia nucleare e il suo potenziale muriatico, così come la pervicace ambizione che incarna, riprodurre il sole in pachidermiche provette di cemento, mi sembra chiaro ora più che mai, è stata una delle più oscure minacce alla mia infanzia serena.
Ed è inevitabile ripensarci oggi, durante i chilometri che mi dividono da ciò che resta della centrale nucleare del Garigliano, la più a sud del triangolo atomico disegnato nell’Italia centrale da Enrico Mattei, e al tempo stesso quella che visiterò, la più a sud rispetto gli altri pungiglioni avvelenati, Latina, Montalto di Castro, Trino e Caorso.
Io non vedo l’ora di raggiungerla, come se visitarla equivalesse a incunearsi nella genesi di una suggestione fantascientifica di Asimov o di Huxley.
Ma devo tenere a bada le mie aspettative.
Se è una rappresentazione del futuro ciò che spero di vedere, rischio di restare deluso. La centrale del Garigliano è stata spenta per un guasto a un generatore di vapore nel 1978, e chiusa definitivamente nel 1982 perché i preventivi per l’eventuale riparazione erano antieconomici.
I miei pensieri a tema nucleare accompagnano allora il grigio della risacca sulle coste vulcaniche di Baia Domizia, deviazione obbligata sul mio percorso, grumo cementifero del litorale tirrenico cresciuto come gramigna nelle immediate vicinanze della centrale, e giustappunto nello stesso periodo, ai primi anni sessanta.
Non che vi sia un nesso diretto, anzi.
La vicinanza tra una centrale nucleare e un verminaio creato per la coltivazione intensiva di famiglie consacrate allo stile balneare e lo stoccaggio di turisti stagionali, è piuttosto un paradosso, una contraditio in adiecto, dissolta solo dal silenzio tombale che mi circonda.
Case basse, radenti alla terra, bunker.
Quintali di aghi di pino secchi a ricoprire come neve rossastra i giardini bruciati, sgretolati dai ciclici abbandoni invernali, colmi di aiuole mutanti per via dell’incuria, da strati di seccume spessi come strati geologici, o della proliferazione incontrollata dei rami rampicanti, intraprendenti come conquistadores.
Di corpi vivi non c’è traccia per molti minuti, poi adocchio di sfuggita un gregge di cani randagi malconci incunearsi in fila indiana in un anfratto. A corollario, solo qualche folkloristico detrito delle ultime estati proliferanti di voci e traffico, una bici arrugginita con gomme sgonfie bianche e screpolate incatenata a un cancello perché nessun fantasma la porti via, e poi un pallone da calcio in spiaggia arricciato come un vecchio copricapo scolorito, lasciato per terra, che sembra innocente e minaccioso al contempo, come se potesse esplodere appena calciato via in qualche impeto di rabbia giocosa.
Mi chiedo se la centrale spenta non abbia rilasciato del materiale tossico, un rivolo, un semplice respiro cianotico in grado di sopprimere lentamente ogni forma di vita, e passo d’uomo proseguo il via vai in cerca di una smentita. Forse una fuga radioattiva c’è stata proprio ieri, o una settimana fa, o da più di quarant’anni. Tutto lascia crederlo.
Piove molto.
Le gocce zampillano al ritmo di una macchina da cucire elettrica spinta al massimo regime, e la zona inizia a sembrarmi davvero evacuata, contaminata.
Non s’incontra quasi nessuno, e la nebbiosa luce che sforacchia i nuvoloni grigi ha una grana color avorio, artificiale, come se fosse appesantita e letale, densa di protoni. Sarà la suggestione ma Baia Domizia sembra, anzi è, il risultato di un florilegio democristiano, una rivalsa dell’homo oeconomicus contro il placido immobilismo delle colline disinteressate alla speculazione, dei querceti e della lunga costa sabbiosa leggermente inarcuata, e in certi punti grigionera di catrame come se fosse un’unghia maltenuta.
È qui che ho appuntamento con un uomo del posto, un habakusha si direbbe a Fukushima, un contaminato, che grazie alla centrale ha fatto fortuna, e di questa deviazione, invero caldeggiata da lui, sono abbastanza felice.
Non c’ero mai stato prima a Baia Domizia. Ne avevo solo sentito parlare da un amico che un’estate era venuto qui a svezzarsi, a fare un corso da bagnino finalizzato a perdere la verginità, e l’aveva descritto come se questo straccio di costa fosse la California. Lui a parole, per la verità segaligno e geometrico in viso, col naso adunco da civetta e lo sguardo altrettanto torvo e rapace da uomo in perenne ordalia con i suoi stessi segreti, si era mutato geneticamente, nei resoconti della stagione balneare, nel più epico dei baywatcher, nave scuola di adamantine sedicenni svedesi.
