di Simona Forti
[Il libro di Simona Forti, I nuovi demoni, pubblicato da Feltrinelli nel 2012, riflette sul rapporto tra male e potere. Prendendo le distanze da quello che definisce il “paradigma Dostoevskij”, ossia l’interpretazione demonica e manichea del male, fondata sul nichilismo e la pulsione di morte, l’autrice propone un modello alternativo incentrato sull’idea di una “normalità del male” e sull’esistenza di una zona grigia in ognuno di noi. Nell’elaborazione di questo paradigma convergono le eredità filosofiche di autori come Hannah Arendt e Foucault, ma anche di scrittori come Primo Levi e Kundera. Presentiamo il capitolo conclusivo del libro, tagliato per esigenze redazionali, in cui il nesso male-potere si intreccia con la questione della biopolitica].
Poveri diavoli che “adorano” la vita: noi
1. A conclusione del nostro percorso, vorrei soffermarmi brevemente su un testo notissimo, I sommersi e i salvati, pubblicato da Primo Levi un anno prima della morte. Nelle pagine di questo libro è racchiusa una vera e propria riflessione sulla “normalità del male”, un messaggio forse più inquietante di quello affidato al racconto dell’esperienza di Auschwitz. Dopo quasi quarant’anni, l’autore sembra mettere a punto in maniera definitiva la risposta all’interrogativo Se questo è un uomo: ora, non solo quel prigioniero ridotto a rifiuto è un uomo, ma sono uomini anche coloro che così lo hanno ridotto. E sono uomini del tutto ordinari, normali, che hanno seguito calcoli e passioni. È questo il monito amaro e realistico di Levi. Sono parole dure, che, se non fossero state scritte da chi aveva vissuto sulla propria pelle quell’esperienza, avrebbero destato molto più sconcerto.
I sommersi e i salvati, potrebbe essere letto come il “controtesto” de I demoni e della leggenda del Grande Inquisitore: smentisce quella concezione manichea del potere che spalanca una distanza abissale tra la febbrile volontà di potenza, dei malvagi e del vecchio, e l’indistinta passività della massa. Certo, ci dice Primo Levi, il dualismo è un porto rassicurante. Sarebbe bello, commenta Levi, poter “ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti là i reprobi”; qui gli innocenti, oppressi e distrutti, là i perpetratori. Ma se il nostro desiderio di semplificazione è comprensibile e giustificabile, la semplificazione non lo è affatto. Bisogna avere il coraggio “di uno spirito meno morbido” di quello che si raffigura i demoni nelle stanze del potere: si deve tenere fisso lo sguardo sulla normalità e sulla banalità degli uomini presi sempre in una fitta rete di rapporti.
Primo Levi non esita così a fare del Lager – il luogo che più di ogni altro siamo portati a interpretare in maniera dualistica – il laboratorio delle sue analisi. È vero che la struttura del regime totalitario – che il Lager riproduce su scala ridotta e intensiva – rende quasi impossibile un controllo dal basso. Tuttavia, per quanto ambisca alla totalità, la realtà politica anche più dura, fuori dal campo di sterminio, non riesce mai a sradicare completamente la libertà: una qualche forma di retroazione permane. Solo nel campo essa sembra essere pressoché assente: quasi tutte le forme di rivolta sono state stroncate. Quale allora il criterio per giudicare i comportamenti diversi? Come e che cosa distinguere tra i gironi di quell’inferno? E soprattutto, perché farlo, se in fondo quella è una situazione eccezionale le cui caratteristiche non possono certo valere come riferimenti per la nostra quotidianità? La sfida dello scrittore è questa: tenere ferma l’unicità di quella situazione, ma al contempo continuare a gettare ponti con la realtà ordinaria, con le normali relazioni degli esseri umani in società, “con la nostra realtà”. Per cui se il suo messaggio non è mai ambiguo – ci sono le vittime e i persecutori, nessun giudizio allargato dovrà mai riunirli in un solo abbraccio; giustiziare le ss e gli altri funzionari è, e rimane, necessario – tuttavia questa non può essere l’ultima parola. Ed è proprio la tonalità di questa tensione che fa dell’ultimo confronto di Primo Levi con Auschwitz forse il più prezioso, ma anche il più “scandaloso”, trattato sulla “normalità del male”.
Per cogliere appieno la dinamica del nesso male e potere si deve scandagliare più a fondo quello spazio che separa gli ideatori delle persecuzioni dalle vittime rese assolutamente innocenti da una morte istantanea: “solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai”. Nel quadro che lo scrittore ritrae, prevalgono i colori meno foschi di “quella zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata […] di cui la classe ibrida dei funzionari-prigionieri costituisce l’ossatura, e insieme il lineamento più inquietante”.12 Al contrario di quanto ameremmo sperare, più è programmaticamente dura l’oppressione, più è demoniaca nel suo disegno, più è vasta la disponibilità alla collaborazione degli uomini normali.
Anche tra gli internati nell’universo concentrazionario, tra coloro in cui ogni volontà e ogni desiderio individuali dovrebbero essere spenti, serpeggia una conflittualità che non è soltanto la pura e semplice lotta per la sopravvivenza. C’è qualcosa di più rispetto al semplice tentativo di mantenersi in vita. All’interno di una baracca del campo, si presenta la stessa molteplicità di moventi che sempre ci spingono ad accettare e, accettandoli, a far crescere i potenti. Nel mondo deprivato dei prigionieri, ritroviamo, per esempio, “quel bisogno insopprimibile della civiltà” che è “la ricerca del prestigio”: il desiderio di chi si trova agli ultimi gradini della scala sociale di spogliarsi dell’umiliazione e del disprezzo, e di gettarli addosso ai nuovi arrivati, inventando, così, una nuova categoria di rango inferiore sulla quale poter scaricare il peso delle offese che premono dall’alto. Ecco perché, là dove ci aspetteremmo la solidarietà nella sventura, difficilmente la troviamo. Anzi, nel campo si riceveva lo Zugang – il nuovo arrivato – con tutta l’ostilità di cui si era caricati, perché gli si sentiva addosso l’odore di una vita ancora troppo integra e pertanto minacciosa nei confronti della nostra. Certo, là il nemico è il nazista, “ma gli alleati non c’erano”. A differenza di quanto vorrebbe una letteratura agiografica post-bellica, il campo non santifica la vittima, ma la degrada. La corrompe al punto da farla coincidere – per violenza psichica e fisica – con le immagini che ne hanno i guardiani.
La “zona grigia”, presente in ogni convivenza umana, dal regime totalitario a “un grande stabilimento industriale”, è l’ossatura su cui si regge il potere. Essa è segnata, innanzitutto, dall’immancabile ascesa degli arrampicatori, che la cerchia dei potenti è costretta ad accettare e a volte incoraggia. E più un dominio si fa totale, più attira con prepotenza “quel tipo umano che di potere è ghiotto”. Il “girone intermedio” nel Lager coincide in primo luogo con “la classe ibrida dei prigionieri-funzionari”, le cui figure sono numerose e mal definite, ma rappresentano un “campione medio, non selezionato, di umanità”. Certo, molti Kapo venivano scelti direttamente dai comandanti o dai loro delegati, erano delinquenti comuni ai quali la nuova e insperata carriera dava un’alternativa alla detenzione: prigionieri politici, sfiniti, e a volte anche ebrei che vedevano in quel ruolo l’unico modo per sfuggire alla “soluzione finale”. È insensato pretendere da loro la condotta “dei santi o dei filosofi stoici”, perché nella enorme maggioranza dei casi il comportamento era ferreamente obbligato: pochi giorni, poche settimane e si veniva ridotti ad animali.
Tuttavia, Primo Levi non si astiene dal giudicare e si pronuncia in merito a coloro, ai “troppi”, che hanno aspirato al potere “spontaneamente”. Pochi erano i sadici, ma tanti i frustrati, per i quali, fuori dal campo, così come fuori dalla società totalitaria, l’assenza di meriti avrebbe impedito ogni promozione sociale. E molti erano anche coloro che subivano il contagio degli oppressori. Costoro, precisa, si sono resi disponibili a collaborare per svariati motivi: errore di valutazione, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi vantaggio, viltà, e, sicuramente, in alcuni casi, per lucido calcolo inteso a eludere gli ordini. Tutti, però, sono stati parte attiva nell’ordire la trama di quella zona grigia che, forse più di ogni altro luogo, ci rivela uno dei segreti della “servitù volontaria”. Se questi uomini erano numerosi nel campo, sempre lo sono e sempre lo saranno, anche fuori da quel recinto. Non capiremo l’enorme potere del male se continueremo a tenere fisso lo sguardo soltanto sulle ss, esorcizzando il Lager con il facile sdegno del plus jamais ça! La forza del giudizio sembra tuttavia vacillare davanti ai Sonderkommandos, le Squadre Speciali. Sono loro, gli addetti ai forni, “i miserabili manovali della strage”, gli unici a poter legittimamente invocare, a differenza della grottesca difesa dei nazisti trascinati in tribunale, il ricorso al Befehlnotstand (“stato di costrizione conseguente a un ordine”). In realtà, nemmeno il rigido aut-aut, l’obbedienza immediata o la morte, a cui questi erano messi di fronte, interrompe la domanda ossessiva dello scrittore: “Perché hanno accettato quel compito? Perché non si sono ribellati? Perché non hanno preferito la morte?”. E ancora: “Perché, a differenza di coloro che si sono ribellati e di cui non sappiamo nulla, hanno preferito qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata?”.
