cropped-6339500868_ecd2edc55e_b1.jpgdi Franco Buffoni

[Questo intervento è uscito sul numero 31 di “Alfabeta2”, in edicola e in libreria in questi giorni]

L’invito della direzione di Alfabeta a stendere 6000 battute sulla “attualità” di Joyce mi raggiunge alla Malpensa, in partenza per Tunisi. Sono atteso alle edizioni Elyzad dalla direttrice Elisabeth Daldoul e dalla scrittrice tunisina di lingua francese Azza Filali, invitate per il prossimo settembre al Babel Festival di Bellinzona dedicato quest’anno alla francofonia africana.

Su Joyce nel 1971 discussi la mia tesi di laurea alla Bocconi, e su Joyce quest’anno ho registrato la puntata di Wikiradio del 20 marzo, che è il giorno in cui – nella V parte del Portrait of the Artist as a Young Man – ha inizio il “diario” che conclude il romanzo: “Long talk with Cranley on the subject of my revolt”. Cranley era il compagno di studi confidente di Stephen Dedalus.

Ma contro che cosa si ribella il protagonista febbrile dell’ultima parte del Portrait, che poi re-incontriamo disilluso e errante all’inizio di Ulysses? Il suo nome e cognome, non dimentichiamolo, è di per sé sinonimo di ribellione: Stephen è il protomartire cristiano che si ribella all’ordine romano costituito; Dedalus è colui che osa ribellarsi alle leggi stesse della natura… Si potrebbe rispondere che Stephen Dedalus/James Joyce si rivolta contro l’essenza stessa dell’educazione ricevuta, ricorrendo alle tre fatidiche armi del silenzio, dell’esilio e dell’astuzia. Si ribella alla famiglia, alla patria, alla cultura che gli è stata impartita: a quella certa idea di famiglia, di patria e di cultura. E che cosa costituisce il denominatore comune a quella idea di famiglia patria e cultura? Qui risponde l’amico Cranley, affermando che la mente di Stephen è “supersaturated” da quella religione nella quale dichiara di non volere e di non potere più credere. Quella religione così inestricabilmente legata alla famiglia, alla patria e alla scuola, da non necessitare nemmeno di dover essere menzionata in modo esplicito. Quella religione talmente consustanziata alla crescita e all’educazione da risultare parte inscindibile del proprio body and soul, della propria mind.

Ouatann, il romanzo di Azza Filali uscito nel 2012 per Elyzad, di cui mi ero proposto di concludere la lettura in aereo, significa in arabo proprio quella cosa lì. El ouatann è la patria, l’educazione e la famiglia tutto assieme, perché è la casa intesa non come edificio ma come focolare, è la home contrapposta alla house, è il foyer, die Heimat con i suoi odori, colori, rumori e sapori unici e irriproducibili, assorbiti nell’infanzia insieme a quei fonemi, a quelle cadenze, quelle usanze.

E i giovani tunisini – e soprattutto le giovani tunisine colte e bilingui che nei mesi scorsi hanno divorato il romanzo di Azza Filali – lo hanno capito benissimo.

Come l’avevo capita bene io – educato dai gesuiti negli anni cinquanta e sessanta – la ribellione di Joyce, al punto da volerci scrivere sopra la tesi, redatta in gran parte nella biblioteca e nel parco dell’Aloisianum di Gallarate, oggi casa di riposo per gesuiti anziani (vi ha trascorso gli ultimi anni il cardinale Martini): allora pullulante di studenti che si avviavano alla professione di fede.

Io che oggi incontro molta difficoltà a spiegare ai miei studenti italiani perché Joyce fosse “supersaturato” da quella religione nella quale dichiarava di non credere, mentre le giovani tunisine mi capirebbero alla perfezione. Joyce che – per riflesso di Pavlov – continuò per anni, a vergare la sigla che ogni allievo del collegio Clongowes doveva apporre in alto a destra, su ogni foglio di protocollo, prima di ogni altra parola: AMGD, ad majorem gloriam Dei

L’attualità di Joyce… Certo, rientrato in Italia molto confortato dall’incontro con Elisabeth – un caterpillar di grazia e determinazione in una situazione politica ardua – e dall’intensità del colloquio avuto con Azza Filali, mi trovo sul tavolo, freschissimo di stampa, Joyicity. Joyce con McLuhan e Lacan, un amplissimo saggio di Gabriele Frasca pubblicato da d’if. Dal quale apprendo che “con quell’immettere parassitoidi puntiformi (ogni pun nel Finnegans Wake apre un mondo, e potrebbe bloccare la lettura sequenziale per ore) nel parassita di una lingua sempre altra, e smaterna, Joyce isolava in verità ciò che ha trasformato il concetto sensibile di ‘uomini’ (o ‘mortali’, o ‘fratelli’) caro alle culture orali (gli ‘uomini’ sono coloro che parlano allo stesso modo, o professano la stessa, avrebbe detto l’universalista Paolo, ‘lingua d’amore’), e quello sensato, e dunque specializzato di ‘nazione’, in quello ‘neocerebralizzato’ (per usare un termine caro a Teilhard de Chardin) e del tutto insensibile di ‘specie umana’”.