Ci aveva tutti insospettiti nel tratteggiare giornate meravigliose in un paradiso terrestre, poiché quelle che eravamo abituati a vedergli capitare tra nuca e spalla erano sempre chiaroscuri pieni di rabbia. Da allora, semmai il coefficiente di verità di quei racconti sia stato pari a un millesimo, e oggi ne ho la conferma, sono comunque passate ere geologiche. Davanti a me vedo terre costiere che sembrano considerare il mare non un benefico alleato, ma il nemico più oscuro e infedele.
Provo allora un misto di solitudine e profonda suggestione, e ho il respiro spezzato come se intorno a me vagassero forze minacciose, incantesimi o energie magnetiche in grado di guidarmi.
Vedo un bambino giocare in lontananza, è biondo e mingherlino, la luce cupa filtrata dal cielo proto all’acquazzone fa risaltare la sua pelle lattiginosa, e un impermeabile plastificato trasparente lo carica di charme spettrale.
Chiudo gli occhi e li riapro per due o tre volte, effetto intermittenza, aspettandomi che scompaia, ma lui è sempre lì. Non è un fantasma e mi avvicino. Tiene in mano una marionetta, un pupazzo snodabile, una specie di Big Jim senza un braccio o un cavaliere spaziale, che a nuoto, arrancando, e guidato dalle dita infangate del piccolo insensibili ai caldo-freddi, raggiunge la riva di una pozzanghera prima di essere di nuovo sistemato al largo, dove l’acqua è più torbida e malfida, e si può affogare anche se si è un giocattolo.
Il piccolo si accorge di me e ne pare turbato. Non che manifesti segnali di timore, solo intuisce che sarà disturbato.
«Abiti qui?» – chiedo.
«Si».
«Non è disabitato, questo posto? Non c’è anima viva».
«No, qualcuno c’è».
«Non hai paura?»
«No, e tu?».
«Io sì, un po’. Sempre. A che giochi?»
«Lo vedi questo nuotatore? C’è stato un maremoto. Lui è la vittima. Io sono Dio e lo salvo, sennò muore».
«Sai che a pochi chilometri da qui c’è una centrale nucleare?».
Il suo volto sembra illuminarsi, rianimato da una curiosità spasmodica. Sa cos’è, se l’immagina, l’avrà vista nei cartoni animati o in qualche pubblicità progresso, inondata da luce piena e campi di grano dorati.
«E funziona?»
«No. È spenta da trent’anni».
«Allora non m’interessa».
Sembra deluso.
China la testa per riconcentrarsi dopo l’imprevista interruzione, e disturbarlo ancora con altre domande sembra una vera violazione al suo eterno presente, fatto solo di gioco e accogliente disordine.
Ha un volto bellissimo, nordico, sigfrideo, con un taglio d’occhi mongolo, un’anatomia che mi fa pensare scioccamente a Prypiat, la cittadina costruita per ospitare le famiglie degli impiegati al reattore di Chernobyl, e che oggi è una moderna Micene senza epos, infestata dalla morte e dalla tundra, nei secoli dei secoli e per qualche migliaio di anni. Come se possedessi un contatore Geiger in grado di misurare la dose di radioattività oggetto per oggetto, inizio a rallentare. A curiosare.
Di tanto in tanto scendo dalla macchina, ho ancora qualche minuto prima dell’appuntamento col mio uomo della provvidenza, il miracolato che mi racconterà il coupe de theatre attraverso cui la centrale nucleare del Garigliano l’ha reso ricco.
Mi addentro nei labirinti di viuzze secondarie, districati ciclicamente da pretenziose rotonde decorate secondo il criterio dell’esigua disponibilità finanziaria. Più curate quelle del centro e in prossimità dei grandi alberghi vuoti e piantonati da arlecchinesche bandiere scolorite, meno curati i girotondi della cosiddetta periferia, sempre che a Baia ne esista una, aree ingombre nei cui dintorni sorgono le case meno appetibili, i fabbricati abusivi, che in molti casi assomigliano a favelas di lamiera o a bidonville, prive persino d’impianto fognario.
Le strade sono tutte dedicate a piante da giardino di cui naturalmente non c’è neanche l’ombra. Via delle azalee, via del timo, via degli oleandri o via del mirto, quasi a voler invocare, attraverso lo charme della toponomastica, il senso di comunione tra il soggiorno odierno dei villeggianti e l’antica natura di questi luoghi, che per i romani erano selve pericolose e inesplorate, consacrate alla dea Marica, protettrice al contempo delle acque stagnanti, delle ninfee e della distruzione.
Doppiacoppia, il mio uomo, lo incontro davanti alla chiesa cittadina, così come avevamo stabilito.
È anziano.
Non gli resta molto da vivere, dieci o vent’anni al massimo, non abbastanza in un tempo dove la morte è l’unico atto immorale.
Non mi ha ancora visto arrivare, fuma ingobbito in uno sgualcito giaccone di pelle e forse sta pensando che con me perderà il suo tempo, che non gli sarò utile a guadagnare nemmeno un centesimo. La sua storia la conoscono tutti in zona, e a furia di averla raccontata deve averne tratto qualche insegnamento.
È chiamato così in virtù di una mano di poker vinta contro il destino, e il punto basso, la doppia coppia, dovrebbe testimoniare il concetto di fortuna nella sfortuna. Che sia vera o no la sua è una parabola che riassume quanto è poliforme la realtà, che male e bene sono impersonati, spesso, dallo stesso golem bifronte, e che la fortuna a volte nella vita è proprio tutto ciò che serve.
Mi riceve con una pervicace stretta di mano, quella di un uomo cui proprio la sovrabbondanza di fortuna ha fornito troppe sicurezze, con occhi cerulei da androide spalancati e ospitali, e due slavine di capelli bianchi intorno alle orecchie che sembrano franare dal letto di un fiume prosciugatosi sul centro del suo cranio. Ha meno di ottant’anni e più di settanta, e aveva terra intorno alla centrale, come migliaia di altri uomini, in campagne da qui non troppo lontane.
«Hai portato gli occhiali» – mi chiede.
«No… non ancora. Ci vedo bene, dieci decimi».
«Eh, ma qui a volte si vede doppio. Triplo. Per non parlare delle proporzioni».
Sorrido, fingo di aver capito a cosa si riferisce nel nome di una complicità tutta virile foriera di confidenze, ma sto mentendo.
Mi chiede se poi, a tour concluso, posso riaccompagnarlo alla macchina, e naturalmente accetto. La giornata è ancora molto lunga. In macchina, allontanandoci da Baia, gli chiedo di raccontarmi ciò che sa della centrale nucleare. È lì che stiamo andando, e le sue parole prendono la forma di grandine, grandine contundente in grado di flagellare i curatissimi campi circostanti che accolgono la strada, ondeggianti e appena mossi dai turbinii dell’aria, come stoffe pregiate che attendono solo di essere orlate dalla mano di un artigiano.
«La centrale mi ha reso ricco – racconta – a fine anni 70. Io facevo l’allevatore, si stava discretamente, ma senza chissà quali miracoli. A me il miracolo l’ha fatto la centrale. Poi è morta anche lei. Centrale nostra che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, sia fatta la tua volontà… Si campava eh. Potevo campare 4 figli e una moglie, pagare l’università se l’avessero voluta fare. Ma niente. Vogliono i soldi in mano, subito. A’ prima cosa. Guadagnavo il giusto, va, potevo pure aggiornare le macchine da lavoro, la mungitura meccanica. Ma era una cosa lunga, un tanto al mese, i prestiti con le banche. Mi ero stancato, anche se ci si abitua a tutto col tempo… anche se uno gli animali inizia a vederli come cose già morte mentre scalpitano e muggiscono, e tu li vedi già come soldi… poi però loro continuano a essere cose vive, con tutti i problemi. Puzzano, mentre il denaro non ha odore no? Bisogna pulire le stalle. I miei figli non ne volevano sapere. La merda la pulisci tu se vuoi papà. Me l’hanno detto a 10 anni».
«Mucche?»
«Non solo. Galline, maiali, pulcini. Capre. Non molti capi eh, ma una cosa giusta per fare la gestione familiare. Facevamo i formaggi, prima che la comunità europea iniziasse a scassare le scatole con le norme sanitarie. Qua erano cinquecento anni che si faceva il formaggio, e nessuno ha mai detto niente. Mo’ nel formaggio ci sta 30% latte, e 70% scartoffie».
«E la centrale?».
«A un certo punto, io, ma non solo io eh… abbiamo cominciato a trovare animali strani, mostruosi. Pure prima capitava una volta ogni cinquant’anni, qualche deformazione, qualche malattia, qualche morte prematura, ma era diverso, sembrava la volontà di Dio, il normale corso degli eventi… Ho portato qualche foto, risalgono a fine anni ottanta. Settantotto, settantanove, giù di lì. Guarda tu stesso. Abracadabra».
Devo accostare.
Ciò che vedo è incredibile.
Vitelli a due teste. Buoi macrocefali. Pulcini a tre zampe, crani di agnelli con un occhio solo. Scrofe senza gambe. Pesci con tre occhi, lucertole a due teste, topi che nascono già mutilati e che li trovi morti nelle cantine, maialini deformati come mostri. Bestie malate d’immunodeficienza.
«Ci fu un’inchiesta nel 1981 – dice Doppiacoppia – sulle malformazioni dei vitelli allevati nelle terre vicine alla centrale. Mi stavano studiando e io nemmeno lo sapevo! A parte gli scherzi, le malformazioni sono aumentate a partire dagli anni sessanta, cioè quando è stata ultimata la centrale. Dicono che non ci sono prove, che non è dimostrato scientificamente, ma per chi è nato qui è così palese… Sai come la chiamo io? Mamma Carnevale. La vedi? Guarda che bella che è, si vede oltre quegli alberi, così innocente sembra un ospedale. Se ci fai caso s’incomincia a intravvedere il serbatoio.
La cupola, in effetti, è luminescente. Sembra una gigantesca palla di neve.
«Perché Mamma Carnevale? questi animali che sembrano maschere?» – chiedo.
«In un certo senso. Il carnevale ha origine antichissime, è una festa religiosa e parla di metafisica. È il periodo dell’anno in cui la vita e la morte si scambiano il ruolo. Come durante i suoi antenati, i saturnali romani, quando i servi diventano i padroni, e i padroni servi, solo per qualche giorno. A Carnevale i morti si mischiano ai vivi e gli spiriti girano liberi tra cielo, terra e inferno. Le anime morte per non essere pericolose devono essere ossequiate. E per questo si appropriano di corpi momentanei. Ecco perché ci si maschera. Quello che è successo qua dopotutto, non è così? A me sembra che la centrale soprattutto questo abbia fatto. Far convivere insieme vivi e morti, mimetizzarli, lasciare che danzassero insieme a loro insaputa, e qualcuno ha avuto in regalo un corpo da mostro, perché bene e male quando agiscono lo fanno seriamente, lasciano indizi».
Doppiacoppia ride di gusto, io alle strette lo assecondo.
«In effetti bisogna saper ridere di tutto, no?».
«E che devo fare? Io ho avuto fortuna. Avevo un amico in America, un compagno di scuola emigrato. Gli ho mandato le foto del vitello bicefalo, e quello lo sai che ha fatto? Mi ha portato a casa un mezzo scemo, uno pieno di soldi che colleziona Wunderkammer; scheletri, teste di drago, conchiglie giganti, bambini in salamoia, strunzate così. Mi ha dato centomila dollari per il corpo del vitello, poi se l’è imbalsamato nello studio di casa. Io spero che prima l’abbia fatto decontaminare, perché la bestia era una scoria. Se li seppellivamo sotto terra, i mostri, avvelenavamo tutto. Se li bruciavi e li respiravi, eri morto tu. Ai rifiuti speciali li dovevo mandare… erano quelli che facevano lo smaltimento, dopo che avevamo prelevato i campioni da studiare in laboratorio».
«Film. Il vitello che mi ha cambiato la vita».
«Puoi dirlo forte. Mi sono venduto la terra, che stava andando uno schifo, e poi ancora un po’ e finivamo morti tutti. Mi sono comprato un locale con i soldi di Stanlio & Olio. L’avevamo chiamato così, il mostro. In quel periodo davano sempre in televisione i filmanti di Stanlio & Olio, doppiati da Alberto Sordi. Le risate! Mi sembrava un bel tributo, no? Quelli stavano sempre insieme, sembravano un uomo solo con due teste e così… comunque nel locale ci ho messo una sala giochi, con i biliardi e i videogames. Un bell’affare, anche se si stava fermi e ci si annoiava, e dalle radiazioni sono passato alle sigarette. Te lo immagini se dopo trent’anni di radiazioni a colazione, a pranzo e a cena, muoio di cancro ai polmoni per le Marlboro? Quando al biliardo non è venuto più nessuno, ho messo i videopoker. E lì son soldi per me, niente soldi per altri, e senza nemmeno il divertimento. Meglio il casinò allora no? Meglio qualcosa che ti uccide in una volta sola, che un morbo che ti debilita giorno dopo giorno, una cellula alla volta. Che dobbiamo fare… si sta al passo con i tempi».
Mi soffermo sulle foto.
Le malformazioni sono evidenti. Eclatanti.
Il vitello con due teste ha vissuto poco. Quello macrocefalo aveva la testa grande il doppio del corpo. Qualche mese e poi è morto, come l’idra dalle sette teste ucciso da Ercole. Gli animali fotografati ancora vivi sembrano assenti, freaks esanimi che prefigurano la loro stessa morte attraverso ogni movimento, e ogni sospiro incatenato ai fermo-immagine ha l’aria di essere l’ultimo.
Sembrano le vittime designate di sacrifici rituali, moderni sacrifici a Horus, il potente dio del sole. Maschere mostruose, oppure carcasse già uccise e poi sventrate da uomini in cerca di precetti medici, scienziati ossessionati e inclini ai più disparati esperimenti anatomici finalizzati al progresso della scienza chirurgica.
Eppure non mi fanno paura, non sembrano minacciosi, solo dannati inconsapevoli e sofferenti, e la pietà, che è un sentimento che mal sopporto perché è indissolubilmente connessa a una posizione di proporzionato vantaggio che l’attiva, nei confronti di una vittima indifesa senza che sia possibile alcuna azione palingenetica o restauratrice, diviene presto l’unico sentimento possibile.
Le espressioni facciali, da creature in coma farmacologico che hanno subito qualunque sventura, sembrano testimoniare che esiste un corrispettivo biologico del purgatorio, una zona franca di frontiera tra la vita e la morte. Arti cuciti tra loro, trapianti, lobotomie, incisioni. Mostri maledetti picchiati a sangue. Mostri affetti da ermafroditismo e anchilosi. Il maiale ha le sembianze di un ciclope, un bolo di carne sugnosa gli fuoriesce dalla bocca come un’escrescenza viva, embrionale, e c’è la sensazione che cresca, che abbia una sua specifica evoluzione. Un vitello ha avuto in dote due cervelli, un altro tre. Li si contava quando le carcasse venivano aperte. Ci sono fotografie di polli a tre zampe, e di capre con denti così sviluppati da ricordare le zanne dei mammut scomparsi con le glaciazioni.
Doppiacoppia prende il ritratto del vitello bicefalo e se la porta al cuore, come se fosse una lettera d’amore. Se la batte al petto più volte.
Lo vedi questo? È stata la mia fortuna. È grazie a lui se me ne sono andato, se me ne sono andato a vivere a Napoli e ho comprato la seconda casa al mare, a Baia. La centrale è rimasta aperta il tempo giusto. Un guasto nel 1978 l’ha fatta chiudere».
«Questo lo so». – rispondo.
Non ci fu alcun allarme istituzionale, nessuna perdita, nessuna fuga radioattiva ufficialmente dichiarata. Ma gli ambientalisti del luogo hanno sostenuto il contrario, poi la legge del libero mercato ha fatto il resto. Costi troppo alti perché sia rimesso in sesto il reattore, fino al progressivo abbandono, poi un rigurgito affarista nei mesi che hanno preceduto Fukushima. La fine di un’epoca, il fallimento dell’utopia nazionale, del sogno “virtuoso” di Enrico Mattei, cioè l’autosufficienza energetica nazionale da raggiungere a qualunque prezzo, quando ancora l’energia era un bene pubblico.
Ripartiamo.
La centrale è vicina. Costeggiamo alcune opere ausiliarie, una centrale elettrica attraverso cui far confluire nella rete l’energia prodotta, il sogno di offrire risorse energetiche inesauribili a Roma e Napoli.
La strada che percorriamo sembra tenere d’occhio il corso del Garigliano, quasi intendesse pedinarlo, e la centrale, all’orizzonte ma già visibile occupa una grande ansa a sette chilometri dalla foce, area che fu giudicata perfetta secondo gli esami metereologici, idrologici e sismici, e che invece a me, a intuito, sembra assolutamente inadatta.
[…]
[Immagine: Centrale di Garigliano. Foto di Lavinia Azzone (dbr)].
Vabbe’ che bisogna rendere narrativi questi sopralluoghi ma proviamo a non confondere le idee su l’ABC della tecnologia (robe che si insegnano alle scuole medie per intenderci). Non c’è nessuna pervicace ambizione a riprodurre il sole in pachidermiche provette di cemento perché il sole va a fusione (di idrogeno) mentre le centrali nucleari vanno a fissione (di uranio). Sono due processi completamente diversi. Ad es. non c’è uranio sul sole e non c’è alcuna centrale a fissione sulla terra (magari fossimo riusciti a farla, non staremmo qui a sporcare il mondo con scorie di petrolio, carbone e uranio).
Dovevo scrivere “non c’è alcuna centrale a fusione sulla terra” (a fissione invece ce n’è decisamente troppe)