cropped-5734757987_29820582c9_o1.jpgLa maledizione degli “ismi”

[Questo articolo è uscito sul numero 65-66 di «Allegoria»]

di Remo Ceserani

Sono passati ormai 33 anni da quando il filosofo francese Jean-François Lyotard, che era stato invitato dal governo canadese a studiare la situazione delle università del paese, pubblicò il suo rapporto su quella che chiamò la «condizione postmoderna»,[1] caratterizzando così la situazione storica in cui si trovava la società contemporanea. Sono passati 28 anni da quando la rivista britannica «New Left Review» ha pubblicato un densissimo saggio dello studioso americano Fredric Jameson intitolato Postmodernismo o la logica culturale del tardo-capitalismo,[2] e 26-25 anni da quando lo storico dell’architettura Charles Jencks si è chiesto, dal suo punto di vista, cosa potesse essere il «postmodernismo» e se si potesse parlare, in proposito, di «nuovo classicismo in arte e architettura».[3] Più o meno negli stessi anni il semiotico italiano Omar Calabrese, allievo di Umberto Eco, si è chiesto, dal suo punto di vista, se si potesse parlare di «età neobarocca».[4] Da allora le discussioni sull’argomento sono state intensissime e confuse e le dichiarazioni che il postmodernismo, nato negli anni Ottanta, fosse ormai morto e defunto molto numerose.

Di recente ho letto con interesse, su questa rivista, un saggio molto denso e appassionato di Raffaele Donnarumma nel fascicolo dedicato alla Letteratura degli anni zero e curato dallo stesso Donnarumma e da Guido Mazzoni.[5] Il saggio è condotto con acribia critica, è accompagnato da analisi spesso persuasive di parecchi testi (soprattutto romanzi italiani dell’ultimo decennio, con in posizioni di spicco Gomorra di Saviano e i romanzi di Walter Siti). Si sente in Donnarumma un’orgogliosa sicurezza delle proprie convinzioni, accompagnata da un ammirevole impegno ad affrontare i problemi tenendo conto della loro complessità e delle molte sfumature dei temi in discussione. E però il saggio a me sembra, nel suo impianto teorico e storiografico, abbastanza discutibile.

Il fascicolo di «allegoria» contiene, oltre al saggio di Donnarumma, un testo del direttore della rivista Romano Luperini sull’attuale condizione degli intellettuali, un saggio di Andrea Cortellessa, che riprende a grandi tratti lo scritto con cui ha presentato una sua recente antologia di prosatori contemporanei sotto l’etichetta di Narratori degli Anni Zero,[6] un articolo di Gilda Policastro ricco di statistiche e riflessioni sulla situazione dell’editoria italiana, per l’appunto negli anni Zero, e infine un bel saggio di Gianluigi Simonetti, pieno di osservazioni fini, spunti storiografici, distinzioni e giudizi convincenti sulla narrativa o comunque sulle scritture che a partire dagli anni Ottanta e con straordinario incremento negli ultimi decenni hanno trattato il tema della lotta armata in Italia.

Continua su «Allegoria»

 


[1] J.-F. Lyotard, La Condition postmoderne, Minuit, Paris 1979 (trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981); Id., Le Postmoderne expliqué aux enfants. Correspondance 1982-1985, Galilée, Paris 1986 (trad. it. Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987).

[2] F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», 146, July-August 1984, pp. 59-92.

[3] C. Jencks, What is Postmodernism?, St. Martin’s Press, London 1986; Id., Post-Modernism, the new Classicism in Art and Architecture, Rizzoli, New York 1987.

[4] O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1987.

[5] R. Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in «allegoria», XXIII, 64, 2, 2011, pp. 15-50.

[6] A. Cortellessa, Narratori degli Anni Zero. Gli esordienti del primo decennio, in «L’Illuminista», 31-32-33, 2011.

[Immagine: E. H. Beckenbach, Bonaventure Hotel, Los Angeles (2008) (gm)].

 

17 thoughts on “Postmoderno o ipermoderno. Un dibattito sulla cultura del presente /1

  1. Mi permetto di riproporre nuovamente le mie osservazioni al testo di Ceserani che avevo già pubblicato qui ( http://www.leparoleelecose.it/?p=10816) sperando ardentemente che qualcuno me le smonti e mi faccia ricredere.

    LA BENEDIZIONE DEI CAPARB-“ISMI”.

    Ho letto attentamente «La maledizione degli “ismi” di Remo Ceserani («allegoria» 65/66) e riporto alcune mie riflessioni:

    1.
    Trovo le sue obiezioni oneste e sempre problematiche. Eppure – leggendole m’è venuto in mente il discorso di Calvino sul labirinto – quanto adattamento mimetico alla cosa “incognita” (postmoderna o ipermoderna o transmoderna – per quest’ultima vedi http://gconse.blogspot.it/2013/06/transmoderno-un-nuovo-paradigma.html – o di modernità solida o liquida) su cui indaga!
    Ceserani la esamina scrupolosamente, ma mai arriva allo scatto che permetta di dire: è così, è *soprattutto* questo. Come se fosse venuta meno la *volontà di scegliere o semplicemente di scommettere*.
    Anche le principali interpretazioni nostrane della «postmodernità» (Ferroni l’«apocalittico», Luperini l’«apocalittico critico», lui medesimo l’«integrato critico») sono poste l’una accanto all’altra. Come se non fossero conflittuali tra loro. E poi dichiararsi soddisfatto perché qualcuno («un’osservatrice esterna», la Jansen) riconosce la sua «volontà di non apparire schierato né con i sostenitori entusiasti né con gli oppositori apocalittici delle trasformazioni in atto»…

