a cura di Massimo Gezzi
[L’ottava puntata della rubrica dedicata ai poeti nati negli anni Ottanta ospita oggi sei poesie di Tommaso Di Dio (Milano, 1982). Di Dio ha esordito nel 2009 con Favole (Transeuropa, prefazione di Mario Benedetti) e ha tradotto una silloge del poeta canadese Serge Patrice Thibodeau, apparsa nell’Almanacco dello Specchio 2009 (Mondadori). Dal 2005 collabora all’ideazione e alla creazione di eventi culturali con l’associazione Esiba Arte, per la cui compagnia teatrale scrive testi. A Milano cura la rassegna di poesia Fuochi sull’acqua. Le prime tre poesie sono tratte da Favole; le altre tre sono inedite in volume (mg)].
Quella volta che hai trattenuto il sorriso
per un tempo lungo, come un colore.
Quella volta che lo hai tenuto nel viso
prima della forma, prima del dolore
che ne sagoma il contorno.
Ci sono i parchi, le stagioni. Oggi sono due giorni
che piove a dirotto. La terra fuori deve essere fradicia
di cielo e ad ogni passo dovresti sentire un rumore.
L’intrusione delle nuvole. La sagoma del sorriso.
Cielo e viso sono sentieri.
*
Il corpo atteso al giudizio
delle ultime labbra. La foce delle nuvole,
l’armistizio sereno del vento dove le mani
stringono la finestra e chiudono per sempre
il fuori dal di dentro. Ripetere questa nebbia
che batte all’impazzata contro i margini
degli abbracci e dei palazzi. Cercare la chiave giusta.
L’accordo di tutto il pianto dei portoni.
Venne, poi, la chiara successione. L’estate,
l’autunno, l’inverno; aspettare la crescita
dei fiori da quel fiato scarno e colori lividi
dei prati macchiati di neve. Ogni seme.
Ogni testa. Nella terra sono gonfi per la gioia
di una strana festa.
*
Entrare. Nel petto. Nei chilometri.
La faccia muta come una terra. Questo cielo allora
di schiena attaccato durante il sonno
senza tempo, per ore. Fare l’amore senza il minimo sospetto
che vento, carezze, maremoti delle braccia incredibili
fanno l’opera, tengono
aperti i visi degli amanti, aperti al crollo degli anni
tutti gli istanti. Ti prego, tieni a mente tu
il paesaggio scavato di strade, questo volto grande.
*
favola
Quel che ammonirono i libri santi.
Quel che scrissero i poeti. Le epigrafi.
I ruderi. Le pietre le caverne
scavate con le mani in gloria
del sangue di bufali, di elefanti. Tutto questo
essere stati non basta
bisogna ripetere tutto, capitolare.
Testa scura. Ventre scure del boia.
Bisogna pagare.
*
Quella parte di silenzio
che ci copre il viso. Il parco
aperto e nero in fondo alla strada
in fondo alla cosa che fai. Sul tuo viso
c’è qualcuno che smette, all’istante
rompe un vetro, cade
un cielo addosso alle pareti e tutto
è tempo ferito, limpido
alone fra i capelli, il vestito. Come taglia
questa luce nell’erba e lascia
soli nel dialogo.
*
Restare visibili. Non lasciare mai
le linee del volto confondersi fino a che
catrame sia questo grigio per le strade.
Non meno morte mi apri tu, se dici
il fulcro della doratura se la bocca
di notte apri tu. C’è un albero qui, davanti
alla mia finestra; qualcosa da su
oggi piove. Non lasciare mai
questa tua carne minima; proteggila
resta.
Io voglio che tu veda
crescere questo albero.
[Immagine: Luigi Ghirri, Reggio Emilia, 1973 (mg)].
complimenti, bellissimi testi.
eh però siamo al di qua del paradigma, come la mettiamo con questo paradigma che ancora attende d’esser valicato? non vedo linguaggio in questo linguaggio
anche io trovo che i testi sono belli. nel contempo sono davvero interessata a discutere la tesi di chitina – svincolando il discorso dai testi di Di Dio, che apprezzo. vuoi?
per esempio: qual è il paradigma?
Pensieri profondi in forma molto curata. Una piacevole scoperta.
Prendo per un attimo la parola, soltanto per ringraziare tutti coloro che sono passati da questi testi e hanno trovato il tempo di leggere, di scrivermi; in privato come qui.
Faccio molta fatica a pensare che si possano intraprendere questioni complesse attraverso questa scrittura in rete: si rischia sempre di risultare provocatori, oppure di essere fraintesi; e tutto ciò non giova molto alla reale comprensione dei problemi che pur si avvertono, che sono complessi e necessitano tempo e la distensione di un saggio, forse, di un libro. Ma, oscuramente, sento che la pretesa di fronte ai testi che mostra Roscoe Chitina tragga origine da un giusto sentire, un sentire che in parte condivido. Come condivido il parere di Celeste: non mi sembra il caso di far partire un ragionamento sul “paradigma”, proprio da questi 5 testi.
Se può giovare, vorrei dire che non ho mai provato interesse per l’idea di un “testo assoluto”, sciolto e libero di valicare la propria storia (che è anche una storia di testi che lo precedono). Mi interessa invece che il testo mostri la propria “relatività”, una relatività su più livelli, una densità (al limite: una vischiosità). Insomma, più il testo si offre come problematicamente legato, vincolato ad uno sfondo, più lo trovo vicino. Ma non so se questo fosse il nodo che qui si richiamava.
Ancora un saluto. E spero a presto.
Tommaso Di Dio ha ragione: è difficile affrontare questioni vaste e molto articolate con questi mezzi e in queste forme. Personalmente, comunque, ritengo che il valore maggiore di queste poesie stia proprio nella loro capacità di comporre un discorso, di andare oltre la propria autonomia testuale per raggiungere un orizzonte più ampio. Come ha scritto lo stesso autore, ogni testo si mostra «problematicamente legato, vincolato ad uno sfondo»; e lo sfondo, ovviamente, non è costituito solo dagli altri componimenti, ma dal complesso della tradizione letteraria.
Si prenda, per esempio, la quarta poesia. È un ulteriore sviluppo dei temi che Di Dio aveva affrontato nelle «Favole» e che sono ottimamente rappresentati dai primi tre testi qui pubblicati (ne approfitto per complimentarmi con chi ha effettuato la selezione): si tratta ancora di ricercare − sui corpi e sulle cose, nello spazio circostante − i segni in grado di testimoniare che ci siamo, che forse resteremo. Ma questo percorso interno all’opera dell’autore è, al tempo stesso, un attraversamento della tradizione: si parte da Rebora («Quel che ammonirono i libri santi»), si passa per Rilke, e si approda infine a quella voce nuova che ci dice: «bisogna ripetere tutto, capitolare. / […] Bisogna pagare». Una voce inconfondibile, giovane e matura: la voce di Tommaso Di Dio.
allora devo ancora scrivere; perché questo paradigma non valicato? non hai alla fine risposto. E poi questo Milo (per me indiscusso sommo poeta) che pare stia creando un canone.
Ci risiamo: ecco il poetese senza poesia
E’ sempre stato così, e così si ripete, i poeti sono proprio coloro che riescono per propria forza a superare il vincolo dello sfondo, gli altri sono i soliti letterati, che non riuscendo, passano la vita a giustificare il proprio limite con infinite spiegazioni e dimostrazioni inutili, che nessuno legge come le pretese poesie.