di Claudio Giunta
Delle varianti d’autore, del loro interesse per la critica, Edmund Wilson pensava questo: «Io non leggo quasi mai varianti, e credo che la pubblicazione e il confronto tra le varie stesure dell’opera di uno scrittore sia per lo più perfettamente futile. I resti, i trucioli della scrittura stanno quasi sempre bene nell’immondizia. Se li lasci in giro, finiscono per essere pubblicati o commentati nelle tesi degli accademici, che invece dovrebbero occuparsi di cose più serie». Wilson scriveva queste cose in una lettera del 1943. In una paginetta scritta appena quattro anni dopo, Benedetto Croce mostrava di pensarla più o meno allo stesso modo: «Confronti e disquisizioni sulla prima e l’ultima stesura [sono il] pascolo di tutti i professori ed accademici che non sanno far né critica né storia […]. Io non vieto niente, né la soddisfazione della curiosità, né l’intrattenersi delle inezie quando pur premono cose maggiori; ma sgonfio l’una e le altre quando pretendono di essere critica affinata o integrazione della critica seria».
Non si può davvero dire che alle scomuniche di Wilson e di Croce si sia prestato molto ascolto.
Da un lato, le edizioni degli scrittori, anche degli scrittori moderni e contemporanei, hanno dato sempre più spazio alla storia elaborativa di poesie e romanzi, agli «scartafacci» appunto. Ciò ha fatto emergere molte cose interessanti, ha dato molte occasioni per imparare, ma ha anche comportato qualche eccesso di zelo, che ha messo capo alla pubblicazione di edizioni pletoriche, feticistiche (le foto dei documenti originali, la riproduzione ‘mimetica’ degli autografi, apparati critici tre volte più lunghi dei testi) e oltremodo costose. Dall’altro lato, le prime edizioni critiche comprendenti varianti d’autore (Ariosto, Petrarca, Leopardi) hanno contribuito a far nascere un nuovo o quasi nuovo metodo critico, la cosiddetta critica delle varianti, un metodo frequentato soprattutto da studiosi italiani e, tra questi, splendidamente, soprattutto da Gianfranco Contini.
Editing Novecento (Salerno editrice, 2013) di Paola Italia è un esempio eccellente di questa applicazione o metodo. Ed è anche una seria obiezione, un’obiezione concreta, fatta di dati e osservazioni interessanti, a chi in astratto fosse tentato di dare almeno un po’ di ragione a Wilson e a Croce. Perché il fatto è che la tradizione della letteratura moderna e contemporanea vive di varianti e di scartafacci, e per gestire questi materiali (il cestino dell’immondizia, in parecchi casi, non è un’opzione sensata, perché si butterebbero nell’immondizia libri belli e importanti) serve un apprendistato, una sensibilità, un corpus di regole e procedure.
Dopo un primo solido capitolo introduttivo sui rapporti tra autore, curatore e lettore nell’età della stampa, Paola Italia discute, nel secondo, della situazione testuale di un gran numero di autori e opere novecentesche, seguendo il filo del già eccellente saggio scritto da Claudio Vela per la Letteratura Italiana Salerno. In un libro precedente, scritto insieme a Giulia Raboni, Paola Italia aveva osservato: «Quando gli studi di filologia d’autore saranno più numerosi e la disciplina più codificata, si potrà forse scrivere una storia della letteratura italiana sulla base dei vari sistemi correttori degli autori e dei loro rapporti con i propri manoscritti» (Che cos’è la filologia d’autore). Queste pagine vanno in quella direzione. Ma la rassegna storica serve poi alla studiosa soprattutto per illustrare un metodo. Si è parlato spesso, in passato, di una ars edendi per la filologia d’autore: a me pare che non sia un obiettivo né raggiungibile né desiderabile, tanto la disciplina è fluida, plasmabile a seconda delle situazioni testuali, ma insomma il capitolo è quanto di più prossimo a un’ars si possa desiderare, e non potrà mancare nelle bibliografie future.
