di Lorenzo Marchese
[Questo saggio è uscito sul numero 18 della rivista «Dialoghi Internazionali»]
Oltre ad essere una frase paradossale, magari utile per rompere il ghiaccio, questo titolo vorrebbe in effetti porsi come assunto di partenza per una specifica tipologia di rappresentazione letteraria della città di Milano in certa narrativa contemporanea. O, per l’appunto, di non-rappresentazione, in quanto non corrispondente tout court a canoni descrittivi già noti o a strategie romanzesche “classiche” di rappresentazione dell’ambiente urbano[1]. Ma cominciamo con ordine contestualizzando la frase, che va ricondotta a un racconto di Tommaso Landolfi:
Milano appariva buia a causa dell’oscuramento (bellico); io lo ero per nessun particolare motivo, perché lo sono sempre stato e forse non potrei esserlo; non c’è bisogno di guerre, per oscurare l’anima mia. Arrivando col treno mi dicevo infatti: «Mi-la-no»; che bella e scorrevole parola. Ma, ad essa, corrisponderà davvero qualcosa? Si darà davvero, la gloriosa città di Milano, o non sarà invece un fumo? E che significa questa massiccia stazione, la quale parrebbe alludere a traffici, a concreti propositi, a vita accolta anzi convinta? E se mai, che ci fo io qui?[2]
Sin dall’incipit del racconto, si vede come la generica sensazione di estraneità provata dal personaggio autobiografico accentui il dubbio circa l’esistenza della città di Milano; nella narrazione, dopo una perdita al gioco in casa di amici ignoti e una notte anonima in un alberghetto vicino alla stazione, l’irrilevanza ontologica del soggetto acquista via via sempre più validità e si riflette sulla città che lo ospita, fino alla chiusa paradossale che ripete il titolo.
Se in Landolfi, tuttavia, la patente di inesistenza della città viene limitata entro un discorso ironico, iper-colto e pronto a confutare il suo stesso farsi, non così è successo, mi pare, in alcuni scrittori italiani successivi, i quali, pur avendo posto Milano a scenario delle proprie storie, hanno cercato di rappresentare la metropoli lombarda come non-luogo[3], crocevia vuoto e privo di una precisa e riconoscibile identità, in cui si muovono personaggi incerti su se stessi e su come interagire.
Le modalità delle narrazioni che prenderò in esame, tutte comunque comprese in un periodo molto recente, sono le più diversificate, ma hanno un punto in comune: rappresentano una città che il lettore riconosce come Milano non in virtù dei suoi luoghi caratteristici (il Duomo, i Navigli, Cordusio e via dicendo, menzionati come potrebbe esserlo un oggetto o un piccione) o pregni di storia civile e politica[4], né per una qualche rappresentazione espressiva di comportamenti o classi[5]. In questi racconti, Milano si distingue quasi esclusivamente per il fatto di essere un luogo generico e assolutamente non-definibile al di là di una ristretta gamma di percezioni “dell’assenza” (alienazione, aberrazione dei rapporti, incomunicabilità, progressivo annullamento conoscitivo e linguistico).
Già in una simile definizione provvisoria risalta una differenza rispetto alla frase che ci siamo dati come punto di partenza. Se per Landolfi la constatazione dell’inesistenza di Milano (e la sua assunzione a non-luogo) era una conclusione paradossale e perciò ironica, condotta con il suo usuale scavo linguistico e cerebrale non esente punte di compiacimento divertito, per i narratori presi in esame si ha un’attitudine opposta. Non è loro intenzione divertire il lettore con paradossi, iperboli o rovesciamenti; l’espressionismo linguistico o il funambolismo verbale, magari con contaminazioni dal dialetto, anglismi o tecnicismi, sono evitati con accuratezza; l’ironia, in quanto dissimulazione e insieme “alleggerimento” del dettato, è bandita in nome di un’esigenza di credibilità.
Una simile autolimitazione, è chiaro, sfronda di molto la gamma espressiva, ma soprattutto indica che il primo obiettivo di chi racconta è descrivere con esattezza e sincerità. La mancanza di sguardi divertiti o caricaturali vuole in primo luogo indicare al lettore che quanto sta leggendo è una testimonianza sincera su Milano; se chi legge potrebbe non prendere sul serio il racconto stilizzato di una città che non si contraddistingue se non per assenze, sarà il tono del discorso a far fede ed esprimere con coerenza mimetica il radicale negativo di una città disgregata, polverizzata. Si vuole fare sul serio, lontani da qualsivoglia ironia o citazionismo, tanto cari a quella tradizione romanzesca che, negli ultimi trent’anni, è stata definita a torto o a ragione “postmoderna”.
Anche per questo, i testi che saranno considerati si collocano in posizione eccentrica rispetto alla tradizione del romanzo, che pure presenterebbe esempi illustri per la rappresentazione della città milanese – basti pensare al ruolo capitale dei Promessi sposi. La lateralità di strutture e formule narrative si combina dunque a una comune serietà di fondo, monocroma e alienante a dispetto delle (ovvie) singolarità, e a un desiderio autoriale di, per così dire, “uscire dalla letteratura”, da un circolo ludico e autoreferenziale. Se tale programma rappresentativo può risultare, agli occhi del lettore, brutalmente semplificativo o stilizzato, si deve sempre tenere a mente una cosa: per questi narratori raccontare che “Milano non esiste” assume una portata civile e paradossalmente etica, proprio grazie alla coerenza affabulatoria e a un modo di narrare che brucia dettagli e contingenze per mettere a fuoco alcune costanti (negative, prevalentemente) di Milano e dei suoi abitanti[6]. Una linea guida può essere tratta da una frase Michel Houellebecq, che di non-luoghi e non-città ha diffusamente parlato in Estensione del dominio della lotta e negli scritti teorici[7]:
La verità è scandalosa. Ma, senza di essa, non c’è nulla che valga. Una visione onesta e ingenua del mondo è già un capolavoro. Rispetto a questa esigenza, l’originalità conta poco. Non preoccupatevene. A ogni modo, un’originalità si sprigionerà per forza dalla somma dei vostri difetti. Per quanto vi riguarda, dite semplicemente la verità; dite semplicemente la verità, né più né meno.[8]
Cerchi concentrici, cifre, nemici: breve sguardo retrospettivo
Se impostare un discorso letterario su dei luoghi comuni è solitamente un’operazione volgare e discutibile, come comportarsi nel caso in cui si stia tentando proprio di descrivere un “luogo comune” stricto sensu, cioè un ambiente deprivato, come già rilevava Gadda parlando di Milano e dei suoi abitanti, “delle circostanze morali, i problemi, le perplessità, le complicazioni d’una fenomenologia che sentiamo non essere la nostra”[9]? Molti scrittori significativi nella recente storia letteraria italiana hanno impostato il discorso proprio a partire da questo pregiudizio, forti dei cambiamenti improvvisi dati dal boom economico degli anni ’50, che proprio a Milano ha trovato la sua applicazione più rigorosa e quindi più spietata. A partire da Gadda, si sono succedute narrazioni che vedevano al proprio centro personaggi esclusivamente votati all’”assiduità pertinace alle incombenze del giorno, la legittima brama di guadagno, del benessere”; magari autoctoni o, sempre più spesso dopo le trasformazioni degli anni ’50, immigrati dalle regioni del Sud in cerca di lavoro, o di un’esistenza più ricca di stimoli e opportunità.
Gli esempi sono stati molti, anche senza limitarsi alla letteratura: basti pensare all’influenza del cinema e alla corrente del Neorealismo postbellico, in cui si colloca, per restare alla rappresentazione di una Milano non idilliaca, dura e inospitale, Rocco e i suoi fratelli. Negli anni ’50 e ’60, molte delle opere letterarie di maggior rilievo furono contraddistinte da una problematicità di fondo nel “vivere la città” e i suoi ritmi lavorativi, economici, affettivi: è difficile dimenticare quel capolavoro risentito che è La vita agra di Luciano Bianciardi, in cui l’integrazione dell’immigrato era addirittura un danno collaterale, una conseguenza non voluta di un iniziale impeto anarchico e antimoderno di distruzione. Il protagonista del libro, non altro che una proiezione autobiografica dell’autore, vuole vendicare un disastro minerario (con riferimento all’incidente alle miniere di Ribolla del 1954) con un attentato dinamitardo in un palazzo del Potere, ma si ritrova invischiato in una spirale di “lavoro culturale” come traduttore dall’inglese, solo e senza appoggi dopo aver abbandonato la famiglia; sicché, incastrato dalla sua stessa occupazione, inizialmente temporanea, si ritrova a vivere stabilmente a Milano una vita “agra” e soffocante, senza possibile piacere o integrazione.
