cropped-Pornografia_02_©2013-Luigi-Laselva09072013174420.jpgdi Maria Anna Mariani

Pornografia di Gombrowicz, regia di Luca Ronconi
Teatro Francesco Torti di Bevagna
Spoleto LVI Festival dei Due Mondi
6-12 luglio 2013

Pornografia di Gombrowicz, diretto da Luca Ronconi, debutta in una località insolita – la frazione di Bevagna, nel suo fiabesco teatro-scrigno. Lo spettacolo è una prima assoluta per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Prossimamente andrà in scena al Piccolo di Milano (dal 13 marzo al 6 aprile 2014) e all’Argentina di Roma (dall’8 al 17 aprile 2014). È probabile che la prima si tenga qui per via delle prove maniacali di Ronconi: un teatro tutto per sé, il palco da calcare giorno e notte.

Lo spettacolo dura quasi tre ore. Hanno una memoria e una resistenza oltreumana questi dieci attori, soprattutto Riccardo Bini e Paolo Pierobon, i due protagonisti. Pornografia non è un’opera teatrale, ma un romanzo declamato, frantumato in monologhi e scarni dialoghi, illustrato da gesti convulsi e sguardi perforanti. Che cosa racconta l’opera di Gombrowicz? È l’autore stesso – e Ronconi concorda – a spiegare, nella sua tirannia di interprete del proprio lavoro,[1] l’idea tramata dal testo: «due signori di mezza età restano affascinati dall’incontro con un ragazzo e una ragazza e si stupiscono della relativa indifferenza dei due, mentre loro immaginano le infinite potenzialità erotiche della coppia». Vecchi, giovani e voyeurismo, dunque. Ronconi scompone in due atti il romanzo del 1960, «il più scandaloso che sia mai stato scritto in polacco».[2] Lo scandalo (moderato) della narrazione divampa con la messa in scena, dove scabroso è soprattutto il linguaggio, disseminato di lussuria, infiammato. Il turpiloquio è assente, eppure ogni parola si scardina dal contesto e finisce per intorbidarsi di allusioni sessuali. Non si tratta solo di doppi sensi: l’ossessione del godimento si manifesta anche nella pressione della pronuncia, nell’apertura vocalica e nella frizione delle consonanti. L’allusività è contagiosa e dal linguaggio passa a corrodere anche i gesti quotidiani più banali e gli oggetti familiari: il collo di una bottiglia, l’orlo di un pantalone. Una pellicola lasciva fodera ogni centimetro del palcoscenico, striato di riflessi metallici, quasi fosse «uscito da un’oleografia»,[3] e che subito introduce straniamento: sulle sue assi a spostarsi sono solo gli oggetti, che scorrono su binari nascosti tra le fessure del legno. Sedie, poltrone e valigie sfrecciano improvvise dentro la scena e poi slittano via, dietro le quinte: è un mobilio animato, «che sembra dotato di vita propria».[4] Stride questo movimento con quello degli umani, che sono invece paralizzati in una fissità che fa pensare. Gli attori non si spostano per davvero: il loro è un movimento sul posto, un sussulto del corpo, prigioniero di posture scultoree, di poltrone fagocitanti, di vagoni del treno. Rinnega le traiettorie questa umanità, bloccata com’è nella propria forma: l’irrimediabile giovinezza o l’inesauribile vecchiaia. Sono territori dai quali non si può sconfinare sul serio; è permesso solo uno spasmo o un tremito – un fremere dentro il limite.

Questa negazione delle traiettorie, questa rigida grammatica delle posture, ci mostra come la drammaturgia – con i suoi formidabili mezzi – riesca a tradurre concetti, a trasformare il pensiero in corpo. E qui il concetto è: la prigione delle categorie, da cui sembra impossibile evadere. È soprattutto dal limite della gioventù che gli individui non possono uscire. Perché la gioventù non è una bolla anagrafica, ma una condizione permanente, una palude in cui gli esseri si rapprendono, si rattrappiscono. Perché i confini non sono fluidi? Perché non si può uscire dalla forma? Perché la forma da cui uno (individuo o gruppo) è definito non è l’oggetto di una scelta, ma un prodotto dello sguardo altrui, che dall’esterno impone un guscio. «La verità è che nel mondo dello spirito si svolge una violenza permanente: non siamo autonomi, ma solo una funzione degli altri, dobbiamo essere quali gli altri ci vedono»:[5] questa è l’ossessione di Gombrowicz, così condensata in alcune righe del suo romanzo più famoso, Ferdydurke, pubblicato nel 1937.

La tortura della forma dolorosamente fabbricata dall’esterno è dunque il tema attorno a cui si sviluppano tutte le opere dello scrittore polacco. Così accade anche in Pornografia, dove due ragazzi finiscono per essere ingabbiati nella gioventù, in una eterna radura di docile irresponsabilità. E qui sono schiavi del godimento mortifero, «di un imperativo del godere che dal di fuori opprime la loro vita come un dovere paradossale».[6] In realtà questi due giovani, Enrichetta e Carlo, non pensano affatto al sesso e sfuggono alla casella in cui i vecchi si ostinano a inquadrarli. Enrichetta e Carlo sono innocenti, sono leggeri, traboccano grazia, risplendono. Ronconi segue il feticismo del romanzo e isola la loro pelle in tonde ginocchia e segmenti di polpacci, componendo un mosaico di nuche, di guance dai riflessi di camelia, di avambracci color miele. Sì, sono belli questi ragazzi; tanto belli quanto innocenti. Ma i vecchi si lanciano in un delirio dell’interpretazione e tessono per loro una ragnatela di libidine. In ogni comportamento insinuano perversione, cercano di convertirli alla loro mania erotica. Si sforzano di raggrumarli in una forma, di incastrarli nell’idea di giovinezza che hanno predisposto per loro, che coincide con sfrontatezza e idiozia. E alla fine ci riescono: riescono a ingabbiarli nella gioventù e a privarli per sempre della prospettiva di essere adulti. All’adolescenza non si può sfuggire.

Eppure i vecchi invidiano Enrichetta e Carlo, perché in fondo vorrebbero essere come loro, così sani e splendenti. Sono sedotti dalla biologia, dai corpi lisci, da tutto ciò che è snello. «Credo che la formula “l’uomo vuole essere Dio” esprima perfettamente le nostalgie dell’esistenzialismo, mentre io gliene oppongo un’altra, ferocemente incommensurabile: l’uomo vuole essere giovane».[7] Così scriveva Gombrowicz, che però aggiungeva anche: «la giovinezza mi appariva come il valore supremo della vita […] ma un valore con una particolarità che solo il diavolo poteva avere inventato: in quanto giovinezza si trovava a un livello inferiore a tutti i valori».[8] È una sentenza: la giovinezza è splendore più palude, scintillio più idiozia, è un valore del diavolo – nel romanzo di Gombrowicz e sulla scena di Ronconi. E nella vita nostra, qui e ora? Anche.


[1] «Ormai sono così stanco di tutti i malintesi accumulati tra me e i miei lettori che, se potessi, limiterei ancora di più la loro libertà di interpretarmi», W. Gombrowicz, “Prefazione all’edizione francese di Pornografia”, in W. Gombrowicz, Pornografia, trad. it. di V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2005, p. 186

[2] È il giudizio di Konstanty A. Jelénski, amico e interprete di Gombrowicz. Citato in F. M. Cataluccio, “La tragedia dello sguardo. Introduzione a Pornografia”, in W. Gombrowicz, Pornografia, cit., p. XV.

[3] È una citazione dal testo, che risuona con grande efficacia sulla scena, esplicitando la scelta dello scenografo Marco Rossi.

[4] W. Gombrowicz, Pornografia, cit., p. 29.

[5] W. Gombrowicz, Ferdydurke, trad. it. di V. Verdiani, Feltinelli, Milano 1993, p. 21.

[6] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, p. 200. Recalcati qui scrive: «la condizione dei giovani-Telemaco di oggi è quella dei diseredati: assenza di futuro, distruzione dell’esperienza, caduta del desiderio, schiavitù del godimento mortale, disoccupazione, precarietà» (Ibidem, p. 4).

[7] W. Gombrowicz, “Prefazione all’edizione francese di Pornografia”, cit., p. 182.

[8] W. Gombrowicz, “Prefazione all’edizione francese di Pornografia”, cit., p. 182.

[Immagine: Luca Ronconi, Pornografia, Festival dei Due Mondi, 2013].

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