cropped-tumblr_miwpu1CmpK1qghk7bo2_1280.jpgdi Tonino Griffero

[Da diversi anni Tonino Griffero sta elaborando un’originale teoria filosofica di quelle entità intermedie, come le atmosfere e gli stati emotivi, che il paradigma psicologistico tende a considerare stati interni del soggetto. Contrariamente alla tradizione di pensiero che ancora impregna il nostro senso comune, Griffero dimostra che sentimenti come il dolore o la vergogna hanno lo statuto oggettivo di “quasi-cose”, relativamente esterne all’io e così indipendenti da esso da essere capaci di aggredirlo e smuoverlo contro la sua volontà. Questa nuova interpretazione ontologica può avere conseguenze decisive anche nella morale e nella politica, non solo perché contesta l’idea di una soggettività autonoma e sovrana, rivelando la dipendenza dell’uomo dai contesti ambientali e intersoggettivi, ma perché induce a riflettere su valori, come il “segreto”, condannati dalle ingiunzioni mediatiche alla sincerità e alla trasparenza.
Pubblichiamo alcuni estratti, modificati per esigenze redazionali, del volume Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, pubblicato nei mesi scorsi da Bruno Mondadori].

Quasi-cose

Non è per arbitrio ma proprio per necessità che, dal nostro punto di vista, entia sunt multiplicanda. Basta che ci alziamo dalla scrivania e abbandoniamo il laboratorio, prestando un po’ di attenzione alla quantità e varietà delle nostre esperienze sensibili, alle sfumature affettive e corporee del nostro incontro in carne e ossa con il mondo, per prendere atto di quanto sia inadeguato l’ideale di un’economicità del pensiero. Anche un Orazio eliminativista sarebbe costretto a riconoscere l’insufficienza del rasoio di Ockham (“Ci sono più cose in cielo e in terra, di quante ne sogni la tua filosofia”…). In una filosofia che non accetti di subordinarsi al fisicalismo e al riduzionismo, ci pare quindi utile cominciare a mettere a fuoco una particolare costellazione di entità che, pur coesistendo quotidianamente con le cose intese in senso proprio, di norma risultano bandite dal catalogo ontologico che influisce sul nostro pensiero e sul nostro linguaggio in senso metafisico.

Ecco il motivo conduttore del presente lavoro, che si pone in continuità con i precedenti, ampliando quanto era in embrione nello studio delle atmosfere come spazi emozionalmente intonati[1]. È analizzando appunto le atmosfere come sentimenti esterni, i quali trascinano l’uomo e gli resistono, dimostrandosi così dotati di una loro specifica e relativa oggettività, di una loro inaggirabile realtà ‒ in senso non tanto fisico-materiale quanto attivo-effettuale, dipendente cioè solo dalla forza d’irradiazione del loro apparire ‒ che è emersa la nozione di quasi-cosa. Un concetto a prima vista sorprendente, che abbiamo deciso di porre al centro di questo libro con un duplice intento: quello di fornirne le più immediate coordinate generali (cap. I), di spiegarne i presupposti affettivo-atmosferici (cap. II) e il fondamento nell’esperienza proprio-corporea [2] (cap. III); e quello di esaminarne la fecondità nell’analisi di alcune forme d’esperienza tutt’altro che marginali, mediate appunto dai presupposti atmosferici e proprio-corporei, come il dolore (cap. IV), lo sguardo (cap. VI), la luce (offuscata) (cap. VII) e soprattutto la vergogna[3], che considereremo qui specialmente nella sua forma vicaria (cap. V). Vediamo ora quest’ultimo punto.

La vergogna come atmosfera

In quanto vissuto corporeo suscitato dall’atmosfera restrittiva e obiettivante dello sguardo altrui, la vergogna certifica la realtà nostra e altrui ben più della certezza “da tavolino” del cogito, in fondo sempre minacciata dal dubbio iperbolico. La vergogna provoca passività e addirittura paralisi, perché frustra l’altrimenti naturale moto espansivo relativo al corpo proprio, inducendo alla contrazione. Lo sguardo altrui induce infatti in chi lo subisce un moto centripeto. Questo è possibile perfino in assenza di altri concreti, dato che il soggetto “svergognante”, colui che induce cioè alla vergogna, potrebbe essere solo simbolico e incarnato dall’astratta prospettiva altrui.

L’immagine di sé suscitata dalla vergogna è dunque anche l’effetto di un’atmosfera esterna, che oggi è irradiata dallo sguardo altrui, più o meno reale, e che in passato lo era dallo sguardo di Dio o, in subordine, dei suoi emissari, ossia da uno sguardo tanto più stigmatizzante quanto più ritenuto in grado di sondare anche le motivazioni più nascoste. Questo sentimento atmosferico non è né un’opzione soggetta al nostro arbitrio né un processo puramente mentale, bensì una quasi-cosa. L’indebita esposizione della propria persona agli altri così come la violazione della privacy altrui generano, ad esempio una tensione tra l’io e il proprio ideale (estetico, sociale o morale) corporizzato negli altri. La vergogna, che risuona in modo incontrollabile nel corpo proprio, denuncia in grande stile quanto sia illusoria la pedagogia illuministica dell’autonomia del soggetto: pur se in modo intermittente, coinvolge e contagia ab extra la persona con la sua autorevolezza ed evidenza; come il dolore, aggredisce la persona, costringendola a capitolare, a piangere e ammettere in modo liberatorio la propria infrazione.

Vergognarsi significa dunque recepire, addirittura anticipandola, l’atmosfera che gli altri irradiano su di noi dinanzi a ogni nostra deviazione, anche involontaria. Deviazione che può non essere negativa, ma neutra, come accade in ogni tentativo d’innovazione, in specie se minoritario, come quando ci si veste fuori moda o ci si comporta in modo non conforme alle aspettative sociali, e perfino positiva, come nel caso della vergogna “da elogio”, a seguito cioè di complimenti troppo intimi o immeritati, espressi per ragioni sbagliate o da persone prive di titolo, ecc. La vergogna personale è pertanto qualcosa che non si “ha”, come invece pretende il paradigma psicologistico subentrato a quello dinamico dell’età greca arcaica, e che ha introiettato i sentimenti in un immaginario spazio interno al fine di garantire il controllo e la manipolazione della vita affettiva. Né è semplicemente l’espressione esterna di un interno. Esattamente come l’imbarazzo, la vergogna è una situazione in cui ci si imbatte, che coinvolge il corpo proprio “quasi come una cosa”.

Vergognarsi di e per gli altri

La vergogna si rivela un sentimento potentemente atmosferico in altre sue manifestazioni. Vi sono i casi patologici del dismorfobico, che si vergogna della parte del proprio corpo che percepisce in modo erroneo, e del paranoico, che si crede osservato e perseguitato al punto da non poter mai assumere la necessaria posizione decentrata rispetto a se stesso. Vi sono i casi collettivi di quei popoli spinti alla vergogna da un “passato che non passa”, e proprio per questo privati del salutare sbocco catartico. Ma il caso in cui la vergogna rivela tutta la propria autorità atmosferica, e quindi quasi-cosale, è soprattutto quello poco indagato della vergogna vicaria: quella nella quale ci si vergogna per chi non si vergogna affatto. L’atmosfera suscitata da un comportamento vergognoso contagia infatti i presenti incolpevoli, talvolta persino quando questi si limitano a prevedere tale comportamento, o si vedono costretti a richiedere esplicitamente ciò che l’interlocutore dovrebbe invece fare da sé.

Presente “nell’aria” in forma sovrapersonale, la vergogna vicaria assale in forma centripeta nella coincidenza di azione ed effetto. Sorge improvvisamente, ma è transitoria, e inspiegabilmente sparisce. Genera nei testimoni, trasformati così in zona di condensazione del sentimento, una comunicazione proprio-corporea estremamente violenta, difficilmente contrastabile. Ma, a differenza della colpa, che opprime a lungo e sempre per qualcosa di pregresso, la vergogna vicaria è tutta incentrata sul presente, anche se non necessariamente su un evento singolo. È esprimibile in forma linguistica solo ex post, quando cioè meno intense sono la direzione centripeta e la forza con cui si diffonde, angosciando i testimoni. Tra l’altro, a differenza di quanto accade in altri sentimenti collettivi e anche nella vergogna personale, quest’angoscia non viene mitigata ma addirittura acutizzata dalla condivisione: il panico morale è vergogna vicaria che si tramuta in paura di essere contagiati dalla devianza e di rivelare certi aspetti indesiderati e faticosamente rimossi della propria personalità. La vergogna vicaria si delocalizza in sfere sempre più larghe di disagio, inducendo l’involontario spettatore a vergognarsi spesso più della persona, ora pervasa da un’atmosfera disdicevole, che non della sua circoscritta condotta. Ora, quali che siano le ragioni del fatto che chi irradia vergogna potrebbe non provarla, la vergogna vicaria esercita una propria autorità, quanto la vergogna strettamente personale. Ma in che cosa consiste, allora, la risonanza nel corpo vissuto di questa vergogna a bassa intensità?

Chi prova una vergogna vicaria anzitutto arrossisce, e rivela così, senza possibilità di ricorrere alla simulazione, sia il proprio coinvolgimento, anche a chi fino a quel momento ne era ignaro, sia la propria adesione interiore alla norma violata, adattiva in senso sociale e forse finanche biologico. Ma, mentre si rivela coinvolto, chi vive una vergogna vicaria implora anche necessariamente l’indulgenza altrui. Come nella vergogna personale, va forse incontro a una certa diminuzione della temperatura cutanea, e tenta di fuggire (peraltro invano, essendo la meta della sua fuga quello stesso sé dal quale appunto desidera fuggire), desidera sprofondare, sparire, esprimendo quella generale perdita di “tono posturale” che, già nella vergogna personale, segnala l’autoridimensionamento del proprio ruolo. Di qui contrazione, testa china, spalle curve, occhi bassi: il tutto nell’illusione magico-infantile di ridurre lo spazio occupato e di non essere visti da chi non si sta guardando. Meno intensi ma per nulla assenti sono i tipici gesti di “copertura” della vergogna: anche chi prova una vergogna vicaria nasconde il viso tra le mani, reclina la testa di lato, si mordicchia labbra e lingua, aggrotta la fronte e si produce in falsi sorrisi, si tocca il naso, si gratta la testa, si sfrega le mani. E anche se non abbassa del tutto gli occhi, però li socchiude, pur di non vedere troppo, attua quella diversione dello sguardo che va dal moto repentino degli occhi alla cosiddetta “faccia da pesce”, illudendosi di tacitare con l’inespressività facciale la più complessa esteriorizzazione mimica del vissuto. Adotta inoltre, forse, perfino quel tono basso e monotono, pieno di pause e sospiri, con cui chi si vergogna di sé spesso finge di aver voluto fare proprio ciò di cui sente di doversi vergognare. Cerca anche, in un certo senso, di rimediare alla condotta dell’altro, “salvandogli la faccia” e facilitandogli il ritorno a una qualche compostezza. È per questo che talvolta finge di non aver visto, sottostima pubblicamente l’altrui violazione, pur di non precipitare nell’intollerabile atmosfera del “non poter guardare gli altri negli occhi”: un’atmosfera che – lo si noti – può perfino essere solo ipotetica, come quando, distogliendo lo sguardo dal mendicante o dallo storpio, ci si vergogna della vergogna che egli può provare incrociando il nostro sguardo. Pur non valendo, a differenza di quella personale, come “scusa” finalizzata alla non emarginazione, perché il gruppo invece si nutre qui proprio dell’atmosfera di stigmatizzazione che proietta sul capro espiatorio, la vergogna vicaria non sembra, però, del tutto estranea alla duplice ingiunzione sociale che spinge il singolo, nel caso in questione il testimone, prima a vergognarsi di sé, e poi ricorsivamente a vergognarsi di questa stessa vergogna. Mentre non ci si sente in colpa per il fatto di sentirsi in colpa, chi si vergogna, perfino nella forma vicaria che stiamo esaminando, vive infatti sempre anche una sorta di metavergogna, se non altro perché rivela agli altri, e così in fondo anche a se stesso, la propria conformità a valori eventualmente indesiderati.

Le reazioni proprio-corporee a bassa intensità fin qui descritte sono però a loro volta soggette a strategie sociali di occultamento, col galateo anzitutto. Nella prima di queste strategie, che consiste nell’identificarsi con l’incolpevole occhio sociale e nell’integrale esternalizzazione della vittima, troviamo l’aspetto forse più sorprendente della vergogna atmosferica vicaria. Perché, nonostante ci si senta estranei all’atto vergognoso, la vergogna vicaria implica, invece, una relativa condivisione della condotta stigmatizzata, di ciò che, in fondo, “potrebbe capitare anche a noi”. Getta inoltre una luce fosca sul fatto di aver prima stimato chi ora ci fa vergognare: è infatti tanto più intensa quanto più ci è affettivamente prossimo chi dell’atmosfera di vergogna è responsabile (connazionalità, amicizia, parentela, ecc.). L’identificazione di giudicante e giudicato, fondamentale nella vergogna di sé, ritorna, dunque, mitigata anche in quella vicaria: nel guardare si attua se non un processo empatico, quanto meno un decentramento prospettico, che permette di provare ciò che “dovrebbe” provare il vergognoso, in questo senso mai totalmente altro. Di provare, cioè, atmosfericamente la sua vergogna perfino quando la violazione fosse solo presunta, riferita a norme infondate (ma evidentemente socialmente introiettate), o comunque non valide per chi le viola.