Nel terzo capitolo Paola Italia si concentra su Gadda e Montale per motivi diversi. Di Montale esiste, oltre a un’edizione critica sorvegliata dall’autore, un Diario postumo nel quale potrebbero essere finite poesie scritte da altri, o ritoccate da altri o, diciamo, assemblate da altri. La questione è complicata e anche, bisogna dire, penosissima. C’è il Poeta anziano che forse vuole fare uno scherzo ai filologi, ci sono i filologi che passano anni a soppesare gli indizi, a confrontare le grafie: e le eredità, gli avvocati, le tesi di laurea degli studenti, poverini… Davvero il lettore è tentato dall’ipotesi «immondizia». Però è un fatto che, se si vuole studiare Montale, è giusto (non necessario) che qualcuno si occupi di queste questioni. Ma certo: si compiange quel qualcuno. Paola Italia più che altro usa questo case study per fare delle considerazioni di buon senso, sempre benvenute. Benvenuta è anche la cautela; solo un po’ inquietante (almeno per me) l’appello alla Scienza: «il metodo di un’expertise attribuzionistica non è scientifico e non lo sarà finché non si potranno introdurre sistemi quantitativi e qualitativi di analisi dell’autografo (spettrografie, analisi all’infrarosso, trattamento delle foto digitali con programmi di gestione delle immagini) che permettano di datare le serie scrittorie e correttorie». A questo traguardo «i progressi tecnologici fanno sperare che manchi davvero poco». Non saprei spiegare bene perché, ma per quel giorno – non così prossimo, mi auguro – spero di essere morto.
Quanto a Gadda, tutto è molto più interessante, perché senza il lavoro dei filologi molti libri di Gadda non li potremmo neanche leggere. Le storie elaborative della Cognizione, del Pasticciaccio, dell’Adalgisa formano un labirinto infinito; ma basti dire qui per esempio che – come hanno appurato la stessa Paola Italia e Giorgio Pinotti – Eros e Priapo inizia così nella prima versione manoscritta: «Li associati a delinquere cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onte e stuprare la Italia…»; e così nella stampa: «Li associati cui per più d’un ventennio…». E il resto, per i campioni che si leggono, è altrettanto interessante. Giusto dunque che queste carte vengano pubblicate, lette, studiate; ma anche di fronte a questo bel caso sarebbe bene mantenere la calma: sono solo varianti (invece: «Il progetto magnanimo di una rappresentazione esaustiva della complessità del reale e la sua esecuzione…» [Isella]; «Il 1965 segna quindi l’inizio della somministrazione del sedativo artificiale, la benzodiazepina stilistica, a una prosa che, fortificata dall’autoanalisi della Cognizione…» [Italia]).
Tutto bene dunque? Non tutto. Ma le mie obiezioni non riguardano né il libro di Paola Italia, che è ottimo, né la disciplina in sé bensì (1) il modo in cui se ne parla e (2) le forme che la disciplina potrebbe prendere in futuro.
Quanto a (1), la filologia d’autore è una pratica che, come ogni pratica, ha le sue regole e i suoi accorgimenti dettati dall’esperienza e dal buon senso. Non altro. Non mi sembra che si senta il bisogno di una specie di Teoria Unificata quale quella che prospetta l’autrice: «[Nella prassi editoriale vi sono costanti] rispetto alle quali si può sperare di giungere un giorno a una regolamentazione da parte della comunità scientifica». E non mi sembra che questa pratica – che i lavori di Paola Italia e di altri dimostrano perfettamente legittima – abbia bisogno di appoggiarsi alle speculazioni sull’essenza dell’arte o della letteratura. Devo dire anzi che da una studiosa come Paola Italia mi aspetterei non un avallo ma un sano distacco nei confronti di queste reboanti ma – alla verifica – misere teorie, sia quelle del passato (morte dell’autore in salsa francese, semiotica filologica eccetera) sia quelle del presente (la teoria dello script act di Shillingsburg dev’essere l’ultima nata, ma chissà quali altre delizie ci riserva l’accoppiata humanities+web). «Ci è toccato vivere in un secolo in cui l’ultimo imbrattatele aveva una sua Weltanschauung da illustrarci. Figurarsi gli imbrattacarte». Memore di questo bell’aforisma reazionario di Dionisotti, ho sempre pensato alla filologia (anche) come a un rifugio dagli sproloqui dei professori di filosofia: mi piacerebbe che continuasse ad esserlo.
Quanto a (2), ho già accennato al fatto che la filologia d’autore ha prodotto, tra tanti studi utili, anche una certa quantità di ‘ricerca in campo umanistico’ che sarebbe stato meglio non fare, se non altro perché ogni ricerca costa tempo e denaro, entrambi scarsi ed entrambi perciò da spendere con la massima accortezza, specie quando si è giovani. Ora mi pare che un nuovo idolum si profili minaccioso all’orizzonte, quello – così intonato ai tempi – della condivisione, cioè delle edizioni di autori moderni fatte in modalità Wiki: «[essa] si configura quindi come un tavolo di lavoro, una stanza di incontri, un percorso di ricerca. Un modo di lavorare nuovo, su scala globale, dalle straordinarie potenzialità e versatilità, che cambia il lavoro del filologo e del ricercatore, facendolo passare da una dimensione individuale (quando non solipsistica) alla condivisione del sapere con un’intera comunità scientifica». Sì, potrebbe essere questo il futuro. Prima che arrivi, volevo solo dire che io ho scelto di fare questo lavoro perché mi piace starmene da solo. Anyone else?
[Questo articolo è uscito sull’inserto culturale del “Sole 24 ore”]
[Immagine: Candida Höfer, Ethnologisches Museum B
Bravo Giunta!
Anyone else? Sì, io. E sicuramente parecchi altri. La filologia è un’ottima occupazione per misantropi, sociopatici o semplicemente amanti del silenzio, e nemmeno una delle più sterili, giacché tra gli esiti della disciplina c’è quello di sottrarre la storia alla signoria dei ‘critici’, ossia dei filosofi. Per la filologia, ‘carta canta’, la storia si deve vedere, prima di diventare la Storia. In questo senso non starei nemmeno a compiangere troppo il denaro speso in ricerche sui ‘trucioli’, e nemmeno le energie umane, giacché ciò che viene speso confluisce nel positivo contenimento di individualità un po’ insopportabili nella vita quotidiana, che senza questa terapia (spesso, ripeto, coronata da risultati molto utili ai fini della ricerca storica) potrebbero essere perfino pericolose per l’ordine pubblico, o quanto meno per la convivenza familiare. La passione per le varianti d’autore, poi, e più seriamente, si può considerare una forma di collezionismo, con tutto ciò che attiene ad esso in forma di ‘patologia’, ma anche di benemerita (benché un po’ illusoria) ricerca di completezza.
Non m’intendo nello specifico di filologia moderna, solo un po’ di filologia classica, ma mi sembra che le visioni del futuro di Paola Italia, che tanto inquietano Giunta, possano nascere da una sorta di complesso di inferiorità della ricerca umanistica nei confronti di quella delle scienze ‘dure’. Poi, dovrei leggere direttamente il saggio; qui parlo fidandomi del suo recensore. E quindi, secondo me, in quello che Giunta definisce ‘modello Wiki’ è forse da vedere piuttosto l’ombra della ordinaria prassi di condivisione delle ricerche e di lavoro di équipe che ben si esprimono nelle pubblicazioni scientifiche, firmate non solo a quattro, ma anche a dieci mani e più da ricercatori di fisica, per dire. Peraltro, tradizioni manoscritte indomabili, dalla Bibbia a Gregorio Magno, per esempio, possono solo essere esplorate se a lavorarci sono gruppi di ricerca allargati e collegati. Stesso tentativo di imitazione delle scienze ‘dure’ (e segno di soggezione) è forse da vedere nell’anelito ad una sistematizzazione definitiva, secondo criteri ‘scientifici’, ossia teorici, della pratica filologica. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il caso può privarci di qualunque documento, e quindi i filologi lavorano solo su quello che è pervenuto a loro, mica su tutto l’esistente. Insomma devono sempre credere di non avere tutte le varianti, tutti i testimoni di un testo. Quindi quell’aspirazione alla completezza nella collazione che sfiora il collezionismo può, nella filologia contemporanea, denunciare, sub specie philologiae, una pulsione di tipo bibliofilo, bibliolatra. Dal campo della filologia classica, infatti, più formalizzata perché di ben più lunga tradizione, giunge anche ai filologi moderni e contemporanei la lezione e la ‘vittoria’ di Pasquali su Lachmann, ossia della storia, dei fatti, delle coincidenze, degli incidenti materiali eccetera: tutti elementi variabili, casuali. Lachmann sognava il recupero del testo originale di un autore antico, naturalmente non autografo, e quindi pretendeva, con regole ‘geometriche’, di risalire indietro nel tempo, fino al cosiddetto archetipo, buttando via i testimoni manoscritti ‘impuri’, ossia troppo contaminati. Ma Giorgio Pasquali dimostrò chiaramente che in filologia si può certo procedere, talora, more geometrico se si vuole inseguire l’idolum del testo originale; ma il senso profondo della disciplina deve essere evidentemente un altro, e cioè ripercorrere la storia della tradizione, inseguendo certamente le varianti, ma considerandole tracce di un rapporto del testo con un tempo, con ‘il tempo’, che per la trasmissione dei testi antichi è stato millenario. La filologia moderna evidentemente affronta problemi molto diversi, dispone delle varianti d’autore, che per gli autori antichi sono mal certificabili e rappresentano evenienze piuttosto rare, quindi è chiaro che i due orizzonti di ricerca non sono sovrapponibili: però mi sembra che abbia ragione Giunta quando si preoccupa dell’irruzione di un metodo troppo rigido per casi che sono tutti, tutti, uno diverso dall’altro.
Dio mio! L’esame più inutile e noioso, i soldi peggio buttati dell’università italiana: la filologia. E fanno pure gli spiritosi…
Da ex studente dell’ateneo pavese, ho avuto una discreta dose di filologia: posso dire che allora non la sopportavo, non capivo la necessità di quello che mi sembrava un lavoro da scriba, quasi da ragioniere. Adesso, mi pento di non aver approfondito meglio, di non aver acquisito gli strumenti.
Non credo che “siano solo varianti”: se la filologia (nella sua fase interpretativa, perché una fase interpretativa c’è) illustra l’officina di un autore dal suo interno, allora fornirà indicazioni utilissime sul processo creativo in sé, che potrebbe essere poi generalizzato o comparato a livello inter-autoriale. Cosa c’è di più interessante, o di meglio speso? Claudio Giunta non lo dice. Per me la critica dovrebbe tornare a fare critica, non teoria (una teoria che spesso non si capisce quanto e come abbia letto le opere), e la filologia è davvero il primo gradino di questa critica (poi ci metto la stilistica, la metrica, e sì, la semiotica: insomma tutto l’insieme delle discipline che finalmente studiano la letteratura a livello intrinseco e non estrinseco, e discipline portate alla verificabilità del discorso e finalmente a una sistematizzazione da troppo tempo bloccata).
Sinceramente, non capisco l’avversione dell’autore per i giustissimi (per me) auspici scientifici di Paola Italia. Non si tratta di soggezione verso le scienze dure (ma da dove viene questo orgoglio?), ma di un processo naturale e, spero, irreversibile. Mettiamola così: molte cose non è possibile studiarle adeguatamente se non in equipe. Certo, l’esegesi del testo, l’interpretazione, lo spunto filosofico… sono alla portata del singolo: ma vogliamo mettere uno studio davvero comparato e tipologico delle forme letterarie nei vari paesi del mondo? perché l’impresa strutturalista è stata bloccata anziché essere ripensata?
Infine: non mi piace l’idea che si scelga una disciplina perché si voglia stare da soli (anche se ovviamente questa potrebbe essere una battuta): io credo che sempre, sempre, debba essere l’oggetto di studio a dettare il modo in cui essere studiato: a volte meglio individualmente, altre meglio in gruppo. Vi immaginate un ingegnere che non consulti un informatico che gli mostri una simulazione di una struttura? io poi in quella casa non ci vorrei abitare. Così è per la critica: la letteratura è talmente sfaccettata che serve una caterva di competenze da prospettive diverse, ma serve anche qualcosa che le faccia interagire in modo convincente, che collochi ogni prospettiva in una mappa globale degli approcci letterari.
Sarà che mi sono formato lontano da una corrente critica piuttosto che un altra, sarà che sono affamato di nuovi metodi (e di vecchi, se rispondono a domande che mi pongo leggendo), ma mi sembra che oggi abbiamo bisogno di una teoria (sì, anche unificante, a patto che non sia normativa ma solo orientante) sostenuta dalla pratica, e viceversa. Nelle altre scienze umane, senza scomodare quelle ‘dure’, funziona così. Quando leggo critica letteraria, e poi leggo studi psicolinguistici (per dire) mi colpisce sempre quanto senso d’improvvisazione ci sia nella prima e quanto rigore nella seconda.
L’ambito umanistico è (spero ancora per breve) forse l’ultima roccaforte dove l’intuizione sembra valere in quanto intuizione, liberata sia dalle responsabilità di una verifica e di rendere conto a una (sia pure ideale) comunità. Perché chiudersi, anzi auto-segregarsi, in questo fortino, quando i colleghi delle altre scienze sociali non lo fanno? il mio sogno sarebbe fondare un centro per la collaborazione nello studio del letterario, dove diversi approcci possano unire le loro forze e abbeverarsi anche da discipline estranee.
Anyone else? Eh sì, mi ci metto pure io.
Non volendomi addentrare nelle questioni più strettamente tecniche e professionali – interessantissime, non solo per gli addetti ai lavori -, oso però dire questo.
Ricordo una considerazione di Franco Moretti, letta non so più dove, che più o meno suonava così (vado mooolto a memoria e le metaforse sono mie, il senso comunque non dovrebbe allontanarsi troppo): quando lavoro a un libro che tende ad esaurire la materia, ad essere sistematico e diciamo scientifico, sono insoddisfatto perché mi sembra di aver costruito una perfetta cattedrale che non posso più abitare, quando scrivo un libro più personale sono insoddisfatto perché mi sembra di non avere dato sufficiente fondamento alle mie osservazioni.
Alla totalità come si arriva, per via di intuizione o per via di sistema? Domandina ina ina… Forse, quella di cui parla Giunta non è solo un’invidia verso gli scienziato, ma un’ansia di totalità che magari sta ancora più al fondo della distinzione fra le due culture. Magari eh, non so.
Scendo dall’iperuranio. Io ho scelto di studiare la letteratura per un sacco di ragioni, ma di sicuro una chiara e forte è che pensavo che mi avrebbe dato un Senso. Poi mi sono accorto che senza la filosofia, la fisica, la biologia, magari pure un po’ di sociologia e di psicologia (queste ultime due senza esagerare) al Senso non ci arrivi. E che, insomma al Senso non ci arrivi mai; anche perché il tempo per leggere tutta questa roba non ce l’ho, e manco le competenze. Però tornassi indietro rifarei la stessa scelta.
Va benissimo dare rigore e serietà alle discipline umansitiche, fare ricerche wiki, approntare una Teoria Unificata del Testo, se volete si può pure chiamare i dipartimenti “dipartimenti di scienze umanistiche”. Però una volta fatte tutte le ricerche, da soli, in coppia o in pool, una volta aggiunto un mattone all’enorme edificio del sapere, si torna a leggere e desiderare: poesie, romanzi, saggi. Ogni volta come fosse la prima e ogni volta come se quel libro dovesse dare senso a tutto il mondo, in un certo senso a prescindere dal fatto che qualcuno (magari io stesso) ne abbia fatto o meno “oggetto di ricerca” (lo so che non è così semplice e che sto anche dicendo banalità: però, famo a capisse?).
Sarà che faccio il professore di secondaria e che la domanda di fondo con cui approccio i testi è sempre elementare, degna della peggior betise: ma questo ha senso per la vita (ovviamente anche nel senso di formazione intellettuale, strumenti critici, ecc…) dei ragazzi?
Mi piacerebbe che l’umanesimo continuasse ad avere rapporto con tutto questo, specie oggi. E credo che a un umanista si debba lasciare il tempo per leggere tanto e meditare. Di solito poi lavora meglio, anche proprio solo nel suo ristrettissimo campo d’azione. Chissà che caspita succede in interiore hominis. Comunque non credo che quell’alchimia lì sia sostituibile con l’interdisciplinarità di sistema. Tra l’altro, non vale solo per gli umanisti:
http://www.claudiogiunta.it/2013/07/lamerica-dimenticata-di-lucio-russo-mondadori-education-2013/
Ovviamente: “gli scienziati”; “più a fondo”
Giusto una pagina dello storico (e insopportabile erudito) Alessandro Luzio, scritta in risposta a un’affermazione di Croce che, in sostanza, echeggiava quella di qui sopra:
“Come i cattivi osti fanno il vino con tutto, anche con l’uva; altrettale è l’ufficio che oggi a’ documenti si riserba nella storia. Si presuppongono… ma non si ricercano, a scanso di tediose applicazioni; è tanto più facile salire in aereoplano, perché la storia va veduta dall’alto (dicono essi) e di là (soggiungo io) è così piacevole lanciare sui popoli ammiranti filosofiche bombe […]. A me, non lungiveggente (è merito anche questo in un’Italia afflitta da un’epidemia di pseudo genialità) sembra che la vecchia via dell’ascensione lenta, faticosa tra gli sterpi e i roveti dell’erudizione, rimanga sempre la più consigliabile e salutare.”
L’archivista piccato, il pedante sfidato a un gioco al rialzo che (dice) non gli interessa per niente: insomma, di là dalle riflessioni puntuali fatte da Giunta, al solito interessantissime, a me sembra che i fronti aperti siano almeno tre. Vi è certo, in prima istanza, una pericolosa rincorsa verso le scienze “dure” – but soft sciences are often harder than hard science… – e però, a tenere banco, è pure il dissidio interno tra critici e filologi. Il crinale è sottile e anzi, fosse soltanto per Contini o Isella, un crinale non ci sarebbe proprio. Eppure, visto che i geni non fanno numero, è naturale cercare di risolvere il problema a tutto tondo, salvo ritrovarsi, poi, con un quadro sin troppo organico (e vagamente inquietante) come quello che emerge, mi pare, dal libro di Paola Italia.
La filologia non e’ una inutile disciplina. Conoscerr il laboratorio dello scrittore permette di capire i passaggi che hanno consentito la creazione delle sue opere.