Oltre a situazioni tanto estreme, ci sono anche personaggi più o meno autobiografici che, nelle opere di queli anni, si spostano a Milano per lavoro o per desiderio di cambiamento, ritrovandosi però a provare la stessa alienante “asprezza” di Bianciardi. In La linea gotica di Ottieri, libro scopertamente autobiografico, l’autore imposta la sua narrazione proprio sulla dicotomia fra una Roma tranquilla, letteraria ed estranea alle problematiche dell’industria e una Milano esatta, organizzata e perfettamente funzionale al lavoro, quasi una fabbrica sotto le spoglie di una città. Come si dice nell’incipit: “Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere”. Ma giungere a lavorare nella città delle proprie ambizioni filosofiche non appaga Ottieri, anzi lo spinge ancora più in profondità nelle separazioni -fisiche e psicologiche- che il mondo moderno crea e incoraggia senza freno:
Sto dentro a Milano, come dentro all’incarnazione di cemento della struttura di classe. Vado e vengo dal centro ricco, il castello feudale, avvicinandomi ad esso, allontanandomi da esso, che degrada verso la periferia, con il discendere graduale delle luci, dei guadagni, con la zona morta della piccola borghesia, col salto finale nel mondo operaio.[…]
E ancora:
Il capitalismo ha leggi di accumulazione, che non mescolano, dividono. Tende a concentrare i ricchi e i poveri (i belli e i brutti, anche); soffoca Milano col suo stesso rigoglio, Milano città santa, città limite, estrema, senza equilibrio e senza pausa. Senza alcuna antitesi esplicita alla tesi del denaro.[…]
Intorno al nocciolo centrale di Milano, con cerchi concentrici, si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasce di redditi e di anime. Ecco la fascia intermedia, la mia, fra centro e periferia, larghissima zona neutra dell’artigianato, piccolo commercio, piccola borghesia, piccola vecchia industria, abitazioni di piccoli impiegati. Tutto piccolo.[10]
La visione di Ottieri è geometrica, nel senso più spietato in cui si può intendere la parola. La città diviene un labirinto fatto di cerchi che non si toccano, abitato da classi sociali che vivono di fatto in ambienti isolati e culture distinte. Tale divisione avviene, indica l’autore, in base al censo e alla capacità produttiva di ogni classe, e l’integrazione fra le diverse parti sembra essere vista come ostacolo alla produttività; su questo il punto di vista di Ottieri è di una costanza ammirevole e leggermente ossessiva, mostrando la fortissima messa a fuoco a scapito di altri aspetti o dati concreti della città milanese. Eppure, il risalto dato a tale aspetto è piuttosto significativo alla luce delle narrazioni coeve (un’altra “testimonianza” di maggior successo di pubblico è la raccolta di racconti Marcovaldo di Italo Calvino); ma riflette anche esigenze e prospettive della narrative più recenti che saranno passate in rassegna. Oltretutto, corrisponde a una effettiva mancanza della città, un cono d’ombra di lungo corso che Ottieri ebbe la capacità di intuire: basterebbe leggere, per farsi un’idea, un paio di interventi di carattere scientifico sull’ultimo numero (17) di «Dialoghi internazionali»[11].
Quarant’anni dopo La linea gotica, in Un’irata sensazione di peggioramento Milano non è più la città in cui si vuole arrivare nonostante tutto, ma, come in Bianciardi, il luogo da cui scappare per riguadagnare la propria salute mentale. Il protagonista Pietro (scopertamente autobiografico) è un depresso cronico con problemi d’alcoolismo, che da Milano si reca ogni settimana a Torino dal suo psichiatra. La città da cui Pietro fugge è votata al culto del denaro e della produzione, come egli ribadisce sovente attraverso analisi socio-filosofiche, care ad Ottieri:
Il Capitalismo con tutte le sue sgargianti manifestazioni reali e virtuali (come una sana ignoranza e astoricità) rivendicava il mito fisiologicamente e antropologicamente umano della ricchezza e della sua ideologia. L’unico sociale era il capitale. L’unico vero socialismo era l’individualismo, nei suoi aspetti più autentici, come il mafieggiare.[12]
Ottieri parla di una Milano sempre uguale a se stessa, anzi confermata nel suo male da Mani Pulite e dalla successiva dissoluzione della Prima Repubblica, nonché dalla barbarie (a lungo sbertucciata nel romanzo) della Lega Nord, fresca comparsa sulla scena politica nazionale: il risentimento non si limita più a lunghi passi trattatistici, ma tracima fino a riflettersi sul paesaggio:
Il cielo di Milano è grigio, notoriamente, come il fumo a Londra, e svaria dalla cartapesta, alla carta igienica, alla carta asciugante, alla carta copiativa, alla carta carbone, ad una splendente carta da zucchero. È lattiginoso, come uno yogurt senza fragole aggiunte, cioè senza il sapore delle nubi.[13]
L’ambiente è diventato irrespirabile, a causa di un inquinamento prima morale e sociale che atmosferico, come da costante in altre opere del dopoguerra su alienazione e lavoro a nel capoluogo lombardo[14]. Si tratta di un estraniamento che passa, in prima battuta, attraverso il lavoro e l’accumulazione di denaro, svuotando di senso luoghi e persone infettati da un’eccessiva funzionalità: se la macchina produttiva lavora alla perfezione, senza intoppi o delazioni, può significare soltanto che nell’esattezza dei meccanismi sono inglobati gli stessi abitanti. Ciò che più importa, nella prospettiva dell’accumulo materiale e dell’arricchimento, faticano enormemente ad integrarsi e, in certi casi, a sopravvivere le fasce di abitanti più svantaggiate: problema di lungo corso che ha trovato, nella narrazione su Milano, i più vari resoconti e che, d’altronde, è tornato prepotentemente d’attualità negli studi e i ripensamenti della città contemporanea[15].
Senza soffermarsi più di tanto, basterebbero le inchieste di Anna Maria Ortese sulla Milano della fine degli anni ’50, raccolte nel volume Silenzio a Milano. L’autrice, che visse a lungo in stato di povertà e sentì quindi sulla propria pelle l’esclusione dalla nuova “società dei consumi”, colorò Silenzio a Milano un senso di rabbia esclusiva che travalicava la forma “neutra” dell’inchiesta giornalistica[16]. In un racconto-inchiesta su una visita notturna alla Stazione Centrale, descritta, in anticipo sui tempi, con le modalità di un “non-luogo” fatto di transitorietà, la Ortese scriveva: “Stazione in superficie, in profondità era il punto d’incontro tra un’Italia invecchiata, sorda, incivile, e un’epoca affamata di produzione, in ginocchio davanti alla produzione, a un numero sempre più vertiginoso di cose, di cifre”[17]. In un’accezione più estesa, la Stazione diventa, grazie a una rappresentazione espressionistica e deformata che funge da spaccato sociale sulle classi più disagiate, il luogo simbolo di Milano. Allargando la visuale, della metropoli le “cifre” sono essenza virtuale e onnipresente; nel deserto milanese spuntano solo pochi altri, selezionati enti che spiccano come pietre tombali: lo “squallore”, il raro “odore del popolo”, i night club, le case-albergo che diventano minacciose “piramidi” moderne. Il senso di minaccia è costante; una delle descrizioni più calzanti (e fulminee) viene data in un racconto-inchiesta dall’emblematico titolo La città s’è venduta, dove il soggetto autobiografico decide di trasferirsi, e dal finestrino della macchina in moto racconta:
E la città ricomincia a fuggire. Se ne vanno, a poco a poco, gli ultimi palazzi di marmo,, le case della luce, scompaiono i balconi e le terrazze di vetro e viene avanti il mare gonfio e scuro, sinistro e scuro dei quartieri periferici, dove abita il vecchio popolo di Milano. Ci sono periferie aperte e periferie chiuse, periferie per ricchi e periferie per poveri, periferie per uomini e periferie per non-uomini. Questa è una periferia per non-uomini.[18]
Ancora più in basso della condizione di quelli che la Ortese chiama qui “non-uomini”, si trova un’altra fascia di abitanti per cui l’integrazione è assente, la perdita totale, fino a toccare il nome e la casa. Per la Ortese e gli scrittori coevi, i cosiddetti homeless non erano una popolazione significativa o degna di attenzione, nonostante essi costituiscano già da molti anni una popolazione sotterranea diffusa nelle metropoli statunitensi, e aumentata in maniera preoccupante insieme allo sviluppo metropolitano dei paesi occidentali[19]. Per la città di Milano, è stata raffigurata in tempi recenti da Laura Pariani nel romanzo Milano è una selva oscura (Mondadori, 2009), in cui viene raccontato l’ultimo anno di vita di un barbone acculturato nel pieno del miracolo economico degli anni ’60, fino all’esplosione finale delle lacerazioni di una città ingrata, immemore e piena di “nemici”. Il “Dante”, così si chiama il barbone, che è anche poeta (legame eloquente è insistito),
Nemico è invece l’asfalto che copre i vecchi canali, tutto sto presente di macchine e fragori, dagli sbarlüsci del neon nelle recenti boutique alla smania di americanità che si respira perfino nel parlare. Ché il nuovo è brutto e volgare in questa sua frenesia di sfrollare tutte le care ricordanze.[20]
In questo caso, l’esclusione del personaggio è totale e riflette lo spaesamento di abitare, come un dannato senza nome, in un luogo estraneo e privo di punti di riferimento. Il Dante ha come appigli alla perdita di sé solo la memoria e il conforto del “parlar materno”, il dialetto milanese: e non è un caso che, nelle opere trattate in questo articolo, l’”inesistenza” di Milano si accompagni alla progressiva difficoltà di comunicare, alla perdita di una lingua condivisa e percepita come propria.
Chiuso il piccolo excursus sulle fasce più disagiate della città, torniamo, per chiudere il discorso, a un esponente della media borghesia, che ebbe nella seconda parte della sua esistenza una prospettiva tangente quelle di Ortese, Ottieri, Bianciardi. Si allude a Eugenio Montale, e a quando si trasferì a Milano nel gennaio del 1948, per lavorare come cronista e critico musicale al Corriere della Sera. Pur essendo stata la sua casa d’elezione per quasi quarant’anni fino alla morte, Milano non diventa quasi mai riferimento geografico o “luogo dell’anima” con una sua precisa fisionomia, né in Satura né nelle raccolte successive. Anzi, leggendo l’ultimo Montale si prova il forte dubbio che il pessimismo scettico e, in qualche misura, “antipoetico” che pervade i versi sia strettamente connesso alla città lombarda e alla sua identità di metropoli tanto progredita quanto disumana. Come nota giustamente Pietro Cataldi, se si moltiplicano in questa fase poetica le espressioni della degradazione materiale (nelle immagini ormai proverbiali della spazzatura, della fogna, del “miniangelo spazzacamino”, rifiuti sgraditi dei nuovi meccanismi produttivi), e anzi la stessa voce del poeta diventa un monologante borbottio che mira a confondersi nella folla anonima e annullarsi in una temporalità pietrificata, ciò avviene per la mutata sensibilità di Montale; per la recusatio amarissima che investe globalmente la sua esperienza di uomo e di poeta, e la rovescia. Ma la città di Milano si presta perfettamente a tale ottica di rifiuto, divenendo, anche se quasi mai nominata, vero correlativo oggettivo di un’intera fase poetica. Nota Cataldi:
Milano è sì la città dove è meglio vivere oggi per un poeta, ma è anche la città nella quale un poeta, o almeno un poeta come Montale, non può davvero identificarsi. È una città ideale per un intellettuale, ma non è o non è più una città nella quale un intellettuale possa trovare il suo mondo.[21]
E soprattutto:
(…) abbiamo ben visto come Milano, al contrario, dovesse piuttosto offrire il giusto risalto al fallimento storico dei valori in cui Montale aveva creduto, primo fra tutti proprio il valore della poesia. A Milano il neocapitalismo meglio mostrava i limiti e l’orrore di quei valori della civiltà borghese cui il poeta aveva concesso fede.[22]
Confondendosi nella “folla sommersa”[23] Montale ha ratificato la propria esclusione di poeta e al contempo il proprio rabbioso annullamento, consolidando una modalità di “visione” della città che ne faceva un ambiente irrappresentabile[24].
Milano dal sottosuolo: Antonio Moresco
Più che un preambolo introduttivo, si è finora cercato di costruire un sostrato per quanto hanno immaginato e scritto i narratori che ora osserveremo; di spiegare, insomma, perché l’”inesistenza” di Milano sia un concetto più durevole e affascinante di un luogo comune. La nozione finora descritta è stata assunta in anni recenti con notevole coerenza stilistica in tre scrittori che hanno “non-descritto” la città lombarda grazie a linguaggi, prospettive e impostazioni narratologiche inusuali e utili per una cognizione di determinati aspetti della vita urbana contemporanea, oltre che per interrogarsi su come mai Milano non sia un’ambientazione di storie alla maniera della New York di Roth e Bellow, della Roma di Pasolini e via così ad libitum.
Antonio Moresco[25] (1947) ha esordito nel 1993 con la raccolta di racconti Clandestinità, dopo quasi quindici anni di infruttuosi tentativi di emergere nel circuito letterario ed editoriale e “esistere”, per usare le sue parole: la storia della sua curiosa odissea è raccontata in una lunga prosa, a metà fra il journal intime e lo zibaldone di pensieri, intitolata Lettere a nessuno (Bollati Boringhieri, 1997). Moresco si raffigura in un arco temporale fra il 1981 e il 1991, in una Milano che emerge a squarci fra i pensieri ossessivi e le peregrinazioni paranoiche del suo autore. Una città fredda e scostante che sembra, però, ripulita da qualsiasi preciso contesto geografico o connotazione umana; in essa il protagonista vaga come il flâneur di baudelairiana memoria, ma a differenza del flâneur classico non esplora i diversi ambienti urbani; piuttosto vaga di notte senza direzione e, soprattutto, senza speranza di “esistere” agli occhi dei vivi. Milano diviene quindi uno sfondo fatto prevalentemente di case buie e minacciose, finestre illuminate da cui il narratore del “sottosuolo”, da singolare voyeur, può creare nella propria solitudine le vite degli altri, di strade senza nome in cui camminare in una ripetizione eterna[26]. Quand’è che Milano diventa “marcata” nella propria onomastica e sospende per un attimo la propria geografia dell’assurdo? Nelle occasioni in cui il protagonista incontra editori o esponenti del mondo intellettuale che potrebbero “salvarlo” con la pubblicazione e appagare la sua nevrosi da inesistenza. Per esempio:
In un’unica camminata un po’ diversa dal consueto sono passato di fronte alla casa di Spinella, in via Premuda, poi, dopo una sosta tra buchi neri e nane bianche e pulsar al palazzetto del Planetario, dopo aver costeggiato il grande disco spezzato di Arnaldo Pomodoro ed essere sgusciato nelle retrovie meno frequentate del Duomo, sono passato anche, per la prima volta, di fronte alla casa di Calasso in via Maddalena (…), inscrivendole entrambe in un’unica orbita chiusa che potrei anche tornare a percorrere con una certa regolarità nel prossimo futuro, dopo cena o negli intervalli di lavoro, per sgranchirmi gambe e braccia attraverso la città e creare nello stesso tempo passaggi magnetici terribilmente avviluppanti, mentre me ne sto acquattato dietro il mio volto del tutto sconosciuto a entrambi.[27]
Nel momento in cui l’incontro con le persone reputate come decisive non avviene, la città si richiude minacciosa su di sé e ingloba l’autore-personaggio. Ne emerge la visione allucinata di una metropoli estranea, dove ogni strada da prendere è un vicolo cieco. Non si tratta più, infatti, di una città industriale, come poteva essere in un racconto “al negativo” di stampo neorealista, tante volte fissato su pellicola o sulla pagina; la classe operaia è assente, e il protagonista Moresco non è neppure connotato in base alla sua professione, sebbene noi lettori veniamo informati che egli svolge alcuni lavori per mantenersi. E non c’entrano neanche ulteriori cambiamenti sul tessuto urbano, sulla deindustrializzazione o sulle mutazioni della superficie urbana. Qui, Milano è una città incapace di accogliere chi, insinua il narratore, massimamente meriterebbe di essere ascoltato e compreso, fatta di classi separate e chiuse che s’incontrano, con notevole attrito, solo a radi intervalli. Persino la lotta politica, che nella recente storia milanese ha svolto un ruolo alternativamente di amalgama e di rottura, brilla in Lettere a nessuno per la sua assenza. Moresco narra di essere stato un tempo attivista politico per un gruppo di estrema sinistra e, attraverso le lettere presenti nel libro, esamina con disincanto la generazione “impegnata” in politica negli anni ’70: ma essa è priva di vitalità e eredità storiche, lasciando posto a una mortifera logica di profitto.
In Gli esordi, romanzo scritto contemporaneamente a Lettere a nessuno, ancora un personaggio autobiografico si muove in un cosmo privo di precisi riferimenti spaziali, fatto di forze e solidi che cozzano e si rivoltano l’uno contro l’altro, come è usuale nella poetica dell’autore[28]. Il romanzo, diviso in tre “scene” che corrispondono a tre periodi dell’esistenza, si conclude proprio con una Scena della festa ambientata a Milano, osservata nell’incipit con un rovesciamento dell’espediente narrativo del “volo d’uccello” reso celebre da Hugo in Notre Dame de Paris. Un topo, lanciato in volo dal protagonista nella prima “scena”, si ritrova a volare sopra una “grande città dell’emisfero boreale”[29], plana sopra una città fatta di luci elettriche, vetri infranti e macchine (quasi le uniche entità che ritornano con insistenza lungo la narrazione); non distingue presenze umane, se non alcuni gruppi isolati di fotomodelle cocainomani, che ritornano per tutta la “scena” come una presenza ectoplasmatica, senza nome. L’unico a emergere da questa schiera è, di nuovo, l’autore-personaggio, privato tuttavia del nome e di un’identità definita. Il lettore lo vede passeggiare ininterrottamente per Milano, osservare le luci e le esistenze -totalmente sradicate- dei passanti e, ad ora incerta, tentare di incontrarsi con un misterioso editore che sguscia e si nega continuamente (al modo in cui lo stesso Moresco, da un “sottosuolo” psichico”, sembra muoversi per gli spazi metropolitani). La narrazione di Moresco è impostata su una prospettiva autobiografica che vuole conferire credibilità al racconto, nonché dotata di estrema coerenza concettuale e omogeneità linguistica –fino a toccare punte di ripetitività funzionali all’effetto “alienante”. Essa vuole disegnare, attraverso le peregrinazioni del suo protagonista autobiografico, una cartografia interiore della città di Milano, che suona come una minacciosa constatazione della condizione “postuma” sia dell’abitante che dell’abitato. Lo si rimarca in un dialogo fra l’editore e il protagonista:
«Pensa … prova un po’ a immaginare …» disse chiudendo gli occhi «come potrà apparire alla fine quello che stai facendo, quando questa grande città sarà distrutta …»
«Sarà distrutta?»
«Ma certo! Questa città ha tutte le caratteristiche di una di quelle città che prima o poi vengono distrutte! Tanto più adesso, che è arrivato chi è in grado di vederla e cantarla come per la prima e ultima volta …»[30]
La città oscena: Aldo Nove
Leggermente più “marcata” sui piani nominale e spaziale appare la città di Milano in uno scrittore della generazione successiva a quella di Moresco, Aldo Nove (1967). Lo scrittore lombardo ha raccontato l’ambiente urbano attraverso uno sguardo obliquo ottenuto sommando i punti di vista del consumatore compulsivo e del filosofo-scienziato; e ciò indica eloquentemente quale, secondo Nove, è la posizione svantaggiata della persona capace di pensiero critico all’interno della metropoli. Tale sguardo, contraddistinto dalla sua infantilità di fondo unita a una fede ingenua nella fascinazione per le merci, trova in Milano il suo sfondo e la racconta in due “romanzi autobiografici”, a confermare che le prove letterarie più efficaci su Milano si rafforzano sovente con l’artificio retorico della testimonianza sulla propria pelle; da cui consegue che la città lombarda risulta essere una “condizione psichica” dei suoi abitanti (in linguaggio più usuale -e positivo- un “luogo dell’anima”).
Tuttavia, sarebbe meglio focalizzare i lineamenti della forma-romanzo in Nove. Come spesso nelle narrazioni fin qui analizzate, raccontare Milano con una forma tradizionale o una storia lineare, dotata di continuità nel tempo e nello spazio, non è possibile; è necessario adottare una postura e un discorso che si adattino, quasi mimeticamente, alla mutata fisionomia della città. In Amore mio infinito, racconto autobiografico per lampi, strappi temporali (alcuni micro-periodi dell’esistenza assurgono a decisivi nodi di senso, in particolare l’infanzia) e digressioni letterario- scientifiche, Milano è lo sfondo dell’ultimo capitolo, intitolato Piazza Cordusio, 1999. Il protagonista è un neo-laureato in filosofia, come l’autore, e rappresenta una figura di rilievo all’interno della società milanese (e, oserei dire, dell’intera Italia contemporanea): quella del precario, che piomba nella grande “macchina” della città (immagine ricorrente in Nove) nella speranza frustrata di trovare un lavoro qualsiasi. Ma Milano è solo un tassello che riproduce l’intero, lo sfondo universale di chi si ritrova intrappolato in un meccanismo senza uscita già a partire dalla sua venuta al mondo. Scrive Nove:
Poi dopo esci dalla macchinetta ti ritrovi in piazza fai parte del tuo deperimento continuo iniziato dieci anni fa venti anni fa trent’anni fa continui a accumulare quello che devi lasciare nel territorio prima di avere incominciato a capire qualcosa inizi a correre a compilare moduli a secernere sudore a telefonare alla persona con cui avevi un appuntamento prendi la metropolitana compri la «Settimana enigmistica» stai male (…).[31]
Restringendo di nuovo il campo, lo scenario della precarietà lavorativa ed esistenziale del “personaggio Nove”, Milano, diventa un percorso a ostacoli. Non ha neppure la dignità del labirinto, ché un labirinto è in qualche modo decifrabile e in esso, grazie all’esercizio dell’intelligenza, ci si può orientare e trovare la propria strada, è cosa nota sin da Dedalo a Italo Calvino. Qui, invece, la città diviene una nebulosa soffocante di migliaia di “stimoli che contemporaneamente ti strappano da te”[32], provenienti per lo più dalla pubblicità e dal mondo dell’informazione, capaci di penetrare a fondo nella psiche del soggetto: “Dentro di me c’era una folla che mi diceva di andare in tutte le direzioni ininterrottamente”[33]. Lo stesso protagonista si esprime di preferenza con una terminologia desunta dai prodotti firmati e dai caroselli pubblicitari, che hanno formato l’unico linguaggio davvero condiviso per la generazione degli anni ’80 e popolano l’immaginario dello scrittore da Woobinda (1997) in poi. Non è un caso che in un altro testo scritto sulla città, dall’emblematico titolo Milano non è Milano, venga indicata la Fiera di Milano come unico e irripetibile fulcro della vita urbana: “Un profumo di mondo che va bene, produce il suo spettacolo di benessere infinito. L’incanto di una macchina mondiale che sforna meraviglie che non smettono di migliorare”[34] Esemplare, a riguardo, il racconto della prima visita a Milano, a Piazza Duomo:
C’era un grande presepio animato dentro un tendone siamo venuti a Milano per visitarlo mi ricordo appena usciti dalla metropolitana c’erano dappertutto piccioni non mi sono neanche accorto della chiesa grande il Duomo mio padre mi diceva di guardarlo mi indicava in alto la madonnina ma io guardavo dall’altra parte della piazza il palazzo con le insegne pubblicitarie grandi due volte le case del mio paese (…) era come essere dentro una boccia colorata sintetica con la neve e il Duomo di Milano e tutte le persone che si urtavano velocissime attorno alla piazza illuminata.[35]
Gli enti degni di attenzione divengono proprio quelli che omologano la città, rendendola un non-luogo non caratterizzato singolarmente (i piccioni, le insegne pubblicitarie, le luci, i meccanismi di consumo sempre in funzione, i turisti giapponesi). Il narratore però ne rimane estremamente colpito, in quanto il suo punto di vista di provinciale -varesotto- è ancorato a una visione pre-consumistica del centro urbano in cui la comunità ha ancora un aspetto umano e, soprattutto, una fisionomia stabile: poiché la vera caratteristica di Milano è una “trasformazione incessante”, similmente alla divinità azteca Axolotl che, per vivere in eterno, oscilla di continuo fra lo stato larvale e un’esistenza vera e propria[36]. La “milanesità”, condizione metafisica assunta arbitrariamente come il marchio di un prodotto[37], può essere trasportata in qualsiasi altro luogo e contagiarlo, come spiega Nove: “Poi vicino al mio paese ha incominciato a crescere un po’ di milanesità hanno aperto il primo supermercato una specie di luna-park di acciaio pieno di merluzzo surgelato da comprare”[38]. Se un luogo può essere riassunto integralmente in astrazioni commerciali esportabili dovunque, cosa può impedire al suo abitante di nullificarsi, perdere l’appartenenza a un qualsiasi luogo? In un quadro di “alienazione” che deve molto alla visione marxiana, non trova posto neppure una qualche coscienza di classe, poiché ogni individuo risulta isolato in quanto consumatore e nella precarietà lavorativa è impossibile aggregarsi. Per siffatte ragioni, la lotta politica non può trovare sbocchi e si risolve unicamente nella protesta violenta e nichilistica, come espresso in due capitoli che raccontano due violenti scontri di piazza (oggi li chiameremmo, in una prospettiva globale, riots), fungendo da palinsesti narrativi sul modello di La violenza illustrata di Nanni Balestrini[39].
Quale sguardo rimane possibile per non farsi fagocitare? E quale approccio alla città impedisce una totale disgregazione psicofisica? Alla prima domanda, Nove non dà risposte dirette: la sua narrazione, mimeticamente alienata, non esce mai da sé stessa e non propone soluzioni “dall’esterno”; come abbiamo accennato nel paragrafo introduttivo, gli autori analizzati perseguono una rappresentazione “veritiera” e da prendere estremamente sul serio, in quanto vissuta sulla propria pelle, il che implica un’immutabilità del punto di vista: chi racconta, vede di fronte a sé una Milano ridotta a un grado zero, ma non ha l’intenzione -o l’illusione- di mutare lo stato delle cose con la sua scrittura. Come la città è viziata nel profondo dal suo essere artificiale e scomposta, così è lo sguardo di Nove: in Amore mio infinito non può darsi una comprensione intera della città milanese, poiché essa esiste solo nei picchi psichici del suo abitante, oppure nella brevità di uno spazio pubblicitario. L’unico sguardo di ampio raggio su Milano è, dichiaratamente, irrealistico e sterile: nel capitolo Dio muove le mani sopra le acque prova, una violentissima zoomata spaziotemporale su Piazza Cordusio nel 1999, attraversando con velocità disinvolta le glaciazioni, Carlo Magno, le Cinque Giornate e Megan Gale[40].
L’unica speranza di salvazione, a quest’altezza della produzione di Nove, è l’amore, che il protagonista trova in una cassiera del McDonald’s e immagina come ultima speranza di “infinito”. Si tratta però di una consolazione provvisoria e mai stabile, su cui l’autore ha parzialmente cambiato idea; lo si evince dal recente La vita oscena (2010), che per molti versi è una riscrittura in ombra di Amore mio infinito, o meglio, ne è il verso. In questa “autobiografia estrema” (o anche autofiction) il protagonista-autore, dopo la perdita dei genitori e la disgregazione totale della sua famiglia, si ritrova a vivere in un pensionato cattolico a Milano, e a sperimentare esperienze estreme di ogni tipo per anestetizzare il dolore del suo isolamento. Ormai la città non è altro che un fondale costituito prevalentemente da interni, appartamenti di prostitute, cinema porno e luoghi per sniffare cocaina, di meccanicità estrema[41]. Se la pornografia (cifra stilistica dell’intero racconto) stilizza e appiattisce i rapporti interpersonali, oltre che la stessa cognizione dell’Altro da parte del soggetto, ciò avviene anche a causa della mancata identità di una metropoli fondata sull’autoannullamento, sull’idea che qualsiasi piacere, disponibile fino all’eccesso, possa essere goduto fino all’eccesso riuscendo comunque a non provare nulla, se non uno spaesamento totale[42]. Di fronte a un tale stato di cose, Nove non propone soluzioni, ma constata con una mimesi estremizzata l’oscenità dell’ambiente e dei suoi stessi abitanti, che arrivano a collimare e confondersi in un incessante divenire[43].
Fuori da Milano c’è il bene? Giorgio Falco
Abbiamo visto sinora due narratori che affrontavano il nodo di una Milano irrappresentabile restandone tuttavia all’interno. Essi non cercano di uscire dal suo perimetro o di evadere, se non tramite delle panoramiche stranianti o in virtù della propria, distintiva condizione intellettuale; e come loro, gli scrittori del Dopoguerra prima menzionati. Ci si potrebbe chiedere a questo punto se spostare di netto il proprio punto di vista come narratore, osservando stabilmente da fuori la metropoli, sia un’opzione utile per allargare un discorso sull’”inesistenza di Milano”. Su un piano eminentemente sociologico, è innegabile che la periferia milanese sia cresciuta insieme alla formazione dei sobborghi e allo spopolamento del centro urbano: fenomeno d’altronde comune a molte città occidentali, e ripreso dal modello delle metropoli statunitensi[44]. In L’editore, romanzo sperimentale sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, Nanni Balestrini parla della crescita dei sobborghi, inserendola nel quadro dei mutamenti in corso negli anni ‘70:
Milano è una città provinciale e non se ne vogliono accorgere questi milanesi gonfiati che li senti dire perfino Milano come New York e ci credono perfino
c’è l’hinterland di Milano invece che è qualcosa di infinitamente più importante misterioso e inquietante di quelle quattro strade intorno a piazza del Duomo la vera città è quella che si stende fino a Sesto e va avanti per decine di chilometri (…) se guardiamo intorno a Milano vediamo una città che sta diventando metropoli per via di questi due milioni e mezzo di abitanti che stanno fuori oltre la fascia comunale e comincia in tutto a essere una dimensione rilevante cominciano a essere quattro o cinque milioni allora questo comincia a essere qualche cose di smisurato di molteplice di complesso (…).[45]
Balestrini, pur avendo fatto del collage e della contaminazione linguistica una cifra stilistica nei decenni, descriveva i mutamenti geopolitici (e, più in generale, raccontava) mantenendo ferma una sua posizione di critica radicale al sistema. Leggermente diverso è il discorso in scrittori che per ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fase condivisa dell’engagement politico negli anni ’70. Così, per l’appunto, gli esiti narrativi della raccolta di prose brevi L’ubicazione del bene (2009) di Giorgio Falco (1967) acquistano interesse in virtù del proprio sguardo apparentemente disimpegnato, asettico.
Nella raccolta vengono narrate le vicende dell’immaginaria Cortesforza (anzi, “Cortesforza, Milano”) sobborgo “a un quarto d’ora dalla Tangenziale Ovest, un centro in piena espansione commerciale e residenziale”[46]. Il punto di osservazione del narratore cambia, di racconto in racconto, a seconda dell’abitante di cui si racconta la storia: ma la voce che parla sembra esprimersi sempre con lo stesso grigio linguaggio, avere la stessa attitudine rassegnata alla realtà circostante. Soprattutto perché, come si accorge il lettore, il comune di Cortesforza appare come un piccolo mondo omogeneizzato in cui soltanto le automobili dei pendolari milanesi scandiscono il ritmo delle giornate. Al di fuori della propria villetta a schiera, ripetuta serialmente per tutto l’abitato (il “bene” cui ambiguamente può alludere il titolo), non si dà presenza umana né racconto, ma solo descrizione di uno stato di cose, il che costituisce una dichiarazione d’intenti da parte del primo personaggio in scena:
Io vivrò in questo posto ancora per poco, ma adesso sono qui, senza un colpo di scena, un addio al check-in dell’aeroporto, senza una scena di sesso, un letto d’ospedale, la sensazione di minaccia incombente, un momento felice durante l’antipasto, senza una donna nuda sulla bilancia, un personaggio leggendario che ha sempre la battuta intelligente, tre righe dall’inizio e subito un dialogo edificante. Fuori accadono cose, cose misteriose, opache, trasparenti, circondate dalla luce appiccicata al plexiglas.[47]
Se ne ricava l’impressione violentissima e pacata di un mondo che si astrae totalmente concentrandosi sull’accumulo e il lento consumo delle “cose”. La “milanesità” trapiantabile che Nove illustra, come scritto sopra, in Amore mio infinito, trova un’applicazione esatta nell’ambiente neutro dell’hinterland. In esso gli immobili, gli spazi comuni e persino i rapporti interpersonali risultano, più che un dato acquisito, un “effetto di reale” creato per convincersi della propria consistenza, mentre la vita vera si consuma fra il casello, l’automobile e il posto di lavoro, mai inquadrate dall’occhio dell’autore. Ne emerge una rappresentazione spaziale oscillante fra due poli, uno fatto di non-luoghi e costruzioni tutte identiche (Cortesforza, Milano) e uno assente (Milano). Partendo dall’ottica di uno dei personaggi, lavoratore pendolare, Falco scrive:
(…) non sembra nemmeno di vivere a Cortesforza, Cortesforza è qualsiasi luogo, la distanza da Milano, diciotto, diecimila, un milione di chilometri, non ha senso.
Tutte le cose accadono entro venti chilometri. La distanza da casa al lavoro, da casa al supermercato, venti chilometri. All’inizio lui pensa che quello spostamento sia un piccolo viaggio, dopo dieci ore di lavoro può ricomporre se stesso, ma al semaforo di Trezzano sul Naviglio lui fa parte di una promiscuità aggressiva, volgare, feroce nel cercare il proprio posto nel mondo (…).[48]
La conclusione logica di tutto ciò è che l’abitante del sobborgo vive in una sorta di “lotta per la vita” dai tratti anestetizzati, senza nulla togliere alla precarietà, esistenziale prima che economica, di chi vive a Milano pur risiedendo in un luogo che ne è, a conti fatti, una versione depurata dalla frenesia e dall’affollamento: “Lui e lei sono in una condizione lavorativa tale per cui un deciso spostamento li fa appartenere alla scia del benessere, ma una piccola variazione può farli precipitare nella povertà”[49]. Il tempo libero, in cui è compreso anche lo spazio dedicato alla propria interiorità o alla gestione del nucleo familiare, non è altro che un ennesimo compito da assolvere. Fare un figlio è una strategia e insieme obbligo sociale: “E così, dopo che la sua migliore amica ha partorito una bambina, è cresciuto il desiderio di maternità, anche perché se fosse incinta starebbe a casa dal primo giorno utile, sospenderebbe le angosce lavorative per un paio d’anni, in attesa di risolverle al rientro, quando, lei spera, la situazione potrebbe essere cambiata”[50]. La ricerca di una sopravvivenza dignitosa appare, agli occhi del lettore, il segno di una sopravvivenza “giorno per giorno” che appartiene di base agli animali: perciò è coerente che Falco apparenti gli abitanti di Cortesforza alla folla variegata di animali domestici che accompagnano gli esseri umani e popolano gli interstizi del sobborgo. Ratti, scarafaggi e piccioni non sono decorazioni necessarie quali avevamo visto in Nove, né elementi di contorno, come spesso avviene nella creazione di uno scenario verosimile, ma salgono al grado di personaggi a pieno titolo; dal punto di vista dello scrittore, la loro lotta per resistere quotidianamente non è meno dignitosa di quella di un abitante di Cortesforza, non si pone su un differente orizzonte di senso.
Ma non c’è traccia di ironia o di deformazione espressiva nel parallelismo uomo-animale, non al modo in cui avrebbe potuto esserci in un narratore del secolo scorso, o in una poesia espressionista, risentita o moralista di cui Milano ha avuto tanti esponenti: non è contemplata la possibilità di un “bestiario”, pure usuale scorciatoia per esprimere un disagio sociale[51]. Nelle pagine dell’Ubicazione del bene trapela un vago disprezzo che suona quasi come perplessità, niente affatto accompagnato da cinismo o derisione. La serietà di cui abbiamo parlato all’inizio di questo scritto è assoluta in Falco. Ciò per due ragioni: in primis perché, ugualmente a Moresco e Nove, la narrazione vuole porsi come “davvero vissuta” e fededegna, con il minor numero possibile di gradi di separazione (comunque inevitabili in un’opera letteraria). In secondo luogo, perché il sentimento che si vuole suscitare, al di fuori dell’assurdo o del vuoto, è una pietas composta verso gli abitanti e Cortesforza tutta. Così, l’avvicinamento progressivo (fino alla compenetrazione) fra uomini e animali scaturisce da una nuova concezione della vita sociale, inventata dalle stesse persone che hanno permesso il sorgere delle città, del modello urbano contemporaneo, della vita milanese. Insinua un personaggio in visita allo zoo comunale, con lucidità da scienziato:
Lo zoo è il sogno infranto non solo del paradiso terrestre, quanto di un modello economico di controllo e solidarietà. Finita la solidarietà, è rimasto il controllo. Lo zoo è la rappresentazione della città, lo zoo safari del suburbio residenziale fuori città. Visti dal sedile anteriore destro del monovolume, gli animali sfilavano in tutto il loro insuccesso, non sapevo se essere felice nel vederli vivi o compiangere la fierezza addomesticata, il portamento ammaestrato, la mia situazione fallimentare.[52]
Dalla vicinanza uomo-animale, e dal comune appiattimento, non si può scappare; non c’è, l’abbiamo ribadito a più riprese, una soluzione, un’evasione strategica da un modello simile. Ma dal contatto può nascere una comunicazione, suggerisce lo scrittore. Nella scena conclusiva del libro, un vecchio vedovo mostra al proprio vicino di casa il suo animale domestico, un pappagallo decrepito. Pur nella contingenza esplicitamente straniante e ribassata, il vedovo serba la speranza di insegnare al suo pappagallo delle parole nuove, e chiede al suo vicino di aiutarlo a insegnare alla creatura qualche parola, di nuovo. Questa flebile indicazione di solidarietà in nome dello scambio (anzitutto verbale), presentata quale unico “bene” condiviso da cui costruire una condizione urbana degna di essere vissuta, veniva espressa in altre declinazioni anche negli altri “narratori dell’inesistenza” sopra descritti. Prova che, pur ribadendo con coerenza espressiva, per mille motivi, l’irrappresentabilità di Milano nelle proprie opere letterarie, una fiducia di spessore etico nella parola scritta e orale non viene meno neppure nello scrittore più negativo, non scompare neanche nella città più ostica.
[1] Utile il riferimento a Franco Moretti, La letteratura vista da lontano, Einaudi, Torino 2005, part. il capitolo Carte, pp. 49-82.
[2] Tommaso Landolfi, Milano non esiste in A caso, Rizzoli, Milano 1975.
[3] Ci si rifà qui alla definizione, per ambienti più ristretti e localizzati rispetto a un intero centro urbano, di “non-luoghi”; su di essi ha scritto per primo Marc Augé, in Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleutheria, Milano 1996.
[4] Non si verifica insomma uno scavo conoscitivo o ermeneutico a partire dall’osservazione di ambienti urbani, come, per fare un esempio dalla poesia, in Giovanni Raboni, Le case della Vetra, Arnoldo Mondadori, Milano 1966. E tanto meno può esserci spazio per luoghi- simbolo di determinati nodi storici o politici come, per citarne uno, Piazza Fontana.
[5] Esemplare in questa tipologia di narrazione Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa- disegni milanesi, Adelphi, Milano 2012.
[6] Lo scrittore dunque vuole esprimere una posizione di estrema emergenza, come può farlo un saggista con tesi ben più argomentate e documentate: cfr. per es. Marco Belpoliti, Notizie da una città alla deriva, http://www.nazioneindiana.com/2009/07/24/notizie-da-una-citta-alla-deriva/.
[7] Intorno all’architettura e alla rappresentazione della città contemporanea, sono piuttosto utili H. P. Lovecraft: Contre le monde, contre la vie, Èditions du Rocher, Parigi 1991; Rester vivant, La différence, Parigi 1991; Poésies, Flammarion, Parigi 2010.
[8] Michel Houellebecq, Restare vivi in La ricerca della felicità (trad. Fabrizio Ascari), Bompiani, Milano 2008, p. 20.
[9] Carlo Emilio Gadda, Milano in «L’approdo», II, 1953.
[10] Ottiero Ottieri, La linea gotica, Bompiani, Milano 1963, p. 63, 64, 73.
[11] Fra gli interventi stimolanti e utili a una comprensione dettagliata e non espressiva delle mutazioni urbane, si può citare a sostegno Chiara Mazzoleni, docente di Urbanistica presso l’Università IUAV di Venezia, che scrive: “Gli esiti sulla qualità dello spazio costituito e sulla vita urbana conseguenti a queste logiche sono particolarmente evidenti nella frammentazione dello spazio urbano, nel deperimento dei beni pubblici, nel degrado delle condizioni insediative e nell’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Un ulteriore e non meno allarmante esito, che si è manifestato in una dinamica di sviluppo territorialmente segmentata anche a livello di regione urbana, è quello della progressiva divaricazione tra la città funzionale, dove prevale la forte connettività e l’interdipendenza dell’insieme delle funzioni strategiche che costituiscono il nodo globale, e la città fisica, con una debole connessione spaziale interna e una sempre più difficile integrazione fra le sue differenti parti”, La transizione dell’economia urbana verso i servizi avanzati. Il profilo di Milano in «Dialoghi internazionali», 17, Bruno Mondadori, Milano 2012, p. 133.
[12] Idem, Un’irata sensazione di peggioramento, Guanda, Parma 2002.
[13] Ivi, p. 55.
[14] Su tutti, i versi celebri della Ragazza Carla di Elio Pagliarani (1960): “E questo cielo contemporaneo/in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto/questo cielo colore di lamiera/ sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa/sopra tutti i tranvieri ai capolinea/non prolunga all’infinito/i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli/coperti di lamiera?”
[15] Per esempio: “Abbiamo visto come le politiche attivate per far fronte ai problemi dei gruppi svantaggiati della popolazioni non occupino un posto centrale nella politica urbana, neppure in quei paesi dove la tradizione di welfare è più radicata e dove la responsabilità verso gli strati più deboli della popolazione non è messa in discussione (…) Se restringiamo il nostro sguardo alla sola povertà economica, vediamo che, durante gli anni ’80 e ’90, nella maggioranza dei paesi europei cresce il numero di persone in stato di povertà (…) Quando il mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali è duraturo, gli individui sperimentano anche il progressivo indebolimento dei legami sociali che li collegano alla collettività e sono spinti verso una situazione che è stata definita di disaffiliazione [Castel 2000]”, Serena Vicari-Haddock, La città contemporanea, il Mulino, Bologna 2004, pp. 125-126.
[16] Per uno sguardo approfondito sulla scrittrice, nonché sul periodo trascorso a Milano e la genesi della suddetta raccolta, v. Luca Clerici, Apparizione e visione: vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano 2002.
[17] Anna Maria Ortese, Una notte nella stazione in Silenzio a Milano, La Tartaruga edizioni, Milano 1998 [1958], p. 35.
[18] Ivi, p. 86.
[19] A riguardo, è utile ancora Serena Vicari-Haddock, La città contemporanea, op. cit., pp. 128-130.
[20] Laura Pariani, Milano è una selva oscura, Einaudi, Torino 2009.
[21] Pietro Cataldi, Montale a Milano in Leggere Milano (a cura di Barbara Peroni), Unicopli, Milano 2006, p. 154.
[22] Ivi, pp. 162-163.
[23] L’espressione è mutuata dal poeta Fabio Pusterla (2004).
[24] Antitetico allo sguardo di altri poeti, sia pur validissimi, che di Milano hanno fatto uno scenario credibile e pieno di dignità, ma che proprio per questo non rientrano nel discorso. A vario titolo, si potrebbero citare la Milano di Vittorio Sereni (Gli strumenti umani, 1965), quella dialettale di Franco Loi (per una silloge esaustiva, Aria de la memoria, 2005) o quella di Giancarlo Majorino (per una rapida sintesi del suo discorso intorno a Milano, è utile l’articolo Versi e righe di città in Leggere Milano, op. cit., pp. 193-208). Ma essi non sono trattati per due ragioni: la prima è che il discorso presente s’incentra soprattutto sui prosatori, la seconda è che, banalmente, per costoro Milano ha dignità di esistenza.
[25] Gli autori di questi tre paragrafi sono esaminati secondo l’ordine di pubblicazione delle loro opere.
[26] Lo stesso avviene ai personaggi delle prose brevi di Clandestinità e di La cipolla (Bollati Boringhieri, 1995) , con più scoperti risvolti psicoanalitici.
[27] Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Einaudi, Torino 2008, pp. 200-201. Si cita dalla prima parte, che ricalca fedelmente l’edizione del 1997.
[28] Si vedano gli scritti teorici Il vulcano, Bollati Boringhieri, Milano 1999 e La visione. Conversazione con Carla Benedetti, Scheiwiller, Milano 2009 [1999].
[29] Idem, Gli esordi, Mondadori, Milano 2011 [1997], p. 537.
[30] Ivi, p. 601.
[31] Aldo Nove, Amore mio infinito, Einaudi, Torino 2000, p. 135.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 163.
[34] Aldo Nove, Milano non è Milano, Laterza, Bari 2010 [2004], p. 21. È interessante notare che, sebbene il libro si proponga d’essere un’opera di non-fiction volta a trattare luoghi e itinerari d’interesse a Milano, l’approccio stralunato e astraente di Nove rimane pressoché immutato rispetto alle narrazioni qui analizzate; la città viene dunque analiticamente scomposta e descritta tramite enumerazioni merceologiche, ambigue esaltazioni della modernità e della globalizzazione, intrecci di citazioni (da poeti e filosofi) e riscritture (l’intero capitolo Secondo intermezzo. Milano tutta d’un fiato è una riscrittura delle pagg. 139-141 e 158-162 di Amore mio infinito).
[35] Aldo Nove, Amore mio infinito, cit., p. 152.
[36] Il paragone apre le pagine di Milano non è Milano, cit., ed esplica bene il carattere di incessante mutamento -e precarietà esistenziale- che secondo Nove caratterizza Milano. Soprattutto, viene sottolineata la volontà di entrare in un ciclo di perenne trasformazione per penetrare in una zona larvale e rassicurante: “Se sono tutto e niente nessuno mi capisce, nessuno sa chi sono, nessuno mi mangia, io continuo a vivere”, p. 5.
[37] “La città urlava di essere Milano”, sottolinea senza ironia il narratore.
[38] Aldo Nove, Amore mio infinito, cit., p. 154.
[39] Ivi, pp. 148-151.
[40] Ivi, pp. 139-141.
[41] Il referente costante, dichiarato in un passaggio del libro, è naturalmente Sade.
[42] Nella “guida turistica” Milano non è Milano, si sottolinea il legame concettuale fra mercato del sesso e Milano, con una certa ironia: “A Milano (che come recita la famosa canzoncina “non resta mai con le mani in mano”), è incredibile, si fa sesso. Come nell’hinterland. In parte (nella parte emersa/sommersa del sesso a pagamento), con la stessa velocità e lo stesso spirito pratico con cui si affrontano le attività lavorative (…) Del resto, diceva Brecht, ogni forma di lavoro è prostituzione, e a Milano si lavora” (p. 102, cap. Pornomilano).
[43] Molto utile per la comprensione della scrittura di Aldo Nove, e più in generale per alcune questioni finora trattate, il libro di Daniele Giglioli, Senza trauma, Quodlibet, Macerata 2011.
[44] Oltre alla già citata Vicari Haddock, vedi anche di Guido Martinotti, Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, il Mulino, Bologna 1993 e G. Martinotti (a cura di), La dimensione metropolitana, il Mulino, Bologna 1999.
[45] Nanni Balestrini, L’editore, DeriveApprodi, Roma 2006 [1989], pp. 67-68.
[46] Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, Einaudi, Torino 2009, p. 9.
[47] Ivi, p. 49.
[48] Ivi, p. 102.
[49] Ivi, p. 106.
[50] Ivi, p. 64.
[51] Senza andare fino al capostipite ideale (e limitandosi a Milano), che mi sembra essere il medievale Bonvesin de la Riva, si potrebbero citare in tempi più prossimi Delio Tessa o Franco Loi in poesia, Carlo Emilio Gadda per la prosa.
[52] Giorgio Falco, op. cit., p. 37.
[Immagine: Gabriele Basilico, Milano 1980 (gm)].
Grazie ai redattori di LPLC per aver pubblicato qui questo pezzo.
In precedenza era apparso sulla rivista Dialoghi Internazionali, per “Bruno Mondadori”, n. 18, novembre 2012. Qui il link: http://www.brunomondadori.com/scheda_opera.php?ID=4550
A tal proposito ringrazio anche Pasquale Alferj, fra le altre cose redattore della rivista, che mi ha chiesto a suo tempo il pezzo e lo ha poi con estrema cortesia pubblicato.
Un diavoletto mi stuzzica a confrontare le mie letture su Milano con quelle di Marchese. E a chiedermi: ma come si fa a saltare Sereni, Loi, G. Majorino (per non parlare di Fortini, neppure nominato), sostenendo (in una piccola nota!) che nel saggio «non sono trattati per due ragioni: la prima è che il discorso presente s’incentra soprattutto sui prosatori, la seconda è che, banalmente, per costoro Milano ha dignità di esistenza»?
Ora io posso capire che, avendo scelto un taglio (Milano come non-luogo), si ricorra agli autori che meglio esemplificano tale tesi; e – diciamocelo – che Marchese abbia simpatia e (forse) una complicità generazionale e politica con autori come Moresco e Nove.
Ma si può non mettere a confronto la visione di questi ultimi con gli autori che la contraddicono?
Altri dubbi.
E poi così facile “uscire dalla letteratura”, seguendo il suggerimento di Houellebecq («dite semplicemente la verità, né più né meno»)?
E perché (nel caso di Nove) una «narrazione, mimeticamente alienata» sarebbe più “veritiera”(meno male che la parola è virgolettata) «in quanto vissuta sulla propria pelle»?
E la letteratura, respinta a parole dalla porta, non rientra alla grande dalla finestra proprio con un Moresco «flâneur di baudelairiana memoria» sia pur degradato a nottambulo che «vaga di notte senza direzione e, soprattutto, senza speranza di “esistere” agli occhi dei vivi»?
P.s.
Alle opere di Bianciardi, Ottieri e Ortese andrebbe almeno aggiunta «Milano, Corea» di Danilo Montaldi e Franco Alasia. Anche per misurare di quale attenzione umana e politica erano capaci quegli autori nei confronti degli immigrati che occupavano le periferie della «Capitale del Nord» per « una sopravvivenza “giorno per giorno”», senza per questo ridursi alla pur “dignitosa” condizione di «ratti, scarafaggi e piccioni».
@ abate
in un macrotema come questo (scrittori che parlano “male” di una metropoli) ho preferito occuparmi di tre visioni di milano che mi parevano significative e anche poco trattate in studi di letteratura precedenti.
sereni, loi, majorino, fortini, che giustamente cita, li ho rimandati a un altro lavoro che, un domani, mi piacerebbe fare, e che rappresenterebbe idealmente la “messa a confronto con gli autori che contraddicono quanto ho scritto qui”, per metterla giù secca. vorrei provare a sciogliere la boutade con cui furbamente me la sono cavata in nota, cioè dire in che modo, per quale ragione, per tutti i validissimi autori cui accenno e per gli altri (fortini ecc.) che mette lei, milano “ha dignità di esistenza”.
sulla complicità generazionale / politica che dovrei provare. ma quale, di preciso? moresco e nove (e falco, aggiungerei) non appartengono alla stessa generazione (moresco è del ’47, nove e falco dei tardi anni ’60) e sulla politica mi pare che abbiano idee molto diverse. e ancora, io sono di un’altra generazione (dell’89) e non condivido le posizioni di nessuno di questi tre; anzi, direi che nessuno dei tre è fra i miei scrittori preferiti, cosa giustificata dal fatto che speravo di fare un analisi di tipo diverso, mettendo in secondo piano l’estetica, e il “valore”. ho solo pescato fra le mie letture testi che mi parevano funzionali alla premessa di “inesistenza”.
questo mi porta a voler chiarire gli “altri dubbi” che lei esprime, ma ora non ho la forza. lo faccio un’altra volta e intanto ringrazio per l’indicazione di “Milano, Corea”. non l’avevo mai sentito.
@ Marchese
Aspetto allora la seconda parte di questo suo lavoro.
Sulla complicità generazionale avevo messo cautamente un “(forse)”.
Un equivoco in meno se non esiste.
Su Montaldi, che ho conosciuto, mi permetto di rimandarla a questa mia riflessione: http://www.backupoli.altervista.org/article.php3?id_article=50&var_recherche=montaldi
Tenga d’occhio anche molte cose su Milano scritte da Sergio Bologna.
Buon lavoro.
con un po’ di ritardo dovuto all’estate, rispondo ad abate e poi mi taccio, visto che monopolizzare i commenti di un post, se sei l’autore dello stesso, lo trovo inelegante.
grazie degli auguri di buon lavoro e delle indicazioni. molto interessante la riflessione su montaldi, su bologna guarderò.
ora, per rispondere ai ragionevoli dubbi di abate: mio scopo era utilizzare tre autori che di milano hanno parlato “in negativo”, con un atteggiamento consapevolmente anti-letterario, se per letteratura si intende (come ho fatto qui io) “un circuito ludico e autoreferenziale” che si avvalga di un forte sperimentalismo linguistico e di uno stile molto lontano da un “grado zero”, nonché di una prospettiva divertita o distaccata sull’ambiente descritto.
“uscire dalla letteratura” non è facile, non ho detto che lo sia. se c’erano le virgolette sull’espressione, è anche perché questa era un’espressione metaforica analoga a, lo dico sperando non sembri una parolaccia, superare una buona fetta di letteratura postmoderna, per cercare una narrazione artificiosamente “ingenua”, “veritiera”. Per Moresco, Nove, Falco, che sono molto diversi l’uno dall’altro, è primario riprodurre attraverso i loro resoconti in prima persona una (apparentemente) fedele e fededegna “visione onesta e ingenua del mondo”. A riguardo possono essere utili gli scritti critici di Moresco, “Il vulcano”, “Il paese della merda e del galateo”, ecc. O tutto Houellebecq, per ripetermi.
è per tutta questa serie di ragioni che anche la narrazione di Nove, in cui un personaggio alienato che sembra proprio l’autore (e nella Vita oscena parrebbe proprio lui …) racconta i modi in cui fa esperienza di milano, o in cui la città lo attraversa e lo plasma nei suoi marchi o nei suoi stereotipi pubblicitari, è “veritiera”. si pone come “veritiera” in quanto vissuta sulla pelle, presentata come esperimento in un libro in cui il narratore vuol fare la cavia. e in certi casi coincide pure con l’autore. “mimeticamente alienata” è una brutta espressione. fosse per me la casserei, è troppo sintetica. ciò che volevo dire è che Nove usa un narratore in prima persona per costruire un racconto, in ossequio alla Poetica di Aristotele, drammatico e diretto più di un racconto diegetico. stando così la faccenda, risalta ancora di più che questa mimesi sia tutta, come dire, “esterna”: raramente, in Nove, come negli altri due, abbiamo un’idea precisa di cosa i personaggi-narratori pensino. vivono una serie di vicende, intervengono e determinano gli sviluppi della loro storia, ma come osservandosi vivere, sotto forma di curiosi “narratori esterni in prima persona” (per violentare Genette). forse è troppo scontato pensare a un uso particolare di Kafka, ma non mi vengono altri esempi. riconosco comunque che l’espressione era infelice, me ne scuso.
terzo: è chiaro che la letteratura ritorni dalla finestra, magari una lontana dai narratori del postmoderno letterario italiano. Dovrebbe essere chiaro che questi tre esempi sono letteratura che nega se stessa in una prossemica di verità=ingenuità, e che è un atteggiamento, non la sostanza. non stiamo parlando dei resoconti di tre illetterati, ma di lavori di scrittori ben consapevoli che vogliono, prima di tutto, fare letteratura, pur formalmente uscendo da uno dei suoi gusci più risaputi.
devo dire che, prima di stendere questo articolo, pensavo soprattutto a un autore che ho studiato a lungo per la tesi, cioè roland barthes, e alla sua descrizione di una fase della scrittura “al grado zero”. una scrittura neutra, “senza Letteratura”. Cito dal “Degré zéro de l’écriture”:
[…] d’abord objet d’un regard, puis d’un faire, et enfin d’un meurtre, elle atteint aujourd’hui un dernier avatar, l’absence: dans ces écritures neutres, appelées ici “le degré zéro de l’écriture”, on peut facilement discerner le mouvement même d’une négation, et l’impuissance à l’accomplir dans une durée, comme si la Littérature, tendant depuis un siècle a transmuer sa surface dans une forme sans hérédité, ne trouvait plus de pureté que dans l’absence de tout signe, proposant enfin l’accomplissement de ce rêve orphéen: un écrivain sans Littérature.
Barthes parlava di vari tipi di scritture connessi al grado zero, al fine di delineare una “realtà formale” più vasta dei singoli risultati stilistici degli scrittori. è stato anche il mio obiettivo, quando ho messo insieme tre scrittori piuttosto diversi fra loro, ma tutti tesi allo stesso “avatar”: l’assenza.
grazie, buona estate
http://www.teatrodellangelo.it/spettacolo.asp?id=5
nom conoscevo questo spettacolo quando scrissi il saggio (più di un anno fa); mi pare una simpatica coincidenza e quindi posto il link, casomai vi trovaste a roma. Forse me lo vado a guardare :-) …