Paolo di Tarso e Teilhard de Chardin: sembra quasi che, a distanza di un secolo, ad essere supersaturati da quella religione dalla quale Joyce fece di tutto per allontanarsi, siano rimasti – impassibili atei devoti – i suoi critici più valenti, gli esegeti più attenti.

Quando nel ’71 discussi la mia tesi, avevo in tasca il manifesto di Giuliani. Stava giungendo a conclusione (ma io non lo sapevo) il decennio joyciano italiano per antonomasia, inaugurato dalla pubblicazione della storica (risaliva agli anni quaranta) traduzione dell’Ulisse di De Angelis, fatalmente segnata – per un incidente al tir che da Verona la trasportava a Milano – dalla dispersione in Adige dell’intera prima tiratura. Un incidente che, per le circostanze in cui avvenne, non dispiacque all’Anglologo.

Perché, quando finalmente nel ‘61 uscì la traduzione di De Angelis, Joyce era sulla cresta dell’onda, assolutamente alla moda: una moda che quella traduzione contribuì fortemente a alimentare, intercettando un gusto neoavanguardistico ultrafavorevole al pastiche linguistico, fervidamente contemporaneo. In questa ottica venne accolto e studiato in Italia il secondo Joyce – quello di Ulisse e Finnegans – mentre a rendere dapprima commestibile, quindi ideologicamente datato, il primo Joyce – quello che giunge a maturazione col Portrait – passandolo in qualche modo “in giudicato”, ci stava pensando il Vaticano II.

Oggi, con la liberalizzazione dei diritti, quale gusto intercettano le nuove traduzioni? Nuove in senso esclusivamente editoriale, se ci riferiamo a Celati. L’intendimento celatiano, infatti, che al tempo della stesura forse era stato quello di approntare una versione dell’Ulisse da studioso, mi pare che ormai sia in grado di intercettare il gusto italiano contemporaneo solo in un’ottica estatico-estetica: da “scrittori che traducono scrittori”. La sensazione non è più nemmeno accademica: è direttamente museale.

E il più recente e immenso lavoro di scavo di Terrinoni nei meandri del linguaggio, al fine di trasporre in italiano le joyciane variazioni di stile, così mutevoli di libro in libro, di canto in canto, se ha ricevuto la meritata attenzione critica, ho la sensazione che sia stato più per buona educazione che per un reale interesse nei confronti dell’opera.

Che cosa, allora, è rimasto attuale di Joyce? In parte credo di avere già risposto, mostrando come – paradossalmente – il primo Joyce oggi sia in grado di parlare più facilmente ai giovani tunisini – nel loro quotidiano combattimento corpo a corpo con l’integralismo religioso – piuttosto che ai coetanei italiani, ormai solo vagamente superstiziosi, e oggetto nelle scuole dell’obbligo e al liceo di un IRC totalmente de-dogmatizzato, sempre più somigliante a un vago sociologismo d’accatto e multiuso.

Ma si pensi anche alla lancinante attualità, per una giovane tunisina contemporanea, di un racconto come “Eveline” nei Dubliners, con quell’urticante dubbio: fuga migratoria sì o no? El ouatann o libertà? Eveline alla fine, proprio la mattina della partenza, mentre il fidanzato Frank la sta aspettando al porto, sceglie el ouatann.

Mentre che cosa c’è di attuale, per noi italiani, nel Joyce maturo di Ulysses e soprattutto di Finnegans Wake? Libri per specialisti e per studiosi, si diceva al tempo della mia tesi, sulla scia della dichiarazione – affatto scherzosa – dello stesso Joyce: “Dai miei lettori pretendo la dedizione dell’intera esistenza”. Ma con aperta l’opzione che forse si potesse andare ancora oltre: che the impersonal narrator woolfiano, divenuto the invisible narrator joyciano, potesse in futuro diventare ancora qualche altra cosa.