    2.
    Questa ecumenica “neutralità” delude. Ligio alla lezione di «chi vuole vedere i fenomeni sociali così come sono, e non così come li vorrebbe», memore dei fallimenti di quanti in passato hanno provato a cavalcarli «illudendosi così di poterli controllare», Ceserani si “avvita” nel compito «di capire le trasformazioni, di analizzarle ed entrarci dentro, di spiegare quello che sta succedendo». E chi dice di no: capire è fondamentale, anche se non si seguisse più l’insegnamento di Quello che diceva: Senza teoria niente rivoluzione…
    Eppure, se tanto sforzo d’analisi deve concludersi con un generico: «il quadro d’insieme dei mutamenti della postmodernità è pieno di luci e di ombre», qualche dubbio dovrebbe venire sia sulla bontà del suo punto di vista “neutrale” sia sul fatto che il nobile «atteggiamento integralmente critico» possa essere *anche* un diversivo che mascheri un adattamento alla rappresentazione della realtà imposta da altri.

    3.
    Oltre a trovare abbastanza scaduta la distinzione tra apocalittici e integrati, a me pare che Ceserani finisca involontariamente per incoraggiare il giochetto del vedere il bicchiere (della postmodernità) ora mezzo pieno e ora mezzo vuoto. Col bel risultato che i lettori, come asinelli di Buridano, restino nell’ambivalenza.
    Possibile che in questa incerta transizione dal moderno a qualcosa d’altro, non ci si possa più chiedere chi delle sue “luci” si stia avvantaggiando e chi nelle sue “ombre” stia dileguando (o crepando)? chi si arricchisce e chi impoverisce? chi sta diventando più libero (ma a spese di altri) e chi meno? E trarne qualche conclusione – provvisoria ma più decisa – che permetta di scommettere e di definire *da che parte noi siamo* in essa e *che fare*?

    4.
    A pensarci bene, non è che la modernità non avesse le sue ambivalenze. E perché allora ci fu chi seppe/volle leggerle come «contraddizioni» (anzi – mi riferisco a Marx – ne individuò una come principale), mentre oggi intellettuali in posizioni di rilievo e ceto medio colto o semicolto, lavoratori della conoscenza e via seguitando, non riescono ad uscire da un atteggiamento di “sofferta angoscia” o di “indignazione”?
    Niente impedirebbe di pensare criticamente le evidentissime contraddizioni della globalizzazione (e della democrazia); di ragionare in base ai nuovi assetti di potere che si sono delineati (in sostanza, di dirci chi comanda davvero e se a vantaggio di pochi o di molti); e – cosa non secondaria – di tenerne conto anche quando parliamo di letteratura o, per stare al tema, di fiction o non-fiction.
    Se ciò non accade, la ragione di fondo sta nell’abbandono da parte degli intellettuali (apocalittici o integrati) di uno stile di pensare che non separava la letteratura dalla politica. L’hanno trovato “vetero, “rozzo”, “provinciale”, “desueto”; e hanno abbracciato le filosofie della complessità postmodernista, accogliendo silenziosamente e sottobanco i vecchi arnesi del liberismo, però rilucidati e made in USA. Non mi pare perciò che gli intellettuali più anziani, avendo vissuto «una parte della loro vita dentro un’epoca storica e una parte dentro un’altra», serbino molto della precedente epoca o siano dei Giano bifronti. E perciò Ceserani non è così distante da Donnarumma. Il quale nel tentativo di definire la «nuova fase culturale e letteraria» (compito dei suoi studi che non contesto), mi pare miri a sostituire l’etichetta «postmodernità» con quella più precisa di «ipermodernità». Che della prima è, se non capisco male, solo una variante. Anch’egli resta, infatti, entro la cornice politica neoliberista, e penso anche in ossequio al medesimo criterio “positivistico” di Ceserani (vedere i fenomeni così come sono, e non così come li si vorrebbe). Aggiungerei che, se davvero la prospettiva che guida la ricerca di Donnarumma fosse quella che gli viene attribuita, e cioè un “ritorno alla modernità”, si passerebbe – per così dire – dalla brace (l’ambivalenza postmoderna) alla padella (l’ambivalenza moderna).

    6.
    Concludo. Il silenzio o il vuoto d’analisi a me pare riguardi una questione fondamentale: chi ci comanda oggi e quali conseguenze ne discendono anche per la letteratura e/o la critica. Le domande sul valore delle narrazioni di fiction o non-fiction troverebbero un metro non “endoletterario”, se davvero si riuscisse a definire *politicamente* il fuori, lo «stato del mondo». Si potrebbe, ad esempio, capire meglio se, su di esso, certe opere letterarie (quelle di fiction o di non-fiction) ci dicono di più, anche rispetto alla stessa politica. O se questo “di più” stia arrivando a noi da entrambi i generi o ce lo dobbiamo attendere solo dal secondo. (Perché va bene guardarsi dalla «realismofobia», ma anche non cedere alla “fictionfobia”).

