di Matteo Di Gesù
È tutt’ora difficile ponderare con sicurezza se il sovradosaggio di autonarrazione, la cospicua dotazione (anche inconsapevole) di immaginario letterario di cui una nazione come l’Italia dispone, abbia accresciuto la coscienza di sé della comunità nazionale e agevolato i processi di trasmissione e condivisione di istanze comuni; ovvero se, al contrario, questa topica dell’Italia letteraria, la peculiarità di una nazione che non si stanca di raccontarsi e allegorizzarsi, di discettare sul proprio carattere e sulla propria presunta identità abbia mistificato e occultato questa consapevolezza sotto una spessa coltre retorica. Se non altro, la persistenza di alcuni generi canonici sopravvissuti al moderno, e il loro recupero postmoderno consentono quantomeno un supplemento di indagine.
«I romanzi, a saperli leggere, sono testimonianze più serie che non si creda», scriveva Pietro Pancrazi. La citazione (ma non è l’unica riflessione dell’autore dell’Elogio di Pinocchio riproposta nel saggio) si legge in chiusura della Premessa che Enza del Tedesco appone al suo Il romanzo della nazione. Da Pirandello a Nievo: cinquant’anni di disincanto.[1] Il sottotitolo, segnalando un andamento inverso rispetto a quello, scontato, che prevederebbe l’ordine diacronico (da Nievo a Pirandello) è per una volta rivelatore: il saggio attraversa nella stessa direzione il tempo storico compreso tra due faglie cruciali della storia italiana moderna (la prima esiziale crisi dello stato liberale e l’unificazione nazionale), procedendo a ritroso nello spazio letterario che intercorre tra due romanzi irrinunciabili della nostra narrativa moderna (Le confessioni di un italiano, pubblicato nel 1867 ma scritto dieci anni prima e I vecchi e i giovani, apparso nel 1913, passando per De Roberto, De Amicis, Dossi, gli Scapigliati, Fogazzaro, Verga, e altri). Lo studio di Del Tedesco risale dunque, appunto per via letteraria – anzi, più precisamente, romanzesca – dal conclamato tralignamento degli ideali risorgimentali, già preconizzato da De Sanctis («Diresti che proprio appunto, quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata», scriveva il critico nella sua Storia della letteratura), alla genesi di quell’immaginario, dove per via letteraria si allude evidentemente a una prassi che preveda anche una verifica assidua delle forme delle narrazioni prese in esame e delle loro trasformazioni, nonché della fittissima rete di relazioni che queste opere intessono con il contesto culturale e politico della loro ricezione, oltre che con la tradizione stessa. Si tratta, pertanto, di un ulteriore efficace collaudo di una strategia interpretativa di più vasta portata: scegliere i testi letterari quali fonti primarie per documentare e analizzare la complessa vicenda dell’unificazione nazionale, e, più in generale, delle istanze ideali, culturali, politiche – spesso affatto coerenti, quando non manifestamente conflittuali– che l’hanno caratterizzata; e, conseguentemente, utilizzare la critica letteraria quale strumento di un’indagine che dalla lettura delle opere pervenga a un più complesso quadro storico–culturale.
Com’è del resto risaputo, già all’indomani dell’unificazione nazionale, il romanzo italiano moderno avviava un’inchiesta letteraria sulle vicende risorgimentali, sul trasformismo ambiguo delle classi egemoni che lo indirizzarono e sulle contraddizioni che, all’interno di quel processo, si determinarono, specie nel Meridione d’Italia. Un «romanzo antistorico» collettivo, per così dire, una «contro-storia d’Italia letteraria e civile» – volendo usare le formule fortunate e antesignane di Vittorio Spinazzola e Massimo Onofri – (e dunque una riscrittura romanzesca della storia ufficiale, deliberatamente volta a demistificarne i presupposti ideologici e le retoriche su cui si fondava) attestata soprattutto nelle opere di autori siciliani quali Verga, De Roberto, Pirandello. Storici come Paolo Viola[2] o come Alberto Mario Banti[3] hanno per tempo ragionato sull’utilizzazione del romanzo come fonte storica e hanno fatto fruttare con successo questa annessione del campo letterario a quello storiografico; ma finalmente, anche grazie alle risultanze in sede di ricerca dei lavori avviati in occasione del centocinquantenario dell’unificazione italiana, la critica letteraria sembra aver recuperato parte di quel terreno perduto, come, insieme al lavoro di Del Tedesco, attesta ad esempio il volume collettaneo curato da Claudio Gigante e Dirk Vanden Berghe, Il romanzo del Risorgimento. [4] Il libro accoglie una copia di studi che abbraccia un settantennio di narrativa ottocentesca, con interessanti incursioni oltralpe sulle tracce del mito del risorgimento italiano, e si chiude con un saggio di Daniele Comberiati (a sua volta curatore, insieme a Rosaria Iounes–Vona di un’altra raccolta di studi sul tema: Il discorso della nazione nella letteratura italiana)[5] sul Risorgimento nella letteratura italiana degli ultimi vent’anni , che può funzionare come viatico per un ulteriore supplemento di indagine.
Il cronotopo del Risorgimento, infatti, ha continuato a funzionare, fino ai nostri giorni, quasi come un inesauribile dispositivo narrativo funzionale a progetti letterari anche assai diversi tra loro. E il romanzo storico risorgimentale è finito col diventare un archigenere che ha attraversato, pressoché senza interruzioni, tutta la storia della letteratura postunitaria. A quella linea moderna “antistorica” – o “controstorica” che dir si voglia – aperta dalla narrativa dei grandi siciliani di cui sopra potrebbero essere ascritti, tra i tanti, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Noi credevamo di Anna Banti, molte narrazioni storiche di Sciascia (e di contro vi andrebbero derubricate le straordinarie riletture antimimetiche e ‘tendenziose’ di Luciano Bianciardi), mentre Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo merita di essere indicato come il più rappresentativo testimone di quel processo di decostruzione sperimentale delle forme statutarie del romanzo storico avviatosi a partire dagli anni Settanta del Novecento. Una assidua riscrittura, quella dell’epopea dell’indipendenza nazionale, nel corso della quale si è fatto via via più nitido e marcato l’elemento politico e meno ambigua la denuncia del tradimento delle istanze democratiche, egualitarie e repubblicane nel corso del processo di unificazione. Ma se l’allegorismo di questa lunga tradizione moderna, anche nelle sue propaggini più tardive e ripetitive, si sforzava di mantenere il respiro vasto della storia, la ripresa postmoderna della vicenda risorgimentale quasi sempre prevede il fiato corto dei romanzi a chiave ossigenati a stento da un ideologismo piuttosto bislacco, nei quali, grattata la crosticina storica, ecco emergere l’allusione manifesta all’attualità (o, peggio, la sussunzione dell’attualità a una sorta di oltranza della storia italiana quasi visionaria, con gli stessi cattivi che tramano e usurpano viaggiando nel tempo). Così, dalla cernita dei romanzi risorgimentali contemporanei più noti (quelli di Evangelisti–Moresco, Scurati, De Cataldo) capita che vengano fuori, bene che vada, le trame nere della storia repubblicana, qualche variante attualizzata e degradata del meridionalismo, ma perfino la repressione del movimento antiglobalizzazione al G8 di Genova, Bin Laden, il terrorismo islamico e l’attentato alle Torri gemelle; nonché, più in generale, una sorta di involontario teleologismo negativo della storia patria piuttosto vittimistico e tutto sommato consolatorio.
Tuttavia un giudizio diverso andrebbe formulato per il libro antesignano di questa tendenza che sommariamente abbiamo definito del romanzo risorgimentale postmoderno: Piazza d’Italia di Antonio Tabucchi, pubblicato per la prima volta nel 1975 e riedito con una nuova prefazione d’autore nel 1993; e forse per l’ultimo di questa serie, il recente Pro patria di Ascanio Celestini: romanzo che, restituendo il racconto del Risorgimento a una dimensione affabulatoria e ancorando questa fabulazione a un presente di emarginazione ed esclusione sociale (il narratore è un detenuto), ne fa risuonare, finalmente con un timbro rabbioso e sincero, le istanze rivoluzionarie e libertarie. E che in effetti, più che suggellarlo, da questo novero definitivamente si distacca.
Una durata ancora più lunga ha conosciuto un genere spurio come lo scritto sui costumi e sul carattere nazionale. Dopo la sua fondazione settecentesca (Baretti, Bettinelli, Denina, Calepio…) e la grande sintesi leopardiana, il saggio sull’identità nazionale sembrava essersi cristallizzato nelle versioni stucchevoli dell’anti/arci – italianità dei Prezzolini e dei Longanesi, presto elette a lavacro letterario della falsa coscienza nazionale e delle responsabilità civili e politiche di almeno un paio di classi dirigenti. Ovvero pareva essersi contaminato, fino a confondervisi, nella prosa civile degli scrittori polemisti e moralisti del secondo Novecento (Flaiano, Pasolini, Sciascia), fatta eccezione per il caso unico dell’Alberto Arbasino di Un paese senza e di Paesaggi italiani con zombi, unico diretto discendente superstite di quella tradizione. Ma le sorti infauste patite dalla nazione nel tempo presente hanno indotto molti scrittori contemporanei a riprendere quel modello, con risultati disuguali. Probabilmente l’esito più interessante di questa tendenza è stato Italia de profundis di Giuseppe Genna (ancorché sulla copertina, bellissima come da tradizione della collana Nichel di Minimum fax, compaia la dicitura ‘romanzo’), proprio per il suo andamento debordante e liminare, tra l’autobiografismo e l’invettiva. Il genere, infatti, è assai insidioso, devolvendo di fatto alla voce autoriale tutta la responsabilità del dettato: per quanto ci si sforzi di mantenere credibilità ed equilibrio, di sorvegliare la scrittura, il rischio di scivolare nell’autoreferenzialità e nel narcisismo è incombente: caso in cui è incorso il pur ottimo Antonio Pascale, nel suo Questo è il paese che non amo.
Meglio allora rivisitare un altro modello frequentatissimo per raccontare gli italiani: l’odeporica, magari ibridandola con il reportage d’autore, dato che l’Italia non è più (o si suppone non sia più) quel paese sconosciuto ai propri connazionali qual era, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta, quello esplorato da Piovene, da Arpino o da Rossellini (e finanche dal Pasolini della Lunga strada di sabbia). A ben vedere proprio uno dei libri più felici di Pascale, La città distratta, il suo primo, mutua gli statuti del racconto di viaggio: in fondo si tratta di dislocare sapientemente il proprio punto di vista rispetto alla realtà che si osserva, per quanto prossima possa essere (come nel caso della Caserta di Pascale, dove lo scrittore è nato e ha vissuto). Strategia adottata con successo anche da Giorgio Vasta nel suo Spaesamento, nel quale l’Italia contemporanea è sintetizzata in una Palermo che l’autore, palermitano, descrive con lo stupore di un ‘persiano’ (mentre la collana laterziana Contromano, nella quale è stato pubblicato, è diventata negli anni una sorta di grande viaggio collettivo nell’Italia odierna). Pur con qualche altro azzardo, del genere in questione è perfino contemplabile una variante futuribile (l’Italia tra vent’anni), come ha attestato qualche anno fa il volume collettaneo Anteprima nazionale, curato dallo stesso Vasta.[6] Sempre per Minimum fax era uscito, poco tempo prima, uno dei più originali reportage narrativi sull’Italia contemporanea, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo inventato, di Cristiano De Maio e Fabio Viola.[7] Da questo repertorio ancor meno che essenziale, infine, non può mancare il Sandro Veronesi di Cronache italiane (1992) e di Live (1996), [8] antesignano viaggiatore postmoderno: scrittore «finto giornalista che sale su una macchina (si suppone) scassata e si lascia sedurre dalle bizzarrie di un’Italia mezzo paese dei balocchi televisivo e mezzo bordello d’altri tempi», come ha scritto Gabriele Pedullà.
Del resto, insegnava Manganelli, l’italiano è uno dei modi dell’altrove, e l’Italia è estero: «è un luogo da raggiungere, un luogo lontano. È fuori».
Ma qualora l’unico viaggio in Italia che si reputi attendibile è quello fatto dagli stranieri, dopo essersi immalinconiti con la visione di Girlfriend in a coma di Bill Emmott e Annalisa Piras, è il caso di procurarsi Troppo non è mai abbastanza di Ulli Lust, un graphic novel pubblicato da Coconino press: bildungsroman in cui due ragazze punk austriache attraversano la penisola nei primi anni Ottanta: osservarci italiani, da una prospettiva così insolitamente obliqua, apparirà sorprendente.
[Una versione più breve di questo articolo è uscita sull’inserto culturale del “Sole 24 ore”]
[1] Cfr. Enza del Tedesco, Il romanzo della nazione. Da Pirandello a Nievo: cinquant’anni di disincanto, Marsilio, Venezia, 2013.
[2] Cfr. Paolo Viola, Il romanzo come fonte storica, in Il romanzo e la storia. Percorsi critici, a cura di Michela Sacco Messineo, :duepunti, Palermo 2007, pp. 11– 29.
[3] Cfr. Alberto M. Banti, La nazione del risorgimento. Parentela, sanità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
[4] Cfr. Claudio Gigante, Dirk Vanden Berghe (a cura di), Il romanzo del Risorgimento, Peter Lang, Bruxelles 2011. Altri preziosi contributi recenti, come quelli di Giovanni Falaschi (La letteratura preunitaria del medio Ottocento: da Giusti a De Sanctis a Nievo (e Gustavo Modena), Quinto Marini (La funzione del romanzo storico. Dalla ‘Battaglia di Benevento’ alle ‘Confessioni d’un Italiano’), Clotilde Bertoni (Dallo Stendhal italiano alla ‘San Felice’ di Dumas: passioni e amarezze del Risorgimento nell’ottica degli stranieri), si trovano negli atti del convegno del Centro Pio Rajna sui Pre–sentimenti dell’unità d’Italia, a cura di Claudio Gigante e Emilio Russo, Salerno, Roma 2012.
[5] Cfr. Daniele Comberiati, Rosaria Iounes–Vona (a cura di), Il discorso della nazione nella letteratura italiana, Cesati, Firenze 2012. Si vedano in particolare i saggi di Ilaria De seta, Tra restauri e conversioni: storia e politica negli spazi de I Viceré e di Claudio Gigante, «Vogliamo Magenta e Solferino». Sull’eredità risorgimentale nel giovane Gadda.
[6] Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile, a cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma, 2009.
[7] Cristiano De Maio, Fabio Viola, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo inventato Minimum Fax, Roma, 2008.
[8] Le due raccolte di Veronesi sono poi confluite in Superalbo. Le storie complete, Bompiani, Milano 2002.
[Immagine: Tricolore vivente, Torino 2010 (gm)].
Ti aspetti sempre che un articolo di questo tipo possa essere un faro.
E invece questo pare un sole a mezzogiorno.
G
Noterella di uno dei mille.
Di Scurati mi era piaciuto il primo romanzo, del Risorgimento ho la fissa, così ho letto subito “Una storia romantica”. Devo dire che mi ha lasciato a bocca aperta che del cattivo del libro, un ex rivoluzionario tramutatosi in politico corrotto, si dica, sin dalle prime pagine, che sta manovrando loscamente per essere rieletto senatore del Regno.
Il Senato del Regno d’Italia era, e rimase anche nel secolo seguente, assemblea di nomina regia, e i seggi assegnati a vita.
Va bè che il libro, in realtà, non parla del Risorgimento ma del Sessantotto (ragion per cui non riesce, ma questo è un altro discorso) ma ci voleva tanto a verificare meglio? A farne un deputato? Anche senza spulciare i manuali, c’è, ne “ll Gattopardo” (anche nel film, volendo, per fare prima), che Scurati avrà riletto per l’occasione, la celebre scena in cui il cavaliere Aymone Chevalley, emissario di S.M. V.E. II di Savoia, offre il laticlavio a don Fabrizio di Salina, che con un lungo, sofferto discorso lo rifiuta.
Possibile che né Scurati, con tutte le ricerche che avrà fatto, né i redattori e gli editor della Mondadori, si siano accorti dell’errore? Eh sì, possibile. Però, triste, no? Nel cento cinquantenario dell’unità d’Italia, uno sfondone così…mah.
Davvero grossolano l’errore di Scurati e della redazione della Mondadori, censurato con giusta cattiveria da Buffagni (ma viviamo in tempi di “dittatura dell’ignoranza”…). Circa la coniugazione fra il romanzo risorgimentale postmoderno e l’odeporica italiana, vorrei portare una testimonianza personale relativa alle riflessioni che ha stimolato il film “Noi credevamo”, tratto peraltro dal romanzo di Anna Banti. Come è noto, il film ripercorre alcune tappe significative della lotta risorgimentale secondo un’ottica antisabauda e secondo il punto di vista della componente più radicale, quella mazziniana, che è stata anche la componente politicamente sconfitta.
Quando l’ho visto, confesso di essere rimasto incatenato per tutti i 170 minuti della sua durata dalla narrazione che il film propone, dalla musica di Bellini e di Verdi che ne costituisce il ‘Leitmotiv’, dai medaglioni di alcune figure che sono state rappresentative della vicenda risorgimentale ‘per fas et nefas’.
Veramente memorabile per la sua originalità metanarrativa e il suo valore cognitivo è poi la scena che mostra la sosta dei due volontari garibaldini, il vecchio repubblicano e il giovane disertore, sotto uno scheletro di cemento con gli spuntoni di ferro: una metafora potente che suggerisce ed evoca in modo plastico la tesi di un Risorgimento incompiuto e abortito.
Così come ho apprezzato i tre aggettivi con cui viene definita l’Italia post-unitaria, tre aggettivi che valgono anche per l’Italia attuale: “gretta, superba e assassina”.
Dunque un ottimo film, con validi attori, una bella fotografia, dialoghi incisivi: un film, però, che fa più onore al cinema italiano che non all’Unità nazionale. Un film che indulge alla retorica più insidiosa che vi sia: la retorica dell’antiretorica. Un film che non coglie il carattere storicamente progressivo che hanno avuto nella storia del nostro Paese, nonostante i limiti politici e le tragedie umane e sociali che li hanno accompagnati, il moto risorgimentale, la conquista dell’indipendenza e la creazione di uno Stato unitario moderno. Un film il cui messaggio, mi sia permesso di sottolineare questo aspetto come insegnante, rischia di disorientare i giovani, poiché propone loro un’immagine sostanzialmente negativa e fallimentare sia del Risorgimento sia dell’Unità nazionale. Ripropongo allora nel presente contesto, per il significato generale che hanno, alcune domande che avrei voluto porgere a Martone: è sicuro il valente regista di non aver portato acqua al mulino del revisionismo antirisorgimentale, delineando in termini decisamente negativi e tendenzialmente nichilistici gli esiti del moto nazionale? Non ritiene Martone che il Risorgimento debba essere oggi, e sottolineo oggi, più difeso che negato, più valorizzato che svalutato e – non ho alcun timore a dirlo – più celebrato che dissacrato? Non ritiene, infine, Martone che l’ottica che caratterizza il suo film possa finire con l’alimentare il fiume torbido e limaccioso del qualunquismo antipolitico e del revisionismo antiunitario, avallando in qualche modo il vieto stereotipo secondo cui “gli uni erano degli idealisti in teoria e dei terroristi nella pratica, gli altri erano dei realisti in politica e dei cinici nella pratica”? Ma, giunti a questo punto, l’amico regista dovrà convenire con me che il Risorgimento e l’Unità nazionale si sono ormai dissolti nella notte hegeliana “in cui tutte le vacche sono grigie”.
Caro Barone,
non parto con l’apologia del Risorgimento, sennò non la finisco più e i giovani scalpitano (come scalpitavo io a tavola quando il nonno partiva in quarta con l’epopea). Liofilizzando: questa solfa del Risorgimento incompiuto e tradito è come l’altra solfa della Resistenza incompiuta e tradita, cioè un pretesto ideologico e un gentile omaggio al narcisismo dell’autore e del fruitore, i quali così a costo zero si sentono dalla parte dei buoni che non vanno al governo ma sono moralmente migliori (leggi, prima PCI poi PD, seguono metamorfosi). Poi magari al governo ci vanno, non combinano un tubo ma si tratta di una eccezione che conferma la regola della superiorità morale.
Quanto precede, naturalmente, non c’entra con il giudizio storico serio sulle due R., che furono cose serie pure loro.
Il Risorgimento ebbe limiti enormi, e lasciò aperte tante questioni (in primis la questione sociale e meridionale). Mazzini era un grande pensatore politico che sarebbe bene rileggere proprio nell’Italia di oggi, come lo rilessero ieri, con profitto, i popoli del Maghreb. Con questo, la deprecazione del Risorgimento fatta nell’Italia del 2013 mi fa pensare al cieco che depreca l’affetto da lieve miopia, al moribondo che depreca i 37 e mezzo del colpito da influenza di stagione, e infine, quando ce vo’ ce vo’, a Polifemo con la trave piantata nell’occhio che ricama sul fuscello nell’occhio del binocolo Ulisse. Un pochino di misura, di modestia, di esame di coscienza, please. Andate a giocare col Sessantotto, e lasciate stare il nonno che ha già dato.
@ Buffagni
Uè, Robbè, ma daje, pure o Sessantott’e è state tradite!
Lasciace ‘sta cunsulazione!
La riflessione sulle ragioni della sconfitta del ’68 ha anche un carattere autobiografico: chi scrive appartiene, infatti, alla ‘generazione del ’68, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tanto meno contrapporre a quella odierna, anche perché ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Chi scrive desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del ’68 conserva una consapevolezza talmente fondamentale per chiunque abbia a cuore la propria (e l’altrui) libertà, che ritengo doveroso evocarla attraverso uno slogan di rara potenza di quell’‘annus mirabilis’: “chi non fa politica la subisce”. Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata, pagando, se occorre, anche un duro prezzo.
Purtroppo, la ‘generazione del ’68’, ossia degli attuali ultrasessantenni, non è stata in grado se non in misura assai modesta di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli ‘anni formidabili’ ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono, e a volte esprimono in modo palese, il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del ’68 li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non mi riferisco ai guru o ai demagoghi, ma ai maestri autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.
La storia dell’Italia repubblicana dimostra, peraltro, che tutte le svolte post-1946 sono state segnate da un marcato protagonismo giovanile: così fu per la ‘generazione delle magliette a strisce’ che, quando nel giugno del 1960 i neofascisti rialzarono la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una Nuova Resistenza e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana a Firenze in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì questa città, simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (ed è impressionante, ma fortemente rivelatore dei moduli politico-ideologici della ‘rivoluzione passiva’, che la proposta di ripetere quel gesto di solidarietà per aiutare a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti a Napoli fosse stata avanzata con enfasi demagogica dallo stesso Berlusconi, contestualmente con la decisione di inviare migliaia di soldati in quel territorio); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-1969 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo consumistico e di futilità televisiva. Ma questa è ormai la cronaca degli anni ultimi decenni, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi nella problematica del disagio, della devianza e dell’emarginazione.
E, siccome non credo, rileggendo queste note, di aver dato, al di là di qualche spunto, una risposta precisa ed esauriente al quesito che mi è stato posto (c’è ancora molto da scavare, molto su cui riflettere, molto da chiarire), concludo questa specie di ‘apologia critica’ del ’68, trascrivendo i versi, stupendi (e stupendi perché giusti), di un poeta, di un saggista e di un intellettuale che è stato un interlocutore appassionato e partecipe delle vicende politiche, culturali e ideologiche della ‘generazione del ’68: Franco Fortini.
La storia è andata così,
la vita anche.
Mutare il ribrezzo in lucidità,
la speranza in certezza.
e in impazienza.
@ Barone
Visto che sono rimasto anch’io dalla parte del torto ( la terza nella tua classificazione), ti dedico questo vecchio sberleffo ai Nostri felicemente (?) integrati:
E la contestazione? 1
E gli intellettuali del sessantotto (Cezanne: Nature morte au)
che decretarono col lancio d’uova marce sugli smoking
la fine della vecchia mercantile mostra del cinema di Venezia
e di un turismo élitario e un poco snob?
Oggi sono sposati, quadri dirigenti dei partiti di sinistra
consulenti culturali di enti pubblici.
L’altra sera, coi loro vecchi jeans e gli occhialini alla Trotckij
erano tutti in Campo San Trovaso, alla rassegna di cinema-estate
organizzata dal Comune di Roma ad applaudire il “fascista”
John Wayne
in una vecchia pellicola (Ombre rosse)
di tanto tanto tempo fa.
And the contestation? 2
Et les intellectuels stronzones du sessatuit
(Ah, les nature mortes de Cezanne!)
ceux -qui decretettere, credettero di
col lancio dropping of r’ove marce
sugli smoking, yes!
a fine ra vecchia, de la vielle merchant’s wife del mostro du cinema
(Mostramela! Mostramela! Mustrammancelle!)
et du turisme de figghie e mignotte nu pucurille snob?
To-day il sont, se songhe spusate
son quadrati digerenti di partito de la gauche salottiere
consultings cul-cult –urali – neeevvero!
di enti pub-ludici
leccalulones des assessorones.
Aiere ssere avec leurs vicchieariell’s jeans
and avec les occhialins-pitalins strappati dal naso di Trotzkij
stevene sbracate tutt’e quante, into campus-ante Trovaso
rassegnati alla rassegna cinema-summer
organized par le comune-ist
a nchiavecarse, riapplaudendosi, il fa-ccia sci-mmia sta-nca
Gioveine
dans un vielle pelli-cule m-uffà!
(luglio 1979)
Caro Abate,
per i tradimenti, prendere il numerino e mettersi in fila. Comunque tranquilli, le scorte sono inesauribili, i saldi aperti tutto l’anno.
Caro Barone,
infatti è la vita: se la conosci, la eviti.
@ buffagni e barone
Non ho visto il film di Martone, però ho visto Pro patria di Celestini, che lo ha ideato proprio su consiglio di Martone. Il Risorgimento l’ho studiato per la prima volta quest’ anno a scuola, al corso serale ( io ho 27 anni ), e mi ha preso parecchio credo anche grazie all’influenza di Celestini, che lo ha mostrato come una storia di sconfitti, legandolo alla lotta armata dei ’70. Ho provato poi a leggere qualcosa di Mazzini, le cui parole sono splendide ( peccato che usi Dio come un intercalare ), ma che mi pare manchi il punto della rivoluzione che gli premeva. Non l’ho studiato in maniera così approfondita ( e poi ho i miei limiti ), ma ogni volta che menziona le teorie socialiste mi pare limitato e anche poco informato. Un po’ come Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum ( che ci ha fatto leggere la prof ), con la differenza che Leone XIII era di parte, e quindi giustificato a non voler comprendere il socialismo. Semplifico rozzamente e all’estremo, ma non ha capito che senza smuovere le fondamenta del sistema non si può intervenire limando le sue punte. ( Inoltre, ma su questo non ho certezze, è come se pensasse che la morale si influenzi dall’alto e indipendentemente dalla società che la produce. Per spiegarmi meglio non era pensabile che all’epoca della segregazione in America i neri fossero rispettati, perché era lo sfruttamento stesso che produceva il razzismo. Per cui senza porre fine allo sfruttamento non può esserci cambiamento morale ).
A parte ciò capisco il disappunto sull’antiretorica ( o sulla retorica dell’antiretorica ), ma credo invece che vada riconsiderata come atteggiamento necessario. Da questo punto di vista mi collego al libro di Pascale, citato nel post, Questo è il paese che non amo. Non so come i giovani oggi apprendano il Risorgimento o la Resistenza, ma non dovremmo aver paura anche di smetterla di considarli dei simboli o dei cardini, anche perché se uno comincia a studiarli seriamente ci si perde. Cerchiamo di vederli nella maniera più accurata possibile, senza esaltarli o denigrarl. Non mi interessa neanche l’aspetto del tradimento più o meno effettivo, piuttosto mi piace l’idea di non musealizzare, di non farne l’angolo della memoria ( ciò su cui spinge Celestini ). Se ha un senso parlare di epoche passate è farlo come se fossero vive e incompiute.
mi scuso se ho commentato due volte, non ho capito se me l’ha preso
Anch’io sono un sessantottino, ed anch’io potrei dire di me stesso che ho scelto di non comandare nè di obbedire.
Epperò, non mi pare che la questione autobiografica sia quella più importante, dovremmo piuttosto chiederci come mai la vicenda si sia sviluppata così. Sarebbe credo saggio ammettere che nel ’68, all’interno del modo in cui è nato e si è sviluppato, c’erano già tutti i germi della successiva evoluzione dei fatti.
Da questo punto di vista, direi che ci sia un colossale equivoco, il ’68 non è stato un movimento di sinistra, nè tanto meno specificamente marxista, è stato un movimento di esplosivo successo del liberalismo, dei principi della rivoluzione francese, quindi anche nelle forme capitaliste di organizzazione dell’economia.
Non è che io adesso voglia manomettere gli eventi cronachistici di quei tempi, so bene quanto soggettivamente quel movimento sia stato vissuto come prodromo a una rivoluzione proletaria (in misura massima nel maggio francese), ma alla fine ciò che effettivamente è stato, è tutt’altro, e del resto gli elementi egualitaristici ci stanno tutti nel liberalismo.
Oggi, a distanza di svariate decine di anni, noi stiamo ancora nell’epoca post-sessantottina, anche se gli elementi più egualitaristici sono stati totalmente digeriti (e defecati naturalmente), e sono rimasti soltanto gli elementi libertari, sposati entusiasticamente dalla classe dominante che ha smesso di essere borghesia, ma non ha certo smesso di comandare (anzi, lo fa oggi molto più efficacemente).
La cosa più triste è che ciò che si autodefinisce sinistra, seguita nell’errore del ’68, quello di pensare di potere impunemente coniugare libertarismo e egualitarismo economico: che colossale e nefasta illusione!
Nel ’68 un buon numero di quegli intellettuali che sono ‘rivoluzionari per sé’ ma non ‘rivoluzionari in sé’ (per dirla con un linguaggio hegeliano) cercò di porsi in rapporto con coloro che sono ‘rivoluzionari in sé’ ma non sempre ‘rivoluzionari per sé’: gli operai. La ricerca dell’unità fra operai e studenti è stata il grande ‘filo rosso’ del ’68 italiano, perché la prospettiva di questo ‘annus mirabilis’ si riassume in tre slogan di rara potenza: a) “chi non fa politica la subisce”; “non vogliamo sederci alla vostra [dei padroni] tavola, vogliamo rovesciarla”; c) “creare due, tre, molti Vietnam”. L’autonomia del soggetto sociale è stata un tratto distintivo del ’68. Il che significò, anticipando la pratica di liberazione delle femministe che verrà dopo, esattamente questo: “i problemi ce li risolviamo da soli, con la nostra elaborazione collettiva e con la nostra azione collettiva”.
Non vi è dubbio che un simile approccio ai problemi del movimento degli studenti (e, più tardi, degli operai) mettesse in difficoltà i partiti, e segnatamente il Pci, che erano i professionisti della mediazione politica. Ciò è vero sia per l’Italia che per la Germania, la quale espresse il movimento più simile a quello italiano, con una dinamica della soggettività che funzionò nella stessa maniera: autonomia del movimento e uso della democrazia diretta anche nella forma del delegato revocabile, basata quindi su un mandato imperativo. Tutto ciò si ritrova in qualsiasi movimento sociale di carattere antagonistico: non è una novità; appena c’è un movimento sociale, là c’è l’assemblea; appena c’è un movimento sociale, là ci sono i delegati e, ovviamente, l’insistenza sulla propria autonomia.
La forza del ’68 non è stata nel chiedere, è stata nel fare, e in questo fare una generazione è cresciuta e ha modificato la vita civile e morale del paese. Non ha però modificato i partiti; anzi, i partiti sono nettamente peggiorati come conseguenza del ’68. Da questo punto di vista, occorre dire che sia François Mitterand in Francia sia Bettino Craxi in Italia sono stati, con il loro verticismo oligarchico, espressioni di una reazione antisessantottesca. Nonostante i molteplici ostacoli frapposti dalle forze della conservazione e della reazione (presenti anche a sinistra), lo sbocco del ’68 è stato un profondo mutamento nelle relazioni civili e nelle relazioni sociali, una crescita culturale che, se raffrontata alla regressione attuale, sembra appartenere ad un’altra epoca. L’episodio di Valle Giulia (primo marzo1968), in cui la polizia bastonò e cacciò gli studenti che occupavano la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma per protestare contro una legge di riforma che (esattamente come accade oggi) introduceva sbarramenti negli accessi e diversi livelli di laurea, fu l’innesco del ’68, ma ebbe un valore simbolico straordinario, perché gli studenti risposero con una difesa attiva alle cariche della polizia. In altri termini, gli studenti, che venivano pestati, dissero una cosa molto semplice: “basta! non ci faremo pestare più!”. Questo è il ’68.
Lo stesso marxismo mutilato e fossilizzato della sinistra storica (Pci e Psi, molto meno il Psiup) sarà oggetto, nel ’68, di una rivisitazione filologica e di un restauro critico, che spazieranno dagli scritti del Marx maturo, come la “Critica al programma di Gotha”, agli scritti del Marx giovane e avranno come identico bersaglio l’ideologia economicista e riformista del movimento operaio. Un restauro e una rivisitazione che furono resi possibili anche da esperienze precedenti (come, ad esempio, quella dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panieri) che avevano aperto la strada in questa direzione nuova. Vale, infine, la pena di osservare che il ’68 è avvenuto in una società, dove i giornali teorizzavano che i giovani erano interessati soltanto al denaro e all’automobile fuoriserie, che sia i giovani sia gli operai erano ‘integrati’ nella società esistente. Qualche mese dopo è scoppiato, invece, un movimento gigantesco che si è andato sempre più estendendo come un’epidemia, per contagio, benché fosse partito da una minoranza. Anche oggi non è vero che i giovani siano geneticamente mutati. Non è così: sotto la cenere di un’apparente indifferenza cova il fuoco di un grande entusiasmo, che attende la causa giusta per divampare. I problemi sono fondamentalmente gli stessi, la fatica della rivolta è rimasta la stessa; sono soltanto cambiati i modi e le forme della comunicazione. La grande verità è sempre la stessa: per ribellarsi bisogna anche studiare, per ribellarsi bisogna compiere uno sforzo di argomentazione (la hegeliana ‘fatica del concetto’). I sessantottini sono cresciuti interrompendo le lezioni dei professori, impedendo che questi facessero lezione in una sola direzione, mettendo in difficoltà gli stessi professori con interventi critici argomentati che finivano con il coinvolgere la massa, inizialmente ostile, degli altri studenti. I giovani militanti non devono, dunque, scoraggiarsi per il fatto di essere piccole minoranze che agiscono: il mondo è sempre andato avanti così. La cosa importante è cominciare ad agire (“ce n’est qu’un début, continuons le combat!”), perché questa è la vera differenza: un’azione continua, organizzata, connessa ad una prospettiva strategica, che non si limita al fuoco di paglia della protesta di un giorno o alla ‘kermesse’ di una manifestazione variopinta che scorre per le vie della città come l’acqua sul marmo. In effetti, come ha insegnato un grande saggio dell’età moderna, l’azione è sempre metà dell’azione, perché l’altra metà è la riflessione sull’azione. Ciò detto, la direttiva da porre all’ordine del giorno è sempre la stessa: studiamo e lottiamo per abbattere scientificamente il sistema capitalistico.
Sperando che gli scambi casualmente qui iniziati sul ’68 evitino i vizi del reducismo, pubblico un mio vecchio intervento-commento lasciato nell’ottobre 2010 sul sito “Conflitti e strategie”
(http://www.conflittiestrategie.it/il-68-ha-distrutto-luniversita-di-g-p
ottobre 18, 2010 at 11:47 pm) dove si svolse un’accesa discussione sul tema in un post intitolato IL ’68 HA DISTRUTTO L’UNIVERSITA’.
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PERCHE’ E COSA DIFENDO DEL ’68 DAGLI EX-SESSANTOTTINI D’OGGI E DAGLI SCETTICI DI ALLORA
Sono del 1941, un “vecchio”. Ho partecipato al ’68 a Milano, dove ero immigrato dal ’62 e da lavoratore studente. Poi, insegnante d’italiano e storia negli ITIS dell’hinterland, sono stato in AO fino al 1976. Da allora ( anno della mia personale presa d’atto della sconfitta) non sono mai entrato in alcun partito, non mi sono mai riconciliato con il “sistema” e ho preferito essere una “mosca bianca” emarginata.
Proprio perché ho riflettuto e rifletto su quel movimento, sulle spinose e drammatiche contraddizioni degli anni ’70 e sul declino successivo della società e della politica italiana, non mi sento di liquidarlo.
Innanzitutto per un motivo se volete “sentimentale”: ho cominciato a interessarmi di politica da allora, potrei dire che quel movimento è stato la mia “madre politica”; e sentirne parlare oggi come di una puttana, non mi piace. Perciò sono intervenuto con vari commenti su questo post.
Certo, gran parte dei “sessantottini” di allora sono rifluiti in un privato gratificante e in carriere professionali ben remunerate all’ombra del sistema dei partiti, col naso turato li votano e acconsentono alla cancellazione delle ragioni per cui lottarono da giovani e al processo involutivo di questo Paese. Ma – ripeto – la mia difesa non è del ’68 in generale (sarebbe difesa di un mito o di un’astrazione) né degli ex-sessantottini, che oggi sono la «polpa» della sedicente sinistra. E non capisco perché, se si è ricostituito in Italia un blocco sociale e politico conservatore, che ha fagocitato anche gli ex- sessantottini, non parlare di tale blocco sociale, dominante o subdominante che sia (per usare i termini di glg), e tirare invece in ballo genericamente un simbolo: il movimento, il ’68, i sessantottini. Tanto più che, come ho detto, molti di quei leader strigliati in questo post erano stati allevati nelle scuole di partito (PCI soprattutto) o negli organismi universitari “rappresentativi” ai partiti di allora legati e prima di rientrare sulle loro sponde, nel movimento si sono bagnati spesso solo la punta dei piedi.
La mia difesa, dunque, riguarda il significato di quell’evento e di quel movimento composto da migliaia e migliaia di persone che in centinaia di città di tutto il mondo “avanzato” seppero gridare per la prima volta NO AI SAPERI DEL CAPITALE.
Saranno anche stati “piccolo borghesi”, ma la novità era che per la prima volta si ritrovavano a Sinistra; e anzi avrebbero potuto andare oltre la Sinistra e la Destra (anche se allora questo discorso non era fatto nei termini odierni), mentre in precedenti convulsioni della storia questi ceti s’erano ritrovati coi guerrafondai o con nazisti e fascisti.
Quindi «un cambiamento qualitativo, un autentico progresso […]uno sbocco sensato alla scolarizzazione di massa» forse avrebbe potuto esserci.
Quell’occasione non fu colta (o, col senno di poi, non poteva essere raccolta). Ma non è possibile sostenere oggi che «questi movimenti” rinunciarono fin dal principio ad ingaggiare una seria battaglia».
Un movimento è un movimento, un movimento, un movimento. Ha le sue ambivalenze, nostalgie del passato, proiezioni utopiche in un astratto futuro. Pone dei problemi, ma non è da solo in grado di risolverli.
Credo cioè che la battaglia fu ingaggiata con la generosità giovanile di cui si disponeva e, se la sconfitta non fu «onorevole» o non lasciò «semi» o una qualche «eredità» tangibile, questo va imputato soprattutto ai partiti (ancora una volta soprattutto al PCI), ai dirigenti dei gruppi extraparlamentari che su quel movimento “soffiarono” o trassero per brevi anni vigore per progetti “rivoluzionari” e “antirevisionistici”, risultati col senno di poi scopiazzature raffazzonate di leninismi, stalinismi, luxemburghismi e anarchismi variegati.
Il ”vecchio” si pappò il “nuovo” presto, troppo presto. E mi pare del tutto ingeneroso e un po’ saputello chiedersi quale sia stato da parte del movimento di allora « un serio contributo al rinnovamento e adeguamento della teoria alla realtà che sia rimasto come base per ulteriori sviluppi».
Annoto soltanto due ragioni:
1. la storia, come ho detto, di solito non procede per accumulazioni progressive; non è che una generazione possa partire dal gradino a cui era arrivata quella precedente e proseguire verso un secondo o terzo gradino. (E, infatti, i giovani si trovano quasi sempre a subire « una visione decisamente idealizzata» del passato dei nonni o dei padri; e, nel caso del ’68, hanno magari anche ricevuto «la stupefacente produzione artistica di quella stagione (Beatles, Dylan, Stones, De Andrè, Pasolini, Kubrick», ma nelle forme addomesticate, commercializzate, decontestualizzate dalla loro matrice originaria, che un’industria culturale – bestia nera dei sessantottini di allora e tuttavia capace di vampirizzarne i simboli che volevano essere “rivoluzionari”, “alternativi”, “antisistemici”- seppe seduttivamente approntare;
2. la teoria, come insegna bene La Grassa, la costruiscono dei pensatori (o gruppi di pensatori) e non i movimenti di lotta (fu Marx che pensò il meglio espresso dalla Comune di Parigi e non i comunardi, che ebbero ben altro da fare); essa viene – solita nottola di Minerva – sempre dopo, magari molto tempo dopo. A un movimento, dunque, si chieda conto dei problemi importanti o sciocchi che ha posto e dei modi originali o meno con cui li ha posti. Per me il ’68 su questo è da promuovere non da bocciare.
Ancora non capisco come in questa discussione si possa sostenere che il ‘68 nella scuola ebbe effetti negativi e nella società effetti salutari. Mi pare ridicolo. La scuola è un pezzo della società e un movimento di quella portata ha avuto effetti positivi e negativi dappertutto, per il semplice fatto che c’è stato.
Nei commenti di questo post si è «discusso molto di ’68 e di sessantottini, ma poco, troppo poco, di Università»? Non credo. Il ’68 è avvenuto nelle università, è stato la “rivolta degli studenti” e, parlando di esso, si parla dell’università, di come era e di come è diventata. Se «v.m.», da esperto e informato, porta dati precisi sull’università com’è oggi, dell’intensificato controllo sui suoi consigli di amministrazione della Confindustria e dei partiti, fa benissimo. Questo serve a mettere meglio a fuoco la posta in gioco sulla quale il ’68 con la sua contestazione puntò le sue carte. Il dopo, degradato e corrotto che l’ha seppellito, non fa che esaltare vieppiù il valore politico potenziale di quella rivolta.
A meno che non si pensi che essa fu interamente sbagliata non solo nei metodi (spontaneistici), ma anche negli obiettivi (progettazione di un sapere non funzionale al capitale), che non andasse (ammesso che si fosse potuto) neppure iniziata e che l’università andava o vada sempre subordinata agli interessi industriali esistenti. Magari a quelli “avanzati” invece che a quelli “parassitari”. (Da qui – temo – l’enfasi di alcuni interventi sul ruolo “sano” o “di punta” delle facoltà scientifiche rispetto alle umanistiche). Ora posso arrivare persino ad ammettere che, di fronte a tanto attuale degrado, oggi questa prospettiva potrebbe rappresentare il “meno peggio”. Non potrò però mai dimenticare che non era questa la “rivoluzione culturale” mondiale che fu allora abbozzata e tentata.
E mi permetto di far osservare a glg che solo dopo aver buttato nella spazzatura della storia quel tentativo, si può fare un confronto, ma di pura efficienza capitalistica o simil-capitalistica, tra università cinesi e nostrane e misurare chi sta più avanti e chi sta più indietro; o giudicare che «la Tienanmen sia stata per loro [i cinesi] una fortuna». Per «loro», però, io intendo i “similcapitalisti” cinesi e magari una sezione consistente del blocco di potere che li sostiene e se ne avvantaggia, non certo i contadini che si rivoltano, gli immigrati dalle campagne che penano nella costruzione delle nuove piramidi pechinesi o cantonesi, ecc.; e che non credo siano «alcune minoranze» e neppure siano state raggiunte, come forse una parte degli studenti massacrati a Tienanmen, «da correnti occidentalizzanti di tipo liberaloide». Che «con questi individui si sarebbe sfasciato il paese come la Russia di Eltsin», è tutto da dimostrare: né quelli della Tienanmen né la massa degli studenti del ’68 hanno potuto avere il beneficio della prova. …
Davvero grossolano altresì, Roberto Buffagni e Eros Barone, additare l’incuria altrui (di Scurati e dei suoi editor-redattori) peccando della stessa incuria. “Una storia romantica” è stato pubblicato da Bompiani e non da Mondadori! Possibile che nessuno di voi si sia accorto dell’errore? Possibile. Però triste, no? (Per usare le vostre stesse scandalizzate parole).
Cara Stella,
ha ragione, ho ricordato male l’editore. Nel mio caso, però, sarà piuttosto un sintomo di Alzheimer. L’incuria è un’altra cosa, per esempio quando uno fa un lavoro trascurato. Mi scuso comunque con l’incolpevole Mondadori.
Ha ragione, cara Stella, avrei dovuto controllare. Mai “iurare in verba magistri”…
Tuttavia, ‘ceteris paribus’, se non è zuppa è pan bagnato…
Spero di non infastidire chi legge a causa dell’evidente OT, ma non mi posso sottrarre dal riintervenire a proposito del ’68.
Prima di tutti, chiariamolo, non esiste un unico ’68, a quel tempo chi ci stava dentro, ed io c’ero dentro fino al collo, si rendeva conto di quanti differnti voci e contributi vi fossero all’interno, non credo ci possa essere qualcuno che possa sostenere che gli studenti protagonisti del ’68 fossero un tutto omogeneo. A titolo esemplificativo, potrei citare la presenza non marginale di movimenti maoisti che praticavano una disciplina di gruppo fino a definire chi dovesse sposarsi con chi all’internro del gruppo, qualcosa che oggi si stenta petrfino a credere. A mio parere, tuttavia, non è che abbiano molto importanza le soggettività che si manifestavano, ciò che conta è cosa è rimasto a seguito del ’68, il resto rischia di essere soltanto un nostalgico amarcord che non giova certo a chiarirci le idee dal punto di vista storico.
Insomma, per capire se il ’68 è stata una discontinuità e quale sia la natura di tale discontinuità, dovremo analizzare cosa ci fosse prima e cosa c’è stato dopo, questo mi pare l’unico approccio razionale.
Con un tale approccio, si capisce che non abbia senso giudicare il ’68 sulla base della lunga e creativa fase che l’hja preceduto. Infatti, io do’ un giudizio addirittura opposto degli anni sessanta nel loro complesso e del ’68, inteso come movimento partito dagli studenti universitari. Dirò di più, a mio patrere il ’68 ha costituito la liquidazione di tutto quanto di buono era stato fatto ed elaborato negli anni che lo precedono. E’ evidente che queste elaborazioni sono state parte delle pratiche del ’68, ma il punto è che esse sono state sconfitte. Ciò è di fronte a noi in piuena evidenza, ma generalmente si usa attribuire questa sconfitta ad un tradimento successivo al ’68. Tuttavia, ciò non ha molto senso, è nel momento della massima ìmobilitazione ed azione che si fanno i conti, che si determina cosa prevarrà, e ciò che segue perciò è soltanto il logico ed in qualche misura obbligatorio percorso definito nel cuore delle mobilitazioni e delle lotte.
Lotta continua rappresenta a mio parere l’emblema stesso del tipo di fuoruscita dal ’68, e poco importa che LC sia stata fondata qualche tempo dopo, quell’ideologia era patrimonio consolidato del ’68, era, e magari questo non era del tutto chiaro allora, l’ideologia vincente in quel movimento.
E’ l’ideologia dell “io sono giusto” che sposa in pieno la rozza antropologia liberale che ha un’immagine così ottimistica dell’uomo da risultare quasi ridicola. E’ l’illuminismo che afferma che l’uomo, liberato da certe condizioni storiche di sudditanze a credenze fideistiche ed irrazionali, approderà spontaneamente tramite un approccio razionale alla libertà, creando un mondo più giusto.
L’io sono giusto è appunto l’espressione di questa visione ottimistica che pretende che si giunga alla sapienza ed alla saggezza spontaneamente, basta disfarsi dei pregiudizi che la tradizione ci inculca, e da questo punto di vista che io giudico quello fondamentale, il ’68 celebra il trionfo dell’ideologia liberale, dello stesso modernismo, pur se ciò avviene proprio nel momento in cui si andava inceppando quel meccanismo di crescita apparentemente illimitata che si era osservato nel mondo occidentale a partire dal dopoguerra. Nello stesso momento, si sanciva l’abbandono del patrimonio valoriale della borghesia da parte della classe dominante che entusiasticamente aderisce al libertarismo predicato nel ’68, o meglio dalla corrente vincente del ’68.
Per il momento mi fermo qui.
Caro Cucinotta,
nessun fastidio, bensì un ringraziamento per aver rilanciato la discussione su un tema di così vasta portata politica, culturale, storica ed antropologica. A proposito dell’ultimo aspetto, mi permetta però di eccepire alla Sua definizione dell’antropologia liberale osservando che essa è essenzialmente caratterizzata da una visione ‘negativa’ sia della libertà (‘libertà da’ e ‘libertà di’, per dirla con Bobbio, più che non ‘libertà per’: cfr. Benjamin Constant) sia della società (riguardata come aggregato di atomi irriducibili in concorrenza fra di loro e connessi da meri rapporti contrattuali di utilità reciproca: è l’antropologia hobbesiano-benthamita, che da alcuni decenni va per la maggiore e che fa della nostra epoca l”epoca delle passioni tristi’, come hanno ben detto nel loro acuto saggio, recuperando la lezione, fra gli altri, di Aristotele e di Spinoza e proponendo una lettura di sinistra delle istanze comunitaristiche, Miguel Benasayag e Gérard Schmit).
In effetti, occorre rispondere al quesito che pone lo stesso Cucinotta e che pongono spesso i giovani a noi ex-sessantottini, e che è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.
In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc. Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio.
La progressiva trasformazione del Pci in senso revisionista e socialdemocratico (sfociata, da ultimo, nella liquidazione, ad opera di Occhetto e di Napolitano, di quello che era “il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico”) è stata, quindi, un importante fattore soggettivo della involuzione e della sconfitta della ‘generazione del ’68, che in tal modo restò priva di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso socialista gli assetti sociali esistenti. Da questo punto di vista, la trasformazione del Pci in ‘partito operaio borghese’ (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo dirigente revisionista. È opportuno sottolineare, a tale proposito, che questo gruppo era l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia e degli strati intellettuali legati a queste classi e frazioni di classe. “Oggi”, osservava Lenin già nel 1916, “il ‘partito operaio borghese’ è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti”. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne del movimento di massa.
In secondo luogo, non bisogna dimenticare le conquiste che furono ottenute dai movimenti di lotta del ’68 e del ’69. Alcune di tali conquiste sono tuttora presenti nella costituzione formale e materiale del nostro paese: si pensi allo Statuto dei lavoratori (pur pesantemente colpito dalla controriforma della Fornero), una legge dello Stato che garantisce fondamentali diritti sindacali e politici, e alla cosiddetta legge Basaglia (legge 180 del maggio 1978), che ha abolito i manicomi (ancora oggi l’Italia è l’unico paese del mondo in cui non esistono formalmente istituzioni di questo tipo) e promosso l’integrazione dei malati mentali nella società, liberando, oltre ai ‘matti’, anche i mancini, gli adolescenti ai quali la scuola imponeva la regola della scrittura con la mano destra. A partire dal 1973, con un’economia mondiale in piena recessione, ebbe inizio una fase di profonda ristrutturazione: nella grande industria furono automatizzati i processi produttivi e fu avviato il superamento dei modelli rigidi di organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista; migliaia di lavoratori furono licenziati; fu esteso il decentramento della produzione, si ebbe una crescita della piccola e media impresa e si ampliò l’area del lavoro precario, sommerso, nero e a domicilio. Questo mutamento della base produttiva, congiunto all’espansione del settore terziario, genera il contesto economico e sociale in cui si afferma l’‘autonomia del politico’ (intesa come gestione, anche in forma consociativa, del potere politico-istituzionale), che troverà la sua espressione più caratteristica nella linea del ‘compromesso storico’, nel venir meno di un’opposizione di sinistra e nella progressiva riduzione della ‘rappresentanza’ a ‘governabilità’ (sono le premesse di quel regime oligarchico e neocorporativo che si sta ora sfaldando, essendo venuta meno la ‘conditio sine qua non’ della sua legittimazione e del suo sussistere, ossia il controllo e la redistribuzione della spesa pubblica da parte del potere politico di Stato). È l’onda lunga della ristrutturazione, della ‘rivoluzione passiva’ e della svolta in senso neoliberista che, con Reagan e con la Thatcher, sfocerà nel 1980: l’anno della sconfitta storica del movimento sindacale alla Fiat, l’anno della ‘resistibile ascesa’ di Craxi, l’anno del ‘mistero’ di Ustica e della strage alla stazione di Bologna, che segna il culmine (e la vittoria) della ‘strategia della tensione e del terrore’ scatenata nel 1969. I rapporti di forza si sono radicalmente modificati a favore delle classi dominanti; la ‘grande paura’ del ’68 è finita; ha inizio il cosiddetto ‘riflusso’, cioè il passaggio da un’egemonia della sinistra ad un’egemonia della destra, che comincia ad affermarsi allora e, rafforzandosi sempre di più attraverso gli eventi epocali degli anni ’80 e ’90 e del primo decennio successivo, giunge sino ai nostri giorni. Aggiungo solo un’ultima postilla per Cucinotta: starei attento a non confondere il carattere ancipite del ’68, inerente ad ogni fenomeno sociale, data la natura dialettica della realtà, e l’uso di taluni aspetti ed elementi del ’68 da parte delle classi dominanti (ad esempio, del libertarismo, giustamente criticato da Cucinotta), ascrivibile alla preziosa categoria gramsciana di ‘rivoluzione passiva’. Del resto, non è forse vero che quello che una volta era denominato come l”american way of life’ si riassume oggi, innanzitutto e soprattutto per gli ex sessantottini più o meno felicemente integrati, nel seguente modello triadico: a sinistra nel costume, al centro in politica e a destra in economia?
a Dfw vs Jf
Mi fa piacere che i suoi recenti studi sul Risorgimento l’abbiano interessata. Premetto che non ho visto né lo spettacolo di Celestini, né il film di Martone, e che quindi qui non commento la qualità della loro riuscita, ci mancherebbe solo la recensione medianica.
Commento soltanto, brevemente, il parallelo fra Risorgimento e Sessantotto che, a quanto lei e altri dicono, è presente sia in queste due opere, sia in altre (come “Una storia romantica” di Scurati), che invece ho letto.
Vero, ogni generazione ripensa la storia del passato alla luce del proprio presente: ed è giusto così. La domanda da farsi è, il parallelo, l’allegoria illumina o oscura la realtà?
In questo caso, il parallelo/allegoria non mi sembra far luce sul presente e/o sul passato, anzi; soprattutto perché mi pare incentrarsi sui temi della violenza politica e della corruzione.
Nel terrorismo dei mazziniani si legge in controluce la violenza armata di sinistra degli anni Settanta; nella corruzione dell’Italia ufficiale postunitaria, il tradimento degli ideali e il ritorno all’ordine borghese di molti protagonisti e comprimari del Sessantotto.
Certo, la somiglianza c’è, ma è appena, a mio avviso, una somiglianza superficiale.
Il tema “delusione, corruzione, tradimento degli ideali” dice la dialettica inevitabile e perenne tra i movimenti “caldi”, con le speranze messianiche di rifondazione del mondo che sempre suscitano, e la istituzionalizzazione “fredda” delle loro conquiste, con la delusione che provoca la mancata trasfigurazione messianica (come dice Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”, a proposito del passaggio fra il Terrore e il Direttorio, l’ “ascetismo della morale” che si rovescia in “regno animale dello spirito”).
E’ una dialettica che funziona allo stesso modo per il risorgimento, per la rivoluzione sandinista, per la lotta indipendentistica irlandese, per la rivoluzione francese, per il sessantotto, il sessantanove, il settanta, il millanta…
Il tema “violenza politica giusta/sbagliata”, essendo moralisticamente impostato, non porta da nessuna parte: la violenza, armata o no, rivoluzionaria o istituzionale, è una componente perenne della lotta politica, e in particolare la violenza armata è una costante nelle lotte di liberazione nazionale, nelle quali il ricorso al vero e proprio terrorismo da parte dei rivoluzionari (ma anche da parte degli Stati) è regolare come la passeggiata quotidiana di Kant a Konisberg.
Sarebbe più interessante cercar di capire:
a) *perché* il messianesimo politico dei rivoluzionari si rovescia nel trasformismo di massa
b) *perché* e *quando* il terrorismo è politicamente necessario e conduce alla fondazione di un ordine vivibile, e quando no.
Non che sia facile, intendiamoci. Questo approccio, però, sostituirebbe il tentativo di indagine della realtà, fondato sulla comprensione storica, al parallelo generazionale, fondato sulla identificazione personale. Più difficile, ma anche più proficuo.
Cittadini, vorreste una rivoluzione senza rivoluzione?
Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre
Il conflitto di classe è l’ultimo dei conflitti visibili perché è il primo per importanza.
Franco Fortini
La discussione che si sta sviluppando sul Risorgimento e sul Sessantotto, con tutti gli annessi e connessi dell’integrazione e del tradimento degli ex rivoluzionari, nonché della violenza politica giusta o sbagliata ecc., trova, a mio avviso, nell’episodio storico di Aspromonte un nodo esemplare e rivelatore. Tale episodio, non a caso richiamato e fortemente sottolineato nel film di Martone, induce infatti ad interrogarsi sulle origini repubblicane dello Stato unitario, denegate e rimosse a causa della vittoria dei moderati e dei monarchici. Che Giuseppe Mazzini debba morire clandestino a Pisa, dove si faceva chiamare mister Brown, nella patria che ha contribuito a costruire da protagonista, è motivo di indignazione ancor oggi; che Garibaldi accetti di ritirarsi a Caprera quale novello Cincinnato può impressionare come tutti i miti post-risorgimentali, ma lascia dubbiosi ancor oggi, poiché si trattava in realtà di un confino malamente mascherato. Anche se su queste circostanze, non meno che su Aspromonte, si è steso il velo dell’oblio, anche se la carità di patria può dissimulare ma non sanare le ferite che hanno segnato il moto nazionale e la nostra stessa identità storica di italiani, occorre riconoscere che Aspromonte è il cuore del Risorgimento, l’evento rivelatore delle tensioni e dei conflitti interni che lo attraversavano. Ecco allora due fatti che vanno posti in rapporto: nel 1834 Garibaldi aveva tentato di far ammutinare la flotta del Regno di Sardegna e per poco riuscì a sfuggire all’arresto e alla successiva condanna a morte; nel 1862 viene gravemente ferito al piede dal fuoco della fucileria dell’esercito italiano. Passano gli anni e i decenni, Garibaldi diviene “l’eroe dei due mondi”, “il generale delle camicie rosse”, una leggenda vivente, ma quella condanna in contumacia rimane sempre valida, anche se non viene eseguita. Nell’estate del 1862 Garibaldi si pone come obiettivo la liberazione di Roma e fa appello, come nel 1860, al volontariato, che è il tratto distintivo del nostro Risorgimento: duemila uomini accorrono al richiamo del generale rivoluzionario. L’Europa assiste attonita ed ammirata al ripetersi di un’impresa ‘pazzesca’, improbabile e avventurosa come quella che, due anni prima, aveva visto una banda di mille volontari sconfiggere un esercito regolare di centomila uomini; improbabile e avventurosa come sarà, fra il 1943 e il 1945, la stessa Resistenza, non a caso definita “secondo Risorgimento”. Sennonché l’atteggiamento ambiguo del presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, che cerca di giocare su più tavoli, con assai minore abilità rispetto a Cavour, una partita che per le sue implicazioni coinvolgeva non solo il neonato Stato italiano, ma anche gli equilibri internazionali, lascia nell’incertezza sino all’ultimo lo ‘status’ della spedizione garibaldina. Come nella primavera e nell’estate del 1860, tutto può fallire, tutto può riuscire. Questa volta, però, quei volontari saranno trattati come semplici ribelli, poiché, prevalendo le pressioni diplomatiche della Francia e di altri Paesi, si dirà che essi violavano la legalità interna ed internazionale. Il prezzo da pagare per sostenere questa tesi consisterà nel far finta di ignorare che il Risorgimento è, per definizione, una continua violazione della legalità e che mai si sarebbe compiuto rispettando la legalità esistente.
Non che la posizione del governo italiano non avesse le sue buone ragioni, se è vero che non esiste governo senza una politica internazionale e se è vero che la politica internazionale del governo italiano in quel momento mirava a legittimare, nel quadro europeo e mondiale, uno Stato unitario sorto da una rivoluzione nazionale, ossia da una patente violazione della legalità costituita. Il conflitto sanguinoso fra l’esercito italiano e i volontari garibaldini, che si consuma sull’Aspromonte, è nella sua essenza tragico, posto che, come ci insegnano gli studiosi della letteratura antica, la tragedia nasce dall’urto fra due ragioni contrarie e inconciliabili. Perciò l’unica via di uscita fu il rapporto di forza. Rimane, tuttavia, senza risposta l’interrogativo che viene spontaneo: era davvero necessario sparare contro Garibaldi? non era sufficiente fermare i volontari, senza sparare sull’uomo che più di tutti incarnava l’ideale della nazione? possiamo davvero escludere che quella condanna a morte, mai eseguita ma anche mai revocata, abbia orientato la direzione di tiro dei fucilieri del regio esercito italiano?
Per quanto riguarda questa sorta di ‘Termidoro permanente’ in cui a noi ex sessantottini, per così dire fedeli alla linea, tocca vivere la nostra età di ‘giovani anziani’, approfitto di questa discussione
per proporre, dedicandola a Ennio Abate, una poesia tratta dalla raccolta ‘Esercizi e appunti della sera’ di Arnaldo Bianchi, che vive a Varese e lavora presso la biblioteca civica di questa città. La poesia, intitolata “Termidoro / contro i vecchi e i nuovi anti-giacobini*”, quando la lessi mi colpì per la passione etico-politica che la anima, per l’onore che rende, sia pure indirettamente, alla grande e nobile figura di Robespierre (il “dittatore d’Arras”), per la tagliente denuncia del clima ideologico termidoriano che, a partire dal 1989, pervade la società e la cultura e, infine, per il rigore stilistico che non la rende indegna del paragone con il carducciano “Ça ira”, cioè con l’unico esempio di poesia filo-giacobina che esista nella nostra tradizione letteraria (caratterizzata, invero, a causa degli umori clericali e delle tendenze moderate che la intridono, da una profonda incomprensione della rivoluzione francese).
Il vecchio ex-ambasciatore diceva:
“Cittadini bisogna cercare,
con pazienza,
di dare un equilibrio alla virtù”.
Rispondevano nella recita i figliocci:
“Con pazienza, con pazienza
ora tempo non ce n’è più
della virtù si può anche fare senza
del tiranno dateci la testa.
Da troppi anni il sangue scorre,
la dolce nostra patria
è un oceano pieno di terrore
e si confonde nel popolo di Francia il concetto,
ciò che è nostro e ciò che è vostro
deve restare netto.
Sulla proprietà e il commercio si fonda la nazione
si turba il nostro animo con la nostra digestione:
su del dittatore d’Arras dateci la testa
e, per sempre, chiudiamo questa oscena festa”.
* Il motto di Robespierre era “Virtù e terrore”; gli anti-giacobini accusano il terrore per distruggere la virtù.
Aggiungo soltanto che, lungo la via maestra della rivoluzione francese, che si snoda attraverso l’Ottocento (un secolo che non piace ai papi, e ‘pour cause’!), si incontrano la rivoluzione politico-sociale e la rivoluzione filosofica attuata dal pensatore di Königsberg, il cui nesso è stato colto con acume da un grande (anche se oggi, e ‘pour cause’, svalutato) figlio di quel secolo, il nostro Giosuè Carducci, in quel verso, forse non bello ma profondo, che suona: “decapitaro Emmanuele Kant Iddio e Massimiliano Robespierre il re”.
Caro Barone,
grazie della cortese replica, a proposito della quale mi preme sottolineare alcuni aspetti.
Il primo è che una sconfitta non può essere giustificata dall’abilità dell’avversario, quella è certo decisiva, ma va data per scontata, nessuno credo che possa intraprendere una lotta decisiva contando sulla dabenaggine dell’avversario.
La seconda riguarda la teoria antropologica che sta a fondamernto del liberalismo. Qui, credo, lei sovrappone due livelli che sarebbe meglio lasciare separati. Una cosa infatti è dire che un insieme di individui (per il liberalismo non esiste collettività ed al limite neanche società), se liberi da superstizioni e credenze errate, perviene spontaneamente a un ordine positivo, un altro è definire cosa sia positivo. Da questo punto di vista, che lei ed io pensiamo che divenire semplicemente homo aeconomicus sia una ben triste e mortificante sorte per la persona umana che sacrifica così gran parte del proprio patrimonio di umanità, non è importante se al contrario per i liberali quello è un traguardo augurabile, nel senso insomma che esiste una loro coerenza interna.
In altre parole, io non intendo entrare in un dibattito valoriale con un liberale, preferisco almeno preliminarmente fargli notare l’interna contraddizione della sua stessa teoria.
Una terza riguarda quello che dal mio punto di vista è un suo errore, di continuare a credere che il libertarismo sia di sinistra (lei scrive che si è a sinistra nel costume, ma rimane da capire a questo punto cosa sia la destra e cosa la sinistra). Il mio parere è che il libertarismo, nel mettere al centro i diritti individuali, è coerentemente di destra, dove qui intendo la destra liberale, non certo la destra ai tempi della rivoluzione francese. In verità, io credo che sia meglio abolire l’uso dei termini sinistra e destra perchè troppo inquinati, fonti soltanto di semplificazioni portatrici di ambiguità molto pericolose.
Infine, ribadisco. A mio parere, il ’68 non è stato tradito, ma fu esso a tradire la fase di intense lotte che l’aveva preceduto. In termini di geometria analitica, si potrebbe dire che una funzione crescente tende prima o poi a raggiungere un massimo, e quindi il massimo è nello stesso tempo l’esito di una fase di crescita, ma anche la premessa della successiva fase discendente, ed in realtà oggi sappiamo bene come già alla fine degli anni sessanta si era giunti ad una fase economica che cominciava a stentare ad autoalimentarsi, finendo poi nell’odierna fase di crisi senza apparente via d’uscita.
Caro Cucinotta,
lasciando da parte altri Suoi rilievi a cui ritengo di aver già fornito nei miei precedenti interventi puntuali riscontri per mezzo di categorie come quelle di ‘rivoluzione passiva’, ‘partito operaio borghese’, ‘autonomia del politico’, ‘ristrutturazione’ e ‘svolta neoliberista’, mi consenta soltanto di fare una precisazione concernente il tema del libertarismo, il cui senso mi sembra sia stato da Lei frainteso. Premesso che, come soleva dire il presidente Mao Zedong, destra e sinistra esistono anche nel deserto e che respingo risolutamente la tesi di coloro che, come Preve e La Grassa, ritengono tale dicotomia obsoleta, concordo pienamente con Lei nel ritenere di destra l’enfasi liberale sui diritti individuali, che raggiunge la sua acme nella concezione libertaria e che tende a cancellare la natura organicamente sociale degli esseri umani (cfr. il prezioso saggio di Benasayag e Schmit, a cui nuovamente La rinvio per un approfondimento di questa cruciale questione). In altri termini, semplificando al massimo, l’enfasi liberale e/o libertaria non è altro che il riflesso ideologico speculare dell’anarchia capitalistica. E’ evidente allora che, quando ho evocato “il modello triadico” (a sinistra nel costume, al centro in politica e a destra in economia), mi riferivo al tipo del ‘bourgeois’ contemporaneo, che è anche il prodotto di quella parte del Sessantotto che ha promosso la modernizzazione, la cultura del narcisismo e l’’emancipazione accidiosa’. Per dirla con i cinesi, è l’uno che si divide in due. Diversamente, se quei termini (destra, centro e sinistra) non avessero, come hanno in quel contesto, un significato rigorosamente endosistemico, non crede che anche Lei dovrebbe riconoscere in un tipo come Lapo Elkann il vero rivoluzionario del nostro tempo?
E chissà, caro Barone, che Lapo (e Jaki, e tutta la famigliola allargata, Patrizia compresa) non siano davvero i rivoluzionari del nostro tempo…di rivoluzioni, nella vita della gente, per esempio i loro operai, ex e non ex, ne fanno mica poche e mica piccole…
Di Lapo, in particolare, io ricordo la seguente ‘impresa’, che non so se si possa considerare rivoluzionaria, perlomeno nell’accezione attribuita da Buffagni al termine ‘rivoluzione’. Un giovane che giunse a rischiare la sua vita a causa di una dose eccessiva di cocaina assunta nel corso di un incontro notturno cui prendevano parte alcuni ermafroditi che egli era solito frequentare: benché si trattasse del ricco e affascinante rampollo di una grande famiglia di capitalisti italiani, impegnato da tempo nella pubblicizzazione del marchio di un’azienda la cui storia si intreccia indissolubilmente con la storia del nostro paese, la scena e lo svolgersi degli eventi furono quelli tipici della suburra durante il Basso Impero, frutto, per usare un’immagine mitologica in questo caso quanto mai opportuna, dell’azione congiunta e potenzialmente micidiale di Urano, dio della sessualità invertita, di Plutone, dio degl’inferi, e, ultimo anche se è in realtà il dèmone più insidioso, di Mercurio, dio del commercio. Orbene, se da questo episodio, che non mancò a suo tempo di colpire la mia (e spero nostra) sensibilità etica ed estetica, si può ricavare una riflessione utile, io credo che essa debba riguardare il fenomeno dell’alienazione, che colpisce non solo coloro che, per lavoro, reddito e posizione sociale, appartengono alla classe degli sfruttati, ma anche coloro che appartengono, per lavoro, reddito e posizione sociale, alla classe degli sfruttatori. I fattori dell’alienazione sono le condizioni materiali e spirituali e, dunque, i meccanismi disumani prodotti e riprodotti da questa società, per definire i quali Marx usa nel “Capitale” l’espressione potente di ‘Träger’, che nella lingua tedesca non indica solo i ‘portatori’ di determinati rapporti di proprietà e di produzione, ma evoca anche il senso della sofferenza che prova colui che, in quanto ‘soggetto’, è sottomesso al peso schiacciante di tali rapporti. Pur senza pretendere di dedurre meccanicamente dalla struttura dei rapporti sociali la dinamica dei rapporti interpersonali, la lezione che l’episodio in questione ci consegna è che il godimento e la verità, la felicità e le relazioni sostanziali degli individui sono contraddittori, poiché, in buona sostanza, all’interno di questa società i modi della felicità non sono liberi e i modi della libertà sono infelici.
@ Barone, Buffagni e Cucinotta
Sia «a causa dell’evidente OT», come nota Cucinotta, sia perché rischiamo di apparire come uno strano quartetto (tre in eskimo e uno in redingote) che si aggira su una spiaggia di bagnanti distratti o gaudenti, vi invito – come avevo già proposto a Barone e se lo ritenete opportuno – a continuare la discussione sul ’68 per posta elettronica. Ripeto i miei recapiti: poliscritture@ gmail.com oppure moltinposia@gmail.com
Assa fa’ a maronn!
cfr. Eduardo De Filippo, O te ne vai tu, o me ne vaco io, inedito, 1968
il Quartetto Cetra…