Perché i componenti della “zona grigia”, per quanto diversi tra loro, hanno tutti un tratto in comune: la volontà di conservare il loro privilegio, che nel campo significava rimanere vivi il più a lungo possibile. Un privilegio, aggiunge subito lo scrittore, sopravvalutato e mal calcolato, che fruttava assai poco e in molti casi comportava soltanto una quantità di lavoro supplementare. E soprattutto un privilegio destinato, nella maggior parte dei casi, a finire molto presto, ma non prima di aver provocato una dose aggiuntiva di sofferenza negli altri. Ma erano avidi, eravamo avidi, di vita, di sempre più vita. Puntualmente, anche in questo caso, il giudizio di Primo Levi riesce a farsi largo, senza mai cedere alla tentazione di semplificare, procede per cerchi concentrici verso un nucleo di verità difficile da circoscrivere, ma tuttavia pronunciabile: da Eichmann ai Sonderkommandos – quella “fascia di mezze coscienze in cui si collocano gerarchi e gerarchetti di ogni tipo” – tutti collaborano a quel male che si nutre di sorrisi compiacenti, di firme inconsapevoli incoscienti (“perché tanto una firma non costa niente”, di alzate di spalle, “perché se non lo facessi io lo farebbe un altro peggiore di me”). Il male insomma “si alimenta da sé, per brama di servitù, per pochezza d’animo”, per le nostre ambiguità, per la nostra cieca riverenza dell’autorità. E se anche un regime si insedia a colpi di terrore, sicuramente non si consoliderebbe se non ci fosse l’ossequio. Sono questi i più efficaci “vettori della colpa del sistema” che ci si ostina a non voler vedere e a non voler sentire. Ciò che ha portato l’uomo a riconoscersi nel “musulmano” è in realtà una passione elementare, primaria, la più comune di tutte: l’ostinazione a continuare a vivere “ad ogni costo”, “anche per piccole dosi e per pochissimo tempo”. È questa in fondo la radice del potere, ciò che ci porta a desiderarne dosi sempre maggiori. Un’ostinazione che non sarebbe così pervicace, conclude Primo Levi, se non si accompagnasse al rifiuto della realtà e al sogno dell’onnipotenza, “dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.
A dispetto del luogo da cui ci parla, Levi si svincola, nella maniera più diretta, dall’idea di male come potenza del nulla, come “desiderio del male in quanto male”, “scoperta” da coloro che – come si è detto nella prima parte del libro – volevano superare i limiti del “male radicale” kantiano. Anche se I sommersi e i salvati si tiene volutamente lontano da pretese speculative, esso riporta con evidenza immediata quelle ragioni che abbiamo cercato in alcune pagine di Nietzsche, di Lévinas, di Arendt, di Foucault, dei filosofi del dissenso di Praga, in tutti quei luoghi che sembravano mettere in dubbio l’indiscussa equazione tra male e volontà di morte; insomma tra il male e quell’istanza rovinosa del soggetto, singolare o collettivo che sia, che lo porta a distruggere per amore della distruzione. Un’equazione, come si è visto, tenuta salda tanto da chi voleva contrapporle un’altra, e altrettanto potente, identità, quella tra bene e vita, quanto da chi l’impugnava quale arma conoscitiva per giungere a comprendere l’abisso.
Non è che non esistano demoni assoluti: “paradigma Dostoevskij” e “paradigma della normalità del male” non si escludono a vicenda. Spesso vi è bisogno della loro complementarità per spiegare un “evento del male”. Esistono i vari Stavrogin, così come esistono i Grandi Inquisitori. Ma se le loro azioni riescono a dar luogo a contesti politici di dominazione totale, non è perché la loro volontà di nulla risveglia e disinibisce l’assopita pulsione di distruzione dei molti. Assai più di frequente succede che quell’istanza di assolutizzazione della morte ha successo perché riesce perfettamente a integrarsi con l’opposta tendenza ad assolutizzare la vita.
Le sommesse conclusioni di Primo Levi, in fondo, sembrano confermare proprio questo: siamo così assetati di vita, e pertanto così “abbagliati dal potere”, da dimenticare la nostra verità essenziale: che la morte fa parte della vita. Per un po’ di istanti in più, per accrescere anche di un solo momento il sentimento della nostra potenza e della nostra durata, per farci accettare e “salvare” dalla realtà in cui siamo immersi, riusciamo a scendere a patti quasi con tutto. Il segreto del potere, allora, è spiegabile, prosaicamente, guardando a quel desiderio la cui radice tutti ci accomuna e dalla quale difficilmente potremo svincolarci: il desiderio di massimizzare la vita, quella vita che nell’età moderna è diventata il valore supremo.
2. Per la verità, la leggenda del Grande Inquisitore ci aveva già raccontato di esseri umani che non abusano affatto della loro libertà abissale. Anzi, cedono il dono più prezioso che hanno, la facoltà di scelta del bene e del male, per dedicarsi alla loro mesta felicità, fatta di pane e di altre fanciullesche pretese, e soprattutto per sgravarsi dell’angoscia di cui tale dono avvelenato li carica. Certo, la scena raccontata da Ivan, ne I fratelli Karamazov, è falsata dalla sua semplificazione topologica dualistica. Inoltre, la moltitudine non è mai omogenea e si compone di una varietà cui Dostoevskij non dà voce e che Primo Levi, invece, nella “zona grigia”, ritrae. Tuttavia il “patto bio-politico” – obbedienza e sottomissione in cambio di tutela e benessere – su cui il potere pastorale si regge, è chiaramente messo a fuoco da entrambi gli scrittori, nella sua logica elementare.
Ma come funziona oggi quel patto? Una cosa è sicura: tramontata l’assolutizzazione della vita come valore di un’entità collettiva – etnia, popolo, razza, il suo posto è stato preso dall’imperativo di massimizzazione della vita del singolo, nella sua autoaffermazione sociale e soprattutto nell’ottimizzazione della qualità biologica del suo corpo.In nome di quali promesse e aspettative, allora, si producono quella docilità e quell’assenso che sono tra i più efficaci vettori del male politico? Il nostro problema non è più quello che affaticava Michel Foucault verso la seconda metà degli anni Settanta, vale a dire cercare di spiegare come il biopotere, quel potere che in età moderna prende in carico la vita biologica della popolazione e il suo potenziamento, si è potuto facilmente tradurre in un dominio totale di morte. Come egli stesso ci segnalava, già all’inizio degli anni Ottanta, se i regimi tra le due guerre mondiali hanno promosso la salute della vita del corpo collettivo, diversa è la biopolitica nelle società liberali e democratiche dell’Occidente. Ci troviamo infatti immersi in funzionamenti sociali che esercitano il controllo sulle nostre vite, indirizzano i nostri comportamenti e stili di condotta, non attraverso la limitazione o la preclusione di movimenti, non imponendo divieti e discipline. È vero, come fanno notare molti post-foucaultiani, che il potere pastorale si perpetua. Ma non esistono più luoghi di irradiazione che siano chiaramente individuabili. Assistiamo piuttosto alla frammentazione, alla moltiplicazione di poteri che reclamano il diritto di normare le nostre vite. Senza imporre imperativi o norme trascendenti, gestiscono e promuovono la tutela della vita assecondando lo svolgimento presunto “normale” e “fisiologico” dei comportamenti umani e incentivando i processi che dovrebbero condurre verso il benessere.
Nascita, morte, malattia, rimesse al potere e al sapere delle scienze della vita, ci appaiono sempre più come qualcosa di controllabile. In fondo, hanno ragione i critici delle biopolitiche neo-liberali, quando affermano che un immaginario impregnato dall’idea di ottimizzazione della vita è funzionale al rinforzo reciproco tra nuove scienze mediche e biotecnologiche, da una parte, e imperativi di accumulazione del capitale, dall’altra. È vero che la logica del “capitale umano” – la quale esige che i soggetti si pensino e agiscano da imprenditori di se stessi e della propria corporeità – assume la vita biologica delle persone come qualcosa su cui investire, un elemento con cui moltiplicare il profitto.Ma è sufficiente questo sguardo per cogliere la radice profonda, e forse ancora metafisica, di un immaginario saturo di positività che eleva a valore supremo la tenuta, la durata, la fitness? Potrebbe davvero bastare togliere di mezzo l’imperativo del profitto, per restituire ai singoli la loro gioiosa e libera potenza vitale? Molte delle diagnosi sulle nuove forme di interazione tra vita e potere, dagli approcci biopolitici “post-foucaultiani” agli elogi della potenza deleuziani, volte a sondare il “campo di immanenza” dei rapporti di forza, per quanto utili e innovative, tralasciano la questione dell’ambito, per così dire, delle “mediazioni immateriali”. Quasi che riferirsi al contesto simbolico significasse appellarsi a uno spirito al di là della realtà sensibile. Un ordine simbolico è un insieme, in un determinato tempo e in un determinato spazio, di immagini, di significati accettati e trasmessi, di percezioni introiettate e proiettate su altri. È un a priori storico e concreto fatto di stratificazioni di senso, individuali e collettive, che agisce su tutti i soggetti coinvolti, senza che questi ne siano sempre consapevoli, e li porta a condividere il suo sistema di presupposti. È un insieme di norme che, pur non costringendo nessuno a rispettarlo, sollecita a riprodurne assunti e contenuti. E se la normatività, oggi, non si esprime più attraverso il divieto, in una restrizione del campo delle possibilità, essa continua a imporsi con forza, declinando in molteplici imperativi il suo assunto di partenza, secondo cui la vita è intrinsecamente positiva: tu devi vivere, devi assolutamente vivere al meglio, potenziando e attualizzando al massimo il possibile che ti è dato. Sono queste le ingiunzioni implicite alle quali rispondiamo ponendo al centro dei nostri valori la fede e la speranza in una vita illimitata, in cui nulla rimanga inespresso.
Certo, l’interdipendenza tra vita e potere è diventata oggi vorticosa e capillare. Da una parte, nelle società iper-moderne, potenzialmente tutti entriamo in contatto con la presa esercitata dal potere; dall’altra è tutta la nostra vita, anche quella corporea e biologica, ad acquisire rilevanza politica. Non si tratta solo di conservatio vitae, ma di un’irresistibile sollecitazione al comportamento conforme in nome di possibilità di potenziamento e di durata. Le democrazie moderne occidentali ci hanno fornito numerose chances di autorealizzazione: non si tratta, allora, di contestare i risultati della “civiltà”, della cultura e delle scienze, e nemmeno di mettere in questione tutte le politiche volte alla cura e alla tutela; ma piuttosto di interrogare gli effetti collaterali che l’illusione di immortalità produce nella relazione tra soggettività e potere. Perché più una vita accresce le opportunità di consolidare la propria affermazione e la propria durata, più si presterà a essere determinata da altri.
Interiorizziamo imperativi che ci dettano il “dover essere”, ci adattiamo senza scarti alle norme, tanto che, come lamentano i critici della cultura, le nostre esistenze sembrano ormai programmate per diventare prede delle futili seduzioni del consumo e della società dello spettacolo. Ma continuare a incolpare il potere, anonimo e ingannevole, che ci lusinga per meglio opprimerci o che ci invoglia per meglio sfruttarci, vuol dire ricorrere ancora una volta all’alibi offerto dalla visione dualistica. In altri termini, nessun potere oggi ci minaccia o ci ricatta con la violenza, e la magia dei manipolatori occulti è squadernata sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di guardare. Se la nuova normatività dell’ottimizzazione della vita si impone, e con essa nuove forme di acquiescenza e di indifferenza, è perché noi non solo la accettiamo, ma cerchiamo a ogni costo di metterla in atto.
In un certo senso paradossale, il presente sembrerebbe dare di nuovo ragione a Kant, e alla sua caratterizzazione del “male radicale” come eccesso di autoaffermazione. Se non fosse che, oggi, la ragione non ha bisogno di invertire il movente delle massime, né deve mentire per camuffare la trasgressione. Il “Tu devi” contemporaneo comanda esattamente quell’autoaffermazione che la “legge morale” doveva impedire. Il nuovo imperativo occidentale ingiunge infatti la massimizzazione della propria vita, e innanzitutto di quella biologica. Quasi che l’imperativo categorico recitasse: “Fa’ del miglioramento della tua vita la legge universale e assoluta della tua condotta”.
Così, assorbiti dall’imperatività di un progetto infinito – massimizzare la vita non può che essere un impegno interminabile – non abbiamo né il tempo né lo spazio per distanziarci da noi stessi: per percepire e giudicare la realtà, spesso dolorosa, che “è là fuori”.
3. Mi piace pensare alle ultime lezioni di Michel Foucault prima della morte come a un invito a immaginare l’interruzione della circolarità tra desiderio di vita, normatività, potere e male. Come se nel corso tenuto al Collège de France, nei mesi di febbraio e marzo del 1984, intitolato Il coraggio della verità, anch’esso dedicato al tema della parresia, Foucault proponesse, a fronte di una nostra disponibilità crescente a rientrare nelle maglie del potere, un radicale esercizio di sottrazione e di disidentificazione.
Al pari di Socrate – del Socrate che più si allontana da Platone – degli stoici e degli scettici, anche i cinici – oggetto appunto del corso – fanno della parresia una forma di resistenza alla normatività imposta dal potere. La filosofia cinica serve a Foucault per parlare della scelta di uno specifico ethos come modalità di distanziamento dalle identità imposte dal contesto. Il cinico fa del proprio bios una alethurgia: una manifestazione diretta della verità, non una verità astratta o trascendente, non una verità deducibile o predicabile, ma una verità come testimonianza di sé. Il bios kunikos – la vita “da cane” – è infatti una provocazione costante del senso comune. In nome di una natura cui ridare voce, il cinico mette perennemente in discussione il nomos. La “vita-nella-verità” che egli conduce, miserabile e nomade, si pone come esempio di libertà proprio perché impegnata in un interminabile lavoro di virtualizzazione di ogni identificazione.La parresia dei cinici è dunque una sorta di “socratismo radicalizzato”, per cui non basta più il coraggio di dire il vero in faccia ai potenti, ma bisogna, con la propria esistenza, con il proprio corpo, sfidare la totalità delle convenzioni e dei riconoscimenti del potere. A tale scelta, il cinico dovrà attenersi fino all’estremo, fino al paradosso, fino all’indifferenza nei confronti della sfortuna, della sorte avversa, della povertà, del misconoscimento. È una vita “scandalosa”, la sua. Perché egli non si limita, come invece lo stoico che esercita la praemeditatio malorum, a immaginare i possibili mali. Vive dentro ciò che i più reputano male: le privazioni, l’esilio, la povertà. La condizione della sua libertà consiste, infatti, nel non temere di perdere nulla, né beni, né riconoscimenti, né segni del potere, né ricchezza.
Non c’è dubbio che il messaggio trasmesso da Foucault nelle sue ultime lezioni sia innanzitutto una provocazione. “Riscoprire” il cinismo non vuol dire semplicemente riabilitare una figura particolare, un po’ dimenticata, della filosofia antica, ma immaginare una possibile via alternativa del rapporto tra soggettività, verità, etica e potere.In questo senso, il richiamo all’animalità da parte del cinico è inteso da Foucault come la scelta di un modo di vita che solo un soggetto può compiere. Lungi dall’indicare una vita corporea, impersonale e selvaggia, al di là del bene e del male, il modo di vita animale perseguito ad esempio da Diogene è la decisione messa in moto da una soggettività etica, che traduce cioè la vita di qualcuno in un atteggiamento polemico, in un esercizio permanente del giudizio che discrimina. L’assunzione di un ethos critico è lo strumento in grado di interrompere la ripetitività con cui il potere si riproduce. Come se Foucault, dopo essersi interrogato per anni sul rapporto tra soggetto e potere, avesse concluso che non è possibile forzarlo uscendo dal processo di individuazione di una vita per abbandonarsi al movimento incessante dell’innocenza del divenire. La sfida foucaultiana, racchiusa nell’interesse per la “cura di sé” e per la parresia, sta allora nell’evocare una possibilità di diventare soggetti “altrimenti”, di pensare a modi di soggettivazione che riducano al minimo gli spazi di dipendenza e di sopraffazione. Per il bios kunikos, infatti, male è tutto ciò che intrappola nelle identificazioni del nomos e non consente la critica. “Là dove c’è obbedienza non ci può essere parresia”, ma dove non c’è parresia, la dominazione può espandersi senza incontrare resistenza. Il mondo, insomma, non potrà mai cambiare – ed è forse questa la “verità rivoluzionaria” del cinico che sta a cuore a Michel Foucault –, non potrà mai diventare diverso da come è, se l’individuo non muta il suo modo di diventare e rimanere soggetto.
Il cinico, come del resto il fruttivendolo di Praga che un certo giorno smette di esporre il cartello in vetrina, è lì a ricordarci che un potere esercitato su un soggetto è sempre anche un potere accettato da quel soggetto. Portare a evidenza l’ethos cinico antico, dunque, non è né un mero esercizio di storia antiquaria, né la riproposizione di un modello che si presume abbia funzionato in passato. È l’indicazione di un controfattuale che rende pensabile la rottura di un circolo vizioso: la circolarità tra il bisogno che il soggetto ha del potere e il bisogno che il potere ha di quel bisogno del soggetto. Il potere, infatti, o meglio, i diversi poteri giocano con il nostro desiderio di vita; abusano della richiesta che noi a essi facciamo di venire, per così dire, “salvati”, di essere risarciti, per la nostra obbedienza, con quei segni e quei nomi che ci fanno sentire sempre più vivi.
4. Quale effetto collettivo potrebbe mettersi in moto se si diffondesse il dubbio che non cerchiamo “la salvezza”. Che non ci interessa l’illusoria promessa, fatta balenare da grandi o piccoli poteri, di un rafforzamento e di un prolungamento della nostra “durata”? Che siamo disposti a sottrarci alla tutela, anche a rischio della possibilità di permanere comodamente in noi stessi? Se, insomma, per rispondere alla provocazione dei cinici, provassimo anche noi, come esperimento dell’immaginazione, a rievocare la forza inattuale della saggezza antica?
Come prima mossa, certo, dovremmo scommettere sul fatto che il giudizio di realtà è ancora in mano nostra. In fondo è la scommessa su cui hanno puntato e continuano a puntare tutti coloro che cercano di opporsi al male dell’eccesso di potere. Siamo anche noi costretti a credere, senza troppe cautele epistemiche, di riuscire a distinguere tra ciò che è reale e ciò che ci viene falsamente raccontato. Non tanto per accedere a una conoscenza vera di noi stessi e del mondo, ma per riuscire a fare del gioco parresiaco, del rispondere in prima persona e con il nostro corpo, con la nostra forma di vita etica, della verità che enunciamo. Sicuramente non possiamo augurare a noi stessi l’esilio, le sventure politiche, né possiamo proporci di vivere senza casa, senza famiglia, masturbandoci nella pubblica piazza come faceva Diogene.
Fermiamoci, tuttavia, per un attimo, sull’aneddoto più celebre che si tramanda della vita dei cinici. Alessandro il Macedone è alla ricerca dell’ormai famosissimo Diogene, per poterlo conoscere di persona. Trovatolo sulla spiaggia, nudo a prendere il sole, si narra che gli abbia rivolto la fatidica domanda dei potenti: “Che cosa posso fare per te? Quali sono i tuoi desideri? Sono disposto a fare qualunque cosa!”. Pensiamo a quale stupore deve aver provocato nel re macedone la strabiliante risposta di Diogene: “Voglio soltanto che tu ti sposti, perché mi stai coprendo il sole!”. Riusciamo a immaginare l’assoluto senso di libertà che anche noi avremmo provato al suo posto, per aver agito, almeno una volta, nella consapevolezza che la nostra vita e la nostra morte appartengono l’una all’altra?
[Immagine: Crowdfunding, foto senza autore (gm)].
Alla sua uscita, per il suo tema, acquistai il libro di corsa e la fretta fu un’ottima consigliera: è intelligente, ampio, riepilogativo e speculativo assieme, redatto in un linguaggio chiaro, preciso, coinvolgente al punto che mi è venuta voglia di leggere e conoscere le altre pubblicazioni della Forti.
Saluti,
Antonio Coda
Se si volge lo sguardo dagli eventi più atroci della storia mondiale, come lo sterminio degli ebrei e il rogo atomico di Hiroshima e Nagasaki, ai fatti della cronaca nera italiana, non mancano davvero le evidenze che sembrano attestare non solo la potenza, ma anche (e questo è forse l’aspetto più inquietante) la banalità del male. Perciò, seguendo le orme di quei dotti dell’età moderna, come Pierre Bayle, insigne pioniere della critica biblica, o di quei pensatori, come Voltaire nel periodo illuministico, Stuart Mill in quello positivistico e, in età novecentesca, il nostro Piero Martinetti, i quali, di fronte allo spettacolo angoscioso e ‘perturbante’ del male fisico e morale, hanno manifestato una forte propensione verso la dottrina del manicheismo, si sarebbe tentati, per dare al male un fondamento razionale e giustificarne l’esistenza sottraendolo alla sfera terribile dell’assurdo, di concepirlo come una realtà metafisica, ossia un’entità autonoma, e non, secondo quanto afferma la dottrina cristiana, come ‘defectus boni’, ossia assenza di bene: concezione, questa, che sembra rivelare, da parte della Chiesa e del cristianesimo, una sorta di riluttanza e quasi di paura nel comprendere il significato e la portata del male.
D’altra parte, quale problema si è dimostrato maggiormente irresolubile di quello che si riassume nella cruciale domanda: “Si est Deus, unde malum?” Domanda a cui un Padre della Chiesa come sant’Agostino, nel vano tentativo di conciliare l’attributo dell’infinita bontà di Dio con l’irrefutabile potenza del Male, finì col dare risposta ricorrendo ad una dottrina, la doppia predestinazione, non dissìmile dal manicheismo, corrente religiosa dualistica e razionalistica a cui il grande teologo cristiano aveva aderito nella sua giovinezza.
In realtà, ciò che colpisce è che tante persone dimostrino verso il male un tale grado di assuefazione, per non dire d’insensibilità, da non riuscire più a percepirlo nel suo sorgere (come segnalava con preoccupazione Primo Levi nel finale del saggio “I sommersi e i salvati”, richiamato nel suo saggio dalla Forti). Occorre, invece, abituarsi a guardare l’“uovo del serpente” che lascia trasparire dal suo guscio opaco la bestia terribile che nascerà (metafora, questa, usata da Ingmar Bergman come titolo del suo film sul nazismo).
Del resto, è difficile negare che la circostanza più sconcertante, quella da cui dipende la banalizzazione del male, è che le persone sembrano non avere più il senso del Bene e del Male, sino al punto di non percepire neanche la propria colpevolezza. In tal modo, grazie a questo niccianesimo d’accatto e al suo ‘maquillage’ in chiave ludico-narcisistica approntato dall’accidiosa cultura del postmodernismo, il Male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone. Quel Male la cui esistenza e la cui estensione sembrano procedere di pari passo con uno sviluppo tecnologico e scientifico, di cui sfuggono i fini, e con la congiunta regressione all’età adolescenziale, che tanti adulti coltìvano e che il sistema simbolico-pubblicitario in cui viviamo contribuisce potentemente ad alimentare.
Tuttavia, il pensiero dialettico, che sa cogliere il punto magico dell’unità dei contrari e, proprio per questo, ha una sua profonda forza etica, ci ripropone, sbloccando così il processo del reale e ponendo in tensione i suoi poli, la domanda con la quale gli uomini si sono sempre dovuti confrontare e dovranno anche in futuro continuare a confrontarsi: vi è un bene anche nel male e vi è un male anche nel bene?
Bisogna, allora, riconoscere che vi è un aspetto del Male, che non è stato mai abbastanza approfondito e sul quale converrebbe iniziare una riflessione matura: esso è quello espresso da Mefistofele nel “Faust” di Goethe (1808), quando questo dèmone si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». E, dal canto suo, Hegel, il più grande dialettico dell’età moderna, il maestro di Marx e di Lenin, non ha forse affermato che «la storia avanza dal lato cattivo» e che «la schiavitù è la culla della libertà»?
Se non si vuole, pertanto, accettare, a causa della sua radicalità e durezza, l’indicazione di Bertolt Brecht, secondo la quale «bontà oggi significa distruggere coloro che impediscono la bontà», sarà almeno lecito considerare con la dovuta serietà l’analisi e la proposta, in apparenza meno dure ma altrettanto radicali, di Lars von Trier, il regista di “Dogville”, che alla poetica dell’estraneazione, al teatro didattico e al pensiero marxista di Brecht si richiama esplicitamente: «Bene e male sono dentro di noi e sono le circostanze a fare uscire allo scoperto o l’uno o l’altro. Credo allora che dobbiamo lavorare sulle circostanze.»
Grazie per avere pubblicato questo pezzo. E’ molto bello, e merita una riflessione attenta, soprattutto per il tentativo di superare le semplificazioni della visione demoniaca del male, e anche alcune semplificazioni del pensiero foucaultiano sul potere.
Qualche osservazione, però, sui limiti di questo pensiero.
La prima esperienza della libertà, si sa e Hegel ce l’ha insegnato bene, è il non avere paura di morire. Detto in modo meno altisonante: essere disposti a sacrificare qualcosa del proprio benessere, dei beni egoisticamente perseguiti, pur di rimanere fedeli a un’idea di sé. Ora, come è possibile una cosa del genere? Io credo che sia possibile perché il soggetto ha una integrità morale, cioè un’idea di ciò che vale per sé, ciò senza cui la sua vita è condannabile. Su questo punto si tocca, mi sembra, il limite del pensiero di Foucault e della “biopolitica” (per quel poco che ne ho capito: confesso che si tratta di impressioni dilettantesche). Questo pensiero infatti, e si vede anche nel testo di Simona Forti, si gioca tutto su due livelli contrapposti: la vita e il potere. O la vita riesce a sottrarsi al potere mantenendo la sua spontaneità, o viene catturata dal potere proprio perché questo ne oggettiva le istanze. La ricerca dell’affermazione delle vita rafforza il potere che si esercita sulla vita stessa. Analisi accettabile, come diagnosi di una patologia sociale. Ma tutta la società rischia di essere letta in questi termini, e senza via di scampo, se non si vede che la “vita in sé”, in quanto tale, non può avere un ruolo normativo (anche il semplice, apparentemente innocente “abbandonarsi alla vita” è troppo debole, troppo effimero e soprattutto troppo esposto anch’esso all’assoggettamento al potere), e che la possibile resistenza della vita al potere si alimenta di in un ideale morale del sé, che deve certo avere un radicamento nella spontaneità della vita, per non essere a sua volta oppressivo. Questa dimensione manca totalmente, perché Foucault ha liquidato il soggetto; ha così buttato via non solo il soggetto che impone il suo dominio sulla vita, ma anche quello che cerca di emanciparsi dal dominio.
Sottoscrivo tutto quanto detto da Mauro Piras. Davvero, non cambierei una parola. Grazie
Il Foucault di Piras è una sorta di Agamben (quello ‘politico’ prima maniera, 1995) volto in caricatura. E’ un vero peccato che Foucault continui a essere non letto. Ridurlo – per interposta commentatori, poi – al ‘liquidatore’ del soggetto rende quasi ragione alle pur stucchevoli canonizzazioni.
Caro Piras,
se mi rammento bene la “Fenomenologia dello Spirito”, la prima esperienza della libertà non è “non aver paura di morire” e basta, sennò esperirebbe la libertà anche chi va a duecento all’ora sulla Bologna-Firenze: è non aver paura di morire mentre si è impegnati nel conflitto a morte con un altro uomo.
Chi cede per aver salva la vita diventa il servo, chi non cede il signore.
Rischiare la propria (sottolineo: *propria*) vita intima e cara in un conflitto a morte non è facile, specie se il nemico è molto più forte di te: è anzi una delle cose più difficili del mondo.
Gli organizzatori dello sterminio degli ebrei, che lo sapevano bene, hanno accuratamente studiato una procedura che invitava ciascun ebreo a collaborare con l’assassinio degli altri, nella speranza di salvare la sua vita, magari anche solo per qualche giorno o qualche ora. Come tutte le cose che organizzano i tedeschi, anche questa ha funzionato benissimo: con gradi diversi di responsabilità (maggiore per le direzioni ebraiche, minore per i singoli) la grande maggioranza degli ebrei colpiti dai provvedimenti nazisti ha collaborato al proprio sterminio.
Questo non significa che “il potere” sia di per sé malvagio. Significa che bisogna imparare a difendersi, e a organizzare la propria difesa, individuale e comune, perché la possibilità del conflitto a morte è la condizione permanente della politica, e non svanisce *mai*, in nessuna circostanza storica passata, presente, futura.
Ringrazio tutti per aver commentato il mio pezzo. Quanto a Michel Foucault, ho cercato di sottrarlo tanto al vitalismo di quarta mano quanto alla critica — davvero un po’ troppo facile — di aver liquidato ogni istanza etica nel soggetto.
Buffagni si é dimenticato della colpevole indifferenza delle masse che non può permettersi di puntare il dito sui presunti colpevoli escludendosi.