    P.s.
    Per quanto detto, spero non mi accusiate di appiattire la letteratura sulla politica (mi permetto di rimandare, per questo, a un mio commento (qui:http://www.leparoleelecose.it/?p=7053) sotto il post «Romanzo e morale. Una discussione su “Resistere non serve a niente” di Walter Siti»).

  2. Ritengo che al centro dell’analisi e del dibattito sia da porre il problema del postmoderno e del suo rapporto bilaterale con la modernità e con un ‘nuovo medioevo’. Una riconsiderazione e una ‘messa a punto’ di tale problema risultano quindi tanto più utili quanto più la discussione su tali categorie investe il nodo che stringe fra di loro passato, presente e futuro della nostra civiltà (ammesso che sia ancora lecito, da un punto di vista axiologico, qualificare con il termine ‘civiltà’ le forme di produzione e di convivenza fra gli uomini che si vanno delineando). A questo proposito, è certamente opportuno, come propone Ceserani, prima ancora di assumere e far propria (con Lyotard e con Fukuyama) la categoria interpretativa del postmoderno, riflettere, per saggiarne la consistenza e la tenuta, sulla genealogia, oltre che sulla fenomenologia, della modernità, distinguendo quest’ultima con precisione, al fine di evitare possibili equivoci e fraintendimenti, da altre categorie (a cui è per altro strettamente connessa) quali quelle di modernizzazione (= formazione del mercato capitalistico mondiale) e di modernismo (= insieme di concezioni e di valori che costituiscono la risposta dialettica alla modernizzazione), e individuando l’esito comune della modernità (= modernizzazione + modernismo) nella centralità del concetto di sviluppo, colto nel duplice significato economico (= progresso industriale, scientifico e tecnologico) e psicologico (= sviluppo della soggettività fra i due poli dell’autorealizzazione e dell’alienazione). Dunque, un approccio criticamente avvertito al problema della genesi storica e della complessa dialettica, che segnano la modernità, è condizionante per verificare la pertinenza e la correttezza della categoria di postmoderno, che altrimenti rischia di risultare un concetto general-generico ‘bon à tout faire’, frutto più di un impressionismo interpretativo che non di un’approfondita e preliminare riflessione sulle antinomie della modernità. Da quest’ultimo punto di vista, si pensi, per fare un solo esempio, al fatto che la modernità unifica, sì, tutto il genere umano, ma che tale unificazione, essendo la modernizzazione, con il suo alternarsi di espansione e recessione e con il suo intrecciarsi di sviluppo e sottosviluppo, il motore di questo processo, si configura, non solo hegeliananamente ma ‘in rebus ipsis’, come un’unione della disunione. Secondo l’ottica postmoderna, un esempio della cesura storica che si è verificata nella trasmissione della tradizione culturale, ossia delle idee-forza della modernità, si può desumere dal confronto fra l’odierna condizione giovanile e la condizione giovanile che sfociò nella rivolta sessantottesca. In effetti, si può notare che quest’ultima si situò, nonostante il suo carattere radicale, in un orizzonte del conflitto intergenerazionale costituito ancora da valori condivisi, mentre la maggioranza dei ‘ragazzi del Novecento exeunte’ si definisce non per la sua differenza e opposizione, ma per la sua ‘indifferenza’ ed estraneità rispetto alla cultura (quando c’è) di cui sono portatori (quando lo sono) gli adulti. Ciò sembra trovare conferma nel ricorso, da parte di taluni settori giovanili, ad un linguaggio metropolitano che programmaticamente non comunica perché si rifiuta di comunicare (o, più semplicemente, non ha nulla da comunicare).
    Ma allora la posta in gioco di questo discorso diviene esattamente quell’agire comunicativo su cui si fondano la comprensione reciproca fra i soggetti e il ‘carattere incompiuto’ che, secondo Habermas, appartiene alla modernità in quanto progetto di emancipazione (non realizzato ma ancora) da realizzare. Se questa è, come io credo, la vera posta in gioco sottesa al dibattito sul postmoderno, allora è vitalmente necessario recuperare un rapporto profondo con quella ‘cara estinta’ che si ostina a visitare le nostre notti e ad alimentare i nostri sogni: la tradizione culturale della modernità (recupero che può anche avvalersi, al netto della peraltro legittima scepsi critica di Abate, della categoria di ‘ipermodernità’ proposta da Donnarumma). L’alternativa sarebbe infatti, come dimostrano sia la crisi economica mondiale sia le sanguinose guerre del XXI secolo ineunte (dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria) un orrendo miscuglio, condito con abbondante retorica postmoderna, di ‘nuovo medioevo’ (= imperialismo aggressivo + sofisticata tecnologia) e di modernità ridotta a pura e semplice modernizzazione (= ideologia della ‘guerra umanitaria’ + azzeramento del diritto internazionale). D’altronde, il fatto che l’enfasi sulla globalizzazione tendesse ad occultare la natura restauratrice di un processo che è stato soprattutto una forma di rimondializzazione dell’economia capitalistica con cui si è proceduto a risanare la ferita inferta dalla rivoluzione d’ottobre al mercato capitalistico mondiale (ferita che è rimasta sanguinante per oltre settant’anni) fu riconosciuto a suo tempo con cinico realismo dagli stessi responsabili dell’amministrazione nordamericana, che non si peritarono di affermare che la popolazione russa oggi vive peggio di quando c’era il comunismo. È vero che la transizione dal capitalismo al comunismo è stata, in un certo numero di Paesi, bloccata e invertita: inferire, però, da questo mutamento dei rapporti di forza tra le classi, come fa il postmodernismo, la ‘fine della storia’, il dissolversi delle ‘grandi narrazioni’ della modernità e la ‘crisi della ragione’ significa soltanto, nel migliore dei casi, limitarsi a descrivere con una terminologia magniloquente ciò che è avvenuto e, nel peggiore dei casi, consacrarlo con un’ideologia in cui Apocalisse e Arcadia vanno a braccetto e in cui l’adattamento, l’evasione, la collaborazione e la rassegnazione sono altrettante varianti dell’accettazione dello stato di cose esistente.