L’ultimo mezzo secolo ci ha insegnato che no, non era possibile andare ancora oltre, e che quel decennio tra i sessanta e i settanta – in cui fummo in molti a credere che invece si potesse andare ancora oltre – resterà nella storia dello stile e del linguaggio insieme all’altra nostra illusione di allora: che la crescita e il benessere fossero ormai irreversibili. Joyce come un sintomo culturale, dunque. O, forse, come un beffardo contesto culturale, dal quale – per noi, nati nel cuore del Novecento – insieme fuoriescono l’opera aperta, mary quant e i beatles.

[Immagine: brunop, Joyce http://www.flickr.com/photos/indyfab/6339500868/].

 

21 thoughts on “Diario Pubblico /9. Joyce a Tunisi

  1. Avrei voglia di chiedere a Buffoni, parafrasandolo, “quale gusto intercettano” queste sue disquisizioni senza capo ne coda. E avrei voglia di rispondere che “la sensazione non è più nemmeno accademica”: e non è nemmeno “direttamente museale”. L’impressione è quella di un’enorme confusione, umana e intellettuale

  2. Ammiro Buffoni come poeta e considero Guerra uno dei libri più belli usciti in Italia nell’ultimo decennio, ma anch’io fatico a capire il senso di questi interventi in prosa, che trovo ripetitivi e deludenti.

  3. h, ci risiamo…. ma può essere che qui su LPLC o gli autori diventano tutti indistintamente “sociali” come questo Joyce di Buffoni o un Beckett qualche tempo fa, oppure quando qualcuno di tanto in tanto mette sopra la bilancia il fatto estetico, la “pesa” si traduce in lezione universitaria? Ma è possibile che dobbiamo sempre ridurre tutto finché entri nel nostro piatto? Con Joyce non ce la fate, inutile sforzarsi, non si taglia con un grissino. E manco Manganelli. O CB o Beckett. Mettetevelo in testa.

    Mi fa piacere Buffoni che i tunisini colti leggano Joyce, ma mi pare altrettanto riduttivo che lei sostenga che lo leggano esclusivamente in chiave antireligiosa o di corpo contro “spirito” (che poi siamo sicuri che a religiosità musulmana è lontana dal sentire fisico e corporale di Joyce? secondo me è più lontano il cattolicesimo).

    Sono invece abbastanza d’accordo con lei su quello che le ultime uscite editoriali hanno prodotto. Niente. Ma sentir parlare o leggere Celati su Joyce è un piacere enorme che può farmi dimenticare anche la sua non impeccabile traduzione. Voglio dire che le pagine introduttive di Celati a Joyce valgono il prezzo del biglietto.

    E comunque, Joyce era cattolico praticante, non ce lo scordiamo, gesuiti o non gesuiti. Il suo rapporto col cattolicesimo è molto complesso e non può essere liquidato in due battute. Un po’ come quello di Fante.

    Buona giornata a tutti

  4. Appena gli tocchi il crocefisso.. non ce n’è: devono per forza inzaccherare;
    eppure una delle premesse era chiara:

    Stephen Dedalus/James Joyce

    ” Il suo nome e cognome, non dimentichiamolo, è di per sé sinonimo di ribellione: Stephen è il protomartire cristiano che si ribella all’ordine romano costituito; Dedalus è colui che osa ribellarsi alle leggi stesse della natura… Si potrebbe rispondere che Stephen Dedalus/James Joyce si rivolta contro l’essenza stessa dell’educazione ricevuta, ricorrendo alle tre fatidiche armi del silenzio, dell’esilio e dell’astuzia. Si ribella alla famiglia, alla patria, alla cultura che gli è stata impartita: a quella certa idea di famiglia, di patria e di cultura. “

  5. Senti Ares, schioppi male. Io non sono cattolico. Mi interessa unicamente che non si tirino gli artisti per la giacchetta. L’importanza di Joyce non sta nel suo essere sociale (scemenze!) ma nel suo essere il più grande poeta del Novecento. Se non conosci quello di cui parli, fai il tifoso…se ti piace…

  6. Ares, ma non le sta stretta la parte di chierichetto di un’autorità invecchiata? Non ce la fa a preoccuparsi del mondo? Interpreterà per tutta la vita il ruolo di Sancho Panza?

  7. Ma quale autorità invecchiata Buffoni é un infante felice, paragonato a certe cariatidi.

  8. Mette la banalità in musica. Una specie di melodramma del corpo. Poi i temi sono quelli universali, noiosi ecc ma capisci che detti in quella maniera sono tutti nuovi… ti fanno venire voglia di campare.

  9. Francesco, rispondo alla tua domanda “quale gusto intercettano queste disquisizioni senza capo né coda?”
    Incontrano il mio gusto: lo trovo un testo vivo, la questione della dignità umana è viva nella lettura. Sento che parla di letteratura continuando a “preoccuparsi del mondo”. Per me è l’unico modo sensato di parlare di letteratura.

  10. « Quando un’anima nasce, le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti. »

    Quando si dice: una banalità all’ennesima potenza…

  11. Senti Ares va bene avete ragione tu e il tuo mentore, l’importanza di Joyce non è data dalla grandezza della sua (chiamiamola così per capirci) “poesia”, ma è data dal suo impegno civile di letterato contro il cattolicesimo, la patria, la famiglia e le battaglie che vi stanno più a cuore. Colla liberazione dei costumi e l’allargamento dei diritti, qui da noi ormai Joyce è un feticcio museale. Menomale che c’è la Tunisia… sennò Joyce era veramente fritto… come si dice, nella sfortuna la fortuna.

    Comunque Ares tu e il mentore avete ragione (ci sono comunità di studiosi dell’opera di Joyce che si stanno muovendo da ogni parte del mondo per rendervi omaggio) però se posso permettermi un consiglio spassionato vorrei dartelo, nonostante la tua spacconeria disinformata sia inaccettabile, specie di fronte a un classico del genere.
    La letteratura ha un vantaggio rispetto ad altre discipline: che ci sono i testi a portata di mano (sempre più a portata di mano).
    I testi sono come i fatti (non nel senso di drogati, ma anche). Se vuoi ragionare come si deve, basta guardarli/leggerli, prendere gli argomenti alla fonte.
    E’ un vantaggio enorme perché di solito siamo molto molto lontani sia dai fatti sia dalle fonti. Se invece, nonostante tutto questo ben di dio, preferiamo leggerci (e ripetere come i pappagalli) le idee di seconda mano, rimarremo sempre dei lettori di giornali… che ci vuoi fare?
    Insomma, per rimanere nel banale (ma evidentemente tanto banale non è), leggitelo Joyce.

  12. Ringrazio per questi interventi. Vorrei si tenesse presente che si tratta di una pagina di diario, nata dalla casuale coincidenza tra un viaggio programmato in Maghreb e una richiesta giornalistica.
    Non mi sembra il caso di proporre qui in lettura la mia tesi di laurea sull’estetica di Joyce, ma questo breve documento audio forse sì: da Radio3 Wikiradio del 20 marzo scorso. Buon ascolto.

    http://www.francobuffoni.com/audio_joyce_raccontato_da_fb.aspx

  13. Grazie Dinamo,
    invitare alla lettura è sempre un buon consiglio, al pari del’invito ad una “lettura più attenta”.

    La lascio con uno scritto che nega ogni suo riferimento alla banalità di Joyce, e un altro che, se ne accorgerà, non può certamente definire “amorevole” la considerazione che il poeta ha della chiesa.

    “Adagio e umilmente cercare di esprimere, tornando a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione dell’anima, l’immagine di bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è l’arte.”
    ..

    “Non esiste eresia o filosofia così aborrita dalla chiesa come l’essere umano”.

  14. “In the realm of google search even the illiterate is king”.

    James Joyce, A Portrait of the Blog’s Commentator as an Idiot Man, 1916

  15. Ares, pure a me mi sembra strano che Joyce fosse cattolico e pare pure praticante, però mica ti puoi incazzare con me per questo, lo era fattene una ragione, ma poi che te ne frega a te se era cattolico o no?
    PS: dove averei detto che era amorevole col cattolicesimo?

    L’Ulisse di Joyce è un libro che succede tutto dentro i vicoli della mente di tre persone più altri che fanno cammei di monologo interiore dentro Dublino… capisci che uno nella quotidianità di un giorno come un altro qualche banalità la pensa? la sente e la dice? specie se sei Molly Bloom e c’hai il cervellino piccino? Sono il flusso di coscienza, il monologo interiore e lo spezzatino della figura dell’autore (che scompare completamente) e dei vari narratori che sta la grandezza di Joyce. Le frasi da wikipedia che riporti sono bei pensieri che sono niente rispetto all’odissea nei corpi di Leopold e di Molly, nelle loro elucubrazioni spesso sciocche… Se era per le citazioni tue, Joyce era uno dei tanti scrittori d’inizio novecento. Invece è il più grande aedo epico della modernità.

    Ares, ciao. Non insistere, veramente, tieni torto.

    Un saluto anche a Ugolino.

  16. “Sometimes, the world of blogs is populeted by foolish people”

    James Joyce. The anthropophagous – 1940

  17. Dinamo in questo post non si parla solo dell’Ulisse, ma di una poetica, un indole e di una visione, che capisco essere troppo ampia e di difficile comprensione, anche per lei.

    Le mie frasi non sono riprese da wikipedia, le rilegga con più attenzione.

    Saluti

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