di Daniela Brogi
[La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha vinto l’Oscar come Migliore film straniero. Questo intervento è già uscito su «Between», III, 5, 2013].
Qual è il soggetto della Grande bellezza? Di cosa parla il film, mentre racconta come sta al mondo Jep Gambardella? Ripartiamo dalla traccia narrativa: Jep si è trasferito a Roma da giovane, in cerca di successo – come tanti, come tutti – per occupare il centro della mondanità e diventarne imperatore, tanto da essere distolto dalla cura del proprio talento (a venticinque anni aveva conquistato la fama col suo primo e unico romanzo L’apparato umano); quarant’anni più tardi, lo guardiamo vivere: essenzialmente senza far nulla, mentre divaga continuamente, tra feste in terrazza, incontri, passaggi onirici e camminate solitarie sul Tevere; intanto giunge la notizia della morte della donna di cui era stato innamorato da ragazzo. Qual è, dunque, la storia più vera messa in scena? Quella di un’ambizione implosa? Quella dello sperpero esistenziale della mondanità capitolina? Quella di una crisi d’identità e del tentativo di ritrovare una spiritualità? Quella di Roma? Proviamo a muoverci tra le varie ipotesi con minore affanno rispetto alle stroncature e alle accoglienze preventive che si sono buttate addosso al film, spesso al medesimo ritmo frenetico dei balli di gruppo in mezzo ai quali trionfa Jep.
Per dare attenzione al film che Sorrentino ha definito – direi con ragione – il suo lavoro più maturo, è opportuno ripartire da com’è fatta quest’opera.
La grande bellezza non è un film su Roma, e nemmeno è un remake de La dolce vita. Anzitutto perché il documentarismo e il rifacimento sono due moduli estranei alla poetica e al modo di lavorare di un regista che fin dagli esordi (penso al cortometraggio L’amore non ha confini, 1998) si è principalmente ispirato al grottesco e all’allegorismo, eleggendo Antonio Capuano a maestro originario. (Di questi aspetti, e di molto altro, parla la bella monografia su Sorrentino La maschera, il potere, la solitudine, scritta da Franco Vigni, Aska edizioni, 2012).
Per l’uso della macchina da presa, delle luci e dei suoni, per il lavoro del montaggio e la relativa costruzione del tempo del racconto, nonché della posizione del protagonista rispetto allo sfondo, La grande bellezza è un film che persegue in maniera perfino troppo rigorosa un paradossale progetto di impersonalità, impegnandosi a respingere e a impedire a tutti i costi l’effetto classico della messa in prospettiva, tanto nel senso della ricostruzione organica di uno sguardo unico e armonioso sulle cose, quanto nel senso della possibilità di definizione di un bilancio individuale. Per Jep, come per l’opera che lo narra, lo sfondo in cui vive è imprescindibile, eppure non sembra né interessante né necessario, perché il punto di fuga non è nella tela del racconto, né si fissa in una trascendenza a cui guardare; le situazioni sono quello che sono: l’identità della storia, il “Je”/Jep, è formata da chi e cosa accade all’io di frequentare e di incontrare per caso. La voce over con cui il protagonista osserva con distacco la vita – come faceva anche Titta Di Girolamo nelle Conseguenze dell’amore (2004) – non funziona, tecnicamente, da affondo nell’interiorità di Jep. Le inquietudini, il malessere, in qualche modo (perché non è patologica, ma di fatto c’è) persino l’insonnia che lo affratella a tanti altri personaggi di Sorrentino: tutto questo mondo oscuro è messo al di fuori dell’individualità emotiva, è spostato sull’esterno (la maggior parte del film è girato di notte), e viene lasciato esistere senza commento, diventando spazio drammaturgico grazie alle scenografie teatrali, all’uso delle luci e all’interpretazione di Servillo, che è il volto estremo dell’apatia, maschera assoluta di espressiva inespressività; altre volte invece la vita dell’anima si palesa attraverso la rêverie in medias res, senza intermediazioni narrative. In un certo senso, il film tenta di essere quell’opera sul niente che voleva scrivere Flaubert, a cui del resto si rimanda due volte nel film. Mentre anche il titolo si sottrae a un’interpretazione unica, perché per un verso ha un significato letterale riferendosi a Roma, la diva più inseguita di tutte, la capitale mondiale dei tramonti spettacolari: “grande” nel senso di monumentale, di una bellezza che incombe, dà i brividi e pretende venerazione, fino a uccidere («ROMA O MORTE» è la prima frase, incisa su marmo, che leggiamo) – come accade nella prima scena del turista giapponese colto da un infarto al Gianicolo. Per l’altro verso, come racconta la seconda scena di apertura del film – quella della festa di compleanno di Jep – La grande bellezza è anche un titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”, per raccontare, in maniera simile alla bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che «accoglie tutti come un grande catino» (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli, 2010, p. 290), dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno, Proust e Ammaniti; dove il tragico finisce in una pernacchia. Ogni cosa e ogni persona diventano una caricatura e recitano la propria parte: «tutta questa gente non sa fare niente»; non importa che si tratti di una ex soubrette televisiva, di un cardinale, o di una perfida altoborghese convinta di essere un’intellettuale solo perché dichiara di non avere la televisione da vent’anni; il disfacimento è trasversale, con un sottofondo permanente di coazione alla cacofonia (Roma/Romano/Ramona) che non fa condoni al blasone di classe o alla vecchia commedia delle apparenze.
In mezzo a questa terra desolata, i residui di esperienza sentimentale si consumano, di conseguenza, in quanto attimi di riavvicinamento, ma sempre inscenato, alle radici – come nella scena surreale in cui la Contessa decaduta va nella reggia dove è nata, ora adibita a museo, e davanti alla teca contenente la sua culla ascolta da un citofono attaccato a una guida automatica a gettoni la storia del luogo e della sua nascita; e torna in mente pure Jep che parla in dialetto napoletano di quanto è buona la pizza di scarola con la colf filippina, o consuma le minestrine preparate da Dadina (Giovanna Vignola), l’amica nana, davanti a un gigantesco orso di peluche: tutte tracce di un mondo infantile anteriore ripreso però con ironia formale – e il discorso vale anche per i fenicotteri rosa sulla terrazza di Jep.
«Siamo l’unica coppia che si ama», dichiara il personaggio di Lello Cava (Carlo Buccirosso), che aveva fatto la sua prima apparizione nel film gridando tra le danze a una ballerina «T’chiavass’!», e che in un’altra scena scopriremo essere un cliente abituale di prostitute. Eppure Lello non mente del tutto, perché sdentata – con effetti grotteschi spinti fino al kitsch – non è solo la “Santa” (Giusi Merli) ricostruita sul modello di Madre Teresa di Calcutta, ma la capacità di afferrare e fermare, per via del racconto, l’esperienza autentica. L’ingenua contrapposizione tra realtà e finzione è narrata allora per quello che è: un bellissimo e ributtante trucco («trentacinque anni insieme e io appaio in due righe come un buon compagno»; «avete visto? [dirà Ramona di Roma] sembrava enorme e invece è piccola piccola»). Tutto è menzogna, anche quando il protagonista pare avvicinarsi a un momento di verità: «non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare» dice Jep camminando di notte a Piazza Navona, per spiegare la sua fuga dal letto su cui ha appena fatto sesso con Orietta (Isabella Ferrari), una ricca milanese malata di noia e di culto narcisistico della propria bellezza; ma sono parole che si sperdono, svuotate dalla progressione del racconto, perché Jep continuerà a vivere con la stessa pigrizia. (Tra parentesi: Orietta abita, con un’inverosimiglianza che è tanto più visionaria quanto più è mostrata soltanto nella sua muta ma espressiva evidenza, dentro alla cornice di spaventosa bellezza della Chiesa di Sant’Agnese in Agone: il medesimo luogo usato da Celentano in Joan Lui – come ricorda Fulvio Abbate, Roma: guida non conformista alla città, Cooper, 2007, p. 53 -, dove era diventata una chiesa sconsacrata adibita a discoteca).
In fondo, persino Romano (Carlo Verdone), quando comunica a Jep la sua decisione di abbandonare Roma per la delusione, in una certa misura mente, perché, come avevamo impercettibilmente saputo in una scena precedente, nel paese dove farà ritorno ha avuto un’avventura con un’amica della sorella a cui, chissà, potrebbe forse sperare di aggrappare la sua malinconica ricerca della bellezza. La nostalgia, se non la si prende con ironia, come svago, è una baracconata: una necessaria baracconata. («- Che farà adesso?- » chiede Jep al vedovo di Elisa; «- Quello che ho sempre fatto: vivere nell’adorazione di lei», replica Alfredo, che incontreremo dopo una ventina di scene con la sua nuova moglie).
Due circostanze, tuttavia, sembrano interrompere l’eterna ripetizione della vita di Jep: l’occasione di una riemersione del passato, attraverso la notizia del decesso di Elisa, la ragazza amata in gioventù; e l’incontro, e la morte, di Ramona (Sabrina Ferilli), una spogliarellista tanto bella quanto enigmatica per i suoi sguardi di sofferenza. Entrambe le figure si muovono nella storia come due fantasmi, e aumentano, anziché chiarire, l’effetto di opacità dell’insieme, rafforzando il senso che i destini umani, e la narrazione che provasse a contenerli, sfuggano continuamente alla pretesa di una sistemazione unica, capace di comprendere o addirittura di risolvere le scuciture attraverso le quali la vita si trasforma in destino. Da questo punto di vista, Jep Gambardella, come tutti gli altri protagonisti della filmografia di Sorrentino, è una grande figura di solitudine, completamente scollata dal mondo circostante, oltre che da se stessa. Ma il punto da cui si sceglie di raccontare e esprimere questa condizione non è l’introspezione individuale che canta l’angoscia della mancata esperienza della bellezza (altrimenti sarebbe un film sul personaggio interpretato da Carlo Verdone), bensì lo sfondo circostante di involontario eppure implacabile cinismo, il nulla, il nastro di indolenza su cui scorre, consumandosi per logoramento, la fallita sincronia tra mondo interno ed esterno, tra l’ansia della bellezza e il tempo (« – Mi sento vecchio – || – Giovane nun sei – »). Per rendere questo effetto, La grande bellezza si serve di due espedienti particolarmente efficaci: anzitutto la composizione per ellissi, che elimina dalla scena le spiegazioni d’intreccio (come ha fatto Jep a diventare così ricco e potente?), o le situazioni di pathos eclatante (per esempio la mancata paternità, o la morte di Ramona), e disarticola il racconto, eliminando spesso i raccordi, e procurando da un lato l’idea della ripetizione e dello sperpero quotidiano che disturba continuamente la vita; e, dall’altro lato, l’effetto della memoria che lavora sotto la coscienza di superficie (per esempio il ricordo della prima volta con Elisa, spezzato e recuperato in due scene diverse e distanti). L’altra soluzione attraverso cui è resa questa esistenza inattiva, fatta di confusione perpetua tra interno ed esterno, passato e presente, è forse uno dei tratti più forti del cinema di Sorrentino: la saturazione visiva del racconto, intesa non come affermazione prepotente e drammatica dello sguardo soggettivo ma, al contrario, come forma di narrazione della catastrofe in una prospettiva antiromantica e antiromanzesca, cioè senza sviscerarne le cause, ma presentandone le manifestazioni. Tanto il grottesco caricaturale quanto l’onirismo visionario (assecondati da un uso altrettanto straniante della colonna sonora) accrescono il potenziale narrativo della scena, senza spiegare, ma procedendo per sovraccarico e condensazione; per esempio, nel pianto di Jep mentre trasporta la bara di Andrea, si scarica anche la tensione della morte di Ramona, di cui si avrà la notizia definitiva nella scena successiva, ma impersonalmente: senza che ci sia Jep e attraverso una veloce inquadratura del padre di Ramona – uno dei tanti genitori, in questo film, che perdono i figli.
Elisa e Ramona sono le figure di un passato come segreto, fantasmi di una possibilità prodigiosa di felicità compiutasi in un tempo attimale e irrecuperabile («E ora, chi si prende cura di te?»); sono la grande bellezza delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente, se non per un momento, e che non rivivremo più, ma cercheremo per sempre nell’addizione delle singole immagini che compongono un’autobiografia, come racconta la scena in cui Jep sfila commosso davanti alla sequenza delle migliaia di foto, divise per cinquantacinque anni, scattate al medesimo uomo in ogni giorno della sua esistenza. Il rimando più significativo a Fellini (tra i molti omaggi di inquadratura al suo film Roma), potrebbe essere, allora, quello all’episodio riportato da Sorrentino in Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli, 2012, p. 61): «Il grande regista, in un momento non facile, aveva preso a incontrare psicanalisti. || A ciascuno si presentava cortese, si sedeva di fronte, estraeva una foto di se stesso a tredici anni e, con la voce candida che ce lo aveva fatto amare, diceva pacato mostrando la foto: – Dottore, io voglio tornare a questa foto. Lei mi può aiutare? – ». Il titolo del film, a questo punto, non fissa soltanto un’immagine estetica, o morale, ma un’esperienza del tempo e dei suoi «incostanti sprazzi di bellezza», come dirà Jep uscendo di scena e dando inizio al suo romanzo. Il passo di Céline usato sulla soglia iniziale («Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. […] è dall’altra parte della vita» acquista significato pieno solo se recuperiamo il dialogo che intrattiene con la soglia finale, quando Jep dice «Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove», ovvero accetta, come il suo autore, di stare al di qua dell’illusione di oltrepassamento, di non cercare più la grande bellezza pensando la vita come un “apparato”, cioè una macchina organizzata per uno scopo unico, ma si occuperà del silenzio e del sentimento sotto il chiacchiericcio e il rumore.
La biografia di Jep, come quella degli eroi che lo hanno preceduto, non sarà dunque un racconto centrato sull’io, ma un collage di fatti autobiografici, in maniera molto simile a quanto era stato fatto in un libro che, tra i tanti riferimenti letterari presenti ne La Grande Bellezza, è probabilmente il testo citato più sommessamente ma in realtà più presente di tutti gli altri: Nadja (1928), di André Breton (1898-1966), scritto nei medesimi anni dei manifesti surrealisti. Nadja è una narrazione autobiografica antiorganica, che raccoglie le divagazioni frammentarie, squarci memoriali e eventi accaduti all’io narrante in contemporanea con l’incontro, a Parigi, con una donna. (Realmente esistita: sarà internata in manicomio poco tempo dopo la fine della storia con Breton). Nadja è molto bella, di salute debole, e inafferrabile. Il libro parte dalla domanda che Jep Gambardella riporta distrattamente conversando sulla terrazza con Trumeau (Iaia Forte): «Chi sono io? C’è un romanzo che comincia così». Recuperiamolo quell’inizio, perché ricorda molto da vicino la traccia del film: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto. Debbo riconoscere che questa espressione mi porta fuori strada, in quanto tende a stabilire tra certi esseri e me rapporti più singolari, meno evitabili, più conturbanti, di quanto non pensassi. Dice molto di più di quello che vuol dire, mi attribuisce da vivo il ruolo di un fantasma, implica evidentemente un’allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per essere colui che sono» (A. Breton, Nadja, traduz. di G. Falzoni [1972], prefaz. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2007, p. 6). Al racconto dei pensieri del protagonista si alternano immagini: di monumenti, dei personaggi incontrati, dei disegni reali di Nadja: uno, in particolare, sconcerta per la somiglianza con la scena de La grande bellezza in cui Ramona passeggia per Roma, con Jep, indossando un curioso mantello. E colpisce il finale: «La bellezza sarà CONVULSA o non sarà» (p. 137).
È solo un trucco: il romanzo di Jep può avere inizio.
Sopra: Ramona (Sabrina Ferilli), in La grande bellezza (2013)
Sotto: Disegno di Nadja (in A. Breton, Nadja, traduz. di G. Falzoni [1972], prefaz. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2007, p. 103).
[Immagine: Sabrina Ferilli in La grande bellezza di Paolo Sorrentino (gm)].
La grande bellezza della recensione, ovvero come trasformare un film mediocre in un raffinato oggetto teorico.
La grande bellezza è anche un film su Roma. Una Roma osservata con gli occhi di un non romano, capace di estetizzarla fino al suo completo annientamento. Morta Roma, sepolta la sua cinica e sleale indifferenza, nasce Jep e inizia così la romanzesca archeologia del suo fallimento. Tra le immagini bretoniane, quella forse più efficace per descrivere il film non è tanto la “bellezza CONVULSA” di Nadja, ma quel potente ossimoro visuale che è l’ “explosante-fixe” evocato nell’Amour fou…
A me pare che il meglio del film sia quando Iaia Forte risponde a una stonatissima Pamela Villoresi, che le ha domandato “Hai cambiato colore di capelli?”, “Mi sentivo pirandelliana”… tutto il resto è Breton (?!)
ammaniti con un n
Un’ottima difesa del film. Che resta però un’opera piena di citazioni e di cliché, pure a tratti visivamente affascinante (come sempre nel caso dell’autore), non solo da Fellini ma anche da Scola. Devo dire che a Breton non avevo pensato. Mi ero fermato a La Capria: il personaggio di Jep lo ricorda molto, anche per il fatto che non si sa da dove gli vengano i soldi che gli permettono la vita che conduce – ma da Napoli, evidentemente, da una buona famiglia napoletana! Devastante, nel senso del Kitsch, la scena finale del film: per nulla bretoniana, mi sembra.
Nel film Roma é eterna, una bella ed eterea morta vivente, che la Ferilli ha interpretato benissimo.
La Roma della romanità vera, lavoratrice e solidale é altra cosa, e in questo film non può avere spazio.
Ottima recensione.
Il motivo fondamentale dell’opera, che mi pare poi essere il vero elemento di raccordo con La Dolce Vita, è la ricerca di un’identità stabile, dove il ritrovamento di questa deve venire a coincidere con la possibilità stessa della Verità, vale a dire di quell’elemento che si contrappone al binomio Nulla-Tempo che è poi, come giustamente detto, l’antagonista, se così si può dire, principale del film (e, come insegna proprio Proust in una certa tradizione, anche della possibilità stessa di fare l’Opera: e Jep ricomincia a scrivere). In questo senso anche il passato di Jep, la sua effimera relazione amorosa, viene a caratterizzarsi come il punto, l’unico probabilmente, in cui è riuscito a Consistere, cioè ad esprimere un Io stabile, gravido di Senso (“le radici sono importanti”, dice la Santa, e a quel punto Jep riattiva il meccanismo della Memoria che ecc. ecc.).
Non so se Daniela Brogi pensasse quello che penso io riportando la citazione sul «grande catino». Ma questa in qualche modo mi conforta quando, vedendo il film, ho subito pensato che il modello principale (ma è in fondo il modello di una lunghissima storia al quale “La grande bellezza” certo appartiene) fosse il Peer Gynt di Ibsen, la storia dei suoi “erramenti” vissuti alla luce dello spirito del Tempo che nega qualsiasi possibilità di Essere agli uomini presi nel suo flusso. Alla fine dell’opera, poco prima della “redenzione”, il fonditore di bottoni dice a Gynt che anche egli, come tutti gli uomini che non sono stati in grado di dire quando sono stati “se stessi”, dovrà essere fuso nel suo catino.
Finalmente un giudizio articolato e non semplicistico (come ne ho sentiti
tanti, il più ricorrente: un remake della dolce vita…).
Premetto che a me il film è piaciuto molto. Ovviamente mi sono piaciute le
musiche ‘potenti’ (Arvo Part ecc), ma soprattutto il discorso sulla bellezza
che si oggettiva potendola cogliere purtroppo solo in attimi, frammenti
istantanei della nostra vita, attimi sacri oserei dire, ma fuggenti, che
costantemente vengono rigettati nella banalizzazione della fatica e della
sofferenza quotidiana (ancorché di personaggi nullafacenti).
Anche il bilancio individuale diventa qui oggettivato (nel
senso della Tragedia classica). Tutti viviamo nel dramma dell’insincerità, del
vuoto, della fine e i momenti isolati in cui riusciamo a cogliere un altro
tempo e un altro spazio; sono le luci che squarciano l’oscurità della selva,
per pochi attimi, conferendo senso.
E’ vero: la recensione nobilita e trasfigura un film artisticamente mediocre, oscillante fra il kitsch e il trash, culturalmente ripetitivo (citazioni a non finire e ‘remake’ da Fellini e da Scola davvero stucchevoli) e ideologicamente regressivo (l’esaltazione della ‘santa’ e dell’algofilia cattolica potrebbero ben figurare in una ‘fiction’ dedicata a padre Pio). Un film che segna, rispetto alle prove precedenti di Sorrentino (in particolare, rispetto ad un film algido, percussivo e scarnificante come “Le conseguenze dell’amore”), il punto più basso della sua produzione e della sua poetica. Del carro di Tespi allestito con “La grande bellezza” si potrebbe perciò dire pari pari quel che Rossini disse ad un compositore che si era rivolto a lui per un giudizio su una sua opera: “Quel che è bello non è nuovo e quel che è nuovo non è bello”. Piuttosto, sarebbe interessante, inquadrando l’opera in un contesto più ampio, domandarsi quali siano le ragioni (artistiche, culturali, civili ecc.) dell’involuzione di un autore che pensavamo (e, nonostante questa brutta prova, pensiamo ancora) potesse fornire un valido contributo alla rinascita di un cinema di qualità nel nostro paese.
SEGNALAZIONE
Due letture più dissonanti e forse meno estetizzanti e formalistiche:
1.
Franco Nova – QUALCHE SPUNTO SU “LA GRANDE BELLEZZA” DI P. SORRENTINO
(http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=316:franco-nova-qualche-spunto-su-la-grande-bellezza-di-p-sorrentino&catid=8:zibaldone&Itemid=25)
2.
Rita Simonitto – La Grande Bellezza: dietro i Ray-ban, niente.
(http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:rita-simonitto-la-grande-bellezza-dietro-i-ray-ban-niente&catid=8:zibaldone&Itemid=25)
Preferisco la critica più equilibrata e competente di Daniela Brogi.
Caro Abate, ho letto le recensioni da Lei segnalate e, ripensando a quell’opera sul niente, evocata nella recensione del film, che Flaubert avrebbe voluto scrivere, ho ritenuto che un approfondimento, in chiave meontologica e/o udenologica, della “Grande bellezza” potrebbe partire da una riflessione su questo apologo brechtiano.
” – Chi si occupa di se stesso non si occupa di nulla. E’ un servo del nulla e un padrone di nulla.
– Dunque quello che va bene è l’uomo che non si occupa di se stesso?
– Sì, se non dà motivo che altri si occupino di nulla e servano il nulla, che non sono essi stessi, o padroneggino il nulla che non sono essi stessi, disse ridendo il signor Keuner, il pensatore. ”
(Bertolt Brecht, Storie da calendario)
P.S.: va da sé che meontologia (= scienza dell’essere dell’io), udenologia (= scienza del nulla) e ontologia (= scienza dell’essere in generale) non sono altro che declinazioni di un’antica, grande e temibile scienza, che si chiama Dialettica…
Sempre a proposito di Flaubert, ho l’impressione che Barone, con buona pace di Buffagni, stia tentando di coinvolgere Abate in una relazione esclusiva alla Bouvard et Pécuchet.
…meontologia, udenologia, ontologia… Azz!!!
Magna haec quidem, sed non principalia, idest quae summae admirationis privilegium sibi iure vendicent. (*)
Giovanni Fico della Pirlandola, 1486
…
(*) (traduzioni):
– tedesco (Federico Fico de Niccis, 1874): Vom Nutzlosigkeit und Nachteil der Netzwerk für das Leben.
– italiota (Gino Fico de Paolis, 1991): Eravamo quattro amici al bar…
Caro Giulio,
e Cucinotta? Me lo lascia fuori, Cucinotta, dal nostro Quartetto Cetra di rusteghi brontoloni?
@ Buffagni
Ha ragione, mi scuso per la colpevole dimenticanza, sperando che Cucinotta non me ne voglia.
Carissimi,
non crediate che io mi sia rifiutato di partecipare a questo gradevole scambio di battute, l’ho fatto, ma la redazione mi ha censurato.
Non me ne dolgo più di tanto, in fondo si tratta solo di umorismo. Mi dispiace questa tendenza al politically correct che si tramuta poi in censura effettiva e che ci porterà non so dove, temo verso una deriva di tipo fondamentalista.
@ Cucinotta
Se m’invia il testo censurato (a: poliscritture@gmail.com), valuto e pubblico.
Complimenti a Rino Genovese. Il modello di Gambardella è La Capria, la sua parabola esistenziale di scrittore, e magari anche certo modi di fare.
Mi associo all’apprezzamento di Lazzarini: un recensore che guarda e riguarda il film, ne connette parti disarticolate, insomma lo analizza prima di stroncarlo frettolosamente. A me il film e’ piaciuto molto e ho letto (con qualche fastidio e disappunto) solo recensioni che si affrettavano a liquidarlo come involuzione, ripetizione, esibizione zione zione zione… Finalmente qualcuno che lo considera almeno degno di essere sviscerato.
Vorrei dire molto altro ma ora purtroppo non posso. Aggiungo solo questo, marginalmente e sottovoce. Non penso che in Sorrentino ci sia Gadda, ma ho sempre pensato che se oggi avessimo un Gadda – tralasciando ovviamente il Gadda gnoseologo e parlando solo della funzione Gadda in senso stilistico – saprebbe descrivere il rimescolio di corpi umori, desideri bellezza e bruttezza, sfatta tragedia e pietoso baccanale che la convulsione di una discoteca contiene. Almeno abbiamo Sorrentino.
E che dire del fortuito incontro notturno di Jep con Fanny Ardant? Un sorriso reciproco, l’augurio della buona notte… In mezzo il fantasma di Truffaut e della grande bellezza dei suoi film. E come l’evocazione di un’idea centrale di molti di quei film (e del film di Sorrentino): lo smarrimento dell’oggetto d’amore, la perdita, l’irredimibile solitudine. Mi sono venuti gli occhi lucidi.
(Grazie a Daniela Brogi per il suo ottimo scritto)
Ma veramente a qualcuno è piaciuto questo film di Sorrentino? Prendo nota.
Finalmente una recensione vera e propria, che analizza e spiega scene, linguaggi, narrazione, citazioni etutto il film, e il retrofilm. Non una analisi giornalettistica che colpisce e mettere in rilievo due o tre aspetti. Cosi’ si leggeun libro, così si guarda un film. Ma per far questo, bisogna aver dentro tanti frammenti di cultura, memorie, una visione del mondo personale che si estende all’epos, alla narrazione collettiva.E’ una vera e propria recensione critica che distingue le arie parti , divide spazio e tempo, spostandolo a volte n un altrove, che segue le dinamiche del film. Per far questo ci vuole una cultura, che molti giovannottielli improvvisati giornalisti e soprattutto ‘gossippari’, non possono fare. Mancano gli strumentio. Vivaddio c’è la Brogi che sa fare il suo mestiere! Ce ne fossero tante come lei!
Molto appropriato il riferimento a Nadia di Breton, che non molti avranno letto. Nuova la defoinizione di autobiografia frammentata, che sono la vera cifra stlistica di molti film e narrazioni. Il film è stato liquidato troppo superficialmente e con scarsa argomentazione da altri, che non avevano adeguata preaparazione e background culturale.
Non basta guardare a Fellini per avere la pretesa di pontificare sulla grande città in assenza di un profondo esame preventivo e di una autentica ispirazione…
Il regista non ha raggiunto la maturazione anzi per tutto il film propina concetti paradossali pronunciati da un protagonista scostante e ,diciamo la verità,improbabile sia a livello intellettuale che umano… così come improbabile è la lunga serie di conoscenti che ricorrono alle sue inutili consulenze…
Infine,confessiamolo,Sorvillo è proprio antipatico nel suo desolante menefreghismo.
Non credo che in America conseguirà un qualche premio.
Peccato per l’ottima occasione perduta!
Il regista si era prefisso, forse senza troppa convinzione, scopi parodici e satirici, non senza la continua intenzione di farcirli di ogni genere di citazioni: alla fine di una estenuante parabola è naufragato – l’inconscio non si è lasciato aggirare o tradire – nella più convinta e aperta apologia
recensione non meno cerebrale e intellettualistica del film recensito. (Più colta, questo sì.) La domanda che viene da porsi in questi casi è la solita: che film ha visto? o meglio: quale ha voluto vederci?
Senza nulla togliere alla competenza e all’intelligenza dell’autrice, di cui ho letto degli interventi più che apprezzabili, le recensioni vi prego, lasciamole a chi le sa fare. A meno qualcuno non ci abbia commissionato una marketta o che, peggio ancora, non ce la siamo commissionata “motu proprio”.
Una molto analitica visione del film che omette (perché non può che essere che un’omissione volontaria) il vero messaggio potente potente del film:
– la nana è la cultura italiana, che ormai non ha più niente da dire da decenni;
– la cultura che si è rifugiata tutta sotto all’ampio mantello del PCI, come si vede nell’abito della performer, la stessa che ha la bandiera rossa dipinta sulla fessa a dimostrare che gli intellettuali si sono prostituiti al PCI (anche se oggi di chiama PD) e che un altro napoletano , Edoardo Bennato, ha sbeffeggiato a suo tempo in “Sono solo canzonette” quando fa comprendere che gli artisti devono sottoporsi ai ricatti del partito per non sparire;
Gli impresari di partito
mi hanno fatto un altro invito
e hanno detto che finisce male
se non vado pure io
al raduno generale
della grande festa nazionale!
…. hanno detto che non posso
rifiutarmi proprio adesso
che anche a loro devo il mio successo,
che son pazzo ed incosciente
sono un irriconoscente
un sovversivo, un mezzo criminale!…
– e poi c’è la grande omissione: quella della frase lapidaria del trafficante di droga (arrestato dalla Dia) quando dice “sono io che temgo in piedi questo paese, solo che non ve ne siete accorti”; frase che definisce quello che è il paese: un paese del narcotraffico gestito da tre delle più potenti organizzazioni criminali del mondo.
Poi ci sono alcune cose che non sono state comprese:
– l’incontro con la signora francese è il rimpianto per un vero intellettuale di non aver fatto il grande salto, da Roma, una città culturalmente morta, a Parigi, città che viene evocata anche dal battello sul fiume la mattina, Parigi che è un centro di vera cultura;
– l’elemento mare che è il bello assoluto per un napoletano, che potrà mai farsi fascinare dalla bellezza di Roma, città che nel film è quasi una Pompei, cioè un museo a cielo aperto, ma morta, rappresentata sempre senza abitanti, salvo i turisti che, in ogni sito archeologico sono gli unici che la abitano;
_ e poi c’è la demolizione di Milano attraverso la Ferrari e le sue immagini di se, un modo per dire che Milano vive solo di un continuo pompare la sua immagine di altra città assolutamente vuota, incapace di creare cultura;
– e per finire, credo che Sorrentino si sia preso gioco dei suoi attori offrendogli parti che scoprono la loro vera faccia, natura e storia: Verdone, la Ferilli e la Ferrari rappresentano nel film anche se stessi, essenzialmente grandi speranze, grande esposizione ma poco contenuto;
– poi c’è la questione se sia una citazione, omaggio, seguito della Dolce Vita: siamo molto lontani, perchè Fellini è un provinciale che ha cercato di capire Roma associandola alle sue personali nevrosi sessuali; Sorrentino, napoletano, cioè abitante di una città mai domata culturalmente da Roma, ma anzi sua contaminatrice, non se ne fa affascinare, la grande bellezza della città è solo nei suoi monumenti, quelli del passato, (mai viene mostrato un pezzo della orribile Roma di Piacentini o quella dei palazzinari, ma è una bellezza artificiale, morta, che non può competere con los cenario del Golfo di Napoli e neppure con una città, Napoli, in cui gli abitanti sono vivi nonostante la continua lotta per la sopravvivenza, perchè Roma è città di burocrazia, di anime morte, di persone che non devono pensare, oppressa dalla Chiesa che chiede obbedienza cieca e assoluta, senza pensare, fino a stootoporsi agli assurdi riti di quel simulacro di Madre teresa di calcutta che sale la scala santa, e non ci può essere bellezza nell’umano se non nel suo pensiero critico. Cogito ergo sum, la burocrazia papalino-piemontese e la chiesa non ammettono il pensiero, ma solo l’obbedienza.
Il film colpisce, disturba, è interessante.
E’ anche importante, in un certo senso, racconta e segna questa periodo, questa storia.
Può non piacere. Sarà, poi vi piacciono schifezze.
Qualcuno i conti doveva pur tirarli, di tutte quella inutile egotistica utilità, Sorrentino l’ha fatto, fatevene un ragione: è stato bravo.
Dopo aver visto il film (ho comprato il DVD) ho cercato alcune recensioni e una sul post mi ha rimandato a questa. L’ho trovata molto interessante. Volevo aggiungere qualche mia considerazione. Jep non piange la morte di Ramona al funerale del ragazzo perchè Ramona é li e lo guarda stupita perchè gli aveva detto che non si piange ai funerali per non rubare la scena al morto. I soldi sembra che li faccia vendendo coca nei salotti bene? Da alcune scene io direi di si. Nel film i protagonisti sono gli anziani, i giovani sono solo comparse per le feste e non fanno nulla tranne annientarsi fino alla morte. Potresti aggiungere alcune considerazioni in questo senso. Mi piacerebbe sapere che né pensi
C’è questo personaggio ne troppo acculturato ne troppo rozzo che naviga nel web al quale piace saperne di piu su tutto cio che gli interessa. Questo personaggio ha guardato il film è gli è piaciuto. Dice che il film gli è piaciuto molto. Egli ha comprato un cd e così ha potuto guardarlo piu volte. Sembra che quando sente di riferimenti a illustri personaggi della letteratura si senta coinvolto forse vorrebbe forse appartenere a quel mondo ermetico nel quale altri si muovono con facilità. Sarà così!! In efetti la prima volta il film lo ha guardato con alcuni amici ed ha notato che ognuno coglieva particolari che a lui non notava. Uno ha notato la ricercatezza del vestire. Un altro ha notato l’uso disinvolto della coca. Un’altro i dialoghi, istruttivi diceva. Un’ altro visto che tutti morivano ha preferito facebook. Troppa decadenza lo mortificava.
Così, visto che aveva il cd lo ha riguardato e quello che ha notato e che davvero questi personaggi non sapevano fare nulla. In questo ha visto uno spaccato dell ‘Italia di oggi. Nessuno nel film ha mai fatto cenno ai problemi quotidiani. Il gossip era l’argomento principe nel sebbene a cenni brevi. Fino ad arrivare al tracollo totale “signora la povertà non si racconta si vive”Non sa se questa cosa per il mondo della cultura sia o no importante ma per lui lo è. E’ disoccupato da un anno e il cd (pezzotto) lo ha comprato da Mustafà, che in senegal ha tre mogli e quattro figli (che esagerazione). In effetti la signora in bianco ha tentato di parlare di impegno civile, ma Geppino gli ha fatto notare che era meglio se stava zitta.
Questo personaggio che tendenzialmente è comunista perchè è povero ha provato come un brivido di piacere guardando quella scena del film. E siccome è contro le guerre (che se ci fossero lui dovrebbe combattere da soldato di fronte) il piacere è stato piu forte perchè Geppino dice alla signora in bianco “vogliamoci bene”. Poi ha incontrato questo blog e la recensione del film di Daniela Brogi, (che ha meritato tutto il tempo speso a leggerlo)ha letto anche i commenti al film e al post, illuminanti e simpatici, Ha notato che tutti o quasi tendevano a paragonare il film o i riferimenti nel film ad opere precedenti come se nel film stesso non ci fosse nulla di nuovo. E allora si domanda: ma è tutta qua la cultura? chiudersi in cerchio e cercare riferimenti storici? Un po’ come fare un viaggio a ritroso nel tempo incontrare Galileo e dirgli “lo sai che somigli ad Einstein” e viaggiando ancora incontrare Leonardo e dirgli “lo sai che somigli a Galileo” e ancora, Aristotele diverrebbe Leonardo…ecc Ps La mail è mia, ma ritenete offensiva sta cosa prendetevela con il personaggio. “Vulimmoci bene”
Grazie maurizio2 per la tua analisi del mio personaggio… Hahahhahahahahahhahahah mi hai fatto schiantare dalle risate. Non avrei mai pensato che qualcuno potesse perdere tanto tempo a parlare del dito invece che della luna. Io il film l’ho visto soltanto ora una volta dopo averlo comprato (BD non DVD perchè mi piace l’alta definizione e il tablet ha corretto da solo) perchè me l’ha consigliato un amico. Io non ho capito nulla ma questo non vuol dire che non ci ha capito nulla nessuno. Ringrazio Daniela Brogi per averlo spiegato meglio e maurizio2 per le risate.
P.S. maurizio2 attento agli accenti e alle doppie per il resto “volemose bene” :-D
L’investitura holliwoodiana di un film ideologicamente equivoco ed artisticamente mediocre conferma pienamente come la faccia gommosa di Toni Servillo sia la maschera perfetta per vendere cinematograficamente l’Italia allo zio Sam e avallare per l’ennesima volta, oltreoceano, una rappresentazione di Roma e dell’Italia che, ad onta dell’insistito citazionismo e delle meccaniche equazioni di un’artificiosa allegoria (per cui si veda il commento di Nicole Kelly), è incapace di sollevarsi dal folclore postmoderno e non riesce mai ad attingere la compiutezza e l’organicità di una visione esteticamente valida e razionalmente articolata. Viene in mente un epigramma di Marziale: “Pimpla cerca di scalare l’Olimpo [magari armato di un Golden Globe], ma gli dèi lo ributtano in giù a forcate”. La volgare eruttazione di Servillo nei confronti di una giornalista di RaiNews, che ha avuto l’ardire di accennare alle critiche rivolte al ‘suo’ film, assume così il significato di degno suggello, per così dire paratestuale e transitivo, dell’effettivo valore che va riconosciuto alla “Grande bellezza”.
a coloro che criticano questo film andando a scavare per trovare la minima imperfezione, dico solo che vi meritate una intera vita cinematografica all’insegna dei cinepanettoni e attori usciti da qualche squallido programma televisivo o dai reality show.
@Nicole Kelly
Commento il suo che oscilla tra Zitara e Celati :-) (http://rebstein.wordpress.com/2010/05/29/conversazione-con-gianni-celati/)
Concordo in pieno!
onestamente, è un film molto nella norma : tecnicamente ben girato, con un’ottima fotografia, ma con un accumulo di “retoriche” che alla fine cigola e un po’ satura, senza sfamare
Concordo con chi ha sostenuto prima di me che la recensione di Brogi sia migliore del film. Ho visto La Grande Bellezza senza pregiudizi, e mi ha lasciato completamente indifferente. Non mi ha detto niente che il Modernismo non avesse già comunicato – in diverse forme – con scarto, dolore, frustrazione, engagement intellettuale. E bellezza.
Sorrentino non ha messo in moto niente nella mia coscienza di spettatore (probabilmente non all’altezza, è possibile). Non ho inoltre gli elementi per valutare l’abilità di Sorrentino a livello tecnico, ma cosa me ne faccio del manierismo, dell’esibizione di clichés che la critica straniera avrebbe apprezzato.
Mi ha colpito il riferimento a Gadda in un commento: penso che sia totalmente fuori luogo. Il Gadda ‘stilistico’ non esiste se non come strumento ed in funzione del Gadda ‘gnoseologico’: una così banale rappresentazione della classe clerico/nobile/intellettuale/alto-borghese – insomma, decadente – Gadda la rivolterebbe contro Sorrentino come una scarica di mitra.
Spero che questo film non vinca l’Oscar, e non per fare l’anti-italiana, anzi. Mi piacerebbe che un riconoscimento internazionale venisse conferito ad un film italiano che tra 50 anni non sarà visto (se sarà visto) come l’ennesimo bozzetto dipinto, con compiacimento, sulla scoperta del Niente. Che scoperta! Grazie Sorrentino, per averci illuminato.
Sono curiosa poi di vedere il film palestinese entrato nella cinquina. Sono italiana, e quello che accade in medio oriente mi sfiora da lontano, lo vedo in tv, ne parlo come se avessi una concezione concreta della vita di altri, quando il contesto sociale lo impone, magari durante l’intervallo di un film. Eppure sono pronta a scommettere – almeno in base al trailer – che questo film saprebbe dirmi molto di più sulla realtà, non dico per forza politica, o sociale, ma dell’essere umano; costringermi all’analisi, alla riflessione. Forse è un mio problema, ma in questa fase storica l’intrattenimento con l’aureola mi dà la nausea.
Non so dove vive chi ha contrapposto Sorrentino ai cinepanettoni, da quale genere di analisi del consumo di cultura derivi questo confronto. Sorrido però all’idea che, dopo l’eventuale conferimento del premio, l’italiano borghese medio – adesso impoverito, e molto meno alieno di quanto non appaia a tanti commentatori – si sentirà obbligato a sorbirsi il capolavoro, in una grigia domenica, ringraziando per la scomodità delle poltroncine del cinema (inibiscono l’imbarazzo di essere svegliati dalla persona seduta accanto), ingannando il tempo pensando alla compilazione del 730, o simili.
Purtroppo, ultima aggiunta, La Grande Bellezza si associa perfettamente a una frase, anche questa diventata luogo comune: ‘quando il sole della cultura è basso i nani sembrano giganti’.
perdonate gli errori e anacoluti ma ho scritto di fretta.
Come sempre, continuamo a farci del male…
Certe critiche si commentano da sole, speriamo almeno, dati i tempi, che dietro il giudizio sulla presunta “faccia gommosa” di uno dei nostri migliori attori (ma a teatro ci andate mai, tra un blog e l’altro? Almeno chi di voi è in pensione…) non si celino involontari rigurgiti del buffo (ma non per questo meno squallido) razzismo padano antimeridionale.
@ Sandra. Ritiro quello che ho detto su Gadda (per la verità avevo detto anch’io che c’entrava poco con Sorrentino, io intendevo dire un’altra cosa).
Mi pare che ragioni di viscerale odio morale, politico, estetico per prendersela con questo (bel, IMHO) film ce ne siano già parecchie. Non cerchiamo appigli ovunque.
Dunque, ritiro quello che ho detto su Gadda.
il giapponese crepa di infarto per i motivi per cui si muore di infarto : perchè fuma mangiae beve e non se muove mai. questo fraintendimento che ne fa una metafora a tutti i costi è il paradigma della critica come ars retorica capace di “cantare un elenco telefonico” come il testo apparentemente sensato di una canzone. e poi la La Terrazza di Scola mi sembra il film più saccheggiato in senso letterale. Fellini e sciommiottato. Dalla Terrazza di scola sono stati proprio espiantati degli organi. Sorrentino sa usare la macchina da presa benissimo. questo non lo nega nessuno. ma manca di una cosa. manca di Genio.
Una delle poche recensioni critiche davvero ben fatte che è possibile trovare cercando su Google. Grazie.
p.s. Io ho trovato toccante il rapporto tra Jep e Ramona, pieno di scene all’ interno delle quali Jep sorride della morte, o le attribuisce scarsa importanza (il dialogo con il figlio problematico al ristorante, il cinismo con cui parla dei funerali, tutto ciò davanti a un’ amica conscia di quello che le sta per accadere, nonostante le cure). La canzone che accomuna la morte di Ramona e la ‘ricerca di Elisa’, quella del bar, nel ritornello recita anche’ essa: “I would sail back to you”.
Ah, un’ ultima cosa: trovo che i tecnocrati del cinema che non fanno altro che parlare di Roma, Roma, Roma, Fellini, Sorrentino…beh, non siano destinati alla sensibilità, non siano destinati a diventare Jep Gambardella. Ciao.
E’ davvero necessario commentare qualcosa nei termini in cui lo fanno la maggior parte di questi post? Con paragoni rimandi e via dicendo. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, ma cambia il modo di vedere. E per me Sorrentino ha visto bene. A me è piaciuto parecchio, la bellezza aleggia terribilmente in una lacrima, nello squllore, nella poesia, nei frammenti, ci sfiora e irrimediabilte ci scappa. Anche quando ne siamo costantemente circondati. Come scappa la vita
Concordo in pieno sui significati attribuiti al film. Ho solo paura: che tutti questi riferimenti, queste considerazioni nascano più dallo sforzo chi osserva il film volendone fare a tutti i costi un’opera colta, piuttosto che dalle intenzioni reali dell’autore. Concordo sul fatto che il film esponga molto di più la grande bruttezza, di un mondo in cui tutto si mescola, sacro e profano, giorno e notte, giovani e vecchi, ricette e preghiere, teatro e vita reale, e in cui, tutto questo party infinito, finisce per annullare i sogni, le capacità e i sentimenti di tutti coloro che ne fanno parte. Non vorrei però trovarmi nella stessa posizione di coloro che ammirano nel film “performance” dell’artista che nuda da una testata al muro con la rincorsa. Non credo che basti a volte creare “vibrazioni extrasensoriali” per creare una opera colta, per citare il film stesso. Il film mi è piaciuto ma forse pecca nel non voler spiegare con la volgarità delle parole la natura delle vibrazioni e si ritrova in alcune parti ad essere un pò fuffa ed un pò slegato da un soggetto e una regia sicuramente apprezzabile. Personalmente credo che la grande bellezza sia presente in larga parte nella vita e che una bruttezza simile è forse vissuta dallo zoccolo colto della società che non sa più a che SANTE votarsi.
Qualcuno ha letto La Recherche? Io vedo essenzialmente questo grande riferimento e ne ho avuto conferma quando Jep – Swann – Marcel ha una ” rivelazione” mentre mangia la minestra che gli ha preparato l’amica editrice e viene chiamato jeppino….come accade per La madeleine di Prost intinta col cucchiaino nel the’.
E’ un film sulla disperazione.
La disperazione di vivere – anche di vuoti, anche di trenini che non portano da nessuna parte – che non ha consolazione. Se non il farci compagnia tra di noi, con affetto, o perlomeno con solidarieta’.
D’altra parte (altrove?), guardando bene, c’e’ pure bellezza da cogliere nella fatica di vivere.
I protagonisti del film – nel bene e nel male – non sono in cattedra, ne’ dentro una teca, ne’ su di un piedistallo.
Sono, un po’ tutti, umani, e mediocri. Nettamente umani e mediocri.
Un gran film, che superato lo sconforto, poi ci fa sentire meno soli.
E si, la riedizione di questo pezzo era dovuta.. ahahhahahah
grande Daniela Brogi!!!
Ho ripensato subito al suo bel pezzo quando si parlava di vitoria agli oscar del film ^__^
Ne scrivevo ieri altrove, in rete. Sorrentino ha un talento specifico. E’ in grado di entusiasmare il prossimo con grandi colpi di superficialità. E’ un talento raro etc. E questa, probabilmente, è la sua opera più matura. Purtroppo, temo, la bellezza in questo caso è appannaggio degli entusiasti. L’entusiasmo non ha limiti di sorta, alligna tra i buzzurri come tra i critici del cinema e della letteratura. Non è neppure criticabile. Come fai a dare addosso a chi si entusiasma? Devi dirgli forse esci da quel tuo entusiasmo? Devi battere forte le mani? No. Hanno tutti diritto all’entusiasmo. Ma, se è corretta l’etimologia di entusiasmo rispetto a quell’essere pieni d’un dio, ispirati da un dio – forse è bene chiedersi di quale dio si tratti ora.
Lasciamo perdere gli dèi, lasciamo perdere questi continui giudizi dall’alto, molto più superficiali della superficialità che pensano di svelare…
Ricordano molto gli equivoci interpretativi, concepiti sempre da menti sussiegose rivelatesi alla lunga culturalmente povere, nati intorno a molti classici letterari al momento del loro apparire.
Fa parte della tradizione e della fortuna dei classici: spesso la loro grandezza è colta da menti meno “raffinate” (ehm) ma più sensibili.
Ci vuole sempre tempo perché le menti raffinate (ehm) afferrino… la bellezza.
Grazie ancora a Daniela Brogi per la splendida recensione.
E grazie soprattutto, oggi, a due Napoletani – Sorrentino e Servillo – che con la loro fantasia hanno onorato il nostro Paese, troppo spesso nei loro confronti ostile, sprezzante o semplicemente ottuso.
Quanti grazie. Che entusiasmo.
NON SO PERCHE’ IL MIO COMMENTO SIA APPARSO IN ALTRO POST. L’AVEVO MESSO QUI E QUI LO RIMETTO [E.A.]
Malgrado l’Oscar appena ottenuto che dovrebbe tappare la bocca ai dissenzienti, io non riesco a capire l’entusiasmo per questo film da parte del ceto medio intellettuale che sembra vi si rispecchi quasi con soddisfazione. E mi pare che l’acume interpretativo mostrato da Daniela Brogi nella sua elegantissima lettura critica resti in parte mal speso e monco.
Non ci sto e mi permetto qui di seguito delle obiezioni – diciamo pure – moralistiche, antiquate, esterne.
Perché convocare Flaubert, Breton, Fellini per nobilitare quest’opera?
Concesso che il titolo voglia essere antifrastico e sia usato per rivelare la “grande bruttezza” (quale, per favore?), non è che a questa ci si adatti pigramente, “naturalmente”?
Come non scavare sul nichilismo di fondo del film? O sul fatto che siamo alla rassegnata accettazione della impossibilità di qualsiasi mutamento o cambiamento (non “renziano”) del mondo e alla negazione di ogni responsabilità individuale?
Se la tesi di fondo è che «tutto é menzogna», come si fa a sopportare la menzogna?
Ed è solo il personaggio a lasciarsi sfuggire il «momento di verità» o è lo stesso regista che asseconda la sua cecità con la «progressione del racconto», permettendo che quelle parole vere (: «non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare») non si facciano mai gesto anche minimo di rivolta individuale? E, in tal caso, come non dire che è lo stesso regista a compiacersi e adattarsi a questo nichilismo?
E poi, fuori dai denti, chi sono quelli che si possono permettere di inseguire «la bellezza in disfacimento delle nature morte barocche»?
A me pare che con la scusa che non sia possibile pretendere «una sistemazione unica, capace di comprendere o addirittura di risolvere le scuciture attraverso le quali la vita si trasforma in destino», ci si adagi nel buco nero detto “destino”. Anzi si facciano diventare “destino” tutte le azioni prodotte da altri e da noi.
La solitudine «completamente scollata dal mondo circostante» non si fa più critica del mondo circostante. Perché mai? Perché è oggi impossibile qualsiasi critica? Perché l’unica critica possibile sarebbe questa messa in atto dal regista?
E perché mai «l’angoscia della mancata esperienza della bellezza» non si dovrebbe più tramutare in *responsabilità* o in *maturita* che rifiuti la menzogna? Perché, invece, è così facile che si tramuti in cinismo o si sdraia sul «nastro di indolenza su cui scorre»? È inevitabile?
È il personaggio che è così e non può che essere così? O lo ha deciso così il regista Sorrentino/Flaubert? E perché ha deciso in tal senso?
Una lettura critica del film non dovrebbe tentare di spiegarlo? Non dovrebbe tentare di spiegare perché il regista «disarticola il racconto, eliminando spesso i raccordi»? O decide di narrare la catastrofe «in una prospettiva antiromantica e antiromanzesca, cioè senza sviscerarne le cause, ma presentandone le manifestazioni»? O perché feticizza quel « tempo attimale e irrecuperabile» « delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente»? Perché – insomma – il regista (ma anche Daniela Brogi, mi pare) si ferma allo psicanalismo e rifiuta la fatica di una ricostruzione psicologico-storico-politica di questo film?
Poi, oltre all’Oscar, dategli pure tutti i premi che volete e avvelenatevi pure baroccamente.
(Abate: quella dell’oscar in bocca, però, è un’immagine sconcia).
Non mi si accuserà di essere un bastian contrario, giacché ho espresso sin dal primo momento, intervenendo in questo dibattito, un giudizio nettamente negativo sulla “Grande bellezza”, film artisticamente mediocre e intellettualmente ‘debole’. Il conferimento dell’Oscar e in generale il successo riportato da questo film all’estero, lungi dallo smentire, suonano per me come la più evidente conferma di quel giudizio. L’apologo di Fedro intitolato “Vulpis ad personam tragicam” si attaglia quindi assai bene al caso in questione per il suo significato emblematico (estensibile anche a certe recensioni incongruamente elative).
Personam tragicam forte vulpes viderat;
quam postquam huc illuc semel atque iterum verterat,
‘O quanta species’ inquit ‘cerebrum non habet!’ Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam
Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.
@Ennio Abate
ma le risposte a tutte le sue domande deve proprio darle questo film ?
@ Ares
Non questo film o i film, ma chi si occupa di critica (seriamente, fino in fondo, anche senza mai trovare tutte le risposte) sì.
Abate, temo che si possa ingannare: quello è il prete
@ Karl
Tutti si possono ingannare. Ma il peggio sta nel giustificare la menzogna, specie quando si sa che è tale. E poi al mondo mica sono soltanto i preti a tentare di dare risposte.
Non tutti erano d’accordo sulla validità e sul grande talento di Sorrentino. Anche qui ci sono commenti negativi. Ma Daniela è stata tra le poche ad aver capito lo spessore del film, il contesto culturale. Solo chi pensa e sa guardare e ricordare può fare una recensione di valore. Questa analisi fa capire molte cose e anche perchè il film ha vinto un Oscar.
@Sandra E invece l’ha vinto l’Oscar. @barone ma la dialettica hegeliana e marxiana sono la scienza del nulla? Piccole frasi tranchant che cercano di épater le bourgeois. Prendiamo le opere con maggiore serietà e volontà di capire e ascoltare l’arte.
E’ un film sulla necessità elusa di “essere “umani e di abbandonarsi gratuitamente agli altri,poichè siamo dannati alla morte- con-dannati- e testimoni della bellezza estrema sia naturale che artificio dell’uomo
La bambina che a San Pietro in Montorio priva di innocenza apre la prima crepa in Jep,la commozione davanti alla morte vera durante il funerale,lo straniamento nel bar dove tutti hanno diritto a essere compresi…
Un film sul disinganno,con un Massimo De Francovich sontuoso che aiuta a costruire la figura tragica della Ferilli
Un film sull’eterna elusione napoletana dal Cristianesimo – la morte scandalo respinta da Sorrentino nell’apertura del Divo , come un fumetto frenetico visto con gli occhi di chi sta perdendo per sempre ogni aspirazione all’innocenza
E non è colpa di nessuno se Roma è bellissima soprattutto per chi non è condannato a viverla
Un film morale in un paese dove la decenza etica deve essere sepolta dal pudore
Altro che snobismo….
Discussione interessante tra punti di vista distanti, grazie a tutti.
@Ennio Abate: l’arte va forse spiegata? Va vivisezionata? Nobilitata?
L’arte dà a qualcuno delle suggestioni, non si vive di sola ratio.
Il rimando all’impegno e alla responsabilità di cambiare il mondo nei suoi interventi mi fanno pensare agli atteggiamenti di Stefania, nel film in questione.
Con tutto il rispetto, ci stiamo riferendo a dei registi, attori, scrittori, poeti, artisti che tentano di compiere l’atto creativo, e poi c’è il resto dell’umanità che assiste e in seguito ne parla: gli amici e i nemici al bar e i critici che ci scrivono su delle stroncature.
Nel caso non si fosse capito, e possa interessare a qualcuno, ho apprezzato “La grande bellezza” e il linguaggio scelto per raccontare una visione del mondo che comprendo e condivido, pur non avendo le risorse per vivere quotidianamente tra i fasti non solo barocchi della città eterna.
Ma forse non ho ben compreso il significato di ciò che ha scritto, non sono all’altezza. Saluti
Ho visto il film stasera. Mi pare bello fotograficamente e sono contento da italiano per il riconoscimento. L’appunto, da poeta, è che Jep Gambardella è una maschera perché rappresenta uno specifico legato alla pratica alla scrittura narrativa. Credo che l’Alexandros poeta morente di “L’eternità ed un giorno” di Theo Angelopoulos, Palma d’Oro a Cannes 1998, sia più efficace nel trasmettere sia lo spaesamento proprio della voce che quello della ferita originaria (qui una delusione d’amore, per il poeta la ben più inconciliabile incomprensibilità della morte).
A me piace e colpisce l’essenzialità del pensiero di Jep, che contrasta col clima intellettualistico che c’è intorno a lui, come si vede nell’intervista con l’artista che dice di vivere di vibrazioni (“Che cos’è una vibrazione”) , o quando consiglia al personaggio di verdone di scrivere più semplicemente di sè, o ancora quando, nel diverbio verbale con l’amica scrittrice borghese che ostenta il suo impegno civile le parla della sua insicurezza.
Jep Gambardella è un personaggio che non è cresciuto da quando, a 26 anni, col cuore, ha conquistato i suoi lettori e poi per pigrizia si è accasciato nel turbine della mondanità che come una malattia cronica fa stare infondo male ma non poi troppo, ed è sempre meglio che crescere.
Se il protagonista non riesce a reagire a questo benessere malato il regista tutto sommato sì, in chiusura infatti, dopo cocainomani, spogliarelliste, clero corrotto, finti intellettualismi e chi più ne ha più ne metta la Santa chiude il film mostrando un altro modello di vita ed una verità più vera
Ho avuto l’impressione, dopo aver visto il film, che piace e angoscia insieme, che c’è un messaggio sotto che va aldilà di Roma (unica nella rappresentazione della decadenza) e della storia dei singoli personaggi. E’ un messaggio che con la scusa della ricerca infinità del piacere e della bellezza, in realtà sottolinea l’era moderna, annunciata da Nietzsche con la morte di Dio e il nichilismo. Se c’era un film che può illustrare quel messaggio, è questo. E’ la fine di ogni senso, Perfino della vita e della morte. E le cose che si fanno, soldi o arte che siano, sono effimere. Il chiacchiericcio, la vita nascosta sotto il bla, bla, bla, dell’aldiquà sommerge ogni sensibilità. Ma l’altrove dove? Non si sa, e non è interessante. Ma nell’aldiquà la percezione del perdere tempo con cose che non ci va di fare è terribile. E ci si sente vecchi, e ci si illude che uno fa il suo dovere e tutto è a posto. In fondo la vita, che è un romanzo, è solo un trucco. Nato circa 40.000 mila anni fa, quando si cominciò a dipingere nella caverne le prime scene di caccia. Da quando nacque in un animale la percezione di esistere, e il suo Io ebbe un nome e un cognome, e il mondo un grande palcoscenico in cui ognuno recita la sua parte.
@ Galatea
No, non è questione di non essere «all’altezza». Di chi poi?
Sì, si tratta di punti di vista (abbastanza) distanti e (abbastanza) contrapposti. E discuterne è utile non per averla vinta o “aver ragione”, ma per intendere meglio ciò che uno pensa, cosa pensano gli altri e, possibilmente, quanta e quale “verità” afferro io e quanta e quale gli altri.
La sua posizione è quella, secondo me classica e maggioritaria, dell’esteta (figura che non disprezzo, ma che ha i suoi limiti). Mira alla forma di un’opera, ne raccoglie (astraendo dal resto: e quindi anche da tutto ciò che rientrerebbe secondo lei nel dominio della «sola ratio») le «suggestioni» ; e esclusivamente su queste si sofferma (potrei anche dire “ragiona”).
La mia pretende di essere quella di derivazione marxista e fortiniana (ohibò, che antiquato!). Non vuole “spiegare” l’arte né “vivisezionarla”. (Non c’entra il “nobilitarla”, perché è l’estetismo semmai che si spinge a tale operazione, collocando l’Arte su un piedistallo rispetto alle altre pratiche che contribuiscono a mantenerci in vita e a tentare di essere più “civili”). Interroga piuttosto a tutto spiano questo cosiddetto «atto creativo». Cerca di ridurne l’aura di mistero (e di fascino) in cui certuni vogliono tenerlo avvolto. Mostra i legami che esso ha con la vita materiale, politica e sociale, su cui altri preferiscono sorvolare. Svela (per quel che è possibile) le sue origini storiche, che si confondono con pratiche magiche e religiose (provi a leggere qualcosa di un altro sorpassato che si chiama Lukács); e anche il perché si è arrivati a questa “specializzazione”, per cui « registi, attori, scrittori, poeti, artisti» sono addetti all’«atto creativo» e « il resto dell’umanità […] assiste e in seguito ne parla». (Con gli equivoci, le incomprensioni, le semplificazioni o vere e proprie strumentalizzazioni che la discussione su LA GRANDE BELLEZZA continua a riproporre e che dimostrano abbondantemente quanto l’«atto creativo» abbia a che fare con la storia, le meschinità umane, i preti, i capitalisti, le banche, ecc.). E, dunque, tenta – ecco la funzione della critica – anche risposte non ovvie o di plauso coatto. Mai definitive però e sempre rivedibili. (Aggiungo che alcune di queste risposte forti hanno anche aiutato in passato e non sempre ostacolato le stesse pratiche degli artisti e la comprensione da parte del cosiddetto “pubblico” delle opere).
Ciò detto, tornando al film di Sorrentino, può capire perché io non separi il giudizio estetico dal giudizio storico-politico. Come fanno quasi tutti oggi. Nel film in questione trovo che ci sia coerenza piena tra una certa concezione della bellezza («la bellezza in disfacimento delle nature morte barocche», come ha detto bene la Brogi) e una concezione nichilista (e parareligiosa) della vita, che non esito a chiamare reazionaria. Ne sono tratti evidenti, come detto nel mio commento con “troppe” domande: la convinzione che «tutto é menzogna», che il «momento di verità» intravisto dal personaggio non può che restare inattivo, che «l’angoscia della mancata esperienza della bellezza» debba in lui inevitabilmente tramutarsi in cinismo e non in rivolta o almeno responsabilità, sia pur individuale (se non potesse farsi, per circostanze storiche sfavorevoli, politica). E direi che la medesima coerenza c’era nel suo modello: Fellini. Che considero un “reazionario da boom economico”, mentre Sorrentino lo è “da economia depressa e periferica”.
Aggiungo per ultimo e a scanso di equivoci che in arte – come si sa – un punto di vista reazionario – quello di Balzac ricordato da Marx, quello di Céline e di tanti altri – , pur appoggiandosi sul nichilismo (una filosofia che in molti non condividiamo), può svelare della realtà aspetti “veri”. Quelli che i buonisti, i progressisti, i renziani neppure vedono. E quindi al reazionario Sorrentino posso riconoscere il merito di aver offerto col suo film uno specchio, in cui il ceto medio intellettuale di sinistra può guardarsi e riconoscere il suo degrado (Rimando a questa recensione sul sito di POLISCRITTURE: http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=316:franco-nova-qualche-spunto-su-la-grande-bellezza-di-p-sorrentino&catid=8:zibaldone&Itemid=25). Come accadeva al personaggio di Oscar Wilde, Dorian Gray, quando guardava il suo ritratto.
Se però gli spettatori de LA GRANDE BELLEZZA applaudono tanto la loro immagine degradata, ben interpretata da Servillo (invece di angosciarsene e mettersi a ragionare, sì), se inneggiano euforici alla “napoletanità” o all’”italianità” di questi nuovi divi, se sotto sotto invidiano o ammirano questi esemplari ricchi della classe dirigente del loro Paese , i quali si godono (alla faccia nostra) il loro dolce dileguare verso la morte come antichi patrizi romani ai tempi della caduta dell’Impero, il pizzico di verità che Sorrentino ha colto – consapevolmente o meno – non viene neppure alla luce.
Ecco perché ho chiesto una critica che vada più in profondità e non si fermi allo psicologismo. In conclusione, non chiedo a Sorrentino di essere un regista “impegnato” o che faccia cinema “per cambiare il mondo”. Chiedo ai critici e agli spettatori di non adorare un Feticcio e di farsi molte più domande su cosa il film, così com’è ( così come il regista e l’industria cinematografica l’hanno voluto e costruito), significa. Per noi. Oggi. Spero di aver detto l’essenziale della mia posizione di dissenso.
Abote, mi piace molto il suo desiderio di stare così al centro dell’attenzione. Mi ricorda un po’ la mia battuta: «Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire». Spero di conoscerla prima o poi.
E’ misogino, nooo? Il ritratto della scrittrice interpretato da Galatera è spietato, e anche riconoscibile, temo, molto offensivo…poi i fenicotteri, Didimo che dorme su una zampa sola, come in Boccaccio..stupendi, la carrellata finale, tutto scorre sul Tevere, vale tutto il film!
Esperimento surrealista: microrecensione de “La grande bellezza” senza averlo visto (però ho letto la recensione di D, Brogi e i molti commenti che la seguono).
“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, Oscar 2014
Trama:
Una specie di negativo fotografico della “Recherche du temps perdu”. Il tempo perduto è perduto e basta. Il protagonista scopre che tutto sommato non valeva la pena di cercarlo.
Messaggio:
Che ci vuoi fare? In fondo in fondo, siamo sinceri: va bene così.
@ Jop G.
Uè guagliò, tu mo staje sott’e riflettor’i e tutt’o munne e me viene a levà o pane ra vocche!
E che aneme!
Va, famme pazzià nu poche pure a me!
Po, si passe pe Napule te venghe a salutà…
Forse a Abate può interessare una recensione che in parte condivido. Ringrazio Rino Genovese per la segnalazione:
http://www.ilponterivista.com/blog/2014/03/04/la-grande-bellezza-meglio-niente-grazie/#more-81
@ Ennio Abate
È stato molto cortese a rispondermi, glie ne sono grata.
Lei non ha dei limiti? In caso affermativo, è consapevole di quali siano?
Non mi riconosco comunque nella figura dell’esteta che cerca la forma; io cerco piuttosto l’essenza e la sintesi in un’opera, posizione un po’ difficile da comprendere per chi si esprime con un centinaio di righe di commento.
Non se ne abbia a male, ma avrebbe potuto restare più sul generico: vedere ancora scritti nero su bianco dei vocaboli quali “derivazione marxista” e “Lukács” mi causa dei leggeri conati di vomito (tali derivazioni e precedenti traspaiono benissimo dai suoi contenuti, del resto).
La rimando anch’io alla lettura di due articoli, nei quali si esprime con maggiore chiarezza di quanta ne sarei capace io stessa l’opinione degli ambienti “classici e maggioritari” riguardo a tale lignaggio:
http://www.lettera43.it/stili-vita/radical-chic-ritorno-dell-intello_43675111748.htm
http://www.ilfoglio.it/soloqui/20678
Sono stati scritti lo scorso anno, ma non è cambiato poi molto da allora. Saluti
secondo me la vita che jep fa a roma è collegata all’unico romanzo venduto che gli permette la vita mondana, per quanto riguarda la bellezza nel film ne appaiono di molti tipi dalla bellezza di ramona che però è malata, dalle bellezze artistiche che però non ci si accorge di averle a fianco.
è un film che rende allegro la trama seguito da tristezza.
Caro Daniele,
e che ha scritto Jep, Harry Potter?
Dialogo sulla “Grande bellezza”
Caio e Mevio delibano le loro bevande seduti al tavolino di un caffè che si trova nel centro di una grande città del nord. La conversazione non può svolgersi all’aperto, perché, nonostante che la stagione primaverile sia vicina, il cielo è grigio e piovoso come in autunno. Un ininterrotto viavai di persone che entrano ed escono fa da sfondo ai loro discorsi.
Caio: trovo sorprendente, caro Mevio, che sul valore del film di Sorrentino e, di conseguenza, sul valore dell’Oscar che gli è stato assegnato si siano creati due opposti schieramenti: uno, prevalentemente autoctono, assai critico e un altro, prevalentemente estero, favorevole e, in non pochi casi, addirittura entusiasta. Quando vidi questo film alcuni mesi fa, restai colpito dal divario tra le mie aspettative (devo dire fortemente condizionate da precedenti di indiscutibile qualità come “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia”) e la modestia, se non la povertà, dei risultati artistici e ideologici conseguiti dal regista in questo ultimo film. Ma tu che ne pensi?
Mevio: mah, caro Caio, nel dare ragione, almeno in parte, delle divergenze che si registrano non saprei se fare appello al noto detto secondo cui “nemo propheta in patria” o piuttosto alla straordinaria congruenza tra la rappresentazione dell’Italia e di Roma, così come viene delineata nella “Grande bellezza”, e gli stereotipi più radicati con cui viene percepito il nostro paese all’estero. Per quanto riguarda il divario di cui parli, penso inoltre che esso sia il portato di un divario, che si trova a monte, tra le intenzioni tematiche del regista e la sua capacità propriamente ideologica di fornire una rappresentazione, che non sia solo descrittiva ma anche esplicativa, del vero tema che è al centro di questo film, ossia di quella “Grande bruttezza” che ha reso deforme, infelice e invivibile il Belpaese e, segnatamente, la sua capitale.
Caio: a me sembra che anche le qualità di questo film – ad esempio la fotografia, per citarne una che è tipica del linguaggio filmico -, in assenza di una robusta armatura ideologica o, se preferisci, ideale, che è poi quanto dire in assenza di una visione d’insieme della società, decadano ad ornamentazione barocca ed esauriscano la loro potenziale forza propulsiva disperdendosi in una narrazione caotica ed evanescente che richiama i moduli della “vetrinizzazione sociale” messi in opera dagli ‘spot’ pubblicitari. Ma questo, per l’appunto, è il linguaggio della forma-merce.
Mevio: un problema interessante che è emerso nel dibattito promosso ed ospitato dal blog “Le parole e le cose” è se questo tipo di rappresentazione proceda da una scelta consapevole del regista o sia il prodotto, in larga misura spontaneo e irriflesso, di un modo di leggere la realtà non dipendente da una selezione concettuale dei paradigmi interpretativi. In quest’ultimo caso il valore ‘sintomale’ del manufatto filmico, che è massimo, risulterebbe, dal punto di vista ermeneutico, inversamente proporzionale alla complessità della sua costruzione architettonica che, essendo di natura additiva e cumulativa, è minima. Ad ogni modo – consentimi questa ‘boutade’ -, quando uscirà il prossimo rapporto del Censis potremo verificare l’incidenza di questa relazione misurando i debiti che la metaforologia di De Rita avrà contratto con essa. In sede propriamente estetica, rimane nondimeno un problema serio, che è poi il ‘cuore’ del giudizio su questo film. Si potrebbe formulare in questi termini: un film che è specchio, ma non lampada; un film che, nel momento in cui offre una rappresentazione ‘mostruosa’ del Male, è, in assoluta coerenza con l’ideologia etica dominante, del tutto incapace di indicare una prospettiva motivante verso il bene per la semplice ragione che, inficiato com’è da una micidiale miscela di nichilismo e di decadentismo, non ha una nozione preliminare e positiva del Bene.
Caio: mi sembra, ottimo Mevio, che ci stiamo avvicinando al punto cruciale del dibattito sul significato e sul valore di questo film, che si trova esattamente là dove sia György Lukács che Franco Fortini hanno sempre posto il criterio della discriminazione estetica ed etica nella valutazione di un prodotto culturale: l’esigenza, cioè, di mantenere il positivo nella rappresentazione del negativo attraverso una forma (non baroccamente febbrile ma) classica e ‘fredda’. Ed anche questa è una lezione (ad un tempo estetica ed etica) di quello stile in virtù del quale l’artista sano e reattivo di una realtà patologica si distingue dall’artista decadente e nichilista che si identifica (in misura maggiore o minore) con la realtà patologica oggetto della sua rappresentazione.
Mevio: in effetti, caro Caio, l’umanità che viene rappresentata nel film di Sorrentino è un’umanità che preferisce volere il niente piuttosto che non volere niente, e i diversi personaggi che ruotano attorno a Jep Gambardella sono solo i replicanti di questa cieca volontà di tipo schopenhaueriano che, conformemente alla sua insensatezza, non può che produrre, anche letteralmente, dei veri e propri ‘mostri’. Ricorrendo al metodo materialistico, si potrebbe allora sostenere che la retorica sentimentale e moralistica di una fase precedente del capitalismo, così piena di ingenuo entusiasmo e irriducibile ottimismo, sopravvive nel presente cinicamente consumistico, pagando però il prezzo inevitabile della degenerazione dal drammatico al grottesco, che è il corrispettivo stilistico della degenerazione estetica dal bello al brutto, di quella etica che conosce il male, ma solo a partire da un bene ignoto e non nominabile se non aporeticamente, e di quella ideologica che, a partire dalla pur giusta critica della vacua chiacchiera del ceto intellettuale della sinistra sfocia nel deteriore qualunquismo.
Caio: in effetti, caro Mevio, ‘tout se tient’ in quel “regno animale dello spirito” che è, di là dalle stesse intenzioni del regista, insieme oggetto e soggetto della “Grande bellezza”, fonte e prodotto della sua rappresentazione, premessa e conclusione del suo teorema. Così, la figura grottesca della Santa, tratteggiata con un gusto che oscilla tra l’untuoso e il blasfemo, e quella triste e dolente cui dà voce e corpo la Ferrilli, sono i due poli complementari tra i quali oscilla, senza neanche porsi il problema di un risoluzione estetica ed etica di questa antinomia, la rappresentazione, tanto sontuosa quanto banale, costruita dalla “Grande bellezza”.
Mevio: forse è il caso di aggiungere, caro amico, un’ultima postilla: ossia che limitarsi a constatare che la ricerca di autenticità non ha più alcun posto possibile in uno scenario di simulacri è l’ultima parola della “Grande bellezza”, mentre è la prima, ma non l’ultima, di un film artisticamente modesto, ma tanto più coraggioso intellettualmente come “Il capitale umano” di Virzì…
Caio: vedo arrivare Arianna. Arrivederci alla prossima occasione, mio diletto Mevio. Non disturbarti a pagare le consumazioni, provvedo io.
Mevio: a presto, stimatissimo Caio.
Mevio segue con uno sguardo assorto l’amico che si allontana assieme alla figlia, fin quando i due scompaiono nel flusso delle persone che entrano ed escono in continuazione dal caffè.
Dopo aver letto la stroncatura velenosissima di Tricomi (dai, però, dire che se fosse stato un film di Neri Parenti fatto uguale non l’avremmo osannato tanto è un colpo talmente basso che quasi non riesco poi più a prendere sul serio gli altri argomenti seri. Perché tanta cattiveria?), mi domando se chi vorrebbe un’Italia meno irrazionalista e superficiale, estetizzante e immorale, sempre propensa alla regressione nel ventre materno, invece di ruggire così, non otterrebbe assai di più amandola un po’. Solo amandola un po’, l’Italia gli si affiderebbe.
Temo poi che nel calderone dell’irrazionale e regressivo ormai ci sia tutto quel pop e kitsch che trasuda dal film, e che forse è una delle ragioni meno peregrine dell’innamoramento di molti. Ci siamo riconosciuti, e Sorrentino è anche riuscito a dare a tutto ciò un disperato e commosso senso di coralità (al cattivo gusto dei santini cattolici sdentati, ai sudori della discoteca, alle ridicolaggini dei finti colti, agli amori adolescenziali estivi, al dibattersi individuale – ma, sì, in effetti ottusamente individualistico -, nella ricerca di un senso…).
Guardando proprio le scene memoriali del giovane Jep, ho pensato anch’io come Tricomi (nel mio piccolo), che sembrasse la pubblicità di un profumo e le ho trovate un poco ridicole.
Poi ho pensato che la mia adolescenza e temo quella di molti altri aveva proprio quei colori lì, perché il nostro immaginario era solo quello lì: pubblicità, videoclip, fiction giovaniliste, blockbuster.
E in fondo penso che se anche noi senza colpa partecipiamo o almeno abbiamo partecipato a questo carrozzone di irrazionalità, forse ci piacerebbe che chi ha gli strumenti e la lucidità per fare critica si sforzasse di trovare in tutta questa falsità una briciola di verità umana ed esistenziale (per pietas) e un briciolo di verità culturale e antropologica (per evitare che l’Italia continui a essere quel paese in cui il popolo bue resta bue, e gli intellettuali restano intellettuali, sempre con il naso un po’ arricciato, anche se non se ne accorgono perché non hanno lo specchio davanti).
(A proposito di intellettuali col naso arricciato… discussione accesa intorno a This must be the place. Siccome non ero ancora innamorato, e quel film nulla aveva che potesse farmi innamorare come il seguente, lo guardai con lo sguardo glaciale di chi smonta il meccanismo, e lo trovai fine a se stesso, per quanto sofisticatissimo, in un modo irritante. Non mi riuscì di convincere un’infatuata che parlava della “poesia” del film, della “meravigliosa fotografia”, del titolo di nobilità del non avere, il film, un “andamento narrativo”.
Ne conclusi che esiste un ceto di semicolti che si sdilinquisce per l’arte per l’arte e che usa, per giustificare il proprio sdilinquimento, argomenti risibili.
La mia arroganza ora l’ho scontata. Invito anche altri a farlo, fa bene, davvero).
@ Abate
Penso che dovresti leggere qualche intervista di Sorrentino. Eccone uno stralcio da una che gli ha fatto Rolling Stone Italia
“Abbiamo pescato in un terreno comune», rimarca Sorrentino parlando della sua fertile collaborazione con Servillo. «Che è proprio di un certo tipo di napoletano, un certo tipo di uomo che ha le caratteristiche del provinciale, che viene nella Grande Capitale e che quindi adopera il cinismo come una specie di schermo per proteggersi dalle tentazioni di mondi che non riconosce immediatamente. È un po’ dandy e un po’ disincantato, non crede mai fino in fondo alle cose, come succede a me. Siamo tutti figli delle biografie individuali, ognuno dei traumi che subisce. La realtà diventa sempre troppo dolorosa per farti innamorare della vita in maniera spassionata, senza pensare che dietro ci sia il trucco. Jep, proprio perché così disincantato, finisce per fare l’unica cosa possibile e cioè si va a rifugiare in quel momento della sua vita in cui credeva fino in fondo alle cose: il momento dell’adolescenza in cui conosci una ragazza, quando pensi che il presente corrisponda perfettamente al futuro».”
Ho appena letto un libro stupendo, L’età dell’inconscio di Eric Kandel, a proposito di atto creativo e di partecipazione dello spettatore.
@ Lo Vetere
I miei preferiti di Sorrentino sono L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore, comunque mi ha fatto piacere leggere il suo ultimo commento.
Una recensione fantastica.
Un unico punto di dissenso: l’altrove c’è, o meglio si crea nella prospettiva personale di Gep, ed è rappresentato dalla metafora del viaggio (solitario anch’esso) sulla nave dell’ultima scena. E’ la speranza dell’altrove (come condizione spirituale) la soluzione del film.
Ho visto l’altro ieri il film e a caldo, ma ancora adesso, mi ha un po’ stordito: per me bisogna rivederlo almeno tre volte. La recensione di Daniela mi ha aiutato moltissimo perché fa emergere molti parrticolari che ad una prima visione passano inosservati. Anche i vostri commenti aiutano: gli unici che mi lasciano perplesso sono quelli del sig. Abate: dal tono usato sembra che si senta punzecchiato personalmente da certa satira su certi personaggi, come quello di Stefania: forse si identifica con quest’ultima e l’allusione la intende riferita a sé medesimo?
@ Mario
Si sbaglia. Non mi sento punzecchiato. Non ho mai frequentato gli ambienti alla Stefania. Vivo nell’hinterland di Milano e conosco altri tipi di Stefanie: quelle che si svegliano alle 6,30 del mattino, che vanno a lavorare, che stringono la cinghia per la crisi.
non vi scaldate. da questa vita non ne uscirete vivi. la grande verità
La grande bellezza: Mi permetto anch’io di dire la mia riprendendo un commento che ho già lasciato su altro post. ” Penso che il film sia un ottimo lavoro. Tecnicamente ho molto apprezzato i tempi del film, perfetti, e la storia in se. Ambedue merito del regista come naturale e come leggo nei testi di coda. La fotografia è nella norma poco più così come le interpretazioni dei singoli delle quali mi sembra si stacchi solo quella dell’attore protagonista, le altre non spiccano, ma anche non steccano. Ma ciò che soprattutto ho avuto piacere di vedere ed ancor più di sapere che la grande critica mondiale ha apprezzato e premiato è un film che affronta la ns decadenza morale ed umana, che poi seppur in misura minore rispetto al ns paese colpisce tutto il mondo occidentale o cmq quella parte di mondo dove gli ideali ed i valori hanno lasciato unico spazio al denaro ed al consumo, consumo di tutto anche dei sentimenti anche del tempo secondo una logica di puro egoismo ed egocentrismo materialista che come conclude il film non porta a niente, neanche alla soddisfazione anelata, ma evidentemente invano ricercata con un percorso esistenziale sbagliato. Ci sono alcune riflessioni alle quali il film ci rimanda. Il protagonista che dopo una vita godereccia appella l’amico con la nuova compagna che conducono una vita normale e gli dice “che bella gente siete” che contrasta con gli altri di sua frequentazione. Altro passaggio quando conclude dicendo che tutto è un bla bla bla vuoto al quale egli stesso si lascia e si è lasciato andare fin da quando da ragazzo si aspettava dalla giovane compagna occasionale altro che non il bacio e l’invito a consumare l’atto, che come dice lui lo delude perchè evidentemente cercava un “contatto” diverso, un unione prima spirituale. Ma soprattutto il film raggiunge l’apice con le affermazioni della suora 104enne che a proposito dell’intervista si rivolge ai presenti con “io ho scelto la povertà, e la povertà non si racconta, si vive” , quindi spiega in intimità con il protagonista il suo di percorso esistenziale che all’opposto le ha dato gioia di vivere e fierezza opposta al nulla che il protagonista sente di se fino al desiderio di scomparire come chiede al prestigiatore amico. Ma il suggello stupendo è la salita finale della suora che ci vuole indicare come il raggiungimento di uno scopo anche attraverso la sofferenza possa arricchire l’animo. Quando all’opposto in chiesa gli amici si guardano terrorizzati perchè c’è da alzare a braccio la bara del deceduto conoscente. Due mondi a contrasto, due sistemi esistenziali opposti, con opposti risultati di soddisfazione. Un analisi spietata del materialismo come disciplina di vita. Del vivere ogni giorno i propri ideali e valori e non delle vuote e vacue parole di politici, politicanti, preti e vescovi da strapazzo, venditori di tappeti e saponette prestati al sociale con tutti i danni materiali, ma soprattutto morali che ne sono conseguiti. Sento un vento nuovo, Papa Francesco con i suoi insegnamenti di vissuto e non solo di parola, il movimento culturale che comincia a produrre film come questo e non solo Natale 1, 2 e 3 o vacanze in chissà dove, ect. Sento un vento nuovo che spero si rinforzi potente come il ns libeccio quando ce la mette tutta, e spazzi, spazzi via tutta l’immondizia che ci ha condotto a questa decadenza morale, che come la storia millenaria ci insegna porta anche ad una decadenza economica ed all’infelicità. Per i tanti che lo hanno giudicato addirittura “un bidone, una suola, un pallosissimo e noiso film”, credo nel rispetto del diritto di critica e dei pareri altrui, che la questione è come dice nel film il protagonista, quando la suora gli chiede perchè dopo il primo libro scritto in giovane età, fra l’altro accolto come un capolavoro e vincente al premio bancarella, gli chiede appunto perchè sia rimasto l’unico scritto e non ne abbia fatti altri, la risposta nel film è stata: “IO ASPETTAVO LA GRANDE BELLEZZA” (da qui il titolo). Il protagonista lascia capire anche nel soliloquio di coda che non l’ha trovata, ma anche che non l’ha mai cercata lasciandosi andare al trend dei ns tempi. Spero per tutti noi che ad altri vada meglio ……. un saluto. Scusate per la lunghezza, ma mi piaceva esporre un pensiero compiuto e non semplice slogan dietro al quale magari non ci sta nulla.”
@ROSSI MARIO
26 dicembre 2013 alle 12:22
“Non credo che in America conseguirà un qualche premio.”
PROFETICO!
@Galatea
Quando lei chiede retoricamente ad Abate se l’arte va spiegata o no, propendendo per il no (posizione condivisibile per carità), forse non si rende conto che non è Abate il primo a spiegare e vivisezionare il film, ma fatto ben più grave ai fini artistici è lo stesso Sorrentino che lo fa, non lasciando nemmeno per un secondo la mano dello spettatore… gli spiega tutto, lo lusinga in ogni maniera, lo alliscia, non gli lascia mezzo spiraglio di creatività. E’ un film didascalico, lezioso, pieno di pretese, fatto dall’alto, sfacciatamente manicheo: è quasi imbarazzante vedere quella carrellata di personaggi SI’ e personaggi NO attorno ad uno stereotipo letterario senza alcuna complessità come il protagonista… scene calcate e ricalcate per non perdere nemmeno uno spettatore, inquadrature compiaciute, turistiche… la figura della santa radicale è un blocco simbolico, la punta più alta della banalizzazione simbolico-didattica che permea per intero il film. L’unico personaggio di tutta la storia è Ramona e sta in scena sì e no mezz’ora…
(In effetti, mentre la folla di stereotipi è difendibile, non senza impegno, sul piano etico e, con molto impegno, esteticamente, lo stereotipo letterario è indifendibile ad ogni livello. C’è anche l’aggravante della narrativa del regista, ovviamente.)
“Chi sei tu?”
“Io sono….”
“tu non sei nessuno!”
“Ma io………”
@Dinamo Seligneri
Questo Abate l’avrò sottovalutato un tantino: dev’essere un personaggio davvero importante, per avere dei procuratori; mi informerò meglio.
Ad ogni modo, caro lei, chiedo ad Abate se l’arte va spiegata per indurre chiunque sia interessato a questi temi, sia egli il primo o il cinquantesimo, a riflettere sul fatto che spendere cento righe di livore per cercare di spiegare un film che non tocca le proprie corde non è molto utile, in fin dei conti, e nemmeno rispettoso della pluralità del sentire altrui, prerequisito che dovrebbe essere uno dei primi attributi di un essere pensante e non di parte.
Non vorrei fare della psicologia spicciola in questa sede, ma sembra che in ogni cosa vediamo riflesso solo ciò che vogliamo vedere: non siamo proprio in grado di vederci ciò che non vogliamo vedere, questo meccanismo (di autodifesa) viene definito “percezione selettiva”.
Questo film l’ho visto senza lasciarmi prendere la mano da alcuno, è fluito senza blocchi di sorta e l’ho trovato molto ironico: non mi ha suscitato tristezza, ma un leggero sorriso.
I personaggi non li giudico, magari quelli positivi per me sarebbero negativi per lei e viceversa; non li ho trovati ad ogni modo così stereotipati e tanto meno letterari, visto che di ognuno di loro conosco personalmente numerosi esemplari nella vita di tutti i giorni.
Forse prima della visione del film avrei dovuto informarmi da chi è stato prodotto, per decidere come valutarlo?
Mi dispiace per lei se la pensa così, ma ho scelto come linea di condotta di acquistare un testo, se l’autore e i temi trattati sono di mio interesse, a prescindere da chi sia il proprietario della casa editrice: se un testo mi interessa non me ne privo per un malinteso senso di “ripicca”, e mi regolo così anche per i film, gli eventi musicali, eccetera.
Nei corsi di cinematografia si insegna che un regista è professionale quando riesce a raccontare bene una storia allo spettatore, e a me Sorrentino ha raccontato benissimo la storia di Jep Gambardella: l’ho compresa, ho apprezzato, che altro?
Adoro decodificare i simboli, mentre trovo un mattone indigeribile la produzione cinematografica della buonanima di Pasolini, tanto per fare un esempio, con i suoi attori improvvisati presi dalla strada e “senza filtro” per cercare di rendere il tutto più realistico; il cinema ha un suo linguaggio, se voglio del realismo guardo un documentario, o mi affaccio al balcone.
De gustibus…
@Galatea
1: cosa c’entra Abate? A me interessava quello spunto che ha tirato fuori lei in una discussione pubblica (che si sia rivolta ad Abate o all’autore del post non mi interessa affatto… così come non mi interessano i corsi di cinematografia).
2: perché mi parla di casa di produzione? ho forse fatto riferimento ai produttori del film? A me sembra di aver espresso un giudizio sul film e basta.
3: “non li ho trovati ad ogni modo così stereotipati e tanto meno letterari, visto che di ognuno di loro conosco personalmente numerosi esemplari nella vita di tutti i giorni”.
Se non è uno stereotipo questo…
Lo sterotipo è un cliché, un luogo comune: la “napoletanità” è uno stereotipo, prendere Fellini come termine di paragone per il cinema di un’epoca successiva è uno stereotipo, le persone in carne ed ossa che si esprimono con la stessa modalità del personaggio di un film non sono uno stereotipo, un personaggio ispirato alle caratteristiche evidenti di persone realmente esistenti non è uno stereotipo: non si basa su un pregiudizio.
Ogni considerazione soggettiva che ciascuno di noi può fare a riguardo è uno stereotipo estetico e culturale ma è meglio chiuderla qui, abbiamo capito abbastanza chiaramente dove vogliamo andare a parare.
Immagino le risate che si sarà fatto Sorrentino leggendo la rassegna stampa.
The film “La grande bellezza” is not noteworthy. It lacks both elegance and intelligence. I come from Wajda’ s country- a great film director whose films are of great value for international society. To my mind, Sorrentino’s film does not merit an oscar. Millions of people in different countries have seen how his film offenses Polish women. In my opinion the sentence: “Adesso ci sono delle Polacche di venti anni che fanno paura. Le Polacche sono pronte a fare marchette a ripetizione” is distasteful and offensive. It is not only offensive but as well unpleasant to hear by any person of polish origins. The director simply blacklists Polish ladies and puts them in discriminative position against other women from the world. In conclusion, the director’s low level and generalization is devastating. PS: Caro Sorrentino, in tema di sensibilità e delicatezza ha molto da imparare da una sua collega, Sofia Coppola, che con il suo “Somewhere” affronta magistralmente il tema del vuoto e della noia senza insultare le donne. Tra l’altro i Suoi 5 minuti “Italiani” valgono tutto il suo film.
http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2014/03/08/foto/_la_grande_bellezza_il_quadrato_semiotico_delle_critiche_negative-80519495/1/
Oh, ecco, c’è persino chi fa quadrato per difendere la bellezza. Il marchio della bestia poi è inconfondibile: “Citazionisti, complottisti, opinionisti e patrioti, tutti schierati contro lo stesso nemico: l’Oscar a”.
Un Oscar alla retorica. Ché la bruttezza è contagiosa.
Ma davvero, quella roba pubblicata su Repubblica è spregevole.
Proprio vero, “La Repubblica” non è un giornale, è un virus che distrugge le cellule cerebrali.
@ In basso a sinistra: grazie, quella pagina mi era sfuggita.
@Vincenzo Cucinotta: e l’antivirus chi sarebbe, voi?
Adesso non venite a scrivere che rischiamo anche delle ripercussioni nelle relazioni diplomatiche con la Polonia; anche le romene sono disposte a fare marchette a ripetizione, ma le polacche sono più brave.
Sofia Coppola inizia come attrice: per un colpo di fortuna le assegnano una parte nella saga de “Il Padrino”; la interpreta in maniera talmente pedestre che la sua carriera finisce lì.
Meno male che poi si è data alla regia. Chissà quanta sudata gavetta, per farsi un nome!
Al suo posto mi asterrei dal criticare gli altri registi; starà rosicando dall’invidia?
Dopotutto una nomination all’Oscar non si nega a nessuno, l’ha ricevuta anche lei una volta, no? E allora…
Scusate, rinfrescatemi la memoria sull’argomento, non vorrei sbagliarmi:
il regista de “Il Padrino”, la serie di film nei quali Sofia ha iniziato la carriera, non era forse suo padre Francis Ford Coppola?
E Sofia non ha forse diretto quel filmone in costume, come si chiama, “Marie Antoinette”, passato alla storia per le calzature non proprio economiche di Manolo Blahnik indossate da Kirsten Dunst?
Alla faccia dell’estetica, alla faccia della decadenza!!!
Galatea troppo buona, magari potessi davvero svolgere una tale funzione.
Per il momento, non mi rimane che denunciare i danni che la manipolazione sistematica della realtà da parte del settore mediatico induce, come “La Repubblica” interpreta mirabilmente.
Inoltre, noi chi? Non mi pare di avere scritto in nome collettivo.
Infine, si può sapere perchè sta costantemente sopra le righe? Chi gliela fa fare, mi sembra la mamma di Sorrentino…
Dear Galatea. The film “La grande bellezza” shows well the shallowness of thought and superficiality. The scene with Ramona in a nightclub is distasteful. It lacks both delicacy and respect for women. I have already written a letter to Sorrentino regarding the sentence about Polish women. He made a grave mistake offending ladies of a specific nationality (in this case it is Polish) I hope it will stop italian film directors from making offensive and discriminative statements towards specific nationality in the future. By the way, does he have statistics to infer such unpleasant statements? Millions of people have seen this “best” non-English language oscar film in different countries. Do you think is it nice? Would it be nice to you to hear one day in a foreign film offensive sentences toward italian people? I do not think so.
Cara Iwona,
hai proprio ragione: quanto schematismo nella frase della Grande Bellezza sulle polacche. E che banalità. Ricordo che provai la tua stessa indignazione molti anni addietro, quando vidi in sala Il Padrino, diretto dal padre della grande Sofia Coppola, un certo Francis Ford. Pensa: al personaggio del boss mafioso protagonista del film venivano irrispettosamente attribuite origini italiane, siciliane addirittura. E non, per esempio, svedesi o prussiane, come pure avrebbe potuto essere. Perché no, dopotutto?
Certo, si poteva allora obiettare che la maggior parte della mafia statunitense dell’epoca mostrasse collegamenti con famiglie originarie dell’Italia meridionale. Così come oggi si potrebbe obiettare che la grande maggioranza delle prostitute attive in Italia (specie quelle che lavorano nei locali o in rete) proviene dall’Europa dell’Est, Polonia non esclusa. Nondimeno il massimalismo di Sorrentino resta insopportabile. Propongo di sottoscrivere una petizione in cui si chieda al regista di sostituire la seguente battuta:
“Adesso ci sono delle Polacche di venti anni che fanno paura. Le Polacche sono pronte a fare marchette a ripetizione”
con quest’altra, molto più rispettosa delle statistiche:
“Adesso ci sono delle rumene, delle polacche, delle albanesi, delle russe, delle bielorusse, delle bulgare, delle kazake, delle estoni, delle lettoni e un discreto numero di italiane di venti anni che fanno paura. Rumene, polacche, albanesi, russe, bielorusse, bulgare, kazake, estoni, lettoni e italiane sono pronte a fare marchette a ripetizione”.
Non solo. Sebbene la prostituzione maschile pare ammonti solo al 3 o 4% del totale, per non creare discriminazioni di genere propongo di aggiungere al montaggio la seguente battuta:
“E poi ci sono rumeni, polacchi, albanesi, russi, bielorussi, bulgari, kazaki, estoni, lettoni e un discreto numero di italiani di venti anni che fanno paura. Rumeni, polacchi, albanesi, russi, bielorussi, bulgari, kazaki, estoni, lettoni e italiani sono pronti a fare marchette a ripetizione”.
@Galatea
Nella Grande bellezza ci sono solo stereotipi (tranne per certi versi Ramona), deve farsene una ragione. Secondo me, le dirò di più, la storia è per certi versi pinocchiesca: parla di uno stereotipo letterario di legno, Gambardella, che vive in mezzo a tanti altri stereotipi in carne e censo, in un quadro narrativo manicheo, e vuole a tutti i costi diventare una persona (o, contrattando, un personaggio). Nel finale si suppone ce la faccia… (ma io non sono troppo d’accordo).
@Vincenzo Cucinotta
Non credo che Repubblica sia un virus che fa cadere i neuroni, credo che sia soltanto un organo d’informazione borghese che si rivolge a un pubblico borghese ma che si spaccia per un giornale di sinistra… non vorrei esagerare, ma per questo motivo mi pare di gran lunga peggiore dei giornali che fanno capo alla famiglia Berlusconi che, per lo meno, sono di destra e non lo nascondono.
Ad ogni modo, concordo col messaggio (forse)latente della vignetta: è del tutto inutile e infruttuoso in questo momento criticare il film di sorrentino, in quanto non è più un film, ma un simulacro del new deal (e del newjournalism) italiano. E’ evidente che se fosse stato un “bel” film non lo sarebbe mai diventato, ma questo è un altro discorso…
Dear Iwona, sentences pronounced in a movie are not director’s opinions. Maybe the opinion you were offended by is of the charachter has pronounced it, a rough man speaking a dialect-mingled italian. But he merely doesn’t exist, so he hasn’t a morality. Yes, maybe he looks like a real italian rough man speaking a dialect-mingled language and talking about Polish women discourtesley. That’s a movie’s aim, symbolizing reality.
Have you ever seen the Simpson’s pizzaiolo? Never thought of writing to Matt Groening and complaining beacause of his explicit offense to the whole italian people…
Maybe some italian man and women thinks about all Polish women just as prostitutes beacause he has seen some Polish woman doing that job. I’m very sorry about it, as I’m sorry about American men and women thinking about me as a ridiculous but maybe funny little man with moustaches, making pizza all day long and moving hands in a bizarre way. But it is not a reason for saying that Simpson is an awful and shallow cartoon (it’s rather one of the cleverest thing that America has created in the last 20 years).
Dear Daniele e Umberto. Even if it is a fiction, I will repeat once again: those words should not have been directed towards women of specific nationality. Per quanto riguarda la finzione e il suo collegamento con la realtà ci sono dei casi di case edittrici che si sono rifiutate di pubblicare dei romanzi perchè potevano toccare la sensibilità di alcune cattegorie di persone, ad esempio il romanzo “American psycho”, fù molto criticato per la sua misoginia. Questo per dire che a volte le opere di finzione possono far più male di alcuni documentari o articoli di cronaca ( il lettore o spettatore ingenuo si lascia spesso condizionare e manipolare da quello che legge o vede). In questo caso, se il regista avesse voluto fare una generalizzazione che aveva un qualche collegamento con la realtà, avrebbe dovuto verificare le statistiche riguardanti la prostituzione a Roma nel 2012-13. Scegliendo casualmente un paese lo si insulta e basta! ( il personaggio avrebbe potuto dire che le prostitute provengono dalla Germania, o da Israele o dalla Francia o dall’Argentina, …)
Dear Iwona,
se lei vuole fare dell’ironia sul politically correct, complimenti, è molto spiritosa.
Se dice sul serio, le segnalo una fiction molto pericolosa da mettere nella sua blacklist, the “Divine Comedy” by Dante Alighieri.
Omofobia, maschilismo, antisemitismo, fanatismo religioso, presentazione spietata di vittime (i dannati, tutta gente che ha avuto un’infanzia difficile, neanche un barlume di speranza gli dà!).
E pensi che lo si studia in tutte le scuole, lo si spaccia per un genio, se ne appiccica la foto sulle bottiglie dell’olio d’oliva!
Va be’, ma cosa c’entra? Dante ci ha l’olio. E Sorrentino il vino.
Morale?
https://www.youtube.com/watch?v=DP8k_wTieEs
(Non è tutto olio quel che luccica. E – talvolta – in vino foeditas.)
Dear Roberto.
Anziché tornare indietro con la macchina del tempo, avrei fatto una citazione un po’ piu’ pop, tipo Gomorra… Però vede, mi da ragione in questo modo, attraverso l’escamotage della finzione si fanno dire ai propri personaggi delle proposizioni che si ritengono veritiere. :) in 12 anni schiavo si vede come le persone di colore schiavizzano i bianchi, giusto?:)
Ma lo fate apposta o siete così sul serio anche nella vita? Mi sto spanciando dalle risate!
Vincenzo Cucinotta, il voi sta per “voi blogger”, pensavo fosse chiaro in alternativa ai giornalai: è uno stereotipo?
Forse potrei avere l’età per essere la mamma di Sorrentino, oppure, chissà, questo è il mio stile: io parlo e scrivo in questo modo o ancora più sopra, dipende dagli interlocutori.
Dinamo Seligneri, ho dato un’occhiata alla sua pagina e devo rilevare che è andato in fissa con questa metafora delle teste di legno: devo provare a fare anch’io uno stage in segheria, e vedere se capita lo stesso anche a me.
Iwona, personalmente non mi sento offesa come donna nè come italiana da una frase del genere: l’Italia è piena di marchette, di tutte le nazionalità e a tutti i livelli, il povero Battiato si è fatto fuori da solo quando ha raccontato di fronte al parlamento europeo ciò che ha visto fare a Roma. Ma voi in quale mondo vivete?
Se vuole le dò gli indirizzi dei locali nei quali può andare di persona e trovare ambienti identici a quelli che ha visto nel film; in alcuni può trovare delle ragazze polacche, giovanissime e bellissime, che passano per ragazze immagine, ballerine o accompagnatrici ma sono dispostissime a fare marchette molto ben pagate nei privé; hanno acquisito una certa reputazione per essere le più belle e, a quanto dicono, le più abili: c’è poco da offendersi, nessuno ha detto che tutte le donne polacche facciano lo stesso, né tutte le donne in genere.
Le persone molto sensibili devono sapersi regolare: io non sopporto di guardare i filmati degli interventi di chirurgia, e infatti non li vado a vedere.
Roberto Buffagni, stia pur tranquillo che nelle scuole italiane Dante Alighieri non si studia più: qualche decennio fa si insegnava che ci sono almeno sette livelli di significato nella Divina Commedia, in seguito l’occupazione e il presidio di tutti i luoghi strategici della cultura operati da cialtroni che hanno conseguito la laurea dopo il ’68 ci hanno portato a livelli da terzo mondo.
Dante è stato bandito di fatto dai programmi di letteratura delle scuole superiori e messo nel bidone degli autori scomodi e delle ideologie “di destra”.
Forse perché amato in tutto il mondo, sono in molti a sentirsi dei microbi, a confronto?
.
Sì, riconosco la mano dei giornalisti di Repubblica in questa visione caricaturale della realtà per cui i blogger la pensano tutti allo stesso modo, costituiscono una categoria ben definita.
Se ne vedono chiaramente gli effetti su Galatea.
Dear Galatea. Se fossi un’ italiana mi darebbe fastidio che qualcuno considerasse l’Italia un paese mignottocratico. Però forse è solo una questione di sensibilità.
Caro Vincenzo Cucinotta, mi legga con più attenzione: ho scritto giornalai, non scomodiamo i giornalisti, categoria quasi completamente estinta.
E’ evidente che in questa discussione si è creata una polarità di personaggi che condividono la sua visione: vogliamo negare anche l’evidenza, secondo una ben nota scuola di manipolazione dell’opinione pubblica di sovietica memoria?
Iwona, il principio di accettazione della realtà è alla base della salute psichica: il problema non è farlo sapere o no all’estero, il problema è che l’Italia di fatto è un paese mignottocratico, e non da ieri. Non ha mai sentito parlare delle Olgettine?
Qua e là per il mondo hanno ancora qualche giornalista vero, e queste situazioni sono risapute.
Gentile Galatea,
per la verità i miei figli Dante lo studiano, a scuola, con i livelli di significato eccetera; e studiano in Italia. Speriamo che non siano un caso isolato.
Dear Iwona,
I didn’t understand your reply. Please write in English.
Signora/ina Galatea, non si provi, la scongiuro, non si provi… per fare il corso di segheria bisogna essere stupidi, divinamente stupidi, come predicava Carmelo Bene, c’è scritto anche nel bando d’iscrizione, lei invece è intelligente, graffiantemente intelligente, come predica la Repubblica, lasci perdere, non abbandoni il suo posto nel mondo (editoriale). Mi dia ascolto. La saluto. Dinamo
Leggendo di filato, dopo un po’ di giorni, tutti questi commenti, ho l’impressione che la sola persona sensata sia Galatea.
Per il resto, quante caricature di intellettuali… Quanto conformismo…
Oggi la moda, se si vuole far parte del club, è:
– dire che il film di Sorrentino è brutto,
– che quello di Pif è banale (si’, bravo ragazzo, ma insomma…),
– che Saviano è un pennivendolo che si è montato la testa,
– che destra e sinistra parlamentari sono in fondo la stessa cosa.
E che magari i non abilitati all’ultimo concorso sono tutti geni indipendenti (ve ne sono anche fra gli abilitati, beninteso, ma si è trattato di un errore), drammaticamente incompresi.
E tutti in piedi (cioè con le ginocchia de la mente inchine…) ad aspettare il Sol dell’avvenire. Che se mai sorgesse si farebbe grasse risate…
Gianlorenzo Alderani scrive:
Leggendo di filato, dopo un po’ di giorni, tutti questi commenti, ho l’impressione che la sola persona sensata sia Galatea.
Poiché tra “tutti questi commenti” ne compaiono 3 a firma di Gianlorenzo Alderani, e poiché Galatea, secondo Gianlorenzo Alderani, è “la sola persona sensata”, ne consegue che Gianlorenzo Alderani non è una persona sensata, secondo se stesso.
Quindi, è in dubbio che persino Galatea sia una persona sensata, secondo Gianlorenzo Alderani stesso.
Anch’io ho apprezzato i commenti di Galatea in particolare l’affermazione che “un regista è professionale quando riesce a raccontare bene una storia allo spettatore”… “è fluito senza blocchi di sorta e l’ho trovato molto ironico: non mi ha suscitato tristezza, ma un leggero sorriso.”
Galatea la scena in cui la santa, tra gli aironi, dialogando con Jep Gambardella dice:
” Sai perché mangio molte radici ?”
” no perché? ”
“perché le radici sono importanti”
e l’immagine successiva è un primo piano della santa che ride, sdentata.
..non la trova cinica e demenziale ?
insomma c’è proprio tutto in questo film, proprio tutta la grande bruttezza ;o9
Gentile Galatea, mi sono laureata dopo il Sessantotto e le posso assicurare che quell’anno non ha segnato, come molti temono, la fine della cultura e il dominio dell’ignoranza e della cialtroneria. Insegno in un Istituto Tecnico e sia io che tutte le mie colleghe nel triennio (anzi: secondo biennio più quinto anno, come si dice ora grazie alle nuove illuminate riforme) insegniamo Dante, Petrarca e Boccaccio e, pur essendoci laureate tutte dopo il 1968, sappiamo ancora qualcosina di letteratura. Dico questo perché sarebbe il caso, di tanto in tanto, di pensare, prima di enunciare i soliti stereotipi…
Non è escluso poi che questa nostra bizzarra mania di costringere i poveri ragazzi a studiare i classici ci venga rimproverata, da parte di altri critici di orientamento diverso dal suo, di tradizionalismo, attaccamento a modelli culturali ormai sorpassati, insegnamento nozionistico e trasmissivo…
Come dire: dove vai, sbagli. E anche: chi non fa, non falla.
@Dinamo Seligneri: grazie del suo consiglio, ne farò tesoro.
@dm: buona fortuna con se stesso. Dev’essere dura.
@Ares: secondo lei le persone sdentate non hanno il diritto di parlare, né di sorridere? Oppure ce l’hanno, ma lei non vuol vederlo su uno schermo per una questione di sensibilità?
@roberto buffagni, Gianlorenzo Alderani, marisa salabelle: grazie di essere nati.
Mi scuso di avere generalizzato; forse uno spiraglio c’è ancora. Speriamo.
Galatea scrive:
buona fortuna con se stesso. Dev’essere dura.
Ma che. La fortuna sono gli altri! Specie se spassosi.
Alderani,
Lei del conformista, qualunquista e caricaturista d’intellettuali lo va a dire a qualcun altro, magari allo specchio la mattina mentre si fa la riga in mezzo. E si vergogni di entrare in una discussione esclusivamente per insultare le persone che la pensano diversamente da lei invece di argomentare la sua distanza dalle loro opinioni. Porti un po’ di rispetto, sennò va a finire che sembra la caricatura di un qualunquista rancoroso.
@Dinamo Seligneri
mi perdoni, sa, ma la curiosità è femminile: dove la porta, lei, la riga?
Seconda domanda: cos’è che l’ha punta sul vivo, del contributo di Alderani? Non ha mica fatto il suo nome!
Sarà forse come quella storia della volpe con la coda di paglia, che prende fuoco per prima?
Galatea, lei fa l’avvocato di Alderani?
Gentile Galatea,
prego.
Dinamo Seligneri, io non faccio l’avvocato ma lei non mi ha rivelato dove si fa la riga quando si pettina i capelli.
Non la porta affatto? Wild style?
Prendo atto che fin quando si è trattato di esprimersi, ognuno con la sua legittima lettura sull’opera, lettura che ritengo derivi da quella che è la sensibilità soggettiva e che quindi credo possa peccare, anche, ma non è detto, di mancanza di oggettività, in ogni caso fin quando l’espressione è rimasta su questo piano, i commenti avevano un loro trend quantitativo scatenato dalla interessante analisi della Sig.ra Daniela Brogi, ma allor quando il contesto è divenuto più polemico e maggiormente rivolto non tanto all’opera, ma all’altrui punto di vista, gli interventi hanno registrato un impennata. Constato. Mi permetto anche leggendo e verificando la capacità di linguaggio e per certi versi la padronanza culturale di coloro che lo stanno incrementando: ma che popolo siamo? E domando ancora e provocatoriamente: è così talmente interessante focalizzarsi sul punto di vista dell’altro, anche con vena polemica, piuttosto che riflettere, magari e perchè no anche alla luce di punti di vista diversi, su cosa è questo film, o anche su quale tipo di messaggio può riuscire a trasmettere, visto che stanno esplodendo anche sul web l’uso di parti del film e/o le immagini del protagonista accostate a visioni o scene di malcostume nostrano? Certamente potrei anche essere io quello fuori luogo, ma ……..
bè cara daniela come darti torto hai detto tutto tu! hai anche dato una lettura interessante del film dal punto di vista psicologico, grazie :))) te lo dico in quanto psicologa , perchè anch’io ho avuto la necessità di capire lo stile sia narrativo che scenografico dell’autore e devo dire che nel complesso a me questo film è piaciuto molto ;)
l’unica cosa su cui non mi trovo daccordo è la scena in cui jep porta la bara e inizia a piangere…ecco li lho letta come una sorta di provocazione del personaggio alla compostessa del funerale, poichè lui stesso disse che piangere non è concesso xke si ruba la scena i cari che piangono il deceduto ….non so magari è una mia interpretazione astrusa !! :)))
Sara
Valter, è lei l’autore di frasi quali:
“è un film che affronta la ns decadenza morale ed umana, che poi seppur in misura minore rispetto al ns paese colpisce tutto il mondo occidentale o cmq quella parte di mondo dove gli ideali ed i valori hanno lasciato unico spazio al denaro ed al” e via con questa cadenza sfiatata, due virgole in regalo per cinque righe. Il 6 marzo.
(A ogni modo, mi permetto di registrare, io pure, l’occorrenza del primo “cmq” in questo spazio.)
Poco fa: “lettura che ritengo derivi da quella che è la sensibilità soggettiva e che quindi credo possa peccare, anche, ma non è detto, di mancanza di oggettività”.
Secondo me, accordato a ciascuno il beneficio della rilettura, è opportuno riconoscere i propri limiti. Vale a livello di “capacità di linguaggio”, come giustamente sottolinea, e di “padronanza culturale”.
Infine: criticare “l’altrui punto di vista”, anziché l’opera, poiché “l’altrui punto di vista” concerne in qualche modo l’opera, è cosa sensata e utile. Segnalare, senza peraltro indicare inefficienze linguistiche e incompatibilità culturali è sicuramente inutile qui, e probabilmente insensato se non si è in grado di reggere.
Sig. dm, la ringrazio per le sue osservazioni che valuto con attenzione come altre qui ed al di fuori di qui. Lei percorre un terreno che non trovo interessante, nè mi attrae neanche esteticamente. Quando commento come mi è capitato qui o come talvolta mi capita altrove sul web o no, non sono rivolto alla ricercatezza nè a compiacere l’esteta di turno. Ancor meno mi beo o mi rispecchio (di che cosa dovrei poi, io come altri ……). A volte metto giù di getto, talvolta dal mobile, se vado alla rilettura, se accade, cerco nella sostanza, nel profondo, nel sotto traccia, ciò vale anche per l’altrui. Il suo mi appare come il percorso opposto, la rispetto, se ciò la rende felice o cmq la gratifica evviva. Io credo di andare oltre. Naturalmente qui la chiudo avendo espresso nella forma e nella sostanza di cui sono capace il mio parere sul film (pensi con un copia ed incolla da altro mio post tirato via, impensabile per lei?) e sul dibattito relativamente al quale ognuno qui potrà rileggendolo verificare se le mie osservazioni erano pertinenti o meno. La sostanza è la sostanza altrimenti è tutto un bla, bla, bla come ci si richiama nel film. Questa volta ho prestato più attenzione mi perdoni se ho inserito qualche virgola più del dovuto. Per il resto come avrà potuto acquisire dai miei commenti l’umiltà non mi difetta se pur convinto contemplo anche la possibilità di non rientrare nell’oggettività. Io.
Dear Galatea. il principio di realtà è sacrosanto e la durezza della materia innegabile. Ho sentito le olgettine, la condanna per prostituzione minorile del vostro premier Berlusconi, il parlamento italiano che dice ruby è la nipote di Mubarak (oh my god!)… quello che volevo dire è che nel film il regista ha citato espressamente le Polacche, poteva evitare di fare riferimento a un paese in particolare. Facendo dire al suo personaggio che le ragazze del mio paese “sono brave a fare marchette a ripetizione”, le ha messe gratuitamente in cattiva luce. Sono sicura che in questi locali ci sono ragazze bellissime anche di altri paesi…non saranno le uniche le mie connazionali a essere belle e a sapere fare marchette, right? Quindi Sorrentino ha deliberatamente scelto le polacche e questo non mi fa piacere (da quello che ho letto, a Roma nel 2012-13, ci sono poche polacche che fanno questo lavoro, la maggior parte vengono da un altro paese). Non mi sembra di dire una cosa assurda se dico che Sorrentino è stato inelegante nei confronti del mio paese.
Cara Iwona, io rispetto il suo punto di vista; d’altra parte però trovo che anche se in tutta Roma fossero presenti solo un paio di ragazze di una determinata nazione ad esercitare quel mestiere, e in un film venisse citata la loro provenienza, i connazionali potrebbero risentirsi. Come si può essere impersonali?
Al di là della finzione cinematografica non credo che un uomo degno di tale nome si comporti con le donne a seconda dei pregiudizi sulla loro nazionalità.
Valter, lei scrive: “La sostanza è la sostanza altrimenti è tutto un bla, bla, bla come ci si richiama nel film.”
E’ curioso che lei tragga, da un’opera come La grande bellezza, un principio che contraddice in tutto l’opera stessa. La sostanza è sostanza, altrimenti è tutto un bla, bla, bla. Un testo costruito in quel modo, con il righello e la matita, sulla carta millimetrata della “forma”, può sul serio dettare un principio simile? E’ sbalorditivo, almeno per me, come in un mezzo secondo si possa trasferire un valore dall’estetica all’etica, e viceversa. Questo è contrabbando. O uno dei tanti indizi della bruttezza profonda della Grande bellezza. Perché la bellezza produce bellezza e questo di solito è bene.
Se la bellezza produce, ad esempio, principi di sciatteria, di questa bellezza è bene sospettare. Secondo me.
Valter, le discussioni si fanno così, non c’è niente di male a fare dialogo tra i commentatori, anche prendendo le pezze d’appoggio dai punti di vista degli altri o mostrando alcune incongruenze di ragionamento; d’altronde ragionare sul post della Brogi non è focalizzarsi sui suoi (della Brogi) punti di vista? Il problema, semmai, da un certo momento in poi, non sono le idee e le opinioni dei commentatori, credo io, magari ce ne fossero di più, ma (alcun)i commentatori stessi e gli strani bracci di ferro che si ingaggiano mettendo in primo piano sé medesimi al posto delle proprie idee (o difendendo a spada tratta idee strampalate solo perché ci “appartengono”)… Sono queste le cose che strozzinano le discussioni qua sopra a internet e altrove.
Galatea. Dinamo è un personaggio di fantasia, non so molto dei suoi capelli né delle sue scriminature. La persona dalla quale promana però le posso confidare è una persona spettinata, con capelli ribelli a mettersi in riga, come il suo personaggio letterario, ma non ha nulla a che fare col wild style, è solo uno un po’ sciagurato.
Spero di aver saziato la sua curiosità.
Saluti.
Dinamo Seligneri, a scombinare il clima di una discussione – peraltro inutilmente – contribuisce un certo uso degli aggettivi indefiniti, in espressioni del tipo “alcuni commentatori” (quali?) o “da un certo momento in poi” (quando, dove nel commentario?)
Ribattere indicando puntualmente l’oggetto della critica, invece, è utile, per quanto – non so se è il caso – possa dare l’impressione di mettere al centro un “sé medesimo”.
Buona giornata
@ Dinamo Seligneri, personaggio
Occhio a Galatea, Dinamo! Mi sono informato su di lei. Se non proprio da “Repubblica” dal Web…
Da Barbie a Donna. Pigmalione re di Cipro, disgustato dai vizi femminili, tuttavia desideroso di compagnia coniugale, decide di scolpire una eburnea statua di donna. Opera perfetta, ne viene preso da furioso amore.
La ricopre di fiori, di ricche vesti ricamate, di preziosi monili, se ne fa compagna di letto e le da il nome di Galatea. Ma la statua resta una statua. Pigmalione, durante una festa di Venere a Cipro supplica la dea dell’amore che trasformi la sua statua in donna. Tornato a casa, si china a baciare come al solito la statua e sente che in essa a poco a poco si diffonde un calore vitale, il freddo avorio si trasforma in carne Ovidio, Metamorfosi)
La Bella e la Bestia. Il mostruoso Polifemo si invaghisce della ninfa Galatea e cerca in tutti i modi di conquistarla a suon di doni. La ninfa rifiuta le sue avances, non solo per la bruttezza del ciclope, che ha avuto ià la ben nota disavventura con Ulisse, ma anche perché innamorata del giovane Acis. Polifemo esasperato dai rifiuti di Galatea uccide Acis schiacciandolo sotto una grande roccia. La ninfa per conservarne il ricordo lo tramuta nel fiume Acis che scorre in Sicilia. (Filosseno e Teocrito, III° secolo. Ovidio, Metamorfosi)
Dinamo Seligneri, era proprio così che immaginavo la sua persona: me ne ha dato conferma, la ringrazio.
Mi resta ancora una curiosità: quando lei cerca di mettere alla berlina Gianlorenzo Alderani descrivendolo come un omino che al mattino si guarda nello specchio del bagno e si pettina i capelli con la riga nel mezzo, si rivolge ad Alderani come a un personaggio di fantasia oppure a una persona?
Ennio Abate, finalmente qualcuno che si informa, invece di sparare petardi a man bassa!
Sforzo encomiabile da parte sua, tuttavia trovo discutibile la titolazione: se parliamo di Ovidio e di statue di avorio, l’abbinamento più opportuno è con l’arte ellenica del periodo classico, non con l’icona postindustriale della Barbie: chi vorrebbe come compagna di letto una bambola di plastica fatta in serie?
Vediamo un po’ cosa ci dice in proposito Wikipedia:
“Classico inoltre è oggi usato in maniera più generica, anche per espressioni artistiche moderne o contemporanee, in cui la manifestazione di emozioni e sentimenti è contenuta in forme di controllata razionalità e dotate di armonia, in grado di essere prese anche come modelli.”
La Bella e la Bestia è la mia favola preferita da sempre, caro Abate: neanche questo mi sembra un sunto appropriato all’argomento, visto che Polifemo non ha nulla a che spartire con il principe sotto mentite spoglie.
Ci sono altre versioni possibili e immaginabili: per quanto remota sia questa ipotesi, Galatea potrebbe anche essere il nome proprio di una persona reale e non di un personaggio: magari una persona a me cara, chissà…
A proposito di identità reali o fittizie, se è vero che nel nome abbiamo il nostro destino il suo cognome, caro Abate, sta forse ad indicare che lei ha autorità su una confraternita di monaci?
@Ennio
Ti ringrazio per il dossier, cercherò di fare attenzione.
@dm
Il commento di valter mi sembrava toccare delle corde più generali (il dialogo partecipato tra i commentatori al di là e al di qua del post) dunque mi è venuto di rispondergli sui commentari in generale, imprestando alla discussione l’idea che mi so’ fatto in questi anni; spero non si pretenderà che faccia un decalogo dei thread che m’hanno portato a pensare quel che penso…
Se invece mi chiedi di applicare il discorso a questo, di commentario, ti dico che quando sono intervenuto io, prendendo le mosse da una critica di Galatea a un ragionamento di Abate, per esprimere un parere critico sul film, Galatea s’è sentita immediatamente attaccata e mi ha chiesto se difendevo Abate… non mi sembra un bel modo di iniziare un colloquio online. Il mio unico scopo era parlare con lei e con altri della sua idea di arte e di come a mio avviso fosse Sorrentino a svilirla per prima. Mi interessava dire la mia aggrappandomi a un’idea sorta dai commenti. Poteva essere uno spunto di ragionamento, ma la mitologica Galatea ci ha poi indotti a pensare alla pur divertente storiella della testa di legno e del corso di segheria e io dal canto mio l’ho seguita sulla sua sdrucciolevole rotta. Poi c’è stato l’entrata a spaccare di Alderani che vabbè lasciamo perdere.
Non abbiamo fatto tanti passi avanti nella discussione (ha ragione valter in questo) ma non perché ci siamo messi a discutere tra di noi (perlomeno c’è stato un più o meno simpatico scambio), si fosse stati meno permalosi e gelosi delle proprie idee (lo dico anche per me) ci si poteva cavare qualcosa di più, ma bisogna accontentarsi, internet è questo qua.
@Galatea
Non faccia sempre la furbetta. Ho un dossier adesso sulla scrivania, non ci casco più.
Un saluto anche a lei.
@ Galatea
Cara non mi sento di chiamarla. Un po’ perché ho bisogno ancora di vedere le persone in carne ed ossa per regolare la mia affettività non diplomatica. Un po’ perché alla mia replica seria e argomentante (del 5 marzo 2014 alle 10:42) lei ha voluto contrapporre la sua visione del mondo beffarda e navigata. E se «vocaboli quali “derivazione marxista” e “Lukács”» le causano – così ha scritto – «leggeri conati di vomito», a me i link di «Lettera 43» e del «Il foglio» dell’ex-“compagno rivoluzionario” Giuliano Ferrara neppure le dico cosa mi causano. Perciò, non essendo un fan del dialogo tra sordi o dei duelli di puro esibizionismo ho finito per tacere.
Mi sono concesso, ora che la discussione s’è del tutto afflosciata (e Daniela Brogi non ha mosso un dito per evitarlo, pur essendo la “padrona di casa” del post), di salutare scherzosamente – saranno scherzi da abati ma per una volta li sopporti – lei, che molto ha contribuito al suddetto afflosciamento. E Seligneri sui cui commenti concordo. Non avevo – le assicuro – alcuna pretesa di tirare le somme su nessuno degli argomenti trattati. Per finire. Anche sui nostri nomi (il mio è anagrafico, il suo non so) la pensiamo diversamente. Non credo che contengano «il nostro destino». Semplicemente ce li ritroviamo appiccicati addosso.
P.s.
Per ‘classico’ non si fidi troppo di Wikipedia. Torni un po’ più indietro. Rilegga, ad esempio, F. Fortini, Classico, in Enciclopedia Einaudi, III, Einaudi, Torino 1978
Sono daccordo con Sara sulla scena del funerale. Jep piange, forse ricordando la morte dell’amata a cui non è andato al funerale non certo per la morte del giovane. La rappresentazione della morte dei giovani italiani portati a spalla dai vecchi italiani, perchè non ci sono più giovani in grado di farlo, mi è sembrata commovente e triste, come il pianto di Jep rivolto altrove.
Il solito schema di difesa a catenaccio, nevvero?
Dinamo Seligneri, un confronto diventa dibattito costruttivo quando si interloquisce in maniera congrua: se lei ed Ennio Abate intervenite in quanto blogger, ovvero personaggi di fantasia, dopo aver messo in campo di tutto di più rispetto ad argomentazioni inerenti al film di cui si sta trattando, mi sembra più che lecito dare un’occhiata alle relative pagine. Mettiamo in comunicazione due mondi: non faccia il modesto, se avesse voluto una chacchierata ristretta a pochi intimi non ci sarebbe un link alla sua pagina.
Abate, trovo che Wikipedia sia una fonte di sapere collettivo: non la trova pluralista e democratica a sufficienza?
Dato che non le sta a cuore la diplomazia, mettiamola pure da parte; allora le rivelerò che tengo anch’io alcuni dossier sulla scrivania e in uno di essi emerge una strana coincidenza che forse lei è in grado di chiarirmi, dato che finora nessuno dei fautori di Lukács, Fortini & co. ha saputo mai darmi una spiegazione plausibile; mi segua di nuovo su Wikipedia, la prego:
“György Lukács – Nato in una ricca famiglia ebrea da József (1855–1928) – direttore di banca, appartenente alla piccola nobiltà – e Adél Wertheimer (1860–1917), dopo il liceo frequentò la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Budapest, appassionandosi di arte e in particolare di teatro, fondando con altri studenti il teatro «Talia»…
Karl Heinrich Marx – viene alla luce in Prussia, a Treviri, (in tedesco, Trier), il 5 maggio 1818 da Henriette Pressburg (1788, 1863, zia degli industriali Anton e Gerard Philips, futuri fondatori della Philips) e Heinrich (Herschel) Marx (Herschel Marx Levi Mordechai 1782-1838)[3] – figlio di Marx Levi, rabbino di Treviri – avvocato ebreo, descritto come uomo colto e fine, educato nel razionalismo illuminista, tanto da conoscere quasi a memoria molto di Voltaire e di Rousseau, il quale non si legò mai agli ambienti culturali ebraici tradizionali.
Il padre si fece battezzare nel 1817 entrando nella Chiesa luterana col nome di Heinrich; lo stesso fece ai figli nel 1824. Fu così che il giovane Moses Kiessel Marx Mordechai Levi assunse il nuovo nome di Karl Heinrich Marx. La conversione fu probabilmente più una scelta di convenienza che di fede: i Marx evitavano così le discriminazioni alle quali erano soggetti gli ebrei sotto la Prussia di Federico Guglielmo III. Anche grazie alla conversione, obbligatoria dopo il Congresso di Vienna per poter esercitare liberamente l’avvocatura, riuscì a esercitare la professione ed essere membro nel 1831 del Justizrat, il consiglio giudiziario, che non procurava un titolo accademico ma era un incarico di alto prestigio…
Franco Fortini – nasce da Dino Lattes, avvocato livornese ventinovenne di origine ebraica, ed Emma Fortini del Giglio, di religione cattolica ma non praticante, entrambi appartenenti alla piccola borghesia toscana…”
Come mai tutti questi autorevoli personaggi sono di origini molto benestanti e, per lo più, ebraiche?
Non sarà che questo tipo di posizione ideologica, culturale, estetica, siano uno specchietto per le allodole da parte di cacciatori che hanno cercato solo di inventarsi un’ottima strategia di marketing per preservare quei privilegi che la storia stava togliendo loro?
Cerchi di non cambiare argomento, se riesce. Ampliamo un po’ il dibattito. Vediamo se si scatena l’inferno. Non credo che avverrà, ma fosse la volta buona che riesco a trovare una risposta a questo mio dubbio esistenziale. Saluti dall’Arcadia.
@ Galatea
Ahi, ahi! Adesso m’imbocca la via del complotto giudaico (Cfr.http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_del_complotto_giudaico)!
Lei non mi parla dall’Arcadia ma da Magdeburgo!
Irraggiungibile Galatea!
Ciao
Polifemo
Abate, le avevo chiesto il basilare gesto di rispetto verso l’interlocutore di non cambiare argomento e rispondere in maniera pertinente, ma tant’è, allievi di regime…
Lei mi parla da quell’Italia che è stata ricoperta di rifiuti dalla noncuranza di chi ritiene che basti una presa in giro per distrarre l’interlocutore e cambiare le carte in tavola come gli illusionisti: il cognome per questi individui è qualcosa che ci viene attaccato addosso a casaccio, non il lascito di uomini con un’identità ben precisa che ci hanno regalato sia dei cromosomi che delle risorse materiali, economiche, formative.
Io le parlo da un mondo nel quale si risponde a tono (dati di fatto con dati di fatto, chimere con chimere), nel quale si confuta un punto di vista e non chi lo esprime (addirittura lei crea un dossier di ipotesi sulla mia identità, non conoscendomi de visu: irrinunciabile KGB, o lo sono i testi di fantapolitica?), nel quale non ci si vende la libertà di espressione per un piatto di lenticchie, nel quale chi ha avuto l’opportunità di accedere ad un’istruzione superiore impara a pensare con la propria testa, non a farsi cassa di risonanza delle idee altrui.
Sa perché non riesce a raggiungermi, Abate?
L’Arcadia è abitata da persone per le quali il cognome anagrafico implica un padre, un nonno, tutta una tradizione reale di uomini che in vario modo, prelati, agricoltori o letterati che fossero, hanno dato il loro contributo, hanno affrontato le difficoltà, le fatiche e i risultati che ciascuna epoca porta con sé e hanno messo mano alle loro vite con grande dignità, Riconoscendo i loro sforzi e continuando a ricordarsene, si rende loro onore.
Qui le teorie in base alle quali l’equilibrio sarà ristabilito dall’impegno delle sole menti e dalle penne di volenterosi provenienti dai ceti più umili (o sensibili alla loro causa) riguardano uno dei tanti possibili filoni della fiction (intrattenimento, spettacolo basato su invenzioni di fantasia): abbiamo osservato che queste “autorità in materia”, di qualunque colore sia la gabbana che rivestono, non producono altro che sterili castelli di carte fatti di ipotesi sovrapposte ad altre ipotesi, tutte irrealizzabili.
Qui la prassi non è quella di vendere del fumo ai tanti che non hanno ricevuto degli strumenti adatti per accorgersi del raggiro, e per questo hanno tutta la mia amorevole compassione: non vado in cerca di nemici immaginari, mi sembra eccessivamente infantile, come passatempo.
Se me lo avesse semplicemente chiesto glie lo avrei detto io perché mi firmo Galatea, con buona pace sua e di coloro che in carenza di argomenti validi cercano pretesti per mettere in ridicolo chi la pensa in maniera differente, e che di volta in volta sono in grado di leggere tra le righe oppure non riescono proprio a focalizzare di cosa si tratta, a seconda di come gli fa più comodo.
Sono contenta di aver dialogato con lei, Abate: mi ha indotto a rispolverare una riflessione iniziata tanto tempo fa, su cosa sia l’impegno civile, e su quale versione di noi stessi cerchiamo di trasmettere.
Guardi di nuovo questo spezzone de “La Grande Bellezza”, senza paraocchi: non perché sia una pietra miliare della storia del cinema, ma può darsi che le ricordi di aver riposto qualche scheletro nell’armadio, tanto tempo fa. È ora di fare le pulizie di primavera.
Passo e chiudo.
http://youtu.be/Mgrx6jBsgCY
“Brevi notarelle su conati di vomito e radicalismo chic”
a Galatea, che se la tira alquanto.
“vedere ancora scritti nero su bianco dei vocaboli quali “derivazione marxista” e “Lukács” mi causa dei leggeri conati di vomito”
-Galatea
di grazia, mi perdoni, ma prima di liquidare Lukàcs così di mala maniera, suvvia, ci si contenga.
Ci si può limitare a dire che si considera l’arte tale soltanto qualora non rivesta alcun significato sociale, in quanto al di sopra della società, ma non ci s’illividisca per il fatto che qualcuno nella storia abbia provato a leggerla in quanto tale, con argomenti che prescindono dalle precarie condizioni gastrointestinali altrui.
Si dovrebbe comprendere, d’altronde, che anche la critica e la supercazzola filosofica sono forme d’arte, e dunque arrendersi alle indubbie capacità artistiche di un Lukàcs che, per quanto magari un pò meno sulla cresta della onda rispetto a Sorrentino, è, nel suo campo, assai più significativo.
Per i conati c’è un vecchio rimedio: mettere a bollire una buccia di limone e due foglie d’alloro in un pentolino da latte o tè e bersi l’infuso risultante, è un toccasana.
Parliamo ora della categoria del radicalismo chic, che si sa, per chi vive in un ambiente chic, è la categoria del radicalismo, tale per cui nessuno discorso radicale può godere di alcuna patente di serietà.
Più in generale, è un comodo concetto d’uso reazionario per rivendicare l’uniformità di classe dei ceti alti, tale per cui un figlio di papà debba per forza perpetuare l’ideologia ovviamente capitalista e destrorsa del padre, nonchè un modo per bollare qualsiasi tentativo, da parte di componenti dei ceti popolari, di impossessarsi degli strumenti della cultura “alta” per propri scopi.
La stimmate del radical chic è una chiave attraverso cui si squalifica qualsiasi punto di vista comunista al di fuori dei luoghi della mera irrilevanza politica, come se le rivoluzioni fossero processi spontanei che nascono al pari di un collasso gravitazionale, e non processi politici in cui la cultura dei ceti dominanti è ovviamente implicata, in cui la defezione di componenti di quei ceti fondamentale (chessò, quando la buona borghesia dovette scalzare la polverosa aristocrazia ci fu gente come La Fayette, che peraltro radical non fu mai, e chic senz’altro).
Molto meno stigmatizzate, ma oramai innumerevoli, le turbe dei nazi chic sbanfano nei medesimi salotti dove si continua a presupporre trionfino i radical chic, e la cosa è ben lungi dal rimanere rinchiusa nei salotti, ha vistosi effetti sociali, e porta i ceti dominanti ad avere sempre meno remore nello schiacciare la testa di chi gli sta sotto.
Così va la vita, ma io preferisco i borghesi coi sensi di colpa, visto che sto sotto. Questione di punti di vista. Anche se, effettivamente intervenendo qua, devo essere un radicalchicco anche io, mi sa mi sa, mi sta spuntando un maglioncino di cachemire sulla schiena proprio adesso mentre scrivo (peraltro mi fa sudare come un cane).
Dietro alla retorica sui radical chic c’è sempre sottinteso questo beato doppio vincolo: se fai discorsi pertinenti e da persona che ha studiato vuol dire che sei estraneo al popolo, e dunque un fanfarone, qualora osi parlare di interessi dei ceti bassi; se invece fai parte del popolo, devi essere persona incapace di vedere al di là del proprio naso, di svolgere qualsiasi discorso generalizzante inerente una qualsiasi forma di società, di leggere i fatti sociali e politici aldilà delle pappardelle preconfezionate dai mass media, di parlare in italiano corretto, eccetera.
La retorica del radical chic, insomma, serve solo e soltanto a perpetuare l’idea che del popolo ha la destra, che poi andrebbe meglio espressa col concetto di plebe, o meglio ancora: plebaglia. Una turba sconnessa di creature prive di raziocinio governate solo e soltanto dagli istinti corporei più bassi, destinate a distruggere qualsiasi rudimento della civiltà, qualora le illuminate schiere di chi dispone le lasciasse sole.
Con questo non intendo negare l’esistenza di intere fasce altimetriche dei centri città popolate da salotti d’attico pieni di giocatori di giochi verbali volti a titillare l’autocompiacimento per varie forme, perlopiù puramente simboliche, spesse volte fortemente ipocrite, di interesse alle disgrazie della terra e a chi le subisce. Sono personaggi invero mitologici con cui ho avuto a che fare davvero pochissime volte nella vita, essendo l’habitat di queste creature prettamente metropolitano e piuttosto esclusivo, difficilmente accessibile a genticine che non sanno portare bene la giacca.
Sicuramente nego il diritto a parlarne dalle pagine de “Il Foglio”, noto giornale nazi chic.
Andrebbe poi detto che solidarizzare con i disgraziati non è una cosa in sè vergognosa, e che l’ipocrisia può essere anche una forma di pudore, per quanto perversa, comportante una consapevolezza del male (o meglio, del peccato) assente nella spudoratezza, con conseguenze spesso non da poco sulle scelte personali.
PS ovviamente, dato che il filmo di Sorrentino è il ventimilionesimo prodotto culturale che ci parla di figure mitologiche che prosperano nei centri delle principali città e di quanto siano vuoti tristi e bla bla bla, trovo che sia piuttosto masochistico sottoporvisi, considerato che la lezione la conosciamo già, ed è triste.
la mia è una posizione di pregiudizio selettivo, non ammette repliche sul lato della stigmatizzazione dei pregiudizi, in quanto la lettura di articoli come questo, delle recensioni e dei commenti altrui, serve proprio a formarsi quel pregiudizio che sarà discriminante tra l’atto del vedere o non vedere il film.
Considerata la quantità di prodotti culturali disponibili, e la quantità invero assai più risicata di tempo disponibile, il pregiudizio è un elemento di scelta necessario, nella fruizione culturale contemporanea, d’altronde può anche essere che qualcuno trovi più divertente rispondere a una Galatea, o comunque leggere di accapigliamenti vari sul significato di un’opera, piuttosto che guardarsi quell’opera, considerato che dal trailer e dalla sinossi appare davvero poco interessante, e che magari si è più portati ad apprezzare quel genere letterario ormai in disuso che è il dialogo, rispetto alla rappresentazione filmica.
Scusate la curiosità, ma dopo avere scritto vi rileggete, prima di dare il comando di invio?
Destra e sinistra, ceti alti e ceti bassi, siamo ancora a queste rappresentazioni obsolete?
Uomini rossi e uomini neri, sono mai esistiti nella realtà o sono un parto della fantasia?
Ma ci vogliamo svegliare o no?
Le problematiche di oggi non possono essere neanche sfiorate se non usciamo da questo vecchio tritume mentale.
Ho la singolare possibilità di frequentare entrambi i “ceti”, diciamo che non ho il problema di indossare la giacca, per cui ho riscontrato (a livello puramente statistico) che una percentuale molto esigua di individui di umili origini sta ricoprendo dei ruoli di leadership culturale in Italia, e non so se sia dovuto alle capacità effettive, dato che una fetta di quei pochi ha avuto accesso a tali posizioni entrando a far parte di quella casta che ha il potere di aprire o chiudere porte; trovo preoccupante che buona parte degli altri tenda a continuare ad inseguire il miraggio che ruoli simili possano diventare accessibili in un prossimo futuro a tutti loro, o a personaggi di altra estrazione, che però hanno a cuore le loro sorti…
Penso che sia necessario chiarirsi le idee, un po’ come dopo una sbronza; penso che anziché continuare a insegnare il vecchio tritume prodotto dai nomi sacri e inviolabili bisogna iniziare a cercare qualcuno capace di elaborare delle nuove soluzioni, e a dargli spazio; non penso che sia benefico per la salute culturale di una nazione attaccare e cercare di emarginare chi manifesta delle capacità di spicco, secondo il costume attuale, e produrre invece una massa inflazionistica di operai della tastiera e operai della (cosiddetta) arte.
Considerato che non tutti hanno le stesse capacità allo stesso livello, sarebbe molto più logico e appagante che ciascuno accedesse a una formazione mirata ad esercitare il mestiere verso il quale ha maggiore predisposizione.
Mi dispiace ma non sono più disposta a credere che chi si guadagna da vivere scrivendo (e scrivendo male, per di più) notizie false, critiche faziose e interpretazioni aberranti su libri, giornali, spazi virtuali, chi le insegna dalle cattedre di università, scuole superiori, corsi di specializzazione, chi le divulga in video o con qualsiasi altro mezzo, chi scrive o parla pur senza avere niente da dire, sia in buona fede.
Sto esprimendo la mia opinione, come d’abitudine, senza secondi fini: non cerco proseliti, non temo che i miei convincimenti siano minacciati se non ricevo il plauso di tutti gli altri commentatori (anzi, mi preoccuperei se questo accadesse), non ho un libro in uscita che desidero promuovere, non scrivo su giornali o blog, non ho la responsabilità della formazione di altre menti tramite l’insegnamento in istituzioni statali, né private, non ho commesso illeciti né scorrettezze nonostante mi fossi impegnata a servire lo Stato italiano.
Queste condizioni le ho conseguite difendendo sempre strenuamente la libertà di pensiero sia mia che altrui, quindi invito coloro che mi citano con un intento diffamatorio a praticare una bella abitudine che vige nella mia famiglia dalla notte dei tempi:
ogni giorno ciascun essere umano usufruisce di una discreta quantità di risorse per sopravvivere, come ossigeno, acqua, cibo, corrente elettrica ed altre forme di energia, mezzi di trasporto, mezzi di informazione, servizi, ecc. ecc;
ogni sera, prima di andare a dormire, è buona norma mettersi davanti allo specchio e chiedersi: “cosa ho fatto oggi in concreto per guadagnarmi tutto questo?”
È un esercizio molto raccomandabile per imparare a restare con i piedi per terra.
Ottima recensione, forse la più interessante letta finora sul film.
“cosa ho fatto oggi in concreto per guadagnarmi tutto questo?”
-Galatea
“sono nato, peraltro senza che ricordi di aver dato il mio consenso”
io
quanto a lei, vedo che davanti alla tastiera passa non poco tempo, buon pro le faccia, ma mi creda: non c’è niente di più triste dei wanna be nazi da tastiera. Julius Evola si rivolta nella tomba quando vede la gentaglia dell’internet, che in genere manco mai ha tentato di salire una scala a pioli, figurarsi scalare una montagna, tentare di impossessarsi degli esclusivissimi strumenti dell’aristocrazia spirituale ed esoterica.
quando pone quella domanda, lei propone un sottotesto secondo cui la vita non è un diritto riconosciuto tra gli esseri umani, ma un diritto che si acquisisce solo attraverso determinate qualità o azioni, accessibili in genere a una ristretta porzione di esseri umani. questa posizione è quella per cui un jan batenburg, ai suoi tempi, poteva girare ad affettare cristiani per l’europa rinascimentale, o per cui il khan hulagu ritenne suo diritto radere al suolo baghdad e sterminarne gli abitanti, o per cui i nazisti attuarono lo sterminio di varie categorie di persone; stia bene attenta, perchè qualcuno un giorno potrebbe ritenere anche lei indegna della sua porzione di ossigeno, indipendentemente da quel che lei pensa di sè stessa.
destra e sinistra non sono concetti obsoleti, giacchè i concetti, una volta espressi, non sono soggetti ad obsolescenza. non stiamo parlando di procedimenti industriali valutabili sulla base della loro efficacia, non stiamo parlando di utensili soggetti all’inevitabile usura del tempo, stiamo parlando di strumenti del pensiero, utilizzabili in maniera funzionale alla rappresentazione di determinati schemi mentali.
destra e sinistra sono concetti sommari, e tuttavia utili per definire alcune coordinate di base, alcune opposizioni fondamentali nell’impostazione del pensiero politico: aristocrazia vs democrazia, merito vs uguaglianza, beneficio vs diritto, tradizionalismo vs progressismo, ereditarietà vs concorsualità, nazione vs classi, nobiltà vs popolo, eccetera.
se parlo di una visione del popolo “di destra”, è perchè mi pongo a un livello concettuale in cui la parola “popolo” ha un senso, e dunque a un livello invero piuttosto astratto, ma cionondimeno utile a posizionare la retorica contro i radical chic di cui lei si nutre.
in questo quadro concettuale, per quanto vago sia, la sua domanda che lei invita a porsi è senza dubbio al punto più estremo della destra, avvicinandosi alla sua quintessenza.
riguardo poi all’obsolescenza della differenza tra i ceti dentro una società, beh, sforiamo davvero nel ridicolo. d’altronde se per lei i ceti sociali sono due, possiamo capire a che livello di capacità di rappresentazione della società si pone, e di conseguenza fare spallucce riguardo ai suoi giudizi pretestuosi. dovrebbe capire, quando legge un testo, che l’uso del plurale due volte (ceti alti e bassi), presuppone un insieme di elementi “maggiore di uno” due volte, e dunque anche maggiore di due.
venendo al corpo etereo del suo intervento:
la valutazione delle capacità richiede una definizione delle capacità, altrimenti il concetto di capacità è solo un guscio vuoto dentro al quale si può stipare qualsiasi schifezza. particolarmente vuoto è questo passaggio:
“Considerato che non tutti hanno le stesse capacità allo stesso livello, sarebbe molto più logico e appagante che ciascuno accedesse a una formazione mirata ad esercitare il mestiere verso il quale ha maggiore predisposizione”
1) chi e come definisce cosa è una capacità?
2) chi e come definisce i livelli?
3) quando e come si garantisce questa forma di accesso differenziale ai mestieri?
4) come si fa, a priori, a definire le predisposizioni verso il tale o il talaltro mestiere? e come si fa a definire dove finisca la predisposizione naturale e dove cominci la predisposizione acquisita?
ognuna di queste domande, mi creda, occupa intere biblioteche con tentativi variegati di risposte e descrizioni dei risultati dell’applicazione di queste risposte, perlopiù futili quanto la sua frase, quando non terribilmente dannose.
d’altronde lei presuppone che qualche individuo in Italia stia svolgendo ruoli di leadership culturale, laddove è evidente il comporsi di una élite culturale massificata, frutto di un processo esattamente proporzionale all’élitarismo di massa che prende piede nel corpo sociale (di cui lei, nei suoi interventi si fa inconsapevole portatrice).
questa élite massificata (di masse èlitarie) non si contraddistingue per qualità differenti da quelle posizionali, ovvero l’essere in un punto piuttosto che un altro nell’organizzazione sociale; la qualità, in tutto questo, è un dato incidentale, una variabile indipendente.
questo fatto non è una stortura, ma un’ineliminabile condizione necessaria dettata da semplici questioni di contingenza demografica, associata ai livelli elevati (e crescenti) di istruzione. ciò che conta è corrispondere a criteri assoluti di sufficienza, nell’occupare una posizione sociale, non a criteri relativi di eccellenza. la sufficienza, a differenza dell’eccellenza, è un qualcosa che non richiede particolare predisposizione, ma semplicemente un’adeguata formazione, o meglio ancora: un’adeguata selezione.
le basti vedere i criteri di selezione dei docenti di scuola superiore attualmente in vigore: non sono basati su criteri di competenza, per il semplice motivo che le competenze necessarie a insegnare un programma delle superiori sono ormai di diffusione comune; sono basate su semplici criteri di sopravvivenza. serve un numero di insegnanti nettamente inferiore alle persone che hanno maturato le competenze per insegnare, dunque si costruiscono percorsi post-laurea kafkiani, costosissimi in termini monetari e mentali, allo scopo di dissuadere una parte importante di queste persone dall’intraprendere la professione. quanto agli altri, pretendere una selezione “meritocratica”, quando i criteri di sufficienza sono necessariamente medio-bassi, non ha alcun senso, e dunque i criteri saranno piuttosto casuali. il tutto con lo scopo dichiarato di selezionare solo le persone che hanno “la maggiore predisposizione” all’insegnamento (seguendo appunto le circonvoluzioni del futile dibattito su merito e capacità), senza considerare quanto a quella predisposizione contribuisca l’esercizio stesso della professione.
quando la gente come lei parla di eccellenza, considera erroneamente l’eccellenza come un criterio di qualità assoluto. non è così, l’eccellenza è un criterio di qualità relativo, eccelle chi spicca sulla massa, non chi raggiunge livelli di qualità elevati. quando la qualità generale si alza, l’eccellenza tende a diventare sempre più difficile da raggiungere, fino a diventare virtualmente impossibile da raggiungere per un individuo, quando la mole di conoscenze necessarie diventa troppo vasta per un singolo cervello umano.
l’eccellenza in ambito scientifico è una materia per team con criteri di accesso (di sufficienza) molto elevati, e tuttavia raggiungibili da centinaia di migliaia di persone con la giusta dose di formazione ed esperienze.
negli ambiti culturali in cui l’espansione delle frontiere è difficilmente definibile, o è vistosamente ferma, come per esempio in ambito cinematografico o letterario, la perpetuazione del mito dell’eccellenza è un fenomeno sociale piuttosto curioso, in cui si evidenzia tutta la funzione sociale dell’arte a detrimento della sua presunta indipendenza e alterità. la necessità di creare fenomeni di eccellenza deriva da un lato dalla necessità di riaffermare l’utilità di certi ruoli sociali in ambito culturale, in modo da garantirne la sopravvivenza e la riproduzione, dall’altro è un prodotto irriflesso dell’esplicazione delle funzioni accessorie di quei ruoli sociali (una casa editrice, nel momento in cui spinge un autore piuttosto che mille altri, deve in qualche modo vidimare il fatto che questo autore sia più interessante ed abbia qualcosa da dire di più importante).
come disse il saggio:
“C’è una cosa da dire sui grandi maestri della pittura del XX secolo, cioè su Mondrian, Pollock, Matisse, Rothko, Vasarely, Fontana, Man Ray, Bacon, Matta, Dubuffet, Duchamp, Stella, Kandinskij, Morandi, Picasso, Miró, De Kooning, Chagall, Manzù, Ernst, Klee, Picabia, Giacometti, Moore, Dalì ecc…
.. ed è che forse ci sono troppi grandi maestri della pittura nel XX secolo”.
Lo stesso vale per qualunque altro ambito di produzione culturale: ci sono troppe eccellenze perchè l’eccellenza non diventi una forma di mediocrità.
Quella che deve chiarirsi le idee è lei, se ne faccia una ragione. Non basta proclamare l’obsolescenza delle cose per renderle tali, non basta proclamare la propria libertà per essere liberi, non basta invitare gli altri a stare con i piedi per terra per essere con i piedi per terra, sono magie che avvengono solo a livello di discorso, ma la realtà non è un discorso, checchè ne pensino certi filosofi e teorici della letteratura eccellentissimi da una trentina d’anni a questa parte.
Visione di destra? Esoterismo? Io?
Veramente spassoso.
Se avesse una qualche cognizione dei miei dati biografici, la penserebbe diversamente.
Quando mi rivolgo a chi scrive e divulga il suo credo con dei secondi fini, tra coloro che leggono c’è chi ha compreso benissimo a cosa mi riferisco.
Spendo molto tempo al computer purtoppo, per motivi per così dire professionali; è per questo che amo fare una pausa di tanto in tento passando ad altri argomenti, ma non stia in pena per la mia salute: la mia velocità di lettura, di pensiero e di scrittura è considerevolmente elevata rispetto alla media, quindi facendo le debite proporzioni…
Bisogna fare attenzione a divulgare credenze partorite dalle teste di altri, sa? È così che nascono le religioni, con tutte le loro sfaccettature integraliste (fra le grandi religioni monoteiste ovviamente includo anche le ideologie politiche).
Lei ha fatto una presentazione esauriente di sé affermando il suo diritto naturale, dal momento che non è stato interpellato per nascere.
Neanche gli animali vengono interpellati per nascere.
Tuttavia ci sono miliardi di individui convinti che la modalità in cui si viene al mondo non è quella che crede lei: tutto il popolo buddista e tutto il popolo induista, ad esempio,
Chi è nel vero?
Già che ci si trova, comunque, e che sicuramente sta sottraendo ossigeno e risorse a qualcun altro (non mi faccia sciorinare argomenti triti e ritriti, come la provenienza del petrolio per la benzina della sua auto o del tantalio per il funzionamento del suo computer), potrebbe avere la coscienza civica di cercare di fare qualcosa di utile e, qualora sia possibile, di tangibile e riscontrabile, non solo per se stesso.
Vi lascio al vostro dibattito per soli uomini.
@ Galatea
Brevemente. Non mi pare di aver cambiato argomento o di essere stato non pertinente se ho risposto con una battuta («Lei non mi parla dall’Arcadia ma da Magdeburgo!») al suo copia/incolla da Wikipedia che infilava Lukács, Marx e Fortini in una sorta di Trimurti conservatrice dei privilegi. Cosa vuole che possa replicare a chi mi rispolvera – ingenuamente o sornionamente – un clichè antisemita inaccettabile?
Un po’ di storia dovrebbe conoscerla se vogliamo discutere – come lei chiede – rispettandoci e rispettando però un minimo di ragionevolezza.
E poi non ho preparato nessun «dossier» su di lei. Scherzosamente – gliel’ho detto – ho richiamato due miti collegabili al nome reale o fittizio con cui interviene qui su LPLC.
Ho poi guardato lo spezzone del film che mi ha consigliato. No, non mi ha evocato nessun «scheletro nell’armadio». Le mie posizioni passate e presenti, se ha un po’ di pazienza e voglia di capire chi sono i suoi interlocutori senza ridurli a fantasmi, le può ricostruire decentemente visitando il sito di Poliscritture.
Per completare: trovo una macchietta il personaggio di Stefania e qualunquista e assolutorio («hai una vita devastata come tutti noi…») il discorso che Jep le contrappone. Davvero non mi apre gli occhi se non sul suo nulla. Il film per me resta, infatti, di un nichilismo insopportabile.
@Galatea
no no, ad essere brutto non era il sorriso sdentato della Santa, che comunque ha meritato una soggettiva di qualche secondo da parte del regista, ma é la scena nel suo insieme, dialogo compreso. Le dirò, se non ci fosse stato quel sorriso a risolvere l’ovvietà del dialogo avrei detto che quella era proprio brutta scena; Io sono convinto che quella scena fosse un modo per palesare la bruttezza di una certa santità, retorica e banale.
Qui chiedevo semplicemente, condividendo certe sue posizioni, la sua opinione su quella scena in particolare.
Saluti
Dinamo Seligneri, d’accordo, ma quando scrivi che a valter ti “è venuto di rispondergli sui commentari in generale”, tenti di cambiare le carte in tavola.
il 6 marzo valter ha così criticato l’andazzo di questo commentario:
“E domando ancora e provocatoriamente: è così talmente interessante focalizzarsi sul punto di vista dell’altro, anche con vena polemica, piuttosto che riflettere etc”
Il 14 marzo tu gli hai risposto in questo modo:
“le discussioni si fanno così [ma così come? focalizzandosi anche sul punto di vista dell’altro, anche con vena polemica, cioè come valter ritiene sia accaduto nel commentario presente], non c’è niente di male a fare dialogo tra i commentatori [quali? innanzitutto i commentatori del commentario presente] anche prendendo le pezze d’appoggio dai punti di vista degli altri o mostrando alcune incongruenze di ragionamento; d’altronde ragionare sul post della Brogi non è focalizzarsi sui suoi (della Brogi) punti di vista? Il problema, semmai, [e dove fa capolino il problema? sul post della Brogi, nel commentario presente] da un certo momento in poi, non sono le idee e le opinioni dei commentatori [i commentatori di che… ma quelli del commentario presente], credo io, magari ce ne fossero di più, ma (alcun)i commentatori e gli strani bracci di ferro che si ingaggiano mettendo in primo piano sé medesimi al posto delle proprie idee (o difendendo a spada tratta idee strampalate solo perché ci “appartengono”)… [dov’è che alcuni commentatori si mettono a fare strani bracci di ferro e via così? be’, nel commentario presente innanzitutto.] Sono queste le cose che strozzinano le discussioni qua sopra a internet e altrove. [La generalizzazione viene usata per chiudere. Amplia il discorso a i commentari in generale, e ovviamente non elide la parte di discorso sul commentario presente].
Insomma: non è vero che questo tuo commento è focalizzato sui “commentari in generale”.
Ha senso dunque che ti si domandi di quali commentatori tu stia parlando.
Infatti, più avanti nel commento, lo dici.
Non ho ancora visto il film, ma seguo il dibattito. Butto lì una noterella personale. Anni fa vidi “La trilogia della villeggiatura” di Goldoni adattato e diretto da Toni Servillo (che interpretava Ferdinando lo scroccone).
Bello spettacolo. Però, via via che lo guardavo, mi accorgevo che Servillo aveva trasformato i personaggi di Goldoni, con i loro umani, perdonabili, amabili difetti, in una gang di ultimi uomini, di mediocri, freddi, spregevoli spostati; terra terra: in una accozzaglia di gente che è meglio perderla che trovarla. Unico essere umano da non rottamare, il Filippo di Paolo Graziosi, che conoscendo benissimo Goldoni non dev’essersi lasciato praticare l’operazione di ingegneria genetica da dr. Servillo. Uscendo, la sensazione prevalente che provai fu un gran freddo nelle ossa.
Leggendo le critiche, notai che non se n’era accorto nessuno. Mah. Mi sarò sbagliato io…
Il sorriso risolvere la scena nel senso che pare il sorriso cinico, ironico e beffardo del regista.
@Ennio Abate
Ho già dato uno sguardo al sito di Poliscritture, la ringrazio del cortese invito. Ho il massimo rispetto per le sue opinioni e le sue attività, e se vogliamo uscire per un attimo dal registro scherzoso, non ho alcuna idiosincrasia verso l’opera di Franco Fortini o degli altri suoi mentori e colleghi; ho anche amato leggere molti scritti di Pasolini, per le sottili e lungimiranti analisi dei vari scenari della sua epoca.
Riguardo ai nostri gusti cinematografici, restano molto distanti; ieri sera mi hanno coinvolto nella visione del film “Lei” (Her) Di Spike Jonze, nella versione originale con i sottotitoli; ho sofferto tutto il tempo, e se non fosse stato per un riguardo verso quegli amici che avevano organizzato la serata sarei andata via dopo un quarto d’ora di proiezione: benché abbia avuto recensioni entusiaste, a me è sembrata un’opera di un nichilismo insopportabile.
Vuole provare a guardarlo anche lei? Forse riuscirà a cogliervi quei significati che a me sono sfuggiti.
@ Ares
Valutare ogni scena presa singolarmente è un po’ un’operazione di vivisezione, comunque quella che mi ha convinto di meno è stata la sosta dei fenicotteri sul balcone. Ovviamente stavo scherzando, quando le ho chiesto se le piacciono i sorrisi sdentati. Immagino che il pubblico maschile apprezzi maggiormente il sorriso della Ferilli. Buona giornata
@Galatea
e si, anche se in questo film il personaggio della Ferilli sorride poco o niente.
@ Galatea
Suggerirei a Daniela Brogi un post sul film”Lei”. Così ne possiamo ancora discutere qui su LPLC tutti assieme.
@Dinamo Seligneri, grazie ci siamo ricondotti al punto focale, le fa e ci fa onore.
@dm, grazie anche a lei che riprende un mio spunto sul film rispondendomi al riguardo ed entrando conseguentemente anche lei nell’interpretazione, argomentando.
@Galatea grazie a lei per il passaggio dell 8 marzo nel quale rivela che le piace decodificare i simboli e spiega, questa passione ci accomuna e per il contributo video che ci ha aiutato a ricordare.
@ tutti, grazie per il ritrovato spirito costruttivo.
Per i motivi appena espressi e per questi ultimissimi commenti, mi è tornata la voglia di confrontarmi sull’opera, anche rispondendo così a dm sul bla,bla, ma soprattutto per conoscere il vs parer sul film, su come io l’ho letto, sulla vs lettura.
Sono molto interessato a conoscere il vs parere.
Quando giudichiamo o cmq valutiamo un opera artistica, c’è un metro, una misura, un iter convenzionale o meno? Su cosa è giusto o meglio è sensato attenersi o ricercare?
Io da profano spesso mi son posto queste domande.
Credo che ogni opera in quanto lavoro artistico esprima un livello che potremmo definire, riportando tutto ai concetti di forma e sostanza, “formale” o di capacità “costruttiva” cioè la sapienza dell’uso dello strumento idoneo, sia esso un pennello, una macchina da presa, un utensile in genere, le mani stesse, ma anche la mente essa pure è strumento che elabora pensiero, storie, esprime sensibilità, creatività, comanda suoni e parole. Ciò che ne nasce, il “prodotto finito” si sostanzia in questa architettura costruttiva ma non solo, c’è il messaggio, ciò che l’artista ha inteso trasmettere, quello che a volte definiamo come l’anima dell’opera. Sono queste le due componenti a mio parere che determinano lo spessore dell’opera, cioè quanto questa possa definirsi il più oggettivamente possibile oltre che ben fatta, interessante, in grado di trasmettere non solo emozioni, ma anche riflessioni, interpretazioni.
Tanto più un film, nel quale come giustamente qualcuno ha scritto trovando il mio consenso, non deve essere neanche eccessivamente realistico, poiché altrimenti mi vado a guardare un documentario della National Geographic o di History Channel, nel quale il regista attraverso i vari personaggi e la storia, e secondo me anche attraverso la lettura dei particolari (sono anche questi simboli come sostiene Galatea?) ci consegna il messaggio che è quindi parte della sostanza dell’opera.
Interpretare il tutto ha il limite della soggettività, che è conseguenza della diversa sensibilità di ognuno di noi, che ancora è conseguenza del ns bagaglio culturale ed umano e del ns percorso esistenziale.
Ecco perché è interessante confrontarci, ma senza il desiderio di primeggiare o la speranza o peggio la pretesa che la ns sia la chiave di lettura più attinente.
Semmai con la curiosità di ascoltare con mente libera.
Così detto, ho trovato nel film un filo conduttore e delle sfumature che non ho giudicato casuali.
Il film ci consegna un protagonista che è giunto ad un punto della vita nel quale sono possibili i bilanci.
Egli esercita questa pratica, ma ne esce sconfitto. E’ sua l’insoddisfazione latente, ma anche esplicita, che attraversa e permea tutta la storia, la mancanza di entusiasmi, lo spreco di tempo e di talento. Fino all’ammissione allor quando chiede all’amico prestigiatore di farlo scomparire come la giraffa. Intorno a lui sta un certo tipo di mondo che è anche un certo tipo di approccio alla vita, ai propri simili. Un mondo nel quale ci si è consegnati totalmente al più completo materialismo, all’edonismo più sfrenato.
Il filo conduttore è la spietata accusa del regista verso questo tipo di mondo e di persone. Le quali ultime alla fine non sono utili a niente neanche al loro stesso piacere che è la cosa che anelano di più. Dei perdenti totali che gettano via la loro vita con un percorso esistenziale errato, io aggiungo di mio contro natura.
Le sfumature sono passaggi, talvolta fuggenti, dei quali il regista si serve per spiegare il percorso che all’opposto avrebbe potuto condurre il protagonista, ma evidentemente anche gli altri personaggi, ad una esistenza più piena e soddisfacente.
Il protagonista che raccontando la sua prima volta ci rivela delusione, facendo intendere che in quell’unione di universi aveva già da allora percepito il materialismo privo di un coinvolgimento più totale, al quale aveva finito per acconsentire, come risposta fine a se stessa, monca.
All’opposto il suo sguardo così entusiasta quando incrocia quello dell’attrice francese in un attimo.
Lo stesso che rivela come dopo il primo libro scritto, premiato ed accolto da taluni come capolavoro, non sia più riuscito ad esprimere questo suo talento. Come rivelerà dopo lo stesso protagonista era rimasto in attesa della grande bellezza che evidentemente non è mai riuscito a trovare. E cosa c’è domando io di più triste che accorgersi dopo una vita vissuta di non esser riusciti ad esprimersi?
La sua ammirazione nei confronti dell’amico che si è accompagnato con la straniera che con molta tranquillità gli rivela che conducono una vita normalissima e che vanno a dormire presto, ma che trasmette serenità mentre afferma. Lui li appella con un “che bella gente siete”.
La preoccupazione degli amici in chiesa al funerale del conoscente quando capiscono che dovranno trasportare la bara a braccia, quella della moglie di uno che rivolgendosi al compagno gli raccomanda attenzione alla schiena. L’incapacità di donarsi anche fisicamente, neanche in un momento estremo, che è poi l’incapacità di amare. La peggiore delle sconfitte umane.
@dm L’inutilità dei commensali al pranzo in onore della suora 104enne, i loro vuoti sproloqui fuori luogo, il bla,bla,bla come rinfaccia Jep al vescovo che con termini forbiti (forma) e ricette sperimentate come efficaci (anche sostanza per certi versi) rivelava la sua totale incapacità di rapportarsi al mondo intorno a lui, il suo egocentrismo materialista. La mancanza di anima e di spiritualità.
Lo stesso confronto che Galatea ci ha ricordato in video nel quale perfino colei che pareva la più “impegnata” in verità non era riuscita a dedicare il suo tempo neanche ai propri figli, anche lei con la sua incapacità di donarsi. Io, Io, Io gli imputa Jep, cioè lo stesso identico egocentrismo che colpisce alla fine tutte queste comparse della vita, tutte afflitte dal medesimo male.
Infine la suora, personaggio a tratti anche un po’ troppo forte, estremo, da sceneggiata napoletana, ma attinente, se scremato all’osso, al disegno.
La spiritualità opposta al materialismo, l’impegno esistenziale anche estremo opposto al disimpegno, la sofferenza anche fisica per un ideale contro l’incapacità di accettare come un dono poter condurre a braccia la bara di un defunto, la povertà per scelta contro il lusso e lo spreco, il palcoscenico della vita quotidiana alla ribalta da avanspettacolo.
Alla fine tutto ciò ci consegna due personaggi diametralmente distanti, opposti per certi versi. Jep che ha percepito il percorso, ma si è lasciato andare a ciò che è più facile e più immediato. La suora che ha vissuto rimanendo fedele ai valori morali ed ad un etica conseguente.
L’uno ne esce infelice ed incapace di entrare in armonia con il mondo e con gli altri, verso i quali prova distacco e separatezza poiché non ama, l’altra che all’opposto manifesta fierezza ed orgoglio e seppur la scena con gli uccelli è obiettivamente un po’ forte, ci rivela la sua raggiunta armonia con il creato, l’integrazione con la natura che ci circonda.
Il soliloquio finale di Jep è il suggello.
Il messaggio è arrivato se molti in questi giorni sul web o altrove hanno usato accostare scene del protagonista a scene di ordinario mal costume italico.
Pure questo è un merito o no?
Salve,
prima di tutto vorrei ringraziare per questo bella critica, ho letto e apprezzato il lungo commento al film, concordo su molti punti ma non su tutto. Trovo che l’analisi finale, il riferimento a Breton, sia illuminante ma è inutile insistere su quanto già scritto, invece il disaccordo è su due cose.
1) Il film è ANCHE un remake de La dolce vita. Non solo quello, ma le citazioni dirette ed indirette sono davvero tante, troppe per essere ignorate e anche il messaggio (uno dei messaggi), vale a dire che “le divertissement” nasconde l’essenziale, non è poi totalemente “altro”.
2) Il titolo non è solo antifrastico. Certo, c’è una grande bruttezza, ma la grande bellezza resta sullo sfondo, irraggiungibile o raggiungibile solo per pochi istanti. Come l’illuminazione plotiniana: uno stato che si riesce a raggiungere ma non a mantenere poiché la natura umana non è capace. Eppure questa grande bellezza esiste. Gli aironi che partono dalla terrazza non sono un elemento semplicemente infantile; gli uccelli sono da sempre il simbolo della speranza e dell’elevazione. Nell’Induismo tradizionale, reincarnarsi in un uccello è indice di una prossima (possibile) liberazione…
Grazie ancora per il bel commento,
Vincenzo Rossi Ercolani
Come alcuni di voi (non sono riuscita a leggere tutti i commenti), anch’io ho apprezzato il film pur non considerandolo un capolavoro ma non lo definerei neanche un film nichilista. Trovo che sia nichilista non vedere il suo valore e il coraggio del regista di rendere Roma, il nostro piu’ grande orgoglio come italiani, la “protagonista” dell’apatia in cui siamo caduti.
La cosa che mi rattrista è che in pochi si è capaci di osservare, di farsi delle domande e di darsi delle risposte. Ho scritto un blog post per i miei lettori anglofoni qui in America che amano l’Italia forse piu’ degli italiani stessi e che guardando questo film hanno visto davvero solo la bellezza esteriore dell’italia e la scenografia di un bravo regista, ma pochi hanno letto tra le righe generando una riflessione su quello che sta accadendo nella società, in Italia e non solo.
http://www.parlate.ca/2014/03/09/la-grande-bellezza/
Non vedo tutto questo nichilismo nel film, è semmai la visione di un melanconico, con la sua peculiare percezione del tempo, l’insoddisfazione pervasiva, i famosi attimi di struggente bellezza, quasi sempre declinati nella nostalgia o nell’esperienza estetica, ineffabile, non ripetibile. La commozione di Jep vedendo l’infinita sequenza delle foto è quella di vedere un altro tentativo ( più riuscito del suo? ), di mantenere ininterrotto il filo dell’esistenza e delle emozioni ad essa legata.
Figure femminili sfuggenti ed enigmatiche come cardini entro cui scorre la nostalgia per un paradiso mancato per un soffio e perduto per sempre. Per contro lo squallore di un presente prosaico e pecoreccio nel quale i personaggi si agitano in ammollo perenne quasi come antidoto taumaturgico per sfuggire a quell’antico dolore. Un presente di cui anche noi spettatori ne percepiamo forti i contorni nel nostro vivere quotidiano. Il riferimento non è casuale; la “laicità” di certo clero non può essere un elemento buttato li a caso: il ricordo di Mister Marcincus e dell’attico del cardinal Bertone sono troppo contestuali. E’ del nostro mondo che stiamo parlando. Siamo noi e il nostro malessere. Questo può piacere o non piacere. Qualcuno addirittura ha ravvisato elementi di misoginia e xenofobia verso le donne polacche. Francamente mi sembra un tantino troppo. Posso solo dire che a me è piaciuto.
Non dimentichiamoci di Proust “alla ricerca del tempo perduto” che Andrea cita nell’incontro con suo padre nel ristorante .
La grande bellezza. Un film “napoletano” su Roma, la “non capitale d’Italia”.
Cosa dire del film “La grande bellezza” dedicato a Roma, il cui regista, Paolo Sorrentino, napoletano, è stato insignito dell’Oscar come autore del miglior film straniero? Dirò innanzitutto che l’ho visto; perché da buon italiano potrei anche avere la pretesa di “portare avanti il discorso” su di un film senza averlo visto prima. Le cose raccontate dal film sono affascinanti, per contenuto e forma. Roma appare proprio “eterna” nella sua eterna continuità-decadenza e nella sua straordinaria dimensione storico-estetica dai tantissimi strati. I personaggi di tipo felliniano che la popolano sono espressione di una stanca, cinica, snob, e corrotta umanità, che vive nell’abbondanza senza che si veda da dove essa tragga i suoi soldi. Con sullo sfondo statue antiche, palazzi principeschi dalle sfarzose ma cupe atmosfere, fontane, chiese, conventi, croci, cupole, giardini… Un delirio insomma d’immagini. Un trionfo dell’estetica. Una Roma onirica, rarefatta, felliniana, da divano psicanalitico. Su cui, secondo me, dovrebbe installarsi proprio il regista… Infatti, anche quello che Paolo Sorrentino, ideatore di questa Roma stile Hollywood, non dice nel film, dice invece molto su di lui, come napoletano e come italiano. Le assenze, in questa Roma unidimensionale, sono tante. Ma distinguere quelle volute da quelle non volute non è facile. L’assenza – direi incredibile – di ogni riferimento a Berlusconi è voluta, ed è ammirevole tanto che il regista meritava l’Oscar solo per questo. Manca nel film la gente, la folla, il popolo. È assente ugualmente sia “la grande monnezza” che affligge la capitale d’Italia, sia le “imbrattature” di pareti, saracinesche, monumenti: i disgustosi graffiti presenti ovunque nella vera Roma. Spettacolo che suscita in me tristezza, ogni volta che torno in questa città. Perché dopotutto Roma è la capitale d’Italia. Ma molti romani, di nascita o d’adozione, vedono Roma come città esclusiva dei romani, e meglio ancora dei romanacci. Fatto forse unico al mondo: Roma è una capitale che non riesce a suscitare sentimenti “nazionali” né nei suoi abitanti né negli abitanti del resto d’Italia. E tutto nel film indica che Roma non suscita neppure in Sorrentino questo per me normale sentimento d’identità nazionale. Altre assenze? Manca il traffico, manca la metropolitana, manca – come ho già detto – la folla: i lavoratori, i vigili urbani, gli zingarelli borseggiatori, i venditori ambulanti, i mendicanti; mancano poi gli extracomunitari. Mancano insomma nel film il disordine, l’illegalità, la “cialtroneria”, il caos di Roma. Un caos avvilente, perché espressione d’incuria, e di grave mancanza di senso civico e di responsabilità anche in chi sta ai vertici. E dire che sarebbero bastate un paio di scene per mostrare questo sfondo di vita vera (una rumorosa confusione umana e veicolare è invece ben presente nel film “Roma” di Fellini). Nel film abbonda invece lo snobismo, quello dei suoi personaggi, e – oserei dire – anche quello di Paolo Sorrentino, creatore dell’opera. Abbonda poi la napoletanità. Infatti, a saper ben guardare, Sorrentino rivela filosofia e sentimenti napoletani, ma non un sentimento profondo per Roma; né per la Roma, città di tutti i romani; né per la Roma degli italiani, ossia la Roma capitale nazionale e non solo capitale mondiale della Chiesa ed ectoplasma della passata forza e grandezza della “Roma-impero”. Torno a ripetere: “La grande bellezza”, film su Roma, evoca con forza – secondo me – Napoli. A conferma, ove ve ne fosse bisogno, vi è il ringraziamento, di carattere proletario-snobistico (anche questo è un tratto napoletano…) fatto da Sorrentino a Los Angeles al momento della premiazione… a chi? A Maradona. Il Maradona che segnò la riscossa calcistico-morale di Napoli e fu divinizzato dal popolino. Protagonista de “La grande bellezza”, del resto, è Toni Servillo, napoletano di Afragola, romano acquisito secondo il copione, ma ben napoletano sia nella cadenza, sia nel suo cinismo-disincanto misto ad una certa umanità. Anni fa descrissi così, parlando di Totò l’esasperata ossessione napoletana dello status: “Il senso spasmodico delle differenze tra ‘miseria e nobiltà’, l’insopprimibile ansia nobiliare, l’ossessione di volersi innalzare al di sopra del volgo per entrare nel rango dei signori – dove si è affrancati per sempre dalla fame, elemento chiave di tanti suoi film – confermano la napoletanità assoluta di Antonio de Curtis. A Napoli infatti, più che in ogni altra città del nostro Sud, si avverte la profonda frattura storica tra ‘pezzenti’ e ‘signori’, ‘plebe’ ed ‘elite’. Frattura che però la dote – sommamente apprezzata all’ombra del Vesuvio – della vivezza di spirito e del gusto della battuta riesce in parte a colmare, poiché riscatta quegli umili che ne siano dotati, mentre condanna quei nobili che ne siano sprovvisti.” Ebbene l’impronta “napoletana” di questo film dedicato a Roma è rivelata proprio dal fatto che tra “miseria e nobiltà” Paolo Sorrentino ha scelto la “nobiltà” ignorando totalmente la “miseria”. Ha voluto anche ignorare il disordine e la “grande monnezza” della capitale. Ma bisogna riconoscere che venendo da Napoli, ex perla del mediterraneo finita tristemente, in gran parte, in mano alla camorra e ai porci, Sorrentino non si è lasciato di certo impressionare dallo sfascio di Roma, “l’ex capitale d’Italia”.
– Sta diventando più freddo. L’inverno sta arrivando!
– L’inverno non è così importante!
– Cos’è importante?
– Importa con chi.