  3. @ Abate
    Se posso:
    2. A me Ceserani non sembra neutrale: sembra dichiaratamente filo-postmodernista (e sottolineo il suffisso).
    4. Il suo «a pensarci bene» è commovente. L’ipermoderno non è una variante del postmoderno: viene dopo. Neoliberista e positivista sono, nel mio linguaggio, insulti. Lei fa confusione tra lo sforzo di capire le cose prima di giudicarle (sforzo, perché ogni comprensione implica un giudizio) e la resa al mondo così com’è: via, rinunci al badile.
    6. È certo possibile che «certe opere letterarie (quelle di fiction o di non-fiction) ci dicano di più, anche rispetto alla stessa politica». Ma il giudizio si esercita sui singoli, non all’ingrosso: un tale può dire di più sul suo presente gabellandoci di aver visitato l’altro mondo, che scrivendo cronache delle cose occorse nei suoi tempi. Se (come temo) si aspetta una poetica prescrittiva che esorti alla non fiction contro la fiction perché più politicamente vera o utile o produttiva, non l’avrà da me né ora né mai. E si rassegni: la letteratura (come ogni attività umana) ha anche tempi suoi, che stanno in relazione con le altre e la storia generale, ma non sono riducibili a quelle.
    Piuttosto che improvvisarmi analista delle questioni fondamentali, scilicet politologo-sociologo-economista-sferadicristallista, mi faccio tagliare lingua e mani. C’è più onestà nel lasciare i vuoti che nel colmarli con generici vaticini. Fare con la maggiore esattezza e serietà possibile il proprio mestiere non è chinare il capo all’atomizzazione del mondo, ma l’unico modo per contribuire a un qualche, periclitante discorso generale (cfr. Bourdieu). Se poi lei preferisce un medico che, anziché visitarla, la intrattenga sulla crisi, sul sistema dell’industria farmaceutica e sulle sperequazioni del mercato globale, faccia pure. Quando ha bisogno, le passo volentieri una scatola di aspirine.

  4. @ Donnarumma

    Capisco. Continua a vedermi (forse a ragione) come una vecchia cornacchia marxista che starnazza in basso, mentre lei ha raggiunto una visione da aquila ipermoderna. Siccome però partecipiamo al medesimo genere volatile, mi sento di rispondere ancora con questi ultimi striduli versacci:

    1. La “neutralità” di Ceserani (ma c’è, credo, anche la sua…) che trovo criticabile è per me di ordine politico non culturale. Su quest’ultimo piano – concordo – egli è chiaramente «filo-postmodernista». Come lei, invece, è «filo-ipermodernista».

    2. L’ipermoderno a me pare una variante del postmoderno, perché non vi scorgo i tratti di un *sostanziale* cambiamento (che – insisto fino all’ossessione – per me dovrebbe assumere anche forme politiche e non solo culturali; solo così lo troverei interessante, aggiungo tra parentesi). Il fatto di venire *dopo* ( « L’ipermoderno non è una variante del postmoderno: viene dopo ») non significa gran che. Un *dopo* c’è sempre, ma non è detto che sia decisivo. E mi pare, infatti, che lo stesso Ceserani stenti a dimostrare che la postmodernità, pur venendo *dopo*, sia inizio di una epoca nuova.

    3. Tutte le definizioni di ipermoderno che ho letto nel suo pezzo (« è una novità culturale, ma non comporta affatto una novità epocale (o strutturale, se si vuole)»; « l’ipermoderno è un modo diverso dal postmoderno (e dal postmodernismo) di interpretare fatti in larga misura identici»; «L’ipermoderno non è uno stato del mondo tutto intero: è un insieme di pratiche letterarie, di poetiche, di costumi culturali e politici, ma non una nuova era. Sta dentro la modernità, come stavano dentro la modernità il modernismo […], il Postmodernism e la cultura postmoderna in genere»; «L’ipermoderno è la modernità passata per il postmoderno: mutata dal postmoderno),
    non mi levano il dubbio che questa “novità culturale” da lei indagata e teorizzata sia qualcosa di molto circoscritto e vago. Se vogliamo, una variazione di tono ma del medesimo colore ( prolungamento del moderno invece che innovazione che ne fuoriesce). Nulla di nuovo per me, lettore della vecchia serie di «Allegoria»,
    rispetto alla “vecchia” contrapposizione Ceserani/Luperini degli anni Novanta, mi pare.

    4. Se propendessimo per la sua (e di Luperini) tesi, a me pare però che, rientrati nella fiumana del moderno, il suo ipermodernismo dovrebbe fare fino in fondo i conti proprio con l’ambivalenza del moderno. Lei in proposito mi pare ritroso o tentennante. E esibisce tutta una batteria di indubbie competenze e d’ironia (post moderna!) per non discutere fino in fondo anche il piano da lei preferito (ma un po’ ideologizzato) del “culturale”.

    5. Stia tranquillo. Non nego l’importanza e la specificità o l’autonomia (come si diceva una volta) del “culturale”. Concordo in pieno sul fatto che « il giudizio [estetico, ma io preferirei che fosse estetico-politico] si esercita sui singoli, non all’ingrosso». E che « la letteratura (come ogni attività umana) ha anche tempi suoi, che stanno in relazione con le altre e la storia generale, ma non sono riducibili a quelle». Né – qui si sbaglia di grosso imputandomelo – reclamo una « poetica prescrittiva che esorti alla non fiction contro la fiction perché più politicamente vera o utile o produttiva». Mi augurerei soltanto meno elusioni e più chiarezza su altri punti che a me stanno a cuore.

    6. Ad esempio lei scrive: «Neoliberista e positivista sono, nel mio linguaggio, insulti». Eppure non mi è chiaro cosa lei contrapponga al liberalismo e magari al neopositivismo. L’onestà nel proprio mestiere? Un’ottima premessa ma non sufficiente.
    Apprezzo, infatti, che lei faccia «con la maggiore esattezza e serietà possibile il proprio mestiere» e non mi sento di accusare lei o gli specialisti di «chinare il capo all’atomizzazione del mondo» per il semplice fatto che lavorano da specialisti. Eppure dovrebbe riconoscere che, nella situazione declinante di questo Paese, il lavoro degli onesti di per sé non basta (come sapeva bene il vecchio Sartre). Un lavoro ben fatto nel proprio ambito di lavoro o ricerca non tappa i buchi di una “polis” che non c’è più. In casi di emergenza reale lei non si improvviserebbe idraulico, pompiere, infermiere, ecc.? Io sì. Sarebbe una sorta di supplenza indispensabile quando un vuoto di civiltà nocivo non fa che crescere. A volte nel proprio “mestiere di vivere” è importante immettere anche una certa “improvvisazione” (che, più correttamente, significa forse mettere più in evidenza la *politicità* implicita già nel proprio mestiere).

    7. Se lei svaluta, ironizzando a tutto spiano, ogni «discorso generale» ha buone ragioni. Il discorso generale che servirebbe oggi non c’è e quelli in circolazione sono falsificati. Ma viene meno per questo l’esigenza? L’autobiografia è anche per me una base d’appoggio non trascurabile, ma lei la esalta più del dovuto. L’elemento che, infatti, più mi ha colpito e che si ripresenta quasi ossessivamente nel suo discorso, è proprio questo rendere assoluta l’ottica generazionale. A me essa pare solo un surrogato di un’ottica generale (o discorso generale) che non c’è più e andrebbe ricostruita. A lei pare solo un errore da evitare. Se « un cinquantenne che ha già liquidato i suoi mutui e un ventenne sbalestrato nell’incertezza del mondo non possono amare gli stessi libri, né avere lo stesso spirito» perché – mi chiedo – potrebbero rassegnarsi alla situazione disastrata (o no?) in cui entrambi vivono? Perché dovrebbero contrapporsi tra loro invece di allearsi?

    8. Perché trova «commovente» (e cioè ridicolo, anacronistico) il fatto che io della storia moderna ricordi le ambivalenze? Le pare corretto appellarsi alla modernità per liquidare il postmoderno di Ceserani e poi eludere un discorso critico sulle sue ambivalenze ( che sarebbe poi un equivalente del da lei vilipeso “discorso generale”)?
    Scrive: «Ambisco a essere uno storico della letteratura e della cultura: non ho alcuna pretesa di ricostruire epoche della storia totale non solo perché non ne sarei in grado, ma perché penso che quell’impresa ponga difficoltà insormontabili e rischi di risolversi in una narrazione generica e sfocata (in questo sospetto per i «grands récits» sono lyotardiano anch’io, come si vede). E’ vero che in passato sono stati commessi errori nell’affrontare in modo meccanico il rapporto tra storia generale e storia specifica (letteraria). È vero pure che non si può pretendere da un singolo studioso questa riformulazione di un “discorso generale” adeguato al presente, ma perché rinunciarvi con tanta disinvoltura e con tanti sberleffi? Perché difende «Gomorra», allora?
    Perché sente il bisogno di mutamento. Ma il mutamento non può essere solo “culturale”.

  5. @ Abate
    Basta che in giro non ci siano tordi, allocchi, uccelli del malaugurio. E mi scusi: ma non può scegliere metafore meno insidiose di quelle aviarie?

    1. Non sono neutrale: non faccio scelte di campo a priori, che sarebbero del tutto insensate (e. g.: viva la non fiction! o: viva la fiction!).

    2. C’è sempre un dopo: certo, ma tutto sta a vedere quando. Ceserani, per esempio, non ritiene che siamo in un dopo. Ho sempre scritto che l’ipermoderno non è una rivoluzione rispetto agli anni precedenti: tuttavia, mi sembra proprio che il clima politico dagli anni Novanta cambi (si inizia con la guerra nell’ex Jugoslavia, si passa all’11 settembre con le sue conseguenze, si arriva ai movimenti europei sino alla primavera araba, ci si impantana nella crisi).

    3. Mah, non direi così circoscritta, visto che abbraccia un grandissimo numero di paesi; e vaga proprio no, mi scusi.

    4. Non la seguo. Non siamo rientrati nella fiumana del moderno: il postmoderno occultava che dalla modernità non siamo mai usciti davvero.

    6. Che hanno a che fare la mia cultura o il mio metodo di lavoro con il neopositivismo? Se legge «allegoria», dovrebbe sapere da che parte sto. Ho propensioni ermeneutiche, resto affezionato alla psicoanalisi, in sociologia mi piace Bourdieu, in storia le Annales e Foucault; e tante altre cose. Ha bisogno del pedigree? Al neoliberismo oppongo una cultura politica di sinistra piuttosto disincantata, visto che, come dice lei, «il discorso generale che servirebbe oggi non c’è»; o visto che il discorso generale non è possibile e nessuno ci crede. In ragione del mio disincanto, non posso fare di un tentativo di storiografia del presente un manifesto politico. (Sarebbe del resto un modo dubbio di fare critica letteraria).
    In casi di emergenza reale presterei i primi soccorsi, ma non credo mi improvviserei pompiere o infermiere: rischierei di fare più danni. Desidererei, invece, una maggiore serietà dei singoli e collettiva. L’improvvisazione funziona solo se uno ha un’esperienza consumata (es.: Beethoven che improvvisa al pianoforte); altrimenti, diventa ciarlataneria e disastro.
    Assumersi con rigore il proprio ruolo vuol dire precisamente riprendere a costruire la polis. Le supplenze non funzionano.
    I suoi «non basta» (Botticelli si riconosce dalla forma degli alluci, lei da quelli e da Fortini) mica chiariscono cosa basta: davvero si accontenta di mettere in luce la politicità implicita di quel che uno fa? Onestamente, a me non pare che il discorso di Ceserani, o il mio, non abbiano una politicità implicita evidente: semmai, non è quella che piace a lei; semmai, siamo – ciascuno a suo modo – troppo poco baldanzosi. Neppure in lei, del resto, vedo baldanza; né mi pare che la politicità del suo discorso sia così produttiva.
    Ogni tanto ho l’impressione che lei chieda a chi studia letteratura di fare l’ammaestratore di coscienze, il faro politico, l’analista del fuori, l’ideologo del vogliamo tutto, l’edificatore dei discorsi generali, il legislatore delle leggi non varabili, il pedagogo ad usum… no, a chi sia destinato l’uso non lo sa neppure lei. Anche questo chiedere dichiarazioni di propositi e patenti di militanza politica, perché altrimenti il discorso è incompleto evasivo o complice del Male, mi suona sospetto. Non è il mio genere, in ogni caso.

    7. Ho scritto chiaramente che non intendo millantare di essere un portavoce generazionale. Non gioco a propormi come il Renzi della critica letteraria – non essendo, oltretutto, neppure segretario comunale di Pedesina o Morterone. Tuttavia, il mio vissuto, come quello di molte altre persone coetanee ha avuto un significato profondo per le mie scelte culturali: non esalto la mia autobiografia, appunto perché ne circoscrivo il significato e gli effetti (e perché arrivo a parlarne tardi, un po’ controvoglia). Lei ha perfettamente ragione quando dice che il discorso generazionale rischia di essere un surrogato, sebbene provenga da una generazione che ha tromboneggiato bandisticamente su se stessa, respingendo le ormai due generazioni successive nel regno delle ombre, delle vite incompiute, di quelli a cui spetta vivacchiare a festa finita, dopo la calata del sipario che quella avevano calcato in calzamaglia e con la spada al fianco. Anche per questo, un po’ più di conflitto – cioè di consapevolezza – generazionale non guasterebbe neppure oggi. Del resto ho 44 anni, sono già passato dalla parte dei figli a quella dei padri (potenziali). Un’alleanza fondata, per esempio, sull’esperienza del precariato e delle nuove forme di lavoro o dell’assenza di lavoro non sarebbe così parziale o surrettizia: e questa esperienza (ha ragione) non è esclusivamente generazionale, ma lo è in buona misura. Quindi non vado a far la guerra a mio padre – il quale ha lavorato in un’azienda del gruppo Fiat smantellata negli anni Novanta, è stato in cassa integrazione a lungo e alla fine, avventurosamente, ha trovato una nuova occupazione prima di andare in pensione (godendo, per sua e nostra fortuna, di ammortizzatori sociali di cui io, i miei coetanei e i loro figli non si sa se godranno).

    8. Trovo commovente che lei denunci le ambivalenze della modernità con un «a pensarci bene, non è che» (direbbe: «a pensarci bene, non è che il totalitarismo fosse il massimo»?). A me non pare che siamo alla sofferta angoscia o all’indignazione (che comunque serve): a me pare che a lei non vada giù il riformismo come ipotesi più praticabile, oltretutto con enorme fatica.
    Sulle ambivalenze della modernità esiste una tradizione di pensiero gloriosa: non mi ci sottraggo affatto, ma neppure mi metto a ripetere sempre le stesse canzoni, per quanto possano essere in pianta stabile nella mia playlist. Il mutamento non può essere solo culturale: ma non mi posso inventare mutamenti che non ci sono. L’idea che non possano nascere mutamenti dalla cultura è, del resto, un pregiudizio insostenibile. La cultura è un campo di conflitti non meno vitale dell’economia.
    Difendere Gomorra è l’ultima delle mie preoccupazioni. Me ne occupo perché segnala un posizione intellettuale, un modo di intendere la letteratura e il suo rapporto con la vita civile, un’apertura che, a dispetto di limiti talvolta pesanti (moralismo, eccessiva fiducia nell’io come depositario-mediatore di verità, una certa assenza di rigore) ha spalancato la finestra e ha cambiato l’aria viziata. Per speranza, insomma.

  6. Spero che mi scuserete, ma a me questo ipermoderno sembra un novello sarchiapone.
    Quando qualcuno si assumerà l’onere di mostrare l’utilità di questo concetto, naturalmente a fini classificatori, allora sarà interessante confrontarsi in proposito.
    Il rischio mi pare è che questo ennesimo neologismo sia confinato ad un uso autoreferenziale per gli addetti ai lavori, e quindi fine a sè stesso.

  7. @Donnarumma

    come sempre sono quasi completamente d’accordo con lei, specie sul piano delle osservazioni sul nostro essere umani in transito (dal moderno a non si sa ancora dove; dalla sicurezza sociale conquistata dai nostri padri a carriere lavorative senza paracadute, che se va bene cominceranno a 50 anni, e dureranno fino agli 80 anni…). Però ” eccessiva fiducia nell’io come depositario-mediatore di verità ” ero io a rimproverarlo a lei, l’altra volta, e lei mi bacchettò…

  8. @ Donnarumma

    Brevemente:

    2. Ecco, poiché tutti sentiamo che il clima politico dagli anni Novanta è cambiato, non sarebbe il caso di studiarselo un po’ meglio e più direttamente questo cambiamento “climatico-politico”, visto che il “conflitto delle interpretazioni” sul suo senso possibile è abbastanza forte, come si vede anche dalla discussione nei pochi post politici di LPLC?

    4. (e 8.) Benissimo: diciamo che non siamo mai usciti davvero dalla fiumana del moderno e che sulle ambivalenze della modernità esiste una tradizione di pensiero gloriosa. Ma converrà che, anche se fossimo condannati a ripetere sempre le stesse canzoni, il (suo, credo) ritornello che canta «il riformismo come ipotesi più praticabile, oltretutto con enorme fatica» è diverso dal ritornello (mio), che all’ingrosso canta: «il riformismo non è mai praticato, viene solo declamato»?
    Le rivoluzioni non pagano? Ma forse stiamo riscuotendo qualcosa dagli innumerevoli decenni di riformismo? Le rivoluzioni hanno i loro costi, ma quelli della “stagnazione riformistica” perenne a me paiono più alti. (Certo, dipende da punto di vista in cui ci collochiamo…).

    7. Ho molto rispetto per il vissuto di precario, suo e di tanti altri. (Pensi che io ho avuto un vissuto da immigrato al Nord Italia; e me lo sono dovuto smazzare da solo o con altri immigrati, quasi come succede oggi ai precari…). Se lei però riesce a distinguere postmoderno e ipermoderno, non capisco perché non debba distinguere tra me e molti altri ex-sessantottini. Non ci ficchi tutti assieme nel sacco della spazzatura della storia. Mi troverei troppo a disagio assieme a Ferrara, Santoro, Lerner & associati. Non siamo stati, infatti, tutti a tromboneggiare, a respingere le generazioni successive nelle ombre dell’Ade capitalistico, a festeggiare, ecc. Solo una parte di quei partecipanti al ’68 hanno fatto queste porcherie. E stia anche attento ad auspicare « un po’ più di conflitto – cioè di consapevolezza – generazionale». Perché si ritroverà – paradossalmente – proprio assieme a quella brutta compagnia di ultrarivoluzionari, oggi paladina del «riformismo come ipotesi più praticabile». Che – se non sbaglio – pare convincerla di più. E che io – vecchiaccio, fortiniano, attardato e improduttivo bastian contrario – non ho voluto mai accettare, restando tra i commentatori periferici di questa nuova Belle Epoque così ingemmata nelle università e nei mass media di ex rivoluzionari riciclatisi in riformisti e democratici.
    Devo poi farle anche notare che l’esperienza del precariato e delle nuove forme di lavoro divide più che unire (come succedeva col proletariato di fabbrica di una volta); e che purtroppo un’alleanza tra precari, in assenza di una nuova forza politica capace di spalleggiarla e darle continuità, non viene fuori. Malgrado gli sforzi onorevoli dei “sanprecaristi” e le elaborazioni puntuali sul “lavoro autonomo di seconda generazione” e sui “lavoratori della conoscenza” ecc. di studiosi ammirevoli e inascoltati come Sergio Bologna. Ora buon per lei che non si è trovato a far la guerra a suo padre, ma ironizzi di meno sui miei sicuramente poco baldanzosi «non basta», perché si accorgerà lei stesso – che anche la sua «alleanza tra precari» non basterà.

    P.s.

    Lei non difende Gomorra, ma se ne occupa per le buone ragioni che indica. Bene. Faccia un altro sforzo: invece di vedermi come uno zdanovista o un millenarista, mi consideri un semplice spalancatore di finestre per cambiare l’aria viziata. Mica lo sanno fare soltanto Saviano e quelli della vostra generazione…

  9. @ Cucinotta
    Abbandoni i pregiudizi, e non sia misoneista. Anche romanticismo, DNA o pc sono nati per gli intendenti. Lei adotta solo le parole della tribù? compra una canzone solo se l’hanno già ascoltata tutti? L’utilità dei concetti è interpretativa, non classificatoria.

    @ Massino
    Beh, grazie. L’unica bacchetta che mi piacerebbe è quella di direttore d’orchestra. L’eccessiva fiducia si manifesta in Gomorra solo a sprazzi, ma è il pericolo che Saviano corre dopo (Zero zero zero è davvero peggio). Di mio, se devo esprimere adesioni estetiche personali, preferisco scrittori magari pure vistosamente narcisisti, ma temperati dalla consapevolezza, dal dubbio e magari dall’autodenigrazione (p. es., Siti).

  10. @ Abate
    Ma tutti questi sforzi devo farli con tutto questo caldo? Lei è impietoso.

    1. Ci mancherebbe. Leggo e studio tutto il possibile. Ma non sono né uno storico, né un politologo, né ritengo che la storia letteraria consista nel fare il quadretto della storia vera e nell’allinearci davanti le figurine della letteratura.

    2. Ho appunto detto che il mio ritornello non le piace, perché il suo è diverso. Comunque canto anche canzoni tutte intere, e ho un discreto repertorio (sono un tenore lirico, anche se nei commenti faccio il tenore di grazia: non mi chieda parti da Heldentenor. E pure, lei, con la sua voce di basso, non si fissi solo sul Commendatore, su Boris Godunov o sul Grande Inquisitore).
    Quando farà la rivoluzione, anche se non è un pranzo di gala, mi inviti lo stesso.

    7. Visto che sono nato a Torino ma mi chiamo Donnarumma (e non Pautasso o Rebaudengo) so benissimo cosa volesse dire emigrare da sud a nord e dalla provincia rurale alla città industriale. Proprio perché uso la categoria di generazione con le pinze, e scetticamente, non faccio di tutte l’erbe un fascio (o una falcemartello). Tuttavia, alludevo a un atteggiamento generale, che colpisce anche persone più oneste e illuminate dei Ferrara (ci vuol poco) e che, anche quando presentino il loro passato in modo critico o malinconico, lo presentano come un passato di Grandi Eventi (magari fallimentari o luttosi) contro un presente in cui succede pochino e ai ‘giovani’ per destino o per colpa è inibita la possibilità di fare. Sono comunque lontanissimo dalle liquidazioni del Sessantotto, per detestabili che possano essere alcuni ex-sessantottini.
    Come marxista, dovrebbe apprezzare il conflitto.
    Sono del tutto d’accordo che il proprium del precariato (e uno dei suoi fini) è precisamente distruggere la possibilità di mettersi insieme, riconoscersi, elaborare un pensiero comune, programmare un’azione. Appunto per questo è difficile; e se non basta, sarebbe già molto: moltissimo. Ma lei, come tutti gli amici del meglio (o addirittura dell’ottimo?), rischia di fare il nemico del bene.

    P.S. Davvero, non se la prenda se ironizzo. Come diceva mia nonna: quello è carattere. Non la giudico né zdanovista né millenarista: semmai, mi sembra massimalista (e ci può stare benissimo, come un Mefistofele a rovescio) e nostalgico (ma questo spegne anche il massimalismo). Grazie per le finestre aperte, ma… non basta: ci vuole anche l’aria buona.

  11. Non voglio aggiungermi al caldo come suo torturatore.
    Ci risentiamo ad un prossimo post di aggiornamento sull’ipermoderno.
    Apprezzo molto la sua ironia. Mi permette di migliorare la mia serietà.
    Mi inviti anche lei quando farà una buona riforma con qualche ministro della sua generazione.

  12. @ Abate
    Nessuna tortura, e nessun amico ministro. L’ironia serve sempre a migliorare la serietà.

  13. @Donnarumma
    La ringrazio, ma non volevo tirare in ballo l’ermeneutica, non facevo un discorso di carattere generale sui concetti, mi limitavo a dire che il termine “ipermoderno” ha un intento classsificatorio, in fondo non è che un’etichetta che possiamo appiccicare quando ne riscontriamo l’esigenza, una etichetta in più di quelle che avevamo già.
    Naturalmente, non nego di avere il mio bagaglio di pregiudizi, e del resto ogni essere culturale ne ha, come potrebbe farne a meno? Anche se convenissi sull’uso del termine “ipermoderno”, non farei altro che alimentare i miei pregiudizi, non di liberarmene.
    Così, proponevo semplicemente un criterio utilitaristico, ma sicuramente sono io a non scorgerne l’utilità.

    Approfitterei però dalla sua disponibilità ad interloquire con me per affrontare un altro tema che lei solleva nei suoi interventi, quello dello specialismo. Lei lo giusitifca, dice che è l’unico modo per fare qualcosa per bene, ma io non ne sono affatto certo. Al contrario, mi pare che sia impossibile fare bene qualcosa non avendo una visione generale. Ne sono così convinto che considero lo specialismo una malattia dei nostri tempi, anzi una delle più gravi perchè mette a rischio la stessa dimensione delle vite individuali, una volta persa ogni possibilità di confrontarsi con la realtà all’interno di un quadro unitario e coerente. Naturalmente, mi rendo anch’io conto della gravità e della vastità del problema, ma anche se dovessimo concludere che sia quasi impossibile uscirne, ciò non giustificherebbe a mio parere il negarne l’esistenza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *