Il faut être absolument hypermodernes. Una replica a Remo Ceserani
di Raffaele Donnarumma
[Questo intervento è uscito sul sito di «Allegoria». Il saggio di Ceserani si legge qui]
Giudizi (e generazioni?)
Con la cultura e l’acume che abbiamo sempre ammirato in lui, Remo Ceserani risponde alla sezione sugli «Anni Zero» di «Allegoria» 64 e, in particolare, al mio saggio Ipermodernità. Ipotesi per un congedo dal postmoderno. In larga misura, Ceserani sviluppa la posizione che ha assunto da anni: il postmoderno rappresenta una frattura epocale, e la sua letteratura e la sua cultura hanno raggiunto risultati diseguali, ma spesso molto alti. Condivido, anzitutto, la fiducia nella possibilità, pur rischiosa, di una storia del presente; vari aspetti della sua ricostruzione; numerose osservazioni o principi direttivi che propone: perciò, darò per acquisito molto di quell’analisi. Giudico poi alcuni motivi di contrasto solo apparenti; ma su altri punti decisivi resto, invece, in disaccordo.
Prima di tutto, vorrei sgombrare il campo da qualche equivoco. Posso rassicurare Ceserani: sono ben lontano dal pensare che Pynchon o DeLillo o Rushdie non siano scrittori straordinari; sono un grandissimo fan di Gehry; non mi sono perso un film di Lynch o di Altman; ascolto spesso Philip Glass. E – bisogna dirlo? – giudicherei inabilitato alla parola pubblica chi non avesse letto, studiato e meditato i pensatori e i filosofi che hanno scritto tra anni Sessanta e Novanta e che, del resto, mi guarderei bene dall’etichettare tutti come postmoderni, per postmoderna che ne possa essere stata la ricezione. Debbo aggiungere che, di fronte alle milizie celesti che Ceserani squaderna (e che includono, senza troppo amore di distinzione, «Nabokov, Pynchon, DeLillo, Vonnegut, Tournier, Pennac, Michou, Amis, Fowles, Barnes, McEwan, Byatt, Banville, Ishiguru, Kureishi, Rushdie, Ondaatje, Borges, Cortázar, Bolaño, Saramago, Marías, Vila-Matas, Bernhard, Jelinek, Hrabal, Kertesz, Kazakov, Murakami, Altman, Coen, ecc. ecc.») lo sparuto manipolo di nostri connazionali («Eco, Calvino, Tabucchi e Tondelli ») (p. 212) fa un po’ arrossire – con l’eccezione, anche se non entusiasmante, di Calvino (il quale, per altro, non ha mai preteso di entusiasmare); e con qualche simpatia per il primo Tondelli. Individuare in un movimento culturale una dominante ideologica più o meno dichiarata o latente, come molti critici del postmoderno hanno fatto, non significa affatto seppellire sotto quella tutto e tutti; soprattutto, non significa affatto cancellare il valore delle opere: semmai, vuol dire restituirgli un qualche spessore e una qualche forza contraddittoria per averle poste in una rete di relazioni. Persino Marx, si sa, si appassionava a quello sdottorante reazionario che era Balzac. Figuriamoci se uno sdegnoso avversario dell’ideologia postmoderna come me non può sprofondarsi nella lettura di Nabokov o di Bernhard (e proprio per quello, non di Eco). Dunque: la mia avversione per un’ideologia non è affatto ostilità preconcetta per l’arte o per le acquisizioni che quella stessa cultura ha prodotto. Trovo anzi stupefacente che si misuri l’apprezzamento per un fatto estetico con l’adesione ai suoi contenuti o alla sua visione del mondo.
[Immagine: Michael Wolf, Transparent City (gm)].
Innanzi tutto la sua replica mi ha di certo chiarito molti punti in merito alla sua posizione rispetto alla tematizzazione della ‘categoria’ dell’ipermoderno, come evento da incapsulare nell’alveo più ampio delle evoluzioni, più o meno agoniche o, direi, semplicemente fenomenologiche, della modernitas letteraria, anche se, non potendo entrare nello specifico per impotentia disserendi (a ciascuno il suo mestiere, come ho avuto modo di dire nella precedente discussione) credo di intravedere spazi utili perché Ceserani controreplichi, se lo riterrà opportuno.
Ci sono però dei passaggi nella prima parte argomentativa, quasi proemiale, del suo ragionamento che mi lasciano perplesso; in specie quando parla della sua ‘autobiografia intellettuale’, una sorta di presupposto biografico alla sua necessità di altro in letteratura. Nativo postmoderno come lei e con gusti, esperienze e inclinazioni diverse dalle sue, oltreché ruolo e mestiere diverso, magari opposto, mi risulta difficile seguirla quando, nel descrivere la sua ‘resipiscenza’ dal postmoderno letterario che l’ha nutrita e ci ha nutriti, sostiene che la ‘volgarità’ della situazione socio-economica e culturale odierna (il precariato come punta dell’iceberg, ovvio) butta giù «un castello di carte buone per ingannare il tempo, ed evitare che la partita si giochi». A quale partita allude, con quali regole e con quali esiti – ogni partita ne presuppone uno – la letteratura nuova dovrebbe giocare questa partita con il dato presente? Ancora: la letteratura tardo-postmoderna ha rimosso l’esperienza drammatica odierna («era, piuttosto, che rimuovevano quanto stavo vivendo») oppure «per tutto il corso degli anni Settanta, il nostro paese era agitato da mutamenti violenti e sanguinosi, gli scrittori postmoderni, che ne pativano l’aggressione, non volevano e forse non potevano chiamarli con il loro nome, e raccontavano piuttosto di castelli dei destini incrociati, di adediretti, di biblioteche conventuali, di giochi del rovescio. Allegorie o elusioni? acquisti di conoscenza rispetto all’invadenza della cronaca, o fughe da un presente troppo tumultuoso? lotta dell’immaginazione, o cedimento del pensiero che si affanna a ripensarsi pur di non vedere la propria sconfitta, pur di sottrarsi al senso della propria inanità?». Poi sostiene che, nella desolazione di tutto questo, trovava maggiore conforto buttandosi nelle braccia rassicuranti di Dostoevskij o Kafka (che, vissuti in epoche assai più burrascose delle nostre, non certo ricorsero a una letteratura sintomatica per evocarle; anzi se ne sganciarono il primo con un romanzo finto-borghese e il secondo con una narrativa onirico-allegorica che dentro aveva mantrugiato la nascita delle società proletarie e il primo conflitto mondiale). Parlando poi di Calvino, come simbolo di una letteratura postmoderna prigioniera di se stessa, si domanda: «ma il lavoro che richiede la decifrazione di un libro così arduo, cosa produce?». ‘Decifrare’ un libro a volte è uno dei gangli della dimensione ludica della letteratura (che non è affatto acquisto postmoderno, ma ingrediente antichissimo): decifrarlo deve avere un utile al fine di tutto? E quale sarebbe? Rimossa la fatica della decrittazione, avere un prodotto che ti dichiari subito quale ‘partita’ vuole giocare, da che parte stare, e per andare dove e per fare cosa, questa è forse un’idea di letteratura più vicina ai tempi, in grado di narrarli davvero? Mi deriva da tutto questo un’impressione, di certo deformata come ovvio dalla mia personale inclinazione, che non è tardo-postmoderna ma men che meno ‘realista’, e che non è legata affatto alla sua formulazione, anzi esula da questa. Da un bisogno pur legittimo e veritiero, quello di prendere aria dal cortocircuito ombelicale del tardo-postmoderno, alla ricerca di qualcosa che ‘suoni’ più aderente alla cifra dei tempi nostri, si innesca, consapevolmente o no, una sorta di investigatio per sondare il nuovo. Mi domando: non è che questo nuovo parla meglio e più ragionevolmente del presente forse più per il suo carattere sintomatico? La sua novità è nella lucida diagnosi di un sintomo e nell’implicita progonosi che vuole immaginare (la ‘partita’ da giocare)? Le cartelle cliniche che descrivono un tumore al fegato si somigliano un po’ tutte da qualche decennio; cambia il lessico, la farmacologia, il decorso, la grafia del medico e purtroppo gli esiti finali, ma se tra qualche decennio, si spera, non esisteranno più tumori saranno archeologia medica, roba da museo. L’anatomofisiologia di un organo quella non cambierà granché, invece, ma mille sono i modi per poterla raccontare a una matricola.
Poi: se il postmoderno ancora conservava al suo interno una caratura di letteratura autoriale (pur in un mercato editoriale assai diverso da quello degli ultimi vent’anni), una letteratura ‘realista’ o ‘ipermoderna’, all’interno dei nuovi fasti quali la globalizzazione o la rivoluzione digitale e con la mutazione profonda delle logiche massificanti e mercantili dell’editoria, non rischia di fare dello scrittore un ecografo della realtà, sovrapponibile a un giornalista, un reporter, un cronachista di mode e usanze, spesso costretto alle forme spettacolari del banditore, del sociologo politologico, dell’intellettuale che deve dire la sua pure sull’estinzione della foca monaca? Non si rischia che il sistema letterario, oramai ai margini dei sistemi di produzione e diffusione ‘culturale’, diventi ancora più ancillare proprio tentando di farsi promotore di una rinnovata lettura del reale, di cui fatalmente finirebbe non per essere un nuovo cantore ma un altoparlante di certo meno efficace e pervasivo rispetto ad altri mezzi tecnici di narrazione e rappresentazione della contemporaneità?
Un contributo. Spero.
https://www.facebook.com/notes/vladimir-damora/anton%C3%ACn-kos%C3%ACk-il-mondo-collegato-so-che-non-so-quello-che-so/10151456423547761
…è bello vedere questi duelli intellettuali, provando a immaginarli come se fossero schermaglie tra eroi omerici o robottoni giapponesi, con colpi di scena, cadute e resurrezioni, colpi segreti del drago nascente e punti tsubo pronti a far esplodere corpi di sventurate comparse in una doccia di sangue…
…quel che resta però è l’impressione di una ruota che gira a vuoto, di una battaglia furiosa tra cappellani militari e cuochi ai margini della reale tempesta d’acciaio, quando non di un accapigliarsi da maschere di commedia dell’arte per il diritto a portare il pitale del padrone…
…le ondate di schemi truffaldini per contrabbandare una visione del mondo in modo da perpetuare l’isteria logorroica del pensiero critico continuano a sovrapporsi, ma sono sempre più destinate a lasciare solo brevi impronte di risacca sopra il bagnasciuga, nell’indifferenza dei bagnanti che si rinfrescano i piedi…
…è una tensione discorsiva che si fa più affannosa meno stringe le briglie della realtà, un sovrapporsi di ingorghi analitici che sostituiscono teorie a teorie senza mai riuscire a proporre una prassi…
…e tutto ciò, da un lato puramente letterario, di presa di coscienza, non è discorso nuovo, almeno dalle visioni dantesche di Eliot sul ponte di Londra, o da prima ancora, dall’inseguimento nella folla orchestrato da Poe…
…e tutto ciò, da un lato militante, politico, anticapitalista (ohibò, addirittura), non è discorso nuovo, e rinnova costantemente l’impasse della scuola di Francoforte, per quanto possa averla lasciata indieto attraverso infinite formule di confutazione verbali (per generazioni e generazioni di scaldasedie pseudorivoluzionari), o quella dell’arbeiter di Ernst Junger…
…passando per il luciferino Junger, verrebbe da dire che nel dominio della forma del lavoratore trovino posto anche i tipi umani del critico e dell’autore…
…di questa finta dialettica tra postmoderno e ipermoderno, dégagé ed engagé, finzionale e realista, ci sarebbero da segnalare le continuità e contiguità palesi, una su tutte: l’arrotolarsi della referenzialità dentro la figura autoriale. ma se l’autore postmoderno (paradossalmente?) dimostrava ancora troppo rispetto della realtà ontologicamente data per sovrapporvisi, nascondendo la sua figura ingombrante dentro mondi palesemente e dichiaratamente finzionali, l’autore ipermoderno non ha le stesse remore e pretende di poter inghiottire la realtà dentro il proprio ego narrativo, rivendica questa possibilità come suo diritto/dovere…
…parlare della realtà è funzionale alla creazione/perpetuazione del marchio/nome dell’autore (a volte, come nel caso dei Wu Ming, dannatamente simile a un trademark): si crea un circuito tra le istanze del mondo reale e conflittuale, con le domande popolari di rappresentanza e rappresentazione inevase che esprime*, e l’inesausta opera di mediazione offerta da quelle figure che in un qualunque modo hanno le chiavi d’accesso ai palchi della rappresentazione mediatica (secondo una gerarchia che, ovviamente, ha al vertice la televisione, ma non certo all’ultimo gradino il mondo dell’editoria); queste figure mediatrici si situano nel collo di clessidra della distribuzione informativa mediat(ic)a, svolgendo la propria lotta per stabilire agenda setting e spirali del silenzio; se alla base della clessidra ci sono i “produttori” di istanze popolari conflittuali, quei movimenti che chiedono ascolto*, alla sommità della clessidra sono invece le persone da raggiungere, la grande platea dell’opinione pubblica…
…se il postmoderno, dunque, si ritrae, lasciando che sia la sua inoffensività a garantirgli benevolenza nel presidio militarizzato del collo di clessidra, l’ipermoderno pare voler tentare di costituire un’avanguardia (in senso vagamente leninista) in grado di combattere una guerra di posizione dentro il collo della clessidra stesso…
…tuttavia questa pretesa si scontra con un limite oggettivo: la presenza nel collo della clessidra è soggetta a criteri d’accesso molto ristretti stabiliti da gerarchie piuttosto salde, è per questo che molti autori tentano di sfruttare le correnti ascensionali generate dalla pressione della base per conficcarsi in posizioni di rilievo…
…tuttavia, il controllo delle paratìe di scambio tra emittenti di istanze sociali e presunti riceventi rimane ancora saldo, e buona parte delle istanze veicolate dalla mediazione autoriale su per le vie sempre più strette e ingorgate della clessidra vengono respinte ai mittenti…
…mittenti che peraltro, attraverso un gioco di rifrazioni piuttosto curioso, tendono a ricevere con gioia il proprio stesso messaggio rielaborato e appropriato dal collo della clessidra come si trattasse di una conferma empirica delle proprie opinioni, in un classico esempio di feedback positivo che altera l’equilibrio del sistema…
…l’autore, come ogni mediatore, ne guadagna due volte: da un lato in fama presso l’uditorio di cui ha rilanciato le richieste, che si ben dispone nei suoi confronti, dall’altra in solidità economica dentro i piani aziendali, i quali non restano indifferenti di fronte alle lusinghe di qualsiasi target abbastanza vasto da consentire un margine di guadagno sicuro…
…le grandi organizzazioni che presidiano il collo della clessidra, d’altronde, hanno una visuale diversa da quella testè esposta, il loro punto di vista le porta a vedere non una base e un soffitto, ma due identiche basi composte di brulicanti masse poste nella medesima e passiva posizione di riceventi…
…la massa dei produttori di notizie è altrettanto inutile e indistinta quanto quella dei consumatori di notizie…
…l’unico feedback possibile è nella massa monetaria che accompagna il transito delle informazioni…
…in tutto ciò, la pretesa di sovvertire il sistema che passi ancora dall’interno del collo della clessidra non può che essere rigettata…
…il mediatore mediatico svolge un’evocazione medianica del cambiamento voluto dal suo target di riferimento, ma essa non è nulla più che un’immagine fantasmatica, Saviano con la camorra è, in questo, paradigmatico…
…questa immagine fantasmatica genera autocompiacimento e autosuggestione, alle volte aiuta a rafforzare determinazioni e azioni, ma raramente, e comunque al prezzo di sovrapporgli un’impalcatura simbolica eterocentrata…
…ciò che non può o non vuole sottostare a questa impalcatura simbolica eterocentrata, si trova spesso nell’infausta situazione di dover combattere un invasore che marcia per le sue terre apparentemente lanciando fiori (cionondimeno con il passo del dominatore)…
*è superfluo rilevare il paternalismo di questa concezione, nondimeno essa è molto diffusa, sebbene spesso sottaciuta per carità di patria
Caro Donnarumma,
ho letto con piacere e con un po’ di fatica il suo saggio, e vorrei farle delle domande ( delle osservazioni ): anch’io ascolto spesso Glass, ma non ho capito il suo riferimento, e in generale non capisco perché si citano sfilze di autori e un pugno di opere. In generale mi pare che si usino troppe parole e in maniera sproporzionata alla portata dei loro significati. La parte più bella è quella dei suoi ricordi giovanili, ma c’è bisogno di un tale pippone per arrivare a Saviano e all’impegno civile dello scrittore? A me pare un discorso da circolo privato, e mi pare un peccato oltretutto. Poi non ho capito alla fin fine cosa si aspetta dai libri. Se non mi risponde mi metto a piangere… :-****
@ Laccetti
La partita era semplicemente quella con le cose e con se stessi. Chi mai può farsi rassicurare da Dostoevskij e Kafka? Tutt’al contrario: semmai un po’ rassicurante era certo postmoderno; e io non cercavo rassicurazioni, ma di capire. Ha perfettamente ragione: non è affatto detto che la decifrazione di un libro debba produrre qualcosa. Ma mi ha sempre colpito come molti lettori di Calvino cerchino di riscattarlo in chiave civile, o politica, proprio quando, da quel punto di vista, Calvino aveva imboccato un vicolo cieco (e lo sapeva). Poi certo, alcuni libri del presente sono anzitutto sintomi; ma altri no, sono grandi libri (via, vi rifilo la mia cantilena ipermoderna e ripeto un po’ di nomi sparsi, perché tanto tutti lì andate a parare, ma aggiungeteci pure i vostri: Wallace Bolaño Roth Yehoshua McCarthy White Coetzee Cunningham Franzen Munro Houellebecq Sebald Littell; e in Italia Siti, Moresco, Covacich…). Non vedo perché il contatto con il reportage e il giornalismo debba svilire la letteratura e chi la pratica: sono semmai le prediche che fanno la cattiva letteratura (se vuol dire che la moda dell’impegno è autopromozionale e a volte di maniera, sono d’accordo). Rischi ce ne sono ovunque: pare anzi che il luogo in cui avvengono più incidenti sia proprio casa. Ma da qualche parte bisognerà pur stare.
@ D’Amora
Grazie. Non direi però che nel postmoderno «non c’è alcun passato»: al contrario, c’è una saturazione piatta di passato. I cibi surgelati sono una salvezza: ma sempre meglio quelli freschi.
@ Detrito spaziale
No, mi scusi: ma le pare gentile scrivere così? Non ho capito quasi nulla, mi spiace, e non so proprio che dirle: ammesso che mi chiedesse qualcosa.
@ Dwf vs Jf
Ho rischiato di farla piangere, allora. Guardi che questa è solo una risposta a Ceserani: il saggio vero sta su Allegoria 64 (ne trova un riassunto anche su http://www.leparoleelecose.it/?p=7486); lì, e in altre cose che ho scritto, ci sono anche le sfilze di opere. Poi si decida: la parte autobiografica è un pippone o le è piaciuta? A me per primo non va di parlare dei casi miei: ma non mi sembra affatto di aver ecceduto, né di aver confezionato un «discorso da circolo privato». Non vedo perché i settantenni possono presentare la loro esperienza come un accesso ai tumulti dello Zeitgeist e noi altri si debba stare sempre zitti e muti per understatement, facendo la figura di quelli che hanno passato la vita tra le ombre. Glass compare per il postmoderno in musica, ovviamente.
Dai libri mi aspetto cose che non mi aspettavo.
@ Donnarumma
ho fatto confusione: allora, mi è piaciuto, soprattutto la parte autobiografica, che non trovo affatto da circolo privato. Da circolo privato sono i riferimenti ad autori e opere dando per scontato che tutti li conoscano. Che senso ha citare mille cose e non soffermarsi mai, tanto più in un articolo destinato mi pare al pubblico. A un certo punto cita Appadurai, che io ho più o meno capito di cosa si occupa perché ho visto un video di Marco Aime in cui lo dice, con poche e semplici parole. Poi che Glass sia il postmoderno in musica a me non pare così ovvio. Farò una ricerca per conto mio, a ‘sto punto.
cmq il suo saggio l’ho scaricato per intero, immagino lo sappia che è possibile.
(chiedo scusa per la blasfemia)
@ Dfw vs Jf
Mi spiace: ma avendo già scritto di certe cose diffusamente (e avendo appena finito un libro sul tema) mi sembrava noioso per i lettori ripetere cose già dette altrove. Vuol mica farmi fare la figura del professorini che si rifrigge a ogni occasione? Il libro di Appadurai è Modernità in polvere, Cortina 2012. Di Calinescu si trova in italiano L’idea di modernità, UTET 2007. Di Beck citavo La società del rischio, Carocci 2000.
Non so cosa immaginare di più postmodernista di questo: http://www.youtube.com/watch?v=XENvMGyy4J8 (ripresa dell’antico, pastiche, rifiuto dell’avanguardia, commistione alto/basso, godibilità spettacolare; se guarda tutta l’opera non manca neppure un certo grado di indecidibilità e di sospensione ironica…), o di questo: http://www.youtube.com/watch?v=LFf6p6actPo (vd. sopra: è una passacaglia, ma mica come quella di Webern!).
@ Donnarumma
capisco ( oddio, capisco è esagerato ), ma mi rimane questa sensazione, magari è solo un problema mio. Non penso affatto che sarebbe noioso ripetersi e soffermarsi, anche perché se il senso è far apprendere gli altri, quand’è che si verifica questo apprendimento? Su un blog almeno è possibile commentare e chiarirsi.
Per cui anche la sagra di Strav è postmoderna? e Arvo part? Capisco che è faticoso, però così uno arriva, legge Glass postmoderno, come se tutta la sua opera fosse la stessa cosa, per non dire dell’etichetta minimalista. Le caratteristiche tra parentesi possiamo riscontrarle in tante opere di tanti autori. Capisco che dovrei studiarmi prima il postmodernismo in musica.
@ Dfw vs Jf
Ma no, ha anche ragione: mi scusi.
Mi ripeto subito, allora. Proprio non riesco a vedere nella Sagra i tratti prima attribuiti a Glass: quello, anzi, è proprio modernismo (come Mahler o Debussy: mica esiste solo l’avanguardia di Schönberg, Berg e Webern, con buona pace della Filosofia di Adorno). E poi, postmodernismo è una categoria anche cronologica (circa 1965-1995): come fa a essere postmoderno un balletto che ha avuto la prima nel 1913? Non sono di quelli che definiscono barocco il Laocoonte. Semmai dovrebbe darle qualche problema The Rake’s Progress (1951) o addirittura Pulcinella (1920): ma le rondini isolate annunciano la primavera, non la fanno.
Di Glass ho citato Akhnaten e il concerto per violino (e non Einstein on the beach) appunto perché non è tutto uguale. In genere, penso abbiano scritto cose postmoderne Reich o Adams o Pärt o Tavener o Corghi; ma non Boulez o Stockhausen o Nono o Berio o Ligeti (anche se per gli ultimi due ci vogliono dei distinguo): la tradizione dell’avanguardia è distinta dal postmoderno. Purtroppo non sono un musicologo: ci vorrebbero libri, in proposito, altro che post!
Finchè il “postmoderno” sarà un’etichetta da appiccicare pregiudizialmente a qualsiasi cosa vagamente gli somigli non se ne uscirà fuori, credo. A maggior ragione in quanto la parola stessa di “postmoderno” è, a sua volta, una neoformazione sorta originariamente, nelle buone intenzioni di Lyotard, come mera “ipotesi di lavoro” la quale solo successivamente, in base a perversi meccanismi di accettazione automatica, accademici e non, è stata data per buona senz’ulteriore determinazione che l’elencatio per analogia. Ma analogia di che? Circolo vizioso…
@ Donnarumma
vediamo se ho capito: sto leggendo La via del tabacco di Caldwell. è molto realistico ( a fidarsi ). Gomorra o le narrazioni documentarie ipermoderne ci aggiungono una osservazione ancora più vicina ( personaggi esistenti, documenti giudiziari eccetera ), più forte, in modo da essere in grado di colpire il lettore, perché ci sarebbe la necessità di parlare di cose vere. Però la distinzione tra narrativo e romanzesco non mi convince del tutto. Narrativo lo applicherei al reportage, romanzesco a Gomorra, laddove mette in scena comunque dei personaggi e delle situazioni.
ps
grazie
Caro Donnarumma,
le dirò che, “per uscir di metafora, il che francamente è un vero peccato” (come direbbe un postmoderno famigerato; tal L.Sterne), non capisco cosa voglia dire giocarsi una partita “con le cose e con se stessi” (magari uscendo di casa per evitare incidenti domestici). Nella mia gnoseologia letteraria l’unico, sacrosanto, inesterpabile impegno (sottolineato impegno) è proprio questo e se lo gioca secondo me il postmoderno come il realista, il barocco come l’avanguardista; perché è una sfida suicida con se stessi, con il tuo corpo e la tua vita, con la pagina, con il proprio tempo, con la tradizione e con il futuro, e si deve consumare solo nel perimetro della carta (anche se quella carta trasuda un mondo intero), mentre non dovrebbe odorare quella carta pretestuosamente di altro, se non per induzione implicita, per acquisizione naturale. Ho l’impressione spesso che a forza di desiderare di scovare qualcosa lo si scovi, ma sia un acquisto ex post, quella letteratura sintomatica, fenomenologica che, per carità, è sempre esistita accanto a quella che lavora nel profondo e spesso è meno visibile nel suo propagarsi. Citando Kafka e Dostoevskij non intendevo che lei si volesse rassicurare; però di certo per chi è nauseato dal tardo-postmoderno e ambisce a una letteratura che sappia di realtà, quei due tizi sono quanto di meno ‘realista’ possa esistere (chissà se Kafka avesse scritto un romanzo sulle ambasce di un povero impiegato delle assicurazioni ‘precario’ – altro se lo era! – magari avrebbe avuto successo in vita). Se uno scrittore assume connotati da giornalista o da reporter, per carità, liberissimo; di certo tra certe forme di scrittura sussiste non la possibilità di svilire la letteratura (già di suo abbastanza depressa) ma di finire a incartare scatole di scarpe, già che la ‘carta del giorno’ quella fine spesso fa e siccome il circuito cui mi riferisco è quell’oggetto finzionale chiamato romanzo (comunque declinato e manipolato) un tale tipo di esercizio letterario appiattisce tutto, tutto fa diventare simile. Mentre la forma fittile del romanzo stricto sensu ha ancora molte, ma molte cose da dire. In conclusione sulla diatriba per alcuni un po’ stucchevole tardo-postmoderno-postneorealismo: sono solo etichette, certo che sì. Bisognerebbe ricordare a volte che la letteratura non è altro che un meraviglioso, ozioso, inutile, indemoniato palinsesto su cui da molto tempo si scrive, cancella e riscrive lo stesso materiale, con modifiche di grafia, di tono, di timbro vocale. Spesso invece ogni epoca letteraria ha la presunzione di vivere la prima epoca del mondo, un’epoca letteraria vergine e incontaminata (anche se ovviamente ognuna ha i suoi caratteri specifici e la nostra ne ha più d’uno). E sarebbe bello alla fine di tutto che un critico letterario, uno studioso dei processi letterari contemporanei, comunque e giustamente orientato in quanto a gusto, se di vede recapitare un plico con due romanzi di autori anonimi, dove uno è un romanzo storico, che so, sulla fine dell’età umbertina, una città immaginaria, un omicidio ecc., e l’altro un romanzo su un insegnante precario che emigra dal sud al nord, se li leggesse entrambi e li valutasse serenamente senza dirsi che il primo è un parruccone rococò e il secondo un aedo del malessere presente oppure il primo un novello Manzoni e il secondo un poveraccio che scrive solo il diario delle sue angosce. Purtroppo a leggere certe recensioni il sospetto viene, altroché.
Gentile prof. Donnarumma,
solo un paio di modestissime questioni. Come darle torto quando attribuisce ai critici letterari la prerogativa di esprimere un giudizio sul presente, tuttavia, quando scrive che “Eco, Calvino, Tabucchi e Tondelli” fanno arrossire, si riferisce in generale alla lampante esiguità quantitativa del postmoderno italiano o alla scadente qualità narrativa dei loro prodotti? Effettivamente, si tratta di autori molto diversi tra loro che, a vario titolo, hanno contrastato l’ortodossia dell’impegno civile, ovvero non sopportavano l’idea di trasformare la propria opera in un manifesto ideologico. In breve, hanno forse capito per tempo che compito dello scrittore non è snocciolare verità (ideologiche, appunto) come fossero scatolette di tonno ad un pubblico ebete che le riceve, sorridente e soddisfatto, da una élite di Illuminati. Lei si preoccupa molto (e legittimamente) della ‘responsabilità’ dello scrittore, ma sembra trascurare del tutto, forse un po’ aristocraticamente, quella dei lettori.
Quando un racconto pretende di soddisfare interamente il mio bisogno di senso, lasciandomi poco spazio per interrogare ciò che sto leggendo -, magari servendosi surrettiziamente di un mannello di documenti ‘inoppugnabili’ – impedendomi così di costruire un percorso alternativo, persino non ‘autorizzato’ né previsto dall’autore, lo reputo semplicemente un pessimo libro. A cosa servono i documenti in una finzione? a mettere a tacere i sussulti della coscienza? quale reazione potrebbero mai suscitare in un lettore un atto processuale, o una perizia autoptica, inseriti dall’abile scrittore entro un complesso quadro di senso precostituito? Lei è disposto a credere, Professore, a tutto quello che legge? Scetticismo, ironia, deoggettivazione… non sono forse acquisti della modernità? Io preferisco, per quel che mi riguarda, non fidarmi né affidarmi mai incondizionatamente alla presunta autorità morale dell’autore, il quale ha forse il compito di sollecitare la mia coscienza critica, sospingendomi verso i più ariosi lidi dell’autonomia intellettuale e della consapevolezza partecipativa, piuttosto che farmi da balia. Insomma, risulta già arduo per qualunque narratore invitare il lettore medio (italiano) a vincere la sua proverbiale ritrosia mentale, che lo condanna pigramente a delegare sempre a qualcun altro la ‘responsabilità’ di dare risposte, di scegliere al posto suo, di immaginare un progetto diverso… Gli italiani non sono già fin troppo ‘creduloni’? Così almeno dicono certi scienziati… Quel mentecatto di Nietzsche (va di moda apostrofarlo, no?), oggi ridotto dai “nouveaux philosophes” a uno striminzito formulario di battute da talk-show televisivo (stesso improvvido destino per Heidegger e Derrida, confusi con le ‘intepretazioni’ dei loro epigoni), ci ha insegnato una cosa importante: nessuno può toglierci la possibilità di denunciare/negare il carattere repressivo e autoritario che talvolta la realtà può assumere… a dispetto di quanti affermano convintamente che le cose stanno così e così. Mi pare che Guglielmo da Baskerville riformulò tale prezioso suggerimento in questi termini: “I libri non sono fatti per crederci, ma per essere sottoposti ad indagine”. Un vero illuminista ante litteram!
A proposito di demenza produttiva: Gödel entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, credeva nei fantasmi e nella reincarnazione, era un assiduo frequentatore dell’aldilà (se così posso dire) insieme al suo caro amico Carnap, eppure tutto ciò non impedì a von Neumann di definirlo il più grande logico del Novecento dopo Aristotele e Leibniz… nessun matematico ‘sano di mente’ si sognerebbe di affermare pubblicamente che i due teoremi di incompletezza fanno ‘scomparire’ tout court il concetto di verità matematica.
Due paroline dolci su Ferraris. 1)Il filosofo post-debolista ha ribadito in diverse occasioni che la letteratura, non potendo porsi obiettivi pratici né tanto meno teorici, è chiamata ad assolvere al compito di suscitare emozioni e sentimenti. Ora comincio a commuovermi per davvero. Per i nuovi sedicenti realisti l’esperienza artistica vale solo come via d’accesso privilegiata all’ontologia, e non all’epistemologia. La creazione artistica non esibisce i requisiti adatti per entrare a far parte del maestoso edificio del sapere, non essendo abilitata a rivendicare alcuna componente riflessiva ai suoi procedimenti inerti e irrilevanti.
2) L’impianto concettuale alla base dell’ontologia metafisica [il mondo è fatto di oggetti. Nemmeno il Wittgenstein logicista aveva osato tanto: “Il mondo è la totalità dei fatti, e non delle cose”. Putnam ripudiò il realismo metafisico a metà degli anni settanta. Per tacere, a proposito dei presunti ‘oggetti della natura’, le rivoluzionarie acquisizioni della Scuola di Copenaghen, le ricerche di Paul Dirac, John Stewart Bell, David Bohm, ecc.] proposta da Ferraris rispecchia (quasi fedelmente) “il realismo negativo o minimo”(l’esistenza è resistenza, attrito…), teorizzato da Eco in Kant e l’ornitorinco (1997). Qui è appena il caso di ricordare che, mentre la critica letteraria, proprio in quel giro di anni, cominciava “a prendere sul serio” il postmoderno, nell’incerto tentativo di arginare i consueti sensi di colpa, complessi di inferiorità e disposizioni vittimistiche varie, Eco focalizzava l’attenzione sul realismo… Ferraris se n’è accorto circa dieci dopo. E la critica letteraria?
3)la letteratura è diventata puro intrattenimento, finzione, sciocca evasione… non solo per effetto del diabolico sistema massmediologico, ma soprattutto per gli effetti collaterali causati dall’iperspecialismo, consolidatosi velocemente nel corso del Novecento. Ciò che abbiamo guadagnato in verticalità l’abbiamo perso in orizzontalità. Qui forse il postmoderno aveva qualcosa da dire, ma l’ha detto male. La divisione specialistica del sapere, corroborata dalle magnifiche sorti e progressive della tecnologia, ha frantumato l’indagine sulla realtà in un notevole numero di settori disciplinari, ripristinando vecchie barriere e promuovendo un’arida autoreferenzialità. Stiamo ora assistendo, forse un po’ disorientati – contraccolpo inevitabile di una spaventosa crisi del capitalismo finanziario – ad un rapido e violento riassetto complessivo delle diverse forme di conoscenza, dunque, di gerarchie e priorità. Ogni disciplina è incaricata di indagare una precisa porzione di realtà: quale porzione spetta indagare alla letteratura per risultare ‘credibile’? La ricerca letteraria può ambire, oggi, a un conseguimento veritativo o è condannata a un ruolo triste e marginale rispetto alla speculazione scientifica e filosofica, molto più potente, quest’ultima, nel conflitto delle interpretazioni (anche qui, ahimè, il mentecatto docet!), cioè nella perpetua lotta per l’egemonia? Le neuroscienze, la psicologia cognitiva e le filosofie della mente hanno espugnato e consegnato alla formalità delle loro pratiche discorsive l’ultimo baluardo rimasto alle scienze umanistiche: la coscienza, ovvero il ‘racconto’ della densità e profondità di ogni esperienza soggettiva. Calvino ha ‘dimostrato’ (in senso debole) nelle Cosmicomiche che la più formidabile macchina mitopoietica della contemporaneità è la Scienza e i nuovi ‘affabulatori’ sono gli scienziati (sociologi, psicologi, antropologi, economisti, politologi, ecc.). Non sarà certo un ‘vero’ realista, il povero Calvino, ma aveva senza dubbio un acuto “senso del complesso”. Ha mai avuto occasione, Professore, di sfogliare un libro di Arnaldo Benini, o di Telmo Pievani, o di Giorgio Vallortigara, o di Daniel Dennett, o di Edelman e Damasio…??? Il grande Altro con cui fare i conti non credo sia la televisione, ma le Scienze appunto, con buona pace del profeta apocalittico Pasolini, già inattuale ai suoi tempi.
4) la posta in gioco è molto alta: io tremo all’idea di lasciare nelle mani di un manipolo di esperti, tecnici e professionisti, che sanno come va il mondo perché conoscono la realtà (?), la soluzione a questioni di importanza vitale per tutti noi: eutanasia, fine vita, testamento biologico, fecondazione eterologa, aborto, ecc. A chi sono affidate queste ‘cose’? a un’allegra brigata di postmodernisti? Cosa c’entra il postmoderno con le oligarchie tecnocratiche, di ogni specie e grado, che decidono per noi? Il fondamentalismo ideologico liberista è una geniale trovata dei ludici postmodersiti o un delizioso regalo delle ideologie realistiche dominanti? Lo so che sto mettendo troppa carne a cuocere e disordinatamente, ma il postmoderno a me sembra una gloriosa testa di turco, un vero alibi per la critica letteraria che continua a eludere l’appuntamento con le realtà, a frignare contro nemici inesistenti e a rispolverare con algida nostalgia crepuscolare un arrugginito armamentario ideologico, dietro cui mascherare problemi ben più gravi e intricati. Amen.
Chiedo venia per la prolissità del mio intervento e per l’esposizione sciatta e asistematica dei contenuti.
@ Dfw vs Jf
Caldwell è un realista classico: presenta mondi possibili che hanno l’aspetto del mondo reale, e elementi tratti dal mondo reale. Così anche nel romanzo storico, dove però Napoleone o Kutuzov fanno e dicono cose che, pur essendo plausibili, non risulta abbiano fatto o detto davvero. Invece, in Gomorra ci sono Napoleone e Kutuzov presentati solo nell’atto di fare e dire cose che dobbiamo pensare abbiano fatto e detto davvero. Il guaio è che il narratore-personaggio fatica a raggiungere questo statuto, cui non è chiaro sino a che punto pretenda. In questo senso, non si può dire che Gomorra sia un romanzo, poiché non inventa dichiaratamente nulla (il peso cade sull’avverbio). Se fosse romanzesco quello che «mette in scena comunque dei personaggi e delle situazioni», sarei romanzesco anche dicendole che oggi ho comprato due pompelmi rosa al mercato qui sotto (ho lo scontrino per dimostrarlo).
@ Laccetti
Onestamente, non mi pare che la storia della partita fosse così oscura: se le mediazioni che un testo mi impone per arrivare a qualcosa sono troppe, quel qualcosa rischia di andare perduto (e perduto il mio tempo nel seguire tutte le mediazioni). La petizione di principio del tutto-carta mi pare un po’ dogmatica: preferisco la carta riclicata, comunque, che è pure ecologica. Citando Kafka e Dostoevskij, lei aveva parlato di «conforto» e «braccia rassicuranti»: cose di cui non so che farmi. Se poi si stupisce che ami scrittori non realisti, beh, scusi: mi avrà mica preso per un ottuso fanatico che cerca ovunque realismo, solo perché ho scritto (tra le altre cose) dei realismi contemporanei? Cade pure lei in questo equivoco? se fossi uno storico e studiassi il fascismo mi vedrebbe in orbace e fez? Non ho capito quel che dice su reportage e romanzo (va bene che il romanzo è il genere in cui si parla di tutto in tutti i modi, ma conserviamo qualche discrimine: sono due cose diverse). Il gioco del «sono solo etichette» è per me quello più stucchevole di tutti. Mi interessano i libri e i concetti. Se lei dice a Dante o Dostoevskij che la letteratura è un palinsesto ozioso e inutile, quelli le fanno la pelle.
Non tema: se mi arriva un bel romanzo sull’Italia umbertina lo leggo di gusto (e per come lo presenta, il racconto del precario mi fa già cascar le braccia). L’ultimo libro per cui mi sono entusiasmato è Rayuela di Cortázar, che non avevo mai letto: non so se mi spiego.
@ Emma Bovary
Emma! mi permetta di ringraziarla per la sua passione e una dottrina che in lei, lo confesso con rossore, non immaginavo. Pure, non mi è sempre chiaro con chi se la prenda e anzi sospetto che talora, sulle sue parole, si proietti l’ombra di quel suo grande antenato, che combatteva coi mulini a vento. Ammiro lui ma, come sa, non è la sola ammirazione che mi fa tremare davanti a lei. Mi perdoni, per intanto: le risponderò non appena avrò il tempo e le forze per cercare di darle soddisfazione.
Mi creda il suo devotissimo
Gustave
La circostanza per cui la definizione di postmoderno è altamente problematica trova, performativamente, la sua conferma non solo nelle oscillazioni interpretative e nell’affollarsi delle distinzioni concernenti gli ‘ismi’, ma nell’andamento zigzagante di questa stessa discussione. A mio sommesso avviso, occorrerebbe trovare una definizione in positivo, senza cavarsela con i ‘pre’ o con i ‘post’. Diversamente, si ripropone il vecchio problema (e l’insolubile aporia) di come si faccia a sapere se la luce del frigorifero è spenta quando la porta è chiusa. Tutto sommato, al di là di talune ridondanze bibliografiche e di qualche pleonasmo accademico è proprio nella direzione della ricerca di una definizione positiva della nostra epoca che si muove la categoria di ‘ipermodernità’ proposta da Donnarumma. Del resto, non bisogna dimenticare che le opere e gli autori considerati eponimi del postmoderno sono, comunque, inseriti in una rete di rapporti e funzionano, quando funzionano, solo entro una totalità di rapporti, talché non se ne possono comprendere i caratteri essenziali, sia in senso spaziale sia in senso temporale, se vengono isolati da questa totalità. Insomma, non nascono ‘ex nihilo’, ma dalla realtà, con la quale intrattengono, a seconda dei casi, un rapporto mimetico, antimimetico o anamorfico. Forse varrebbe la pena, a questo punto, di recuperare il concetto di omologia teorizzato ed applicato a suo tempo da Lucien Goldmann, secondo il quale i testi non riproducono contenuti, bensì strutture. Questo concetto coglie infatti un punto di grande importanza e cioè l’idea di sussunzione generale, di un orientamento concorde verso una dominante a cui vanno soggetti, come se seguissero l’influsso di un segreto eliotropismo, gli elementi di un insieme complesso. Se ci si situa in questo angolo di osservazione, è allora possibile rilevare che le reazioni della prassi letteraria e artistica agli impulsi provenienti dalla realtà seguono percorsi improntati a un principio diverso dal semplice riflesso o dalla mera derivazione. È peraltro controintuitivo, ma vero, che, all’interno di una totalità complessa a dominante (per usare il linguaggio althusseriano) il ‘condizionamento’ è più potente della ‘determinazione’, poiché attraverso la sua mediazione ad agire sono le strutture e non i semplici contenuti. In questa ottica non è più un paradosso, quindi, sostenere che le opere utopiche (o distopiche) possono rivelarsi più realistiche di quanto non sia il romanzo storico, considerato un tipico esempio di realismo, poiché esse costringono implicitamente il lettore a considerare la realtà stessa quale ineliminabile termine di riferimento e indispensabile chiave interpretativa. Inserendosi necessariamente nel campo di interazione della totalità qui definita, le opere e gli autori si collocano pertanto in una scala di condizionamenti che vanno, idealmente, da un estremo mimetico, dove trovano posto quei testi che, nello sforzo di rispecchiare il più possibile fedelmente la realtà obiettiva, tendono ad un grado zero della scrittura, ad un estremo antimimetico che tende ad un inattingibile grado zero della realtà, ossia ad una seconda realtà del tutto sganciata dalla prima. Una volta chiarito questo punto, classificare le opere e gli autori elencati nella ‘Donnarumma’s list’ del postmoderno è un esercizio di tassonomia storico-letteraria che lascio ad altri più aggiornati e più competenti di me. In questa sede mi limito a richiamare, con la presente avvertenza metodologica, la necessità, a mio parere ineludibile, di incentrare l’analisi sull’omologia fra i rapporti sociali di produzione che si sono affermati nel periodo del capitalismo finanziario transnazionale e della ‘terza rivoluzione industriale’, informatica e microelettronica, da un lato, e le forme, le strutture e i generi della prassi letteraria ed artistica, che si sono sviluppati nel medesimo periodo, dall’altro. Chissà che, facendo bene i conti e prendendo con esattezza le misure, non si scopra alla fine, aprendo la porta del frigorifero, che la luce è rimasta sempre accesa: la luce del ‘lungo Novecento’…
Be’, che dire le nostre lunghezze d’onda sono abbastanza divaricate (già si sapeva). Le mediazioni che un testo mi impone per me sono parte del grande gioco della letteratura; la fatica per elaborarle è parte dell’evento ludico-finzionale che letteratura impone (dove ludico è à la Huizinga e non ha nulla di divertente), il cui esito è il processo conoscitivo di quel viaggio-scoperta medesimo e nient’altro; almeno nell’immediato, a chiusura di pagina. Il ‘tutto-carta’ e la preferenza per la carta riciclata è il discrimine, la risposta che m’aspettavo: ecco la partita per me si gioca sulla carta, solo lì e non altrove. Poi dopo si può parlare anche dei massimi sistemi. E non perché sto lì come un sik devoto a spolverare il tempietto della Dea Letteratura (anche, perché no), ma perché già parlare della sola cosa che conosco è troppo e più t’avvicini più ne conosci sempre meno e la vera sfida, con te stesso prima che col mondo, è di proseguire in questo solitario e folle avvicinamento. La “rassicurazione” di Kafka e Dostoevskij era l’abbraccio della vera letteratura rispetto alla ‘sbobba’ postmoderna che lei sosteneva di non sopportare ed era un abbraccio di letteratura del tutto asintomatica rispetto ai tempi tempestosi che l’hanno generata (rispetto a molto realismo sintomatico). Su romanzo e reportage volevo solo intendere che le diverse deviazioni, i finti romanzi in circolazione (prose sociali ecc.) non annullano la portata ancora rivoluzionaria che la forma finzionale del romanzo può ancora esprimere; giacché è una forma fittile molto duttile e spesso viene sovrapposta alla resa cariata dei romanzi dei nostri scaffali. Sulla natura delle etichette è ciò che entusiasma spesso proprio l’accademia, meno il lettore ordinario; per me non hanno alcun valore, ma molti se ne entusiasmano. Sulla natura di palinsesto della letteratura ho aggiunto anche: “meraviglioso” e “indemoniato”. Farmi fare la pelle da Dante sarebbe un onore; pur nella relativizzazione dei processi letterari, nel comprendere che la letteratura è esercizio antico e straordinario di ‘rielaborazione’, non escludo tutto il fuoco, il dolore e la rabbia, che per quanto mi riguarda m’hanno fin troppo spappolato la vita, glielo assicuro. Ma so anche sollevare la testa dalla mia gabbia sofferente e vedere i cicli lunghi di certi processi e che la letteratura è un gioco parte di molti più grandi giochi. Il che non vuol dire giocarselo barando o fingendo; anzi puntandoci sopra tutto, ma proprio tutto, fino alla bancarotta, al fallimento integrale. E sono almeno tre decenni che proseguo ostinatamente su questa strada.
mi perdoni professor Donnarumma, ma sono una scheggia orbitante nella fascia di asteroidi generata dall’esplosione della civiltà, vago nel vuoto e parlo dialetti non autoctoni.
comunque proverò a riscrivere qualche punto in maniera più di suo gusto:
il fulcro di questa discussione verte su periodizzazioni e concettualizzazioni di tendenze storico-letterarie senza nemmeno interrogarsi sullo statuto di ciò che oggi è letteratura, costruendo tutto un discorso sulla base di categorizzazioni a priori del tutto fuori luogo anche solo per tentare di comprendere la realtà, figurarsi cambiarla.
interrogarsi sullo statuto della letteratura vuol dire svolgere un discorso sull’avvento della terza rivoluzione industriale (soprattutto per quel che concerne automazione e marketing) nell’industria culturale. Vedo che su questo, nella discussione, è arrivato prima di me Eros Barone.
Sarebbe necesssario un nuovo discorso su “letteratura e industria”, dunque, ma che sia un discorso spietatamente sincero riguardo alla funzione di ogni singolo tassello dell’industria culturale automatizzata e di essa dentro al panorama sociale; un discorso disinfettato dalle pietosissime rivendicazioni di bottega operate dai pochi che hanno tentato di svolgerlo (ad esempio TQ), disinfestato dall’eterno ritorno della falsa coscienza dell’intellettuale borghese che ci tempesta in questi tempi di arrembaggi letterari alla realtà sociale, diserbato dagli strabismi di chi considera letteratura soltanto i libri stampati con un codice ISBN, in una società in cui il libro pesa sempre meno nella comunicazione scritta e in cui la registrazione della comunicazione linguistica non avviene più solo attraverso la scrittura (senza considerare la grande espansione di forme di comunicazione iconica e visuale in sostituzione della scrittura).
Postmoderno e ipermoderno paiono solo due facce della stessa medaglia: quella di un mondo letterario che ancora si presenta come cittadella assediata dalla temibile società di massa, a un secolo e mezzo buono dalle prime prese d’atto del suo avvento. Nel frattempo, peraltro, c’è stato anche l’avvento della scolarizzazione di massa, e poi l’università di massa, con la moltiplicazione esponenziale dei centri di fruizione e produzione letteraria.
Un punto focale della situazione contemporanea è in questa moltiplicazione esponenziale dei flussi di informazione, dei canali di comunicazione, dei supporti di registrazione, degli stili e dei generi letterari. Siamo nell’epoca dell’inflazione informativa, fino a prova contraria.
Come si può concettualizzare questa epoca della cultura, se si limita l’analisi al ristrettissimo mondo della produzione libraria, con accenni vaghissimi per quel che riguarda altre arti, peraltro inficiati da una divisione tra alta e bassa cultura nemmeno tematizzata, tanto la si da per scontata?
Il grande problema rimosso, e su cui si glissa costantemente, è: cosa da legittimità all’autore di essere Autore? Ovvero: come è decisa l’evidenza e preponderanza di una voce sulla cacofonia di voci della incessante e collettiva produzione testuale della contemporaneità? Come si ripartisce il peso e la responsabilità del diritto di parola nella società contemporanea?
La questione che cova sotto la cenere è una pura e semplice questione di legittimità: all’autorità autoriale corrisponde un’autorevolezza? L’Autore può davvero porsi all’esterno, in posizione dialettica nei confronti del sistema neoliberista?
Qual è la fonte dell’autorità autoriale? La sua rispondenza a criteri estetici? La sua capacità di influire sul reale? La quantità di citazioni nei libri di altri autori? La diffusione? La costruzione di un tipo umano “Autore X” marcato da alcune caratteristiche d’ordine simbolico che lo impongono come emblema di determinate domande presenti sul mercato?
Sono queste le domande che mi piacerebbe ci si ponesse, in un’epoca in cui è evidente il tentativo, da parte di una pluralità di soggetti del mondo letterario, di rifondare l’istituzione dell’auctoritas intellettuale del letterato puntellandola sul facile confronto con il livello scadente dell’informazione diffusa dal mondo televisivo (il grande Altro, come dice Emma Bovary, non è certo la televisione, ma fa comodo far apparire che sia così).
Cara Emma!
certo sentirsi rimproverare di aristocraticismo da lei… Comunque le rispondo un po’ di fretta, sennò a furia di cercare il momento adatto rimando e basta:
a) Eco, Calvino, Tabucchi e Tondelli, se paragonati agli altri nomi fatti sempre da Ceserani, dimostrano secondo me che il postmoderno italiano ha prodotto poche cose entusiasmanti per qualità, non quantità (non sarebbe neppure vero). Che tutti costoro abbiano voluto combattere l’ideologismo dell’impegno, è quello che ho sempre detto pure io (sono altri che usano la categoria di impegno per parlare del loro rapporto con la vita civile); magari, occorre anche chiedersi che cosa abbiano prodotto su quella strada: poco, a mio giudizio, e i migliori erano quelli che lo sapevano (Calvino);
b) vedo che pure lei ha paura del babàu realismo come mostro dispòtico che impone verità ideològiche. Mi scusi: ma l’ha letto… Madame Bovary? Quanto poi ai documenti, quelli non sono inoppugnabili per definizione, visto che sono parole sociali sottoposte a validazione e contrattazione (Ferraris). Richiedono per statuto un di più di lavoro interpretativo (lo sapeva già benissimo Manzoni): sono un fondamento all’autorevolezza di chi scrive, ma anche un limite alla sua libertà. Esibiscono da subito un lavoro di indagine: al contrario della fiction che richiede una seppur temporanea sospensione dell’incredulità. A cosa servono? A molte cose. Oggi, in primo luogo a strappare le scritture al sospetto che tutto sia solo testo (visto che, pur essendo testi, rimandano a un mondo sociale) e che tutto sia solo fiction (visto che non sono inventati: e se lo sono, denunci pure il truffatore);
c) ma quella che era disposta a credere tutto quello che legge non era lei?
d) quando mai è andato di moda definire Nietzsche un mentecatto?
e) leggo con molto interesse Ferraris, ma le confesso che quando parla di letteratura lo trovo un po’ deludente. Comunque, se proprio la interessasse, ne ho scritto qui: http://www.allegoriaonline.it/index.php/component/content/article/82-65/526-maurizio-ferraris-qmanifesto-del-nuovo-realismoq.html
f) sulla critica letteraria e il realismo: è una domanda seria? lo so che a Yonville non avete una biblioteca, ma vedo che siete collegati in rete…
g) sono d’accordo sullo specialismo, anche se quella storia della letteratura come sciocca evasione è una caricatura consapevole, ma inutile;
h) ci manca solo che qualcuno prescriva alla letteratura il compito di indagare questa o quella porzione di realtà! che fa? ricade nello specialismo dopo essersene lamentata? la letteratura mica è una disciplina!
i) perché dovrebbe esistere solo un grande Altro? non mi pare, del resto, che qui Lacan sia richiamato a proposito. Che il rapporto con le scienze e le tecniche sia un problema capitale, è fuor di dubbio; non vedo perché questo impedisca di occuparsi di letteratura e televisione, come ho fatto io. Scriva pure un bel volume (anche se non sarebbe il primo) su letterature contemporanee, scienze e tecniche: ha già pronta un po’ di bibliografia;
l) il finale non l’ho capito, scusi. Con chi ce l’ha?
Grazie mille, comunque. Ah, per cortesia (vale pure per @ Detrito spaziale): sono contento di fare il professore, e mi ci applico, ma lasciamo perdere i titoli onorifici.
Rispondo agli altri commentatori appena posso. Un’altra cortesia: evitiamo di tirare in campo l’Anima, il Mondo e Dio – questioni alle quali non saprei rispondere, e che troverei ridicolo qualcuno volesse risolvere qui.
@ Eros Barone
Grazie. Goldmann non è proprio sul mio comodino, ma se ci tiene… Althusser sarebbe già meglio. Io non direi mai che «le opere utopiche (o distopiche) possono rivelarsi più realistiche di quanto non sia il romanzo storico», perché non uso ‘realistico’ nel senso di ‘rispondente alla realtà’ (fossi matto!), ma nel senso di ‘che ha a che fare con la tradizione dei realismi soprattutto ottocenteschi’ (che è l’unico criterio verificabile). Potrebbe anche essere interessante seguire la necessità che lei pone alla fine, se non fosse che mi sembra una prescrizione un po’ troppo costrittiva. Poi dipende da quali strumenti uno usa: ma se gli servisse Bourdieu, mettiamo, dovrebbe essere un sociologo vero (e io non millanto di esserlo, né intendo ridurmi ad applicare Tizio a questo e quello). Come cantano nel don Giovanni: «Viva la libertà!».
P.S. Per sapere se la luce del frigo è accesa quando la porta è chiusa, basta aprirla pian piano e darci un’occhiata. Ho appena controllato: è spenta.
@ Laccetti
Sono d’accordo con lei sulla libertà del gioco: ma allora non predichiamo che è una forma di impegno o di utilità sociale mediata, che mi sembra un compromesso patetico (al quale si presta più d’uno, come se il sopraddetto e cosiddetto impegno fosse un obbligo fuori del quale ci sono solo inanità. Sono un fan, oltre che di Kafka, di Beckett). I sik no, però: l’idolatria è una roba troppo antica. Non vedo perché la non fiction dovrebbe minare i sacrosanti diritti della fiction; e non vedo neppure perché esecrare la prima come se fosse una bestemmia contro il romanzo (il quale, ultimamente, sta benone, anche perché non è così schifiltoso con i modi della non fiction). Se le etichette fossero etichette, chi se ne fregherebbe? Ma siamo giusti: non è questo il caso. L’accademia ha tante colpe: ma individuate quelle giuste, al momento giusto; sennò è come fare un processo a Berlusconi perché ha buttato in strada l’involucro del profilattico.
Le auguro di proseguire per altri dieci decenni!
P.S. Il romanzo come prodotto fittile? Va bene che alcuni scrittori sono proprio de coccio, però…
@ Detrito spaziale
La perdono, la perdono. Ma lei sarà mica della scuola: «i veri problemi sono altrove!»? Che poi sono problemi dibattuti se va bene da un secolo, a volte da millenni: ma posti con una genericità e una baldanza che si può permettere appunto chi non è professore. Non capisco mai se questi tali ritengano gli altri tutti imbischeriti e ottenebrati, perduti in quisquilie oziosissime; oppure se credano complottino oscuramente per nascondere la Verità alle genti che ne sono affamate, e che assiepate fuori dalle tetre accademie urlano: diteci cos’è la letteratura! vogliamo sapere chi è un autore [nel tumulto non si capisce, e sui cartelli è tutto a lettere cubitali: ma è Autore, con la maiuscola]! cambiate il mondo! Se incontra qualcuno che sappia rispondere, mi permetta un consiglio amichevole: se la dia a gambe! Quelli sì che son tipi pericolosi.
Non tutti gli autori intendono, grazie al cielo, fondare la propria autorevolezza di Autori. Siti non è Moresco, che non è Saviano, che non è Covacich, che non è Moccia (giusto così, per restare nel cortile di casa).
Se invece «fonte dell’autorità autoriale» significa: «come fa uno scrittore a emerge su altri», o: «quali sono i criteri per decidere la grandezza di uno scrittore», risponderei solo se trascinato in ceppi in tribunale e avessi a disposizione udienze fiume.
L’ipermoderno non c’entra nulla con la «cittadella assediata dalla temibile società di massa» (ma questa dove l’ha presa? alla sagra del modernariato?).
L’«inflazione informativa» perdura dai tempi della Seconda considerazione inattuale e di Bouvard et Pécuchet.
P.S. L’«intellettuale borghese»! è come la parmigiana che faceva mia nonna e che non mangio più da trent’anni: un tuffo al cuore nel passato.
Mi piacerebbe sapere se per Donnarumma, il quale respinge scandalizzato il riferimento, sia pure indiretto, mediato e dialettico, al concetto di realtà, il testo sia l’alfa e l’omega dell’operazione critica, il cui ‘Leitmotiv’ sarebbe per necessaria conseguenza: testo e testo, e ancora testo e testo, ciò che va oltre è peccato. Ribadisco pertanto: a) che i testi non nascono ‘ex nihilo’, ma hanno sempre bisogno della realtà; b) che il testo ha fondamentalmente natura di rapporto e che questo tipo di rapporti esiste ed opera solo entro una totalità di rapporti (da qui discende la necessità di incentrare l’analisi sulla omologia fra i rapporti sociali di produzione e le forme, le strutture e i generi della prassi letteraria ed artistica); c) che pensare che i realismi esistano senza la realtà è altrettanto insensato quanto pensare che un libro sia pubblicato senza essere stampato (o digitalizzato). Aggiungerei che il nesso mimetico che collega i testi e la realtà, omologico o anamorfico che sia, è proprio ciò che, dando evidenza agli aspetti nascosti dei fenomeni rappresentati, permette alla letteratura di assolvere un’insostituibile funzione conoscitiva, diversa e complementare rispetto a quella di altre attività culturali (‘scienze esatte’ comprese). Per quanto riguarda infine la prova della luce accesa o spenta nel frigorifero, Annarumma avrà senz’altro notato che, in condizioni di normale funzionamento, quando gli capita di aprire il frigorifero in genere si accende una luce e che quella luce, non appena egli richiude la porta del frigo, si spegne automaticamente. Orbene, provi l’ottimo Annarumma ad immaginare di non sapere che nessuno gli abbia mai detto che, quando richiude la porta del frigorifero, la luce si spegne, apra dunque il frigorifero e controlli se la luce si accende. Ripeta poi l’operazione richiudendo la porta e riaprendola immediatamente: di nuovo troverà la luce accesa, senza peraltro aver potuto assolutamente vedere la luce spenta, dal momento che sarebbe impossibile farlo con la porta chiusa. Non crede che sarebbe convinto che la luce è sempre accesa? Naturalmente il paradosso del frigorifero, data la sua natura anfibologica, può risultare utile, nel contesto di questa discussione, per invitare a diffidare di quelle formule concettuali e storiche che, essendo fondate sulla posticipazione o anticipazione (ma anche ‘preposterazione’) di categorie fondative del ragionamento storico-culturale, finiscono con il mancare il bersaglio e si rivelano approssimative.
Mio devotissimo Gustave,
…che fuoco le sue scudisciate… che virile ardore intellettuale…lei sa come infiammare il cuore turbato di un’incauta Mme Bovary!
non si aspettava da una donna in carne ed ossa tanta “passione e dottrina” insieme, eh? Emma Bovary: ha apprezzato il contrasto, allora?
Blague à part. Sinceramente non so se è il caso di prendere sul serio la sua cortese risposta. Forse il mio intervento ‘suona’ “baldanzoso”? Bene. Allora le chiedo umilmente scusa.
Tranne i punti a e b, dove abbozza una mezza risposta, gli altri mi sembrano comodi sberleffi odifreddiani e sdegnose smorfie di derisione. Sbaglio? mi stupisce poi il suo piglio saccente (“l’ha mai letto… Madame Bovary?”) e pedantemente ‘professorale’ … in stridente contraddizione con “la letteratura mica è una disciplina”. L’ha sparata proprio grossa, eh?
Che io abbia posto tutte quelle questioni in modo ‘generico’, beh, cosa pretende? un saggio?
Grazie
Intanto, per farmi perdonare, le mando un po’ di favoleggiamenti dei nuovi realisti su Nietzsche: «E, sparito tutto, ci si sente soli e depressi. Sono vecchi argomenti, ma la cosa più importante da notare è che dal nichilismo ontologico, dall’affermazione “nulla è”, al nichilismo assiologico, l’affermazione “nulla vale”, e di lì alla depressione, il passo è molto breve. […] Se non esiste il mondo esterno e i valori sono una semplice allucinazione, allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome maniaco-depressiva, una sindrome bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto» (M. Ferraris, Breve storia del nichilismo, in Continenti filosofici. La filosofia analitica e le altre tradizioni, a cura di …). Roba da psichiatria. Ora mi metto a piangere…
Una piccola curiosità: chi ha tirato in ballo Dio, Anima, Mondo?
@ Eros Barone
Ci vuol altro per scandalizzarmi. Del resto, se guarda qui (http://www.nazioneindiana.com/2008/10/31/quid-credas-allegoria/), vedrà che ha fatto un po’ come uno che entri in casa di Benigni, gli dia una pacca sulle spalle e dica: «O Roberto! basta con ste guittate. Che ne diresti di qualcosa di nuovo, che non hai mai fatto? Che so? una lettura pubblica della Divina Commedia?». Dire che un testo è realistico perché intrattiene un rapporto con la realtà è, prima che truistico, calamitosamente equivoco: subito arrivano in cento a virgolettarle la realtà, a dirle che la realtà sono anche i buchi neri e le galassie inavvicinabili, a protestare che c’è più realtà in Asimov che nella Viganò. E in effetti: quale scrittura non intratterrebbe un rapporto con la realtà? Un testo può avere una funzione conoscitiva anche se parla dei ciuchi che volano o di mondi a sette dimensioni. Il realismo è una tradizione plurale di rappresentazioni, che ammette certe cose e ne esclude altre sia nella scelta del campo tematico, sia nelle forme: non è che se cito i fratelli musulmani o l’indice Nasdaq divento issofatto realistico. Questo è l’unico criterio che a me sembra sensato.
Quanto al frigorifero: non so, non vorrei che questo Annarumma, tra aprire e chiudere le porte, finisse come Palomar sulla spiaggia.
@ Emma cara!
la conosco («ritornava a lui più ardente e più avida. Si spogliava con gesti violenti, strappandosi via il laccetto del busto, che sibilava sui fianchi come una serpe che si avvinghi… c’era qualcosa di estremo, di vago e di lugubre che Léon sentiva insinuarsi sottilmente fra loro per separarli»): ma mi creda, lasci stare gli scudisci virili, che qui ci guardan tutti. So anche che lei ha sempre avuto la tendenza, leggendo, a riferire a sé quello che è detto di altri: e io sono l’ultimo a poter fare qualcosa per indurla a cambiar partito. Non dimentico neppure che il senso dello humour non è il suo forte: cosa c’è di professorale nell’invitare a leggere Madame Bovary… Emma Bovary? Certo ci sarebbe da dire molto sul modo in cui persino persone colte come lei parlano di professori. Ma lasciamo perdere.
La letteratura non è una disciplina: ma il suo studio la richiede eccome. Quanto alle mie risposte: «che cosa pretende? un saggio?» (Oddio, a pensarci, in effetti qualcuno l’avrei pure scritto; ma guardi che ci sono pure i libri degli altri). Lei non poneva questioni insensate: troverei insensato cercare di risponderle qui, con lo spazio che abbiamo. E poi scusi, tra l’ironia, gli sberleffi e le smorfie ce ne corre. Non so cosa c’entri Odifreddi.
Su Ferraris (che, per fortuna, non mi risulta stia in nessuna moda che augura ai nichilisti di dar di matto): non è che, se cito con interesse o adesione un suo libro, abbia firmato un contratto che mi impegna a sottoscrivere ogni sua riga. Non funziona così neppure nei matrimoni: come lei sa, hélas!, anche troppo bene.
Il discorso sul realismo filosofico e quello sui realismi letterari di oggi hanno un intento comune, cioè fare un passo oltre il postmoderno: ma per il resto, parlano di oggetti molto differenti. Impostare in quei termini filosofici (analitici, diciamo) una discussione sul realismo letterario è una scelta perfettamente legittima: ma mi pare un po’ essenzialista, e non è quello che interessa a me. Temo poi non avrebbe molta utilità diretta nella questione postmoderno/ipermoderno. Il funzionamento del linguaggio dell’uso (non dico di quello logico) e quello del linguaggio letterario sono per certi aspetti incommensurabili: basta che pensi al problema della referenza. Preferisco confrontare i modi storici del realismo.
L’anima il mondo Dio sono le Grandi Questioni che si agitano con il risultato di fare un polverone che nasconde le questioni proprie. E qui, con questa storia ipermoderno/postmoderno, non si stava disquisendo di cose futili o periferiche.
Mi creda suo
G.
***************************************************************************************************************
Parte 1 Ovvero: di come smullungare il fasso al gnerbo
***************************************************************************************************************
Quanta spocchia sui miei sandali: è per questo che dalle mie parti “professore” ha perso le qualità di titolo onorifico, il che non è di per sè un bene, ma semplicemente una dimostrazione di amor proprio da parte di chi cattedre ne vede poche e sempre dalla parte destinata ad ascoltare.
Vede, i veri problemi sono certamente altrove (cosette tipo il cambiamento climatico e la devastazione dell’ecosistema terrestre, la ridefinizione traumatica degli equilibri politico-sociali dalla scala globale a quella locale, il fatto che non sai come pagherai l’affitto tra un paio di mesi e hai la suocera con l’alzheimer sul groppone…), ma se mi soffermo qui a parlare con lei vuol dire che concedo importanza anche a problemi inerenti la definizione della cultura e della letteratura nella mia epoca, in quanto inerenti quella definizione simbolica della realtà situata in una catena di relazioni retroattive con la materialità dei fatti bruti che causano pesanti rodimenti al fondoschiena mio e di tanti altri.
Francamente me ne infischio del fatto che determinate cose siano già state dette, l’età di un concetto non è criterio valido di falsificazione. Intellettuale borghese è all’incirca un pleonasmo, suvvia, non ho litigato invano con gli studentelli dell’università che si proclamavano “proletari” scambiandolo con il “buoni” delle saghe fantasy; posso ammettere che il concetto di classe abbia perso smalto, ma non abbastanza da buttarlo completamente al macero. Tuttavia il focus era su “falsa coscienza”, che è anch’esso concetto datato all’ottocento, ma di significato quantomai attuale, ce n’è davvero a pacchi, quando si parla di ruolo della cultura e della Cultura.
L’inflazione dei flussi informativi s’è piuttosto accresciuta dai tempi del caro amico lagrimacavalli, alle volte la quantità è discriminante nel determinare i fenomeni, è come paragonare un refolo di vento e un tornado, ciononostante il lagrimacavalli era uno dalla vista lunga e ha saputo considerare certi avvenimenti che nel lungo periodo stanno ancora dispiegando i propri effetti su di noi. E in effetti il lacrimagavalli è uno di quei tizi di cui si può dire peste e corna, salvo essere spesso costretti a parlare di qualcosa che lui aveva in qualche modo toccato o quantomeno sfiorato. E’ il motivo per cui si parla ancora di lui e per cui lui è finito pazzo in una nota città ricettacolo di magia nera.
Ora mi sento in dovere di esporle la ragione del perchè io prenda in uso termini dai magazzini di modernariato, è una teoria davvero strampalata e degna di umiliazione e irrisione: assumendo, come da manuale, che l’età moderna sia iniziata verso la seconda metà del famoso XV secolo, con i vari rivolgimenti politici-sociali-culturali-religiosi-tecnici della maronna che si cominciarono ad affollare allora, possiamo dire che a fine settecento sia cominciata un’altra età, volendo prendere una data da sussidiario potremmo indicare il 1765, con la macchina a vapore di Watt, o il 1776, con la pubblicazione de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, o il 1744, col patto tra Muhammad ibn Abd al-Wahhab e Muhammad ibn Saud, o il 1789, con la Rivoluzione Francese. Quell’età è quella che stiamo vivendo e sta ancora dispiegando il suo respiro nel lungo periodo; potremmo senza tanti patemi chiamarla evo contemporaneo, a voler dar credito alle suddivisioni operate nei corsi di laurea, oppure evo industriale, a voler considerare un ovvio passaggio epocale.
Se poi si volesse sostenere che i nostri tempi sono diversi dai tempi della macchina a vapore, oltre a dire un sonoro “mavvah?”, direi che anche i tempi di Boezio furono molto diversi da quelli di Filippo il Bello, tuttavia si concorda nel riunirli sotto l’etichetta di “medio evo”, poichè una vasta serie di eventi di lungo periodo (con le relative cesure) ci suggerisce che fare così sia utile. Se ancora la cosa non fosse chiara si scorga il saggio di Paul Veyne La storia concettualizzante.
….
Messa così, aldilà della imperdonabile confusione terminologica di Cesarani (roba da 4 all’interrogazione di storia, perdipiù con quel pò pò di bibliografia storiografica a corredo del testo), posso anche capire l’indebita estensione del concetto di modernismo. Facciamo che modernismo lo lasciamo dove sta e chiamiamo l’insieme di questa letteratura dell’evo industriale o contemporanea come “letteratura dell’evo industriale” o “letteratura dell’evo contemporaneo”: cercare di scoprire le proprietà di questo insieme forse non è così peregrino.
Ora, qui si da il pomo della discordia: fa bene lei a sostenere che il famoso postmoderno, a ben vedere, non ha nulla di che da proporre come grande novità al moderno che lo precedeva, ma fa male lei a sostenere che questo fantomatico ipermoderno abbia altresì qualcosa di nuova da proporre rispetto al postmoderno che lo precedeva e al moderno che precedeva quello. Trattasi, a voler essere generosi con certi modi allegri di concettualizzare, di fasi differenti del medesimo processo avviatosi con l’abbattimento del valore giuridico delle distinzioni di classe e il riconoscimento dell’universale diritto alla cittadinanza, col corredo di standardizzazione dei codici culturali che lo contraddistingue.
Ora, se l’ipermoderno nega la validità del postmoderno e lo supera, la domanda è: cos’ha da proporci come nuovo orizzonte letterario? Abissi sottomarini? Profondità tra i ghiacci dell’antartide? Infiniti mondi dello spazio profondo? Non pare, quella è roba di pertinenza della science fiction, roba vecchia e tremendamente puzzolente di postmodernismo, nonchè di indebite commistioni con la scienza e la tecnica. Forse una presa d’atto dello spargimento di ciò che è letteratura al di fuori dei confini di ciò che fu letteratura? Anche questo è postmoderno, no.
Questa novità dell’ipermoderno pare sia la terra che conosciamo già, quello che abbiamo sotto gli occhi, solo filtrata attraverso la scrittura, e in particolare attraverso il lavoro di documentazione e rielaborazione che opera lo scrittore nel descrivere la realtà (e non più i mondi partoriti dalla sua fantasia e le estasi del gioco combinatorio, no no).
Una graaande novità, certo, come no. Una cosa che nei tempi del postmoderno non faceva proprio nessuno (credici).
@ Detrito spaziale
Certo, certo.
PARTE 2 Ovvero: dell’infinita guerra del bene contro il male
****************************************************************************************************
“Il processo di comunicazioni di massa disegna una relazione sostanzialmente asimmetrica: l’emittente dispone di maggiore prestigio, potere, risorse, abilità e autorità rispetto al ricevente”, questa gliela riprendo da una sgrausissima slide di una presentazione per una lezione di teorie e tecniche della comunicazione di massa, dall’abbiccì della vulgata, proprio. So che all’università s’insegnano mucchi di stronzate, per esempio il fatto che l’emittente disponga di maggior abilità non è necessariamente vero, nè, oramai, che goda di prestigio, ma potere e risorse, che sono l’essenza materiale dell’autorità, certo che sì.
Quando parlo di autorità autoriale mi riferisco semplicemente a questo, e non mi chiedo «come fa uno scrittore a emergere su altri» sottintendendo con quell’altri, altri scrittori, ma come faccia ad emergere punto, in mezzo a un flusso informativo ben più largo della diffusione della stampa.
Qua state ancora a Gutenberg (già, la modernità), dio santo, poi da del superato a me.
Che di letteratura il mondo ormai è totalmente infarcito e infracicato, ci annega dentro, ci sguazza, ci muore, ci si stracascia, si lettera in migliaia di romanzi e saggi e reportaggi e trattati ed enciclopedie e poetastrìe e canzonette e libri sacri e storyboard e sceneggiature e soggetti per fumettivideogiochifictionfilmprogrammitelevisivi/pubblicità e articoli e canzonacce e stigazzi e stramazzi infernettiani e post e articoli e aforismi/stati/tweet e easter egg e meme e concettualizzazioni di aborti d’arte contemporanea ed è un florilegio di narrazioni e narrazioni e narrazioni che lottano in una fottuta ammucchiata per la definizione simbolica di ciò che è la dannata realtà materiale, ed è in questa dannata lotta che si colloca la stracazzica polemica di cui parliamo.
Il postmodernismo è cattivo perchè si è arreso alla violenza di questa pluralità narrativa facendosi cantore di un mondo simbolico che inghiottiva il mondo materiale, implicitamente facendosi risucchiare (come se poi avesse avuto scelta) nella corrente di chi una fottuta materialità dei rapporti sociali ancora imponeva e impone, mentre l’ipermodernismo intende reagire a questa imposizione della realtà materiale aggiungendo ulteriori narrazioni al diluvio di narrazioni narranti ciò che si presume sia la materialità del mondo, ovvero pretendendo di mettere ordine nell’entropia simbolica (in pratica svuotare l’oceano con un cucchiaino) al fine di ristabilire condizioni per un’azione nella realtà materiale alternativa a quella dei cattivi (partendo dal presupposto che esse siano assenti, o che siano presenti ma necessitino di un Frischio Narratore che le catalizzi).
E’ qui che si apre il problema della legittimità dell’autore, ovvero di colui che attraverso la sua opera (non necessariamente un fottuto romanzo) diventa Nome Cognome, Tale Conosciuto, Tizio Dibattuto, Frischio Narratore, persona autorizzata a partecipare in veste di Eroe (c’è chi ci ha fatto una raccolta di saggi, sulla sua visione dell’eroe, a proposito di segni dei tempi) alla titanica lotta di troppi contro troppi per la definizione simbolica del reale, millantando una forza argomentativa sufficiente a chiudere il Vaso di Pandora della produzione simbolica.
Sapere quali divinità siano fonti di questo eroismo ci dice qualcosa di utile su cultura e società, e nel saperlo non si prescinde certo dall’analizzare l’opera, ma non ci si può limitare ad essa, o si crede che nel parlare di Saviano dovremmo limitarci ai romanzi, senza considerare l’ampia attività giornalistica e televisiva, senza considerare il cartonato che dalla libreria Feltrinelli ci sottopone allo sguardo ficcante del nostro, intimidendo con un “Non guarderete più il mondo con gli stessi occhi”? Si crede che ciò non dovrebbe rientrare nella definizione delle correnti e dei concetti? La faccia di Saviano è un’icona, non è rilevante questo ai fini dell’analisi? E dietro il brand Saviano, quanta gente lavora? Qual è l’infrastruttura di Saviano? Qual è l’indotto di Saviano? Quale la rete di relazioni?
E ci sarà pure stato il postmodernismo, così arreso e debosciato, ma davvero c’è stata una resa senza condizioni all’avvento del neoiberismo? Nessuno ha resistito? Il campo delle narrazioni resistenti è nuova terra vergine per l’opera di scoperta e presentazione operata dagli apparati massmediatici e consegnata nelle mani di alcuni autori (o viceversa, operata dagli autori e consegnata nelle mani degli apparati massmediatici)? O trattasi invece di un’ennesima forma di accumulazione mediante esproprio (si legga David Harvey, riguardo questo concetto)? Ci sono degli indigeni in queste terre vergini che hanno buon diritto a reclamare per l’enclosure operata dai grandi apparati massmediatici nella diffusione di informazioni riguardo la loro resistenza? Chessò, si potrebbe dare uno sguardo alla querelle Saviano vs. Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato.
Messa così la prudenza di Calvino appare sotto un’altra luce, che dice? Sa tanto di atto di lucidità e onestà intellettuale. Farsi da parte per non essere d’intralcio può essere gesto di saggezza e di lodevole sacrificio dell’ego individuale. Sia chiaro, non sono un esegeta di Calvino, posso prendere per buono quel che lei dice di lui, non è Calvino in sè il punto, ma il cattivo cattivo distacco postmoderno.
Riprendo la slide sgrausa di sopra: «Nel mondo in cui viviamo l’elemento fondamentale non sono più le risorse o gli strumenti produttivi, ma l’informazione, il pensiero umano. La risorsa inesauribile che, se bene applicata, può sostituire tutte quelle risorse “materiali” di cui non abbiamo riserve sufficienti». Questa è vulgata dell’economia neoclassica e neoliberista, e questa è teoria scientemente applicata da chi sta vincendo la lotta per la definizione della realtà. Secondo lei questo non c’entra niente con quell’infracicarsi e infarcirsi di narrazioni che avviene nel mondo?
L’Eroe di cui sopra può permettersi di dire quello che gli pare e piace, ciò che conta non è il contenuto del messaggio, ma il fatto stesso che vi sia una comunicazione mediatica verso una vasta platea di riceventi, poichè lo scambio di informazione è un formidabile vettore di creazione e moltiplicazione del profitto, per chi si pone nel ruolo di mediatore presidiando i canali di comunicazione, l’infrastruttura massmediatica e il sistema di relazioni umane che determina la gestione di quell’immenso capitale fisso fatto di ripetitori, studios, frequenze, tipografie, redazioni…
Il focus qua va messo sul filtraggio che avviene attraverso l’infrastruttura massmediatica, poichè è in questo filtraggio che si compie quel passaggio fondamentale di accumulazione attraverso esproprio che è la mercificazione degli atti comunicativi e delle impalcature simboliche che veicolano, ovvero la loro delimitazione entro confini atti a stabilire precisi diritti di proprietà privata difesi istituzionalmente e l’attribuzione di un valore di scambio che consenta il libero dispiegarsi delle forze di mercato (ovvero accumulazione e concentrazione).
L’estrazione di valore dal discorso è la gallina dalle uova d’oro, caro Donnarumma, è la pietra filosofale, è il fottuto pasto gratis che i neoliberisti ci hanno finalmente promesso e mantenuto: è una figata pazzesca!
C’è qualcosa che sfriziona con questa grande bellezza, non mi figuro cosa sia, dovrei partecipare in veste di autore alla produzione di un libro per raccontargliela? Io penso lo sappia già da sè, visto che i suoi 10 anni da precario pare se li sia fatti: quanto le ha roso il culo? Pensi quanto rode a quelli che manco precari oramai, ma gente che vive d’espedienti, se gli va bene alle spalle di qualcuno. Crede gli piaccia vedere chi si fa la casetta e la famiglia raccontando della loro sfiga e di quanto sia importante che Lui continui a raccontare della loro sfiga? Solo ai più scemi, agli zio Tom che credono più a ciò che gli dicono gli altri che a quello che vivono e sperano di partecipare al banchetto, e non sono manco pochi (ma nemmeno così tanti come crede qualcuno).
C’è una crisi economica a raccontarci di quanto questa risorsa inesauribile possa sostituire le risorse materiali…sarà essa stessa risorsa materiale per un grande ritorno al reale apocalittico e “ipermoderno”? O non sarà anche questo “ritorno al reale” un frutto della colossale smaterializzazione neoliberista del mondo, con la sua valanga di nuove e conflittuali produzioni di impalcature simboliche per interpretare la realtà? Non sarà che il ritorno alla realtà “ipermoderno” deve rimuovere la realtà del passaggio alla “postmodernità” per affermarsi? (esattamente come l’avvento della postmodernità dovette rimuovere l’avvento della modernità, peraltro) E rimuovere l’avvento del dominio neoliberista per presentarsi con buone credenziali di “oppositore” (ma solo al target che lo domanda)?
Sono quantomeno bei paradossi, a volere fare il timido questuante del buonsenso col cappello in mano di fronte agli arcigni totem della scienza infusa.
Ora mi permetto, pur non avendone io il titolo, di proporle un breve esercizio: si guardi questo video” e provi a domandarsi chi prende per il culo chi o cosa. Considerato che questa è la collaborazione tra almeno tre delle figure più eminenti del panorama culturale italiano contemporaneo, provi a inserire queste figure e l’opera in oggetto all’interno del dibattito tra postmodernismo e ipermodernismo.
Dopodichè potrei proporle altri esercizi, come la rilettura e collocazione de Il pianeta irritabile e del suo prequel Le mosche del capitale; di Comici spaventati guerrieri, di Penthotal e Pompeo, di Paese d’ombre e Padre padrone, eccetera; davvero questo postmoderno ha dominato l’Italia?
Potrebbe collocare il punk dei Dead Boys? l’hardcore dei Negazione? e Burzum dove sta? e Afrika Bambaata? e Albo Rosie? e i Third Ear Band? e i tizi australiani che studiano canto a tenores? (ma che, solo Philip Glass fa musica?);
e poi: che c’azzecca Altman con Lynch? Vabbè, ma Amelio dove sta? E Sorrentino? E Wes Anderson? I fratelli Cohen? E i film della Marvel? Il cavaliere oscuro? Jack Sparrow?
South Park è ipermoderno? O è un’apoteosi del disincanto postmoderno?
E l’arte biotech dove la mettiamo? Ipermoderna, almeno lei, vero?
Mah, guardi, potrei continuare ore e ore e giorni e giorni e pure settimane, finchè non sarà sepellita tra le aporie della sua concettualizzazione vaga, dentro quel famoso labirinto che lei sostiene fosse una comoda scusa di gente che voleva sottrarsi alla pesante responsabilità di diventare Eroe, o quantomeno idolo.
Ah, dove lo mettiamo quello che disse: “non fare di me un idolo o mi brucierò?”, e dove collochiamo la sua effettiva autoimmolazione iconoclasta e liberatoria?
mi si sono mangiati due paragrafi della parte iniziale, cosicchè la fine di quella parte pare essere piuttosto senza senso, me ne dispiaccio ma ad ora uordpress non vuole saperne di farmi rimediare e mò ci ho altro da fare, che alle volte devo pure da magnà, comunque a ci vedere prof, magari un giorno le mando una bottiglia di acquavite aromatizzata con finocchietto selvatico, così magari impara ad apprezzare forme d’arte senza tempo.
@ detrito spaziale
Imbarazzante…
@Marchese
ma Moretti è ipermoderno o postmoderno? o è passato dall’uno all’altro? che dici, ipermoderno? mi si nota di più se ipermoderno ma mi mantengo in disparte o se postmoderno?
@Donnarumma
lieto di averla annoiata, segno i punti sul tabellino.
comunque giusto per intasare i server di wordpress, la parte mancante fu questa, al lettore collocarla nella sua posizione corretta:
E’ una teoria strampalata, ma la progressiva diffusione dei codici della cultura borghese europea propagati attraverso l’istruzione di stato (e altri vari flussi secondari) produsse, attraverso una catena di retroazioni positive, una moltiplicazione esponenziale delle produzioni culturali e della loro progressione nei reami dell’esperimento e dell’avanguardia, fino a un limite oltre il quale non si poteva più procedere nell’innovazione artistica in certi campi tradizionali, il limite oltre il quale l’avanguardismo letterario divenne solo un altro classicismo, la porta oltrepassata da quel fenomeno che chiamiamo postmodernità, che solo e soltanto di questo superamento del limite si caratterizza, con tutte le sue varie implicazioni.
Il postmoderno mi è dunque chiaro cosa possa essere: la semplice consapevolezza che non è più possibile scoprire nuove terre vergini in ambito letterario, ci si deve limitare a popolare quelle che conosciamo già (addirittura a riscrivere il già scritto). E’ piuttosto grottesco che si sia riusciti a fare del “niente di nuovo sotto il sole” un elemento di novità e di riaffermazione della singolarità autoriale, ma chest’è.
@ detrito
La vedo ottimista su se stesso («Il postmoderno mi è chiaro cosa possa essere»). Magari, proprio per i lettori, veda di darci un taglio. Mi ha imbarazzato, non annoiato: crederà mica che la legga?
@Donnarumma
Ho letto con interesse sia il suo intervento sia quello di Ceserani. Vorrei fare un’osservazione, e mi scuso se questo porterà ad una digressione rispetto alle discussioni innescate dai commenti precedenti. È possibile che i miei riferimenti al suo saggio, per esigenza di sintesi, le sembrino delle semplificazioni: mi scusi, anche in questo caso.
Sia a lei sia a Ceserani interessa considerare la narrativa italiana della seconda metà del Novecento (uso quest’espressione in senso letterale, cioè come riferimento cronologico e non come categoria critica) tenendo conto di una fase della storia occidentale, che lei definisce postmodernità, e del dibattito teorico su alcune sue forme artistiche ritenute rappresentative, soprattutto a partire da Lyotard e Jameson. Mi pare di capire che entrambi teniate in considerazione (usandole come argomentazioni, talvolta) le evoluzioni ed i mutamenti filosofici, sociologici, etc… , ma che vi interessi soprattutto la parte del discorso che riguarda la letteratura. Assumete una prospettiva comparatista, dunque considerate quel che è successo alla narrativa italiana nel contesto delle altre letterature occidentali.
Allo stesso tempo, però, lei e Ceserani proponete ipotesi critiche che riguardano la periodizzazione della letteratura italiana del Novecento. Avallare l’una o l’altra vuol dire interpretare la storia letteraria in modi diversi, e cambia anche la prospettiva sul presente. Proprio per questo mi sorprende che il discorso sia sempre incentrato sulla narrativa, e che non si consideri mai quello che avviene contemporaneamente in poesia. L’unico riferimento è a Montale, citato come rappresentante del modernismo; ma Montale stesso ha avuto un’evoluzione che da alcuni è stata interpretata come più vicina al postmoderno.
Non è mia intenzione dare più importanza alle pratiche letterarie italiane che alle grandi trasformazioni storiche (è quello che Ceserani sembra temere e rimproverare a lei, a un certo punto). Mi rendo conto che in un discorso così ampio e di questa portata teorica l’interesse è un altro, e che non avrebbe senso volervi includere a tutti i costi un genere letterario. Riconosco anche la marginalità della poesia italiana nel dibattito contemporaneo internazionale – anche se questa è una conseguenza della sua scarsa visibilità linguistica, non dei risultati ottenuti.
La mia non è né vuole essere intepretata come una lamentela o una difesa della poesia.
Tuttavia qui si parla di modi diversi di concepire il Novecento, e si parla di interpretazioni critiche della letteratura italiana. E allora:
1) Il dibattito sulla poesia ha influenzato (e, in alcuni casi, determinato) la periodizzazione e la storia della letteratura dell’ultimo secolo. Senza Montale e gli scontri nell’interpretazione della sua opera, non si parlerebbe di modernismo italiano allo stesso modo. La neoavanguardia era anche un movimento poetico, i Novissimi è un’antologia di poesia. Alcuni dei più importanti discorsi critici hanno avuto come oggetto (e motivo di scontro) la poesia: quelli di Croce, Contini, Fortini, Sanguineti, Pasolini, Mengaldo, solo per citarne alcuni. Non si può non considerare questo, secondo me. Anche se ora stiamo parlando di un genere letterario che ha perso capitale simbolico, fino agli anni Settanta era molto più al centro del dibattito. Se proporre una periodizzazione del Novecento è un modo per darne una ricostruzione, qualsiasi ricostruzione che non tenga conto dell’evoluzione della poesia e dei discorsi critici che la riguardano è inevitabilmente parziale, secondo me.
2) Mi pare che allargare il discorso potrebbe convenire a lei e a Cesarani, in un certo senso. Leggendo il suo saggio (mi riferisco anche a quello su “Allegoria”), ho notato alcune somiglianze fra caratteristiche che lei identifica come rappresentative di una produzione artistico-letteraria postmodernista (o ipermoderna) in narrativa e alcuni fenomeni della poesia italiana. Certo, mi è venuto da pensare anche a differenze eclatanti; ma direi che sono più numerose quelle che sarebbe interessante approfondire.
“Ipermodernità. Ipotesi per un congedo dal postmoderno” è all’interno di una sezione di “Allegoria” n. 64 intitolata “Letteratura degli anni Zero”. Questa comprende: un saggio di teoria della letteratura (il suo, appunto), uno sull’editoria degli anni Zero, uno sulla critica letteraria, tre sulla narrativa, nessuno sulla poesia.
Posso chiederle il motivo di questa scelta? Eppure, a me sembra che proprio negli anni Zero (diciamo dal 2005, e cioè a partire dalla pubblicazione di tre antologie: G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli, P. Zublena, “Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Roma, Sossella; D. Piccini, “La poesia italiana dal 1960 a oggi”, Milano, Rizzoli; E. Testa, “Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000”, Torino, Einaudi) il dibattito sulla poesia sia diventato più rilevante che nei due decenni precedenti.
Concludendo: anch’io “non credo affatto che a grandi trasformazioni storiche corrispondano necessariamente grandi trasformazioni letterarie, né di necessità le trasformazioni letterarie parlino di grandi trasformazioni storiche” e che “i quadri generali esistono ed è indispensabile ricostruirli, ma che al loro interno discipline saperi esperienze viaggiano con velocità modi aspetti differenti” (cito dal suo intervento).
Ma credo anche, come lei, che sia possibile una storia del presente. Mi interessa la periodizzazione, con tutte le virgolette e l’uso elastico del termine da lei indicati – e giustamente. Penso che sia necessario trattare in questo modo anche la poesia. Una sua storicizzazione più seria e l’integrazione in un discorso che riguarda altri generi appartenenti allo stesso campo letterario potrebbero avere conseguenze positive. La storia della letteratura del Novecento sarebbe più completa; la poesia contemporanea sarebbe meno il regno di analisi critiche fumose, parziali, che talvolta sembrano imitare il lessico delle forme che studiano, spesso si distinguono per la sopravvalutazione ermeneutica di personalità poetiche minime, raramente tentano una ricostruzione. Per non parlare di quell’amplissimo insieme che comprende testi poetici in prosa, tanto diffusi in tutto il Novecento e soprattutto negli ultimi decenni, che devono ancora essere analizzati seriamente da un punto di vista critico.
Che ne pensa?
@claudia crocco
Mi pare che allargare il discorso potrebbe convenire a lei e a Cesarani, in un certo senso. Leggendo il suo saggio (mi riferisco anche a quello su “Allegoria”), ho notato alcune somiglianze fra caratteristiche che lei identifica come rappresentative di una produzione artistico-letteraria postmodernista (o ipermoderna) in narrativa e alcuni fenomeni della poesia italiana. Certo, mi è venuto da pensare anche a differenze eclatanti; ma direi che sono più numerose quelle che sarebbe interessante approfondire.
posso inserirmi? sarei molto curioso di sapere quali sono i “fenomeni della poesia italiana” le cui caratteristiche somigliano alla produzione artistico-letteraria postmodernista (o ipermoderna). grazie
beh, lei sfida costantemente il buon senso, cita quel che ho scritto e poi dice che non mi legge, le voglio bene.
è pur vero che se legge non capisce, l’uso del congiuntivo in funzione dubitativa infatti concede che, essendo “postmoderno” non un concetto ma una supercazzola esattamente come ipermoderno, la mia personale e solipsistica definizione possa essere non condivisa.
lieto di averla imbarazzata, prosit.
@ Crocco (e Marchese)
Dati gli ultimi commenti, digredire vuol dire tornare al centro – e lei lo fa con grande pertinenza. Le rispondo molto di fretta e in breve, anche perché nelle due prossime settimane non avrò accesso alla rete: mi scusi.
La mia impressione è che la poesia abbia perso centralità nel dibattito generale sulla letteratura (del resto, se ci pensa, anche Jameson citava pochissimi poeti): non tanto perché non si parli di poesia, ma perché il discorso sulla poesia è sempre più a sé. Questo non ha nulla a che fare con la sua qualità; né significa che non sia riguadagnabile a un disegno storiografico complessivo. Ma mi sembra che negli ultimi anni le discussioni si siano accesse sulla narrativa (fiction o non fiction): viene percepita come più legata ad altre forme di rappresentazione (tv, cinema, rete), pare più sociologicamente (o forse meno mediatamente) emblematica del presente, è più letta e venduta. Non sono criteri di giudizio, ovviamente: sono constatazioni, persino un po’ desolate. Resta che anche dal punto di vista teorico, le cose più nuove e interessanti che almeno io ho letto ultimamente riguardano appunto la narrazione piuttosto che la lirica (con un’eccezione parziale: Mazzoni).
Se ci limitiamo all’Italia, esiste un postmoderno poetico, riconoscibile per lo più in forme di manierismo e di falsetto, ma anche in forme di rifiuto dell’avanguardia, o di re-incantamento orfico: ne hanno parlato critici diversi (da Luperini a Berardinelli a Benedetti; anche io ne ho scritto qualcosa; oltre al fatto che il Gruppo 93 si autodesignava come postmoderno critico). Così credo esista oggi un ipermoderno poetico soprattutto in poeti dai quaranta in giù, che recuperano la lezione del modernismo: me lo confermano spesso anche i poeti di quell’età pubblicati su LPLC. Proprio alla rinfusa, le citerei Del Sarto o Mazzoni o Gezzi o Inglese; ma pure Anedda o Testa o Buffoni. Davvero, però, occorrerebbe pensarci con calma: a naso, sono sicuro che se ne avrebbero conferme al quadro generale.
Aggiungo che in poesia la tradizione modernista è molto forte per tutto il secolo e riprende in concomitanza con la neoavanguardia dalla metà degli anni Sessanta (Zanzotto Pasolini Sereni Luzi Giudici Fortini Bertolucci Raboni Rosselli Pagliarani…); che gli stessi autori possono oscillare tra modernismo e postmodernismo (senza che questo ci costringa a classificazioni brutali); che questo pone le cose in termini diversi rispetto alla prosa, come lei osserva.
Insomma: anche io ho la sensazione che ci sia oggi una tendenza a trattare la poesia come un regno a giurisdizione storiografica propria, nel quale uno rischia di perdersi tra diadochie o, a volte, in municipi singoli. Anche se questo in parte risponde a un effettivo statuto speciale della poesia, non è certo il caso di chiuderla e abbandonarla in una riserva indiana.
Il lavoro sull’ipermoderno è appena iniziato: cosa di cui qualche commentatore quassù (o quaggiù) sembra non si sia neppure accorto. Lo sforzo che ho fatto sulle forme narrative è stato già tanto: mi sono soffermato su quelle perché mi sembrava ponessero con più evidenza i problemi di questa nuova fase, e quindi riuscissero più utili dimostrativamente. Grazie mille, quindi, per il suo commento e il suo invito a integrare.
ai poeti di un ipotetico “ipermoderno” poetico, sempre a naso, mi sentirei di aggiungere giuliano mesa, che mi sembra aver acquisito un ruolo decisivo nel panorama di una “modernità rivendicata” in antitesi a una fase culturale precedente. questo intervento su di lui va in questa direzione:
http://www.leparoleelecose.it/?p=4550
ma non trascurerei l’intervento, per mano di mesa, dal titolo “Il verso libero e il verso necessario. Ipotesi ed esempi” nel volume “Ritmologia” a cura di Franco Buffoni. lì si esprimeva una forte esigenza di cambiare aria, attraverso l’adozione o il mutamento della forma. era un intervento davvero intelligente, non so se ci sia in rete: ma mi pare funzionale al discorso di donnarumma e a quello che mi pare di aver capito di quanto dice la crocco (ma aspetto la sua risposta per capire meglio)
@Donnarumma
Grazie per la risposta tempestiva.
Se lei è fuori per due settimane, ne approfitterò per rispondere con calma.
Intanto, molto in breve: sì, ho presente “Sulla poesia moderna” di Mazzoni, credo sia un riferimento teorico fondamentale (per me lo è, quanto meno).
Mi pare che manchi ancora, però, una ricostruzione seria degli ultimi trentacinque anni di poesia italiana. Secondo me sarebbe importante, in questo momento: sia per valutare in modo più equilibrato i poeti contemporanei; sia per riavvicinare il discorso critico sulla poesia a quello sulla prosa, e per avere un quadro più completo e più dinamico del campo letterario italiano. Non so ancora cosa può venirne fuori. Come lei stesso ha notato, il lavoro sul presente (e sull’ipermoderno? Non c’è ancora un uso di questa categoria per la poesia: ecco perché mi interessa) è appena iniziato.
Berardinelli 1975 (“Effetti di deriva”, ovvero il saggio introduttivo a “Il pubblico della poesia”) per i miei studi è centrale; tuttavia non sono d’accordo con alcune delle tesi (tendenzialmente apocalittiche) successive di Berardinelli. Non conosco saggi scritti da lei al riguardo, ma mi informerò. Luperini sul postmoderno critico non mi ha mai convinto.
Non sono d’accordo con tutto quello che lei scrive sull’ipermoderno poetico; ma è molto interessante. La ringrazio di nuovo, e spero che leggerà la mia replica più estesa al suo rientro.
@Marchese
Mi scusi anche lei, mi dia tempo per rispondere in modo preciso. La mia omissione non era casuale; alcune osservazioni non si prestano facilmente alla forma commento, e io non sono una persona sintetica. Ci proverò.
@ Donnarumma
Il discorso sulla poesia è sempre più a sé e le discussioni si sono accese sulla narrativa.
È un caso? Cosa significa? Cosa rivela anche dello stato politico di questo Paese?
I maligni suppongono che la poesia si sia acquattata in qualche nicchia per viltà o narcisismo. Le anime belle che resti ai margini – a differenza di molta narrativa – per non svendersi, sottomettendosi alle regole imposte dalle grandi case editrici, dalla TV, dal cinema e dal Web stesso (dal Capitale).
Mi permetto una piccola raccomandazione, sperando che la sua ironia e la sua intelligenza critica non la trovino impertinente o petulante.
Se e quando dovesse occuparsi più da vicino di poesia italiana contemporanea, non si fermi alla più prossima, amicale e universitaria. Ridiscenda anche nel suo Ade. Si fermi un po’ ed ascolti le anime dei «moltinpoesia» lontane dalle aule universitarie, noiose o quasi inclassificabili per Berardinelli, Allegoria, LPLC. Ai setacci accademici (Convegno di Pontignano del marzo 2001: Genealogie della poesia nel secondo Novecento, «Parola plurale» di Cortellessa del 2005) ma anche a quelli post/iper/moderni di «Nazione Indiana» o LPLC neppure arrivano.
Le indaghi lei. Non se ne tenga alla larga come tanti schifiltosi critici che “hanno già dato”.