cropped-andres_serrano-the_morgue-death_unknown-19921.jpgdi Gianluigi Simonetti

[Ieri sera Resistere non serve a niente di Walter Siti ha vinto il Premio Strega. Questa recensione è uscita, in versione estesa, su «Allegoria». La seconda parte, più concentrata sulla ricezione del romanzo, la trovate qui. Un estratto del romanzo si trova invece qui].

1. Rispetto ai romanzi di Walter Siti che lo avevano preceduto, Resistere non serve a niente (Rizzoli, diciassette euro) sembra introdurre due novità. La prima, apertamente presentata come tale, è di ordine tematico: nelle pagine inziali, dopo due ‘false partenze’ di cui solo più avanti il lettore potrà apprezzare il significato strutturale, Walter Siti narratore e personaggio prende la parola per annunciare l’espulsione dalla sua opera di ogni traccia di erotismo omosessuale. Sarebbe la fine di un motivo che dal libro di esordio, Scuola di nudo, del 1994, si sviluppa incessantemente fino ad Autopsia dell’ossessione, nel 2010; si fa pertanto in modo che l’abiura scaturisca proprio dalla fredda accoglienza riservata all’Autopsia, gelida provocazione sadomaso destinata a infastidire lettori ormai stanchi di nudi maschili: “La condanna di Antonio Franchini (l’editor della Mondadori) a proposito del mio ultimo romanzo era stata esplicita, lapidaria nella sua rozzezza: «Sei tornato a scrivere un libro per froci»” (19).

La censura omosessuale prelude alla seconda novità, che matura intorno a pagina 50, quando Siti promette di rinunciare all’altra sua più tipica caratteristica formale, il racconto di sé in prima persona – ossia lo schema confessionale che sosteneva la lunga “autobiografia di fatti non accaduti” messa a punto da Scuola di nudo a Troppi paradisi, e riaffiorante a tratti nel Contagio e nell’Autopsia. Il resto di Resistere non serve a niente, cioè il grosso del libro, sarà infatti dedicato al racconto – orchestrato da una terza persona onnisciente di stampo quasi ottocentesco – della vita di un altro; nella fattispecie, di Tommaso Aricò, ricco bankster d’assalto, che dopo averlo conosciuto a una festa propone al personaggio Walter Siti di affrescare la storia della propria ascesa sociale, garantendogli i denari, i materiali e i documenti anche psicologici per farlo: “devi dirmelo tu chi sono” (49). Da qui in poi Siti non sarà che lo scriba, Aricò il committente e insieme il protagonista del libro che stiamo leggendo. Anche questa promessa di narrazione onnisciente verrà sostanzialmente mantenuta, se nel corso del romanzo Siti narratore e personaggio riprenderà la parola e la scena solo occasionalmente, quando si tratterà di rinegoziare con Tommaso l’accordo che fonda la stesura del romanzo stesso: sempre meno biografia di un individuo, sempre più ritratto di una nuova stirpe umana, di cui Tommaso sarebbe letteralmente un prototipo.

2. Quanto contano queste novità in Resistere non serve a niente, e cosa cambiano nell’assetto complessivo della narrativa di Siti – ovvero in quello che sempre più si impone come il più articolato, sottile e ambizioso progetto narrativo italiano degli ultimi vent’anni? Rispetto all’abiura dell’omosessualità la scelta della narrazione onnisciente è mossa forse più strutturale, ma meno inattesa; un po’ perché assicurando la fuoriuscita dall’autobiografia il finale di Troppi paradisi già la lasciava presagire, un po’ perché il Contagio e Autopsia, con le loro generose concessioni all’indiretto libero, avevano di fatto spostato l’interesse del lettore su identità ed ambienti esterni ed estranei, almeno in parte, al personaggio Walter Siti. Però nel Contagio e nell’Autopsia quell’io resisteva: innanzitutto come personaggio comunque al centro dell’intrigo, capace all’occorrenza di riappropriarsi della voce narrativa e di organizzare i fatti e le interpretazioni; e poi come doppio, come ombra, come presenza immanente, manifestantesi nel persistere di un ideale – magari frustrato – di conoscenza attraverso il desiderio; desiderio di uomini, ma soprattutto desiderio di immagini. Anche per questo Contagio e Autopsia restavano, nonostante tutto, “libri per froci”. Se in Resistere l’io si fa più decisamente da parte è proprio grazie alla rimozione dell’eros omosessuale, che allenta la presa soffocante dell’ossessione per consentire all’autore di parlare d’altro, liberando uno spazio di identificazione più ampia. Questo, almeno, è quanto il libro suggerisce esplicitamente al lettore.

Resta da capire a cosa si debba, nel profondo, questa mossa. Cambiare argomento e punto di vista serve a parlare a un pubblico più ampio, a uscire dalla gabbia del sé, o anche e forse soprattutto a parlare di cose così intime che non si saprebbe nominare se non uscendo da se stessi? Proviamo a chiederci da dove proviene lo stratagemma narrativo al centro del romanzo – l’idea di un libro su commissione, richiesto (e pagato) da un personaggio col quale il narratore, che coincide nominalmente con l’autore, intreccia un rapporto che, almeno da un certo punto in poi, non è solo di lavoro, ma anche d’amicizia, e forse di rispecchiamento. Istintivamente è facile pensare a Philip Roth, tra l’altro citato di sfuggita («M’ero programmato un Thackeray e mi ritrovo tra le mani un Philip Roth, se va bene…» -168); in particolare al Roth di Pastorale americana, dove Zuckerman, chiaro alter ego dell’autore, ricostruisce la storia dello Svedese incrociando ricordi personali, racconti altrui e ritagli di giornale. Ma il parallelo più stimolante coinvolge Fabrizio Lupo, di Carlo Coccioli – romanzo che Walter Siti ha prefato in occasione di una ristampa uscita per Marsilio pochi mesi fa. In quella circostanza proprio Siti notava che già nel Cielo e la terra, subito prima di Fabrizio Lupo, Coccioli si era proiettato nella figura di un deuteragonista – un sacerdote che compiange l’invertito Alberto Ortognati, protagonista del racconto. Nel romanzo successivo sarà proprio Fabrizio Lupo, colpito dal personaggio di Ortognati, a cercare Carlo Coccioli, per chiedergli di raccontare la sua storia. L’omologia con Tommaso Aricò è stringente, a pensarci bene, soprattutto quando si rileva che anche Fabrizio Lupo, nella finzione narrativa, fornisce al personaggio di Coccioli il materiale necessario alla redazione di un libro su di lui: lettere, pagine di diario, discorsi registrati, e perfino un manoscritto vergato dallo stesso Lupo, destinato a occupare la lunga parte centrale del romanzo. E come in Resistere non serve a niente, anche in Fabrizio Lupo la trovata del libro per procura è convalidata da precisi effetti di realtà: tali sono ad esempio alcune note dell’autore, che interpreta a suo modo, e a volte integra, il racconto del protagonista, e che a sua volta s’interroga sul senso della narrazione.

Tuttavia la sovrapposizione tra i due libri potrebbe rivelarsi molto più profonda di così. Come per Coccioli, anche per Siti lo stratagemma metaletterario serve non solo a consolidare la plausibilità dell’invenzione, ma anche ad opacizzare l’identificazione tra autore e protagonista – a ricordare al lettore che qui si parla di un altro. Solo che questo ‘altro’ non è, in entrambi i casi, che uno “stuntman” dell’autore, un suo emissario più determinato, uno scandaglio gettato dove chi muove i fili non ha la voglia o il coraggio o la possibilità materiale di spingersi. L’epiteto di “stuntman”, del resto, è rivelatore: così Walter Siti critico definisce il personaggio di Fabrizio Lupo, in rapporto alla coscienza di Coccioli; così Walter Siti narratore definisce Tommaso Aricò, in un passaggio decisivo del romanzo (e “stuntman”, ricordiamolo, era anche Marcello a un certo punto del Contagio):

“Forse sei il mio stuntman, quello che esegue per me le scene più pericolose…un prototipo della mutazione…o forse, più in profondità, sei il mio vendicatore” (314)

Mentre Siti investe apertamente Tommaso della responsabilità di agire in sua vece, Coccioli lascia che sia Fabrizio a notare la fatale omologia che li lega. Simmetricamente, la tacita renitenza di Coccioli ad accettare fino in fondo il ruolo di narratore onnisciente – cioè di confondere tutto il mondo con i propri fantasmi personali – diventa in Siti personaggio e narratore un imbarazzo esplicito, enunciato appena prima di uscire di scena, alla maniera di Saba in Teatro degli artigianelli (“Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo./ (…) chiude: «E adesso/faccio come i tedeschi: mi ritiro»”):

Eccomi qua, con questo progetto di “narratore onnisciente” che m’ha sempre fatto arrossire; onnisciente sarebbe solo Dio, se esistesse. Per proporti come narratore onnisciente, o devi presumere tanto da te stesso o richiedere splendore alla tua epoca. (…). Dunque ora congedatemi come un Prologo di teatro (…). Oggi, 3 giugno 2011, in questo pomeriggio bollente, faccio quello che dovrebbero fare gli occidentali in Afghanistan: mi ritiro.

Concludendo: in Fabrizio Lupo, come già nel Cielo e la terra, Coccioli sceglie di mettere una distanza tra sé e quella materia omosessuale che sarebbe stato logico, ma psicologicamente arduo, assumere in prima persona; è grazie a questa trovata, ci spiega ancora Walter Siti in veste di studioso, che in Fabrizio Lupo risulta così difficile capire se un’affermazione teorica sull’omosessualità sia a carico di Fabrizio o di Coccioli. In Resistere non serve a niente si compie un’operazione uguale e contraria: lo schema della finta confessione autobiografica, che nella trilogia rappresentava lo schema privilegiato per narrare il desiderio omoerotico, lascia il posto allo schermo strutturale della narrazione onnisciente per procura proprio ora che viene meno il primato dell’omosessualità. In altri termini, lo stratagemma di Fabrizio Lupo, che era nato per proteggere l’autore dall’urto sociale e psicologico con la propria perversione, viene ripreso da Siti nel suo solo romanzo in cui l’omosessualità si dice espulsa – la sovrapposizione delle voci e la maschera di Tommaso Aricò entrano in ballo quando di stratta di raccontare, in Resistere non serve a niente, le lusinghe del potere e del denaro. Se ne potrebbe dedurre che per Siti non è l’eros perverso a rappresentare un tabù, ma il denaro ed il potere sentiti come eros. Il senso di colpa non nasce dall’alterità della propria condizione, ma dal proprio sentirsi come tutti gli altri; e chissà quanto inconsciamente (“La mia fascinazione per il male è oscura anche a me stesso”, afferma l’autore in una nota al testo).

3. Soldi e potere: il loro legame con il male non è automatico, e anzi andrebbe argomentato. Al centro del romanzo è infatti l’illustrazione, a tratti didattica, di questo legame. L’ambiente che esploriamo attraverso Tommaso Aricò è quello della finanza internazionale, investigata nei suoi nessi organici con il mondo del crimine organizzato: un rapporto che non è più di semplice e occasionale alleanza, ma di vera e propria complementarità, di collaborazione anche filosofica. L’obiettivo, ai livelli più elevati e raffinati del sistema – incarnati nel libro dal personaggio di Morgan Lucchese – non è tanto l’arricchimento personale, quanto la conquista dell’autorevolezza e del sapere necessari a comandare il mondo: “Il denaro non serve per comprare ma per comprendere e quindi dirigere” (266); “il segreto dei soldi non è fare, ma sapere di poter fare” (144). Più il denaro e il lusso vengono investiti di sovrasensi metafisici, più il cosmo, come illustra la parabola etologica racchiusa nel secondo capitolo di Resistere, viene ridotto a carcere e biologia – carcere autoimposto e biologia ‘in situazione’, sottoposta agli stimoli di misteriosi scienziati nell’ombra. E tanto più l’economia globale si fa immateriale e ipercinetica, tanto più al suo interno evapora la distinzione tra ciò che legale e ciò che non lo è; mentre tra la gente comune il concetto di libertà si complica, e si confonde la frontiera tra fondamentale ed accessorio, chi sporcandosi le mani agisce nella sala macchine del potere vive alla lettera il problema di non saper più bene cosa possiede, e che farne. E’ a queste vette che il denaro si disincarna, e il profitto e il consumo si svelano più che mai surrogati di assoluto, per un’umanità che si abboffa di beni materiali ma non smette di aver bisogno di sacro. Perciò la crisi dell’economia occidentale, per come il libro la descrive, colpisce non tanto e non solo il capitalismo postindustriale, quanto il modello di individuo nato con la modernità, inventore e depositario dei diritti dell’uomo; la stanchezza dell’occidente “padrone-delle-merci” coincide con la nascita di nuove categorie morali e psicologiche, con l’ascesa di un politeismo non soltanto religioso, ma anche culturale ed economico, e soprattutto con la fine della democrazia, svilita sul piano simbolico e di fatto già esautorata da inedite e sotterranee oligarchie transnazionali: “La disuguaglianza si sta riprendendo il proprio ruolo grazie alla tecnica che diffonde l’opportuno tasso di apatia”(280). La formula abusata del nuovo medioevo alle porte allude quindi a un effettivo ritorno dell’uguale: se “ciò che apparentemente è stato superato è lì pronto a ritornare” (279) si tratta soprattutto di capire quali nuove forme assumeranno le nostre paure più antiche, e quali evasioni ci inventeremo per cercare di fuggirle.

Sul piano dei contenuti, come si vede, Resistere non serve a niente sembra sviluppare e aggiornare il progetto narrativo che lo precede più che intraprenderne uno nuovo. Il personaggio stesso di Walter Siti è costretto ad ammetterlo, contraddicendo sul finire del libro le proprie stesse abiure, di fronte a Tommaso che rilutta a farne un complice: “Ti ho delegato a vivere temi che sono i miei” (314). I temi in questione sono l’ipertrofia del sé, pronta a rovesciarsi in frantume, alienazione e annullamento; l’intransitività del desiderio, che brucia nel presente non solo il futuro e il passato, ma l’idea stessa del Tempo; l’immagine come organo respiratorio del consumo, e il consumo come sede spuria e miserabile in cui il mito si ostina a sopravvivere. I precedenti romanzi di Siti non alludevano forse, dietro i nudi maschili, alla tabula rasa dell’umanesimo, alla metamorfosi dell’io, ai nuovi commerci tra economia e infinito? Per quasi vent’anni, attraverso i suoi “libri per froci”, la narrativa di Siti ha parlato di queste cose, e di tutte queste cose insieme. Mentre l’editoria italiana ci abituava a una prosa di intrattenimento, spacciata generosamente per ‘romanzo’, che parla, nel migliore dei casi, di una cosa sola (d’infanzia, di adolescenza, di anoressia; di precariato, di fabbrica, di mafia…), i romanzi di Siti, come tutti i veri romanzi, parlavano di tutto, anche quando sembravano insistere su immagini vuote e superficiali, su periferie reali e metaforiche, sulle più idiosincratiche delle ossessioni. Allo stesso modo, Siti ha sempre raccontato gli altri, anche quando fingeva di descrivere se stesso: l’io ‘sperimentale’ chiamato Walter Siti collegato dalla forma a un ‘noi’ – come una cavia da laboratorio, osservata scrupolosamente, regala informazioni sulla specie cui appartiene (“Mi chiamo Walter Siti, come tutti”). Certo, negli ultimi romanzi alla centralità dell’Io si sta sostituendo una centralità dell’Altro; ma come quell’Io era costantemente tentato dall’idolatria dell’Altro, così questo nuovo Altro rischia perennemente di risolversi in uno specchio del Sé: un figlio illegittimo che somiglia spaventosamente al padre.

Certo, una storia non diventa esemplare solo perché chi l’ha inventata la dichiara come tale; affinché l’esperimento funzionasse era necessario da un lato incidere in profondità, dall’altro moltiplicare i test, e incrociare i dati. I romanzi di Siti propongono strutture dense, fatte di strati, parallelismi, corrispondenze; di legami che creano e moltiplicano i livelli di senso; che cercano – e trovano – una conoscenza del mondo non sistematica ma intera. Così è anche in Resistere non serve a niente, libro che pullula, già a una prima lettura, di simmetrie e sottofondi; che vive di collegamenti orizzontali (tra parti diverse dello stesso libro) e verticali (con spezzoni dei libri precedenti); che sa, all’occorrenza, quando contraddire anche le proprie censure, e ritrovare le antiche ossessioni, lasciandole lampeggiare in un dettaglio rivelatore. In Troppi paradisi gli omosessuali erano considerati gli alfieri dell’integrazione consumistica; in Resistere non serve a niente quel ruolo di avanguardia lo svolgono i mafiosi; quella a cui assistiamo non è una frattura, ma una staffetta:

Penso incongruamente a Nicola Gratteri quell’unica volta che l’ho ascoltato in una libreria milanese; uno dal pubblico gli ha chiesto come fanno i mafiosi a scegliersi i prestanome e lui ha risposto “fanno come gli omosessuali, che si trovano senza cercarsi” (243).

[Immagine: Andres Serrano, The Morgue (1992) (gs)].

 

13 thoughts on “Resistere non serve a niente

  1. L’analisi di Simonetti – oltre ad essere scritta con estrema, e benvenuta, chiarezza – apre un discorso molto serio sulla intransigenza della letteratura sitiana, pur nell’apparente cambiamento di rotta per quanto riguarda il setting narrativo. Siti, voglio dire, rimane coerente in due aspetti (che sono, che fanno la letteratura) ossia lo stile e il desiderio di de/scrivere la Storia. Questo emerge, a mio parere, dall’analisi e questo ci convince della materia di questo libro.
    Gandolfo

  2. “Se ne potrebbe dedurre che per Siti non è l’eros perverso a rappresentare un tabù, ma il denaro ed il potere sentiti come eros.”

    Molto acuto, come tutto il suo saggio. La formula mi fa pensare al ruolo del sadomaso nell’ultimo Pasolini (uomo e scrittore). Molto interessante e indicativo che nei trent’anni trascorsi tra P. e Siti, la fascinazione per il tabù etico-politico sia diventata, per l’autore e per gli oggetti della sua narrazione, *normale*; un po’ come la dichiarazione di morte di Dio tra gli anni di Nietzsche e i nostri, dove è un annuncio funebre sbiadito e mezzo scollato al quale non fanno più caso neanche i parenti.
    Complimenti.

  3. Scrive Simonetti: «…la sovrapposizione delle voci e la maschera di Tommaso Aricò entrano in ballo quando si tratta di raccontare, in “Resistere non serve a niente”, le lusinghe del potere e del denaro. Se ne potrebbe dedurre che per Siti non è l’eros perverso a rappresentare un tabù, ma il denaro ed il potere sentiti come eros. Il senso di colpa non nasce dall’alterità della propria condizione, ma dal proprio sentirsi come tutti gli altri; e chissà quanto inconsciamente (“La mia fascinazione per il male è oscura anche a me stesso”, afferma l’autore in una nota al testo)». Per quanto mi riguarda, resto convinto, assieme a Lukàcs e a Fortini, che non è accettabile l’idea della rappresentazione negativa del negativo, perché il negativo va rappresentato in modo da proporre una via d’uscita, e i Cainiti (più o meno postmoderni) mi appaiono, prima ancora che perversi, stucchevoli, esattamente come il loro scolarca quando cantava i famosi versi: «Je suis l’Empire à la fin de la décadence, Qui regarde passer les grands Barbares blancs En composant des acrostiches indolents D’un style d’or où la langueur du soleil danse». Per designare allora la “realtà stregata prodotta dal mondo delle merci” (il ‘circulus amorosus’ del denaro e del potere), vale a dire il capitalismo, l’ideologia e le ‘Caraktermasken’ che esso esprime nella fase attuale, nonché il modo grottesco in cui essi, nel romanzo di Siti, ricevono un’espressione letteraria, non conosco una definizione più geniale di quella usata da Hegel in un luogo della “Fenomenologia dello spirito”: «il regno animale dello spirito e l’inganno, o la cosa stessa». Forse, come precisa con pungente ironia il filosofo tedesco nel paragrafo dedicato alla rappresentazione di tale “regno”, la parte di Siti/Aricò si può ravvisare là dove l’autore della “Fenomenologia”, dopo aver evocato una «coscienza che non conduce a ‘effettualità’ un ‘fine’, ma lo ha tuttavia ‘voluto’», rileva che tale coscienza [poiché il patto simil-faustiano fra il narratore per procura e il committente si rivela alla fin fine un semplice stratagemma metanarrativo] «ha sollecitato a ciò gli altri e nel ‘dileguare’ della sua effettualità trova tuttavia un appagamento: a quel modo che un ragazzo cattivo negli schiaffi che ha toccato gode se stesso come loro cagione».

  4. @ Barone

    Hegel, Fortini, Marx poi!
    Rassegniamoci, Barone! Qui sui Siti, ora anche stregati, e su LPLC *non servono a niente*.
    Sfrutti il suo nome, se possibile. I nostri cognomi son fuori tempo…
    Il suo Abate

  5. Cari Barone e Abate,
    siamo nella “epoca della compiuta peccaminosità” 2.0
    La nuova edizione è rivista e migliorata; i tecnici hanno riparato alcuni difetti del sistema operativo, quali i rimorsi religiosi, i complessi di colpa psicanalitici, le contraddizioni dialettiche, etc.
    Poi la perfezione non è di questo mondo, vedrete che qualche difettuccio è sfuggito.

  6. Ue’, Carme’: parte de gabbulia’, tu ca si’ sperta, facce sape’ ‘o penzèro tuo, a nuje babbilabbà.

  7. Caro Abate, la rassegnazione è un atteggiamento che non mi appartiene e giocare sui nomi e sui cognomi delle persone è un esercizio che non pratico più dai tempi delle scuole elementari. Piuttosto La sollecito a rileggere la risposta sul valore del marxismo che ho dato ad un Suo intervento, e che forse avrebbe potuto fornirLe uno spunto per non farsi condizionare più del dovuto dalla sindrome della ‘Linksmelancholie’ che traspare nei Suoi scritti.

    Caro Buffagni,
    Lei, evocando l’epoca della “compiuta peccaminosità”, ha fatto un riferimento prezioso ad uno scritto di Fichte che ritengo veramente straordinario, ossia ai “Lineamenti dell’epoca presente”. Come è noto (anzi, come è prevalentemente ignoto…), in questo scritto il filosofo tedesco divide la storia del mondo in cinque epoche, laddove l’epoca della compiuta peccaminosità, che segue l’epoca dell’“incipiente peccaminosità” e precede l’epoca della “scienza”, è caratterizzata dall’assenza di ogni autorità e dall’indifferenza verso la verità. Va da sé che la nostra è proprio la terza epoca. Aggiungo soltanto che la periodizzazione storico-filosofica fichtiana viene ripresa da Lukács nella “Teoria del romanzo”. Inoltre, vale forse la pena di ricordare, considerando le analogie riscontrabili fra l’attuale periodo e quello compreso fra il 1900 e il 1914, ciò che, richiamando la terza epoca fichtiana, osserva il filosofo ungherese sugli eventi successivi a quest’ultima data: “Solo ci manca, naturalmente, quel che ne ha concluso Lenin, cioè che l’intera società dev’essere radicalmente trasformata”.

  8. Barone, troppo battagliero di questi tempi non mi sento, ma il mio era solo un piccolo, frettoloso, scherzo da prete!
    Sì, ho in mente di riprendere il discorso con lei su Marx ( più che sul marxismo). Appena posso.

  9. Caro Barone,
    eccomi a riprendere il nostro precedente scambio (25 giugno 2013 alle 08:08; 25 giugno 2013 alle 11:04). Annoieremo ancora Carmela e altri/e, ma di questi tempi non mi lascio scappare uno che LPLC parla ancora di Marx.

    Comincio col dire che negli ultimi decenni sul marxismo o i marxismi sono cresciuti i miei dubbi, su Marx no. Resta però irrisolto sia il problema di come usarlo oggi sia quello di chi potrebbe essere in grado di usarlo (intendo: non privatisticamente, non accademicamente, non settariamente). Di assenza di una cultura marxista, in Italia (ma anche altrove) e non solo nel defunto PCI, ho sentito parlare fin dagli anni Settanta. Ma questo è proprio un brutto segnale. Vuol dire che siamo restati in pochi dei tanti che allora “marxisteggiavano” a tutto spiano. Anche quell’infarinatura generica che passava per “rinascita del marxismo” è svanita. Uscire dalle nebbie fa anche bene. Ma dobbiamo sapere che
    i pochi che ancora osano dichiararsi marxisti o studiano le questioni d’oggi senza dimenticarsi di Marx saranno pure buoni, ma sono in enormi difficoltà. Di rado, ad es., trovano interlocutori validi. E, quando li trovano, come in questo nostro caso, non è detto che s’intendano tra loro facilmente. Comunque proviamoci.

    Rileggendo il suo commento del 25 giugno 2013 alle 11:04 avrei da muoverle le seguenti obiezioni:

    1. Il crollo dell’Urss a me non pare l’elemento decisivo per la scomparsa del marxismo dal dibattito pubblico. Ci fermeremmo in superficie. Il marxismo sovietico era già un dilemma per gli stessi marxisti. E almeno dagli anni Trenta del Novecento. Era già un’ortodossia, il segno di una malattia o di deformazione che già angustiò i militanti d’allora. L’esistenza dell’Urss di Stalin e (meno) della Cina di Mao anzi hanno funzionato da tappo, da impedimento per la ricerca marxista. Mi spiace dissentire da lei, che – non la conosco ( a naso e dal linguaggio mi pare di riconoscere una sua provenienza dalla sinistra comunista…) – mi pare abbia frequentato compagnie teorico-politiche non troppo dissimili dalla mia (ero di Avanguardia Operaia) poi persino avvicinatesi, ma – ahi noi! – a causa della comune sconfitta.

    2. Quella che a me pare non si sia proprio avviata, neppure in Urss, è proprio la « transizione dal capitalismo al comunismo». A suo parere, invece, essa sarebbe andata avanti « negli ultimi decenni del XIX secolo e per buona parte del XX secolo». Per quel che ho letto, studiato e capito, già con la morte di Lenin e con l’avvento di Stalin fu imboccata, sia pur sotto la coperta ideologica della “costruzione del socialismo”, un’altra strada. In parole povere, in Urss come in Cina poi, non si era avviato nessun vero transito (o transizione) dal capitalismo al socialismo. Figuriamoci al comunismo, fase comunque *post* (socialismo) e sulla quale Marx aveva detto cose prudentemente generiche. Qui concordo con le analisi circostanziate di La Grassa e Preve: in quelle parti del mondo, sottratte temporaneamente e con una rivoluzione (vera) al dominio capitalistico, si è cominciato a costruire *un’altra cosa*. Gli storici stanno accertando che per tanti aspetti si è trattato di un ibrido di capitalismo e statalismo, che di socialismo aveva solo la vernice ideologica. (Per fare un paragone approssimativo: qualcosa di simile deve essersi verificato nella storia quando si è bloccata la “transizione” dal cristianesimo alla agognata Città di Dio su questa terra ed è venuta fuori *un’altra cosa*: la Chiesa cattolica: il non plus ultra per alcuni della vocazione cristiana; il suo tradimento per altri).

    3. Su come giudicare quest’*altra cosa* venuta fuori al posto dell’agognato socialismo in Urss o in Cina si scontrano da tempo (e tuttora) i “realisti” e gli “utopisti”. I primi la valutano comunque positivamente, soddisfatti del ruolo di grandi potenze reso possibile a quei Paesi proprio grazie al varco storico apertosi con la Rivoluzione del ’17. Essi – ahimé – mettono facilmente tra parentesi le lagrime e il sangue dei costi sociali di quelle costruzioni, rammentando (a ragione, ma lasciando l’amaro in bocca) che, in fatto di ammazzamenti e persecuzioni, il “libro nero del capitalismo” ha ben poco da invidiare al “libro nero del comunismo” o lo supera ampiamente. I secondi sono convinti del “tradimento della rivoluzione” e non si vogliono rassegnare alla sua svendita per un “piatto di lenticchie” sia pur consistente né alla divaricazione tra fini e mezzi.
    Ho virgolettato i due termini generici che ho usato, perché a me pare di cogliere che entrambi – “realisti” e “utopisti” – non riescono del tutto a starsene tranquilli nella loro posizione. C’è sempre (almeno nei migliori) la buona tentazione del dubbio (brechtiano); e la consapevolezza, magari sotterranea, che ciascuno dei due fronti non può fare a meno di alcune ragioni di fondo presenti solo nella posizione contrapposta. Azzardando, mi sentirei di dire che in ogni “realismo” c’è un residuo di “utopismo” e viceversa. Non è una visione ecumenica, conciliante. E’ un dramma irrisolto. (Lo esemplificano le posizioni contrapposte di La Grassa e Preve, che qui non posso approfondire. Se ha tempo può vedere: http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=251:ennio-abate-su-comunismo-e-storia-lettera-a-preve&catid=1:fare-polis&Itemid=13; http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13)

    4. Lei, attaccandosi alla categoria del revisionismo (chiaramente leninista negli esempi con cui la delinea), mi pare soffra più di me della «Linksmelancholie» (malinconia di sinistra) che mi attribuisce. Lei sembra pensare alla possibilità di riproporre «all’interno dei partiti dell’attuale sinistra» un marxismo rimasto intatto, sano e vegeto. Io glielo confesso non ritengo più possibile un’impresa del genere.
    Per due ordini di ragione:
    – l’attuale (sedicente) sinistra è così inquinata dal liberalismo che tanto varrebbe porsi il compito (forse più realistico) di riproporre Marx sia alla (sedicente) sinistra che alla (sedicente destra);
    – si trattasse oggi di rimediare solo alla corrosione dei partiti di sinistra dovuta alle deformazioni, mistificazioni e degenerazione dell’ideologia marxista! Il fatto è che, nel frattempo, la realtà intorno a noi (lo stato del mondo) è in frenetico, caotico mutamento; e anche per intervento di chi (esiterei a parlare di “borghesia”, gli attori oggi non sono più quellì ottocenteschi…) questa realtà in mutamento ha saputo leggerla meglio o almeno con meno paraocchi. (Il che significa anche che ha saputo intervenirvi meglio a proprio vantaggio, con più possibilità di decidere e di mettere in difficoltà gli avversari storditi o distratti o attardati o impigriti).

    5. E allora bisognerà, sì, dire che anche un Marx ridotto a «marxologia» ha contribuito a questo impigrimento o ottundimento. Ma – questo il problema più arduo – basta ancora in tali condizioni un bel «ritorno a Marx»? E da parte di chi? Quale sarebbe il “noi” che deve tornare a Marx? Io, come anticipato, ne dubito. Potesse questo per me indefinito “noi” anche agevolmente tornare al Marx “vero” seppellito da marxologi o marxisti scolastici, siamo certi che quei suoi occhi vedrebbero più chiaro nella realtà nel frattempo mutata? E anche la sua prospettiva politica da lui costruita sulla base delle conoscenze di cos’era il capitalismo ai suoi tempi non avrebbe bisogno di aggiornamenti, correzioni, precisazioni o di un totale ripensamento? Lei propone di « riconnettere il marxismo al movimento operaio»? Io sconsolato le faccio notare che non siamo più all’inizio del Novecento, non abbiamo a che fare come Lenin con una potente socialdemocrazia e mi chiedo: ma dov’è oggi il movimento operaio?

    P.s.
    Temo che un dialogo approfondito fra me e lei su questi temi non possa essere condotto su questo blog. Annoieremmo troppo Marisa e molti altri/e. Se è interessato a proseguirlo, mi può scrivere alle mie catacombe sul Web: poliscritture@gmail.com; oppure a: moltinpoesia@gmail.com

  10. Grazie, caro Abate. Le rispondo, sperando anch’io che questa discussione non appaia un corpo estraneo nel sito. Quando si affronta l’esame e la discussione di un pensiero complesso come quello di Marx, è innanzitutto opportuno definire preliminarmente che cosa sia il marxismo (= pensiero di Marx + scuola marxista), sia per non confondere i molteplici livelli teorici in cui esso si articola sia per comprendere quale sia l’interconnessione che fa di esso un “lucido blocco d’acciaio” (Lenin). Come vede, stimato Abate, io non ritengo che, dal punto di vista metodologico, prasseologico e storico, essendo il marxismo “una guida per l’azione” e non solo un metodo di analisi o un criterio di interpretazione, la storia del marxismo (e quindi delle sue applicazioni alla realtà del XIX e del XX secolo) sia un filtro sporco da depurare con dosi massicce di una marxologia accademicamente evasiva e politicamente innocua. La storia del marxismo è invece consustanziale alla dottrina di Marx, da cui è inseparabile. Orbene, tornando a bomba, il marxismo è: 1) un criterio d’interpretazione scientifica dei processi storici (= materialismo storico = teoria-chiave del rapporto fra base e sovrastrutture); 2) una ‘critica dell’economia politica’, ossia un modello teorico del modo di produzione capitalistico (= Il Capitale) che, attraverso tutta una serie di relazioni e concetti teorici (valore e plusvalore, forza-lavoro, lavoro astratto, prezzi di produzione, composizione organica del capitale, saggio medio di profitto ecc.), permette di descrivere, spiegare e prevedere la struttura e il movimento del sistema economico-sociale che poggia su tale modo di produzione; 3) l’applicazione di questo modello a paesi e sistemi sociali concreti (ad es., “Lo sviluppo del capitalismo in Russia” e “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” di Lenin, la “Agrarfrage” di Kautsky, “Il capitale finanziario” di Hilferding, le Tesi di Lione del P.C.d’I., il “Saggio sulle classi della società cinese” di Mao Zedong ecc.); 4) una teoria della transizione dal capitalismo al comunismo (= socialismo scientifico), che comprende un insieme di teorie e sottoteorie (dello Stato borghese, della democrazia borghese, del partito proletario, del sindacato, dell’egemonia, della conquista del potere politico di Stato, delle alleanze di classe, dello Stato socialista, della democrazia proletaria, della rivoluzione culturale ecc.); 4) una visione filosofica del mondo, del pensiero e della natura (= materialismo dialettico = teoria della contraddizione + teoria del rapporto fra teoria e pratica + teoria della conoscenza + teoria dell’ideologia + teoria del rapporto fra scienza, ideologia e filosofia + metodo dell’astrazione determinata ecc.). Il procedimento, seguito dagli avversari e dai critici del marxismo, che consiste nello “smontare” il pensiero di Marx per capirne il meccanismo sottostante, individua giustamente in Hegel ‘il maestro di color che sanno’ della modernità. È da osservare che tale procedimento, caratterizzato dalla pretesa di far corrispondere meccanicamente fra di loro concetti, oggetti e relazioni, in modo che siano immunizzati da intrinseche contraddizioni e da mediazioni, è un’utopia reazionaria (= filosofia borghese, idealistica e/o empiristica, dell’identità). Sennonché proprio Hegel, spesso citato a proposito della categoria di “rapporto” e dell’intreccio fra “ratio essendi” e “ratio fiendi”, ci mette in guardia dalle presunzioni rassicuranti di un ‘intelletto tabellesco’ e ci insegna concretamente, con le sue mirabili analisi, così ricche di determinazioni logico-storiche, come la ‘fatica del concetto’ non possa fermarsi alla fissazione dell’essenza incontraddittoria (= identità di un oggetto con se stesso e sua differenza dagli altri), ma imponga, per promuovere un ulteriore sviluppo dell’indagine, lo ‘studio della contraddizione nella cosa stessa’ (= definizione leniniana della dialettica). Da questo punto di vista, la semplice negazione, da parte di coloro che non le ritengono essenziali, di quelle determinazioni che altri ritengono essenziali per caratterizzare un oggetto qualsivoglia, lascia il tempo che trova, poiché proprio Hegel ci insegna che la battaglia delle idee viene vinta dalla concezione teorica che sa mediare il proprio apparato conoscitivo con quello di altre concezioni teoriche, assumendo criticamente anche il loro discorso come parte (sempre mediata dalla critica) del proprio (= insopprimibile istanza della critica della teoria e/o dell’ideologia prodotte dalla classe borghese, il cui modello esemplare è depositato nei 4 libri del “Capitale”).

    In realtà, lo spazio teorico in cui si costituisce la dialettica della liberazione del proletariato è dischiuso dalla radicale dissimmetria che caratterizza il ‘Doppelcharacter’ del lavoro rappresentato nelle merci (ragione per cui ciò che conta non è che la merce sia qualcosa di duplice, insieme valore d’uso e valore di scambio, cosa ovvia ai tempi di Marx, ma che il lavoro espresso nel valore abbia caratteristiche diverse dal lavoro produttore di valore d’uso: cosa, questa, che non solo era ignota al pensiero di quel tempo, ma rappresenta inoltre la scoperta fondamentale che sta alla base del Capitale). Il passaggio cruciale per la transizione dal capitalismo al comunismo si identifica allora con il passaggio dal lavoro contenuto nella merce alla classe operaia contenuta nel capitale, in quanto la ‘zwieschlächtige Natur’ della classe operaia consiste nell’essere insieme lavoro concreto e lavoro astratto, lavoro e forza-lavoro, valore d’uso e lavoro produttivo, capitale e non-capitale: in altri termini capitale e classe operaia, quindi, nello stesso tempo, capitale variabile (che riproduce la forza-lavoro e genera il plusvalore) e potenza della cooperazione dei produttori associati. Ma proprio perché la classe operaia è parte del capitale, essa non può negare il capitale se non negando se stessa in quanto capitale (= necessità permanente, affermata con il massimo rigore dai maestri del socialismo scientifico, della lotta contro il revisionismo, contro il riformismo, contro l’opportunismo, cioè contro tutte le forme di subordinazione della classe operaia al capitale derivanti dalla ‘natura duplice’ di tale classe): «La rivoluzione – sottolinea infatti Marx – non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume».

    E vengo al giudizio sulle esperienze di costruzione del socialismo, che rappresenta il cuore di questa discussione. Non vorrei pertanto essere tacciato dal mio interlocutore di ricorrere ad un linguaggio terzinternazionalista se osservo che lo schema interpretativo sotteso alle sue obiezioni su questo tema cruciale mi sembra sostanzialmente quello menscevico e socialdemocratico di Plechanov, di Martov e di Kautsky, secondo cui un processo di transizione al comunismo in Russia non poteva realizzarsi, e dunque non si è mai realizzato, a causa dell’arretratezza economica e delle condizioni semifeudali di questo paese eurasiatico. In base ad una concezione meccanicistica di tipo stadiale, che oblitera, insieme con la dialettica, la teoria leniniana della catena imperialistica e della rottura dell’anello più debole, si sostiene dunque che, essendo quella dal feudalesimo al capitalismo l’unica transizione possibile, la rivoluzione d’Ottobre, nonostante alcune trascurabili differenze come il rifiuto di massa di continuare a partecipare alla guerra imperialista e il rovesciamento del governo di Kerenskij attraverso l’insurrezione operaia diretta da Lenin e dai bolscevichi, si sarebbe posta in un rapporto di sostanziale continuità con quella di febbraio e sarebbe stata, fin dall’inizio, una rivoluzione capitalistica. La conseguenza inevitabile di un simile approccio, contrassegnato, ad un tempo, dalla negazione dell’evidenza storica, dallo schematismo e dal nullismo, è che il nodo teorico della transizione dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione comunista, che sta al centro della rivoluzione d’Ottobre e dello stesso giudizio su Stalin, cessa di essere un problema teorico e politico non perché in tal modo la questione sia stata risolta, ma perché è stata semplicemente rimossa. Il ‘lucus a non lucendo’, cui ricorrono coloro che ripropongono oggi le posizioni dei critici della rivoluzione sovietica negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, è allora lo pseudoconcetto del ‘capitalismo di Stato’, il cui contorto significato, diversamente da quello attribuitogli da Lenin durante il periodo della Nep (1921-1929), servirebbe ad indicare il carattere fondamentale di una società, quella sovietica per l’appunto, in cui lo Stato è il proprietario dei principali mezzi di produzione e li gestisce in modo capitalistico. Sennonché affermare questo significa non tenere conto della situazione dell’Urss dopo la rivoluzione d’Ottobre e non comprendere con quali difficoltà e con quali potenzialità, sia a livello interno (l’industrializzazione e il problema dell’alleanza con i contadini) sia a livello internazionale (l’accerchiamento capitalistico e il problema dell’alleanza con i movimenti di liberazione nazionale delle colonie e semicolonie), si siano dovuti misurare i dirigenti che si contesero l’eredità teorica e politica di Lenin, ossia la generazione di Stalin, Trotsky, Bucharin, Kamenev e Zinoviev, per dare al socialismo, con i soviet e l’elettrificazione, le due basi indicate dal grande rivoluzionario russo nella sua sintetica formula, e per mantenere aperta, lungo questa via, una prospettiva comunista. Sotto questo profilo, vale la pena di ricordare che il 7 novembre del 1917 non ha segnato la fine della rivoluzione, ma il suo inizio; parimenti, così come prevede la teoria marxista e leninista della ‘rivoluzione ininterrotta per tappe’, la fine della guerra civile ha costituito non la conclusione del processo rivoluzionario, ma la sua ulteriore continuazione in direzione del socialismo e del comunismo. Del resto, una volta sconfitte tanto le forze reazionarie legate al passato regime zarista quanto le forze controrivoluzionarie sempre riemergenti, le une e le altre appoggiate dal blocco delle potenze imperialiste coalizzate contro il primo paese socialista del mondo, il problema era quello, da un lato, del consolidamento dello Stato proletario e dei risultati sino ad allora conseguiti e, dall’altro, dei tempi, delle modalità e delle forme di sviluppo della transizione al comunismo. Queste nuove tappe non erano e non potevano essere lo sbocco di processi pacifici, giacché, come si è detto e come non si deve mai dimenticare, il loro raggiungimento era fortemente condizionato dalla costante pressione aggressiva dell’imperialismo e dalla realizzazione, sia nella struttura che nella sovrastruttura dello Stato sovietico, dei mutamenti qualitativi che erano necessari per garantire la direzione di marcia,anticapitalista e comunista, dell’intero processo della transizione. L’industrializzazione del paese, la difesa militare, la lotta contro le forze conservatrici della piccola e media borghesia radicate nelle campagne, così come i riflessi politici e ideologici dei conflitti sociali all’interno del partito, incarnati dalle fughe in avanti e dalle giravolte di Trozky, nonché dai cedimenti e dalle capitolazioni di Zinoviev e di Bucharin, hanno rappresentato altrettante sfide con cui il partito comunista ha dovuto misurarsi sotto la direzione di Stalin. Solo una salda direzione e la capacità di individuare con chiarezza gli obiettivi immediati, intermedi e finali del processo in corso potevano garantire, in un periodo di ferro e di fuoco (1924-1953), il successo non solo della costruzione del socialismo in un solo paese, ma anche della realizzazione di una base rossa per la rivoluzione mondiale. Un corretto approccio a questa grandiosa vicenda storica, per non essere superficiale, unilaterale e in definitiva opportunistico, deve perciò poggiare su un’esatta comprensione degli effettivi processi storici, dei concreti rapporti di classe e delle reali forze in campo. In questo senso, non vi è alcun dubbio che un deficit di comprensione di questi dati e del modo di agire su di essi per trasformarli in altrettante leve della transizione sia all’origine della sconfitta degli oppositori di Stalin e dell’affermazione della base operaia, contadina e intellettuale, che lo sosteneva. I processi di Mosca degli anni Trenta sono la conseguenza di questa sconfitta e dimostrano che, come era già avvenuto ai tempi di Cromwell e di Robespierre con il taglio delle ali estreme (da Carlo I ai Levellers, da Danton a Hébert, da Trotsky a Bucharin), il processo rivoluzionario, in cui quei processi necessariamente rientravano, viene sempre governato dal centro e deve premunirsi dai sussulti controrivoluzionari estirpando le radici interne delle cospirazioni internazionali, poiché, come osservava Stalin con sagacia e lungimiranza, “le fortezze si espugnano dall’interno”.

    In conclusione, pur dissentendo radicalmente dal mio interlocutore rispetto al giudizio intorno a Stalin e al ruolo di “tappo o impedimento per la ricerca marxista” che la direzione del “meraviglioso georgiano” avrebbe esercitato (laddove proprio Cases ha affermato esattamente il contrario circa la produzione intellettuale e politica degli anni Trenta, da Brecht a Benjamin, da Gramsci a Togliatti ecc.), spero tuttavia che egli converrà con me sul fatto che, dal punto di vista storico e soprattutto teorico, è fondamentale ancor oggi per coloro che militano nel movimento operaio e comunista svolgere una ricerca ampia e approfondita sulle scelte compiute e sugli indirizzi adottati in Urss dalla maggioranza del gruppo dirigente bolscevico durante il periodo che va dal 1924 al 1953. Lo scopo di tale ricerca naturalmente non può essere quello di individuare schematiche analogie tra quella fase storica e la fase attuale (anche se con la creazione di più poli imperialistici su scala mondiale e dopo che la progressiva restaurazione del capitalismo in Urss è sfociata nel dissolvimento dello Stato socialista non mancano talune analogie con il periodo compreso tra il 1900 e il 1914), ma quello, per usare una bella espressione del marxista nord-americano Paul Sweezy, di capire “il presente come storia”. Solo in tal modo, imparando come i princìpi della teoria scientifica siano stati applicati in altri contesti e applicando tali princìpi alle situazioni concrete in cui si trova ad operare oggi il movimento di classe, sarà possibile, io credo, svolgere un’azione efficace nel contrastare l’offensiva ideologica e culturale che tende a liquidare l’esperienza teorica e pratica del proletariato mondiale nelle società di transizione e ad espungere tale esperienza dalla formazione politica e intellettuale delle nuove generazioni che manifestano la loro opposizione al sistema capitalistico.

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