E non vale qui l’obiezione secondo cui la vergogna vicaria, implicando sempre un pubblico e concedendo maggiori chances reattive della vergogna personale (a cominciare dall’ironia), andrebbe derubricata a semplice imbarazzo. Comportando, per la quasi-cosalità che condivide con quella personale, un’almeno relativa lesione della propria immagine, quel dolore del sé trasparente che consiste nel vedersi come si è visti dagli altri, e cioè nella propria intollerabile “nudità”, anche la vergogna vicaria non va sottovalutata. Essa tacita l’altrimenti ovvia curiosità di vedere meglio e di più con l’esigenza di abbandonare immediatamente uno spazio che rende collusi o, quanto meno, di dimostrarsene esenti grazie a una diversa focalizzazione emotiva. Perché, altrimenti, ci si vergognerebbe, ad esempio, di essere uno dei pochi spettatori di un qualche evento, tanto da fingere di trovarvisi per caso? Forse perché si rischia di apparire rappresentativi di coloro che sono colpevolmente assenti? Perché si mostra, partecipando a eventi irrilevanti, di utilizzare male il proprio tempo? O forse, più verosimilmente, perché si respira l’umiliazione atmosfericamente irradiata, in modo più o meno consapevole, da chi dell’insuccesso è il principale responsabile.

Giochi atmosferici

È proprio per scongiurare l’autoumiliazione – lo si è già ricordato – che spesso la vergogna vicaria stigmatizza. Il nesso tra la vergogna e la collera (come sua conseguenza), è storicamente noto. Nel caso della vergogna personale può condurre alla collera sia contro se stessi, fino al suicidio, sia contro coloro da cui ci si sente giudicati, fino al duello per “lavare” l’onta. Nella vergogna vicaria si scarica, invece, sulla persona in cui si condensa quest’atmosfera. In entrambi i tipi di vergogna si genera infatti un furore dovuto all’incepparsi di due risorse: del “sotto-distanziamento”, che trasforma l’imbarazzo provato in un complesso d’inferiorità, ma anche del “sovra-distanziamento”, con cui di solito si mitiga la sofferenza della vergogna mediante l’iperattività, ad esempio parlando o agendo molto fino a (credere di) occultare così il fatto vergognoso. L’atmosfera quasi-cosale della vergogna vicaria sollecita dunque il testimone, sempre solo relativamente innocente, a liberarsi della propria vergogna, imponendo al colpevole un “gioco dell’inferiorizzazione” che sarà tanto più intenso quanto più elevati sono gli standard sociali adottati.

Si tratta ovviamente di un gioco relazionale che dipende in larga parte dal contesto. Ci si vergogna, ad esempio, per la giacca sdrucita di chi sappiamo caduto in disgrazia ma non per quella del clochard; di una malformazione fisica congenita ma non di quella accidentale (o viceversa?), e quindi non costitutiva della persona; ci vergogniamo di aver involontariamente violato la privacy di una persona discreta ma non quella di un personaggio mediatico spudorato. E così via. Il gioco dell’inferiorizzare, inoltre, è anche sempre un inferiorizzarsi, un essere visti “in modo improprio, dalla persona sbagliata nella condizione sbagliata” (Bernard Williams): anche se, in questo caso, lo sguardo altrui non è quello dello svergognato, spesso inconsapevole, bensì di una terza persona, anche solo immaginaria, sul cui giudizio però contiamo, e che sappiamo a noi tanto affine da poter riconoscere il nostro disagio come disagio. Forse, addirittura, lo sguardo altrui è qui quello di una società idealizzata, comunque ben distinta da quella che non stigmatizza a sufficienza la condotta vergognosa dalla cui atmosfera si è aggrediti.

Alcune teorie pretendono di ravvisare nella vergogna, personale e vicaria, semplicemente il contraccolpo di un’iniziativa fallita. Ma si tratta di una spiegazione dubbia. Quale iniziativa è, infatti, legittimamente attribuibile a chi si vergogna perché viene deriso, o perché vede rivelati i propri segreti? A chi si vergogna per avere erroneamente salutato uno sconosciuto, per i propri difetti fisici o per la propria condizione sociale ed economica, per avere subito uno stupro, o addirittura per essere sopravvissuto ad altri innocenti, come nel caso dei superstiti di sciagure collettive o dei campi di sterminio (Primo Levi)? La tesi della vergogna come “contraccolpo dell’iniziativa” presuppone inoltre l’attribuzione al termine “iniziativa” di un significato troppo vasto. E anche “protensivo”, nel senso che, così come ci si vergogna di quanto involontariamente siamo — ad esempio di difetti fisici anche quando siamo vestiti, perché immaginiamo di trovarci prima o poi esposti allo sguardo altrui — così l’idea di un’iniziativa allude alla possibilità che la vergogna vicaria scaturisca perfino da una percezione dell’altro che implichi l’anticipazione di una nostra eventuale analoga condotta vergognosa. Ma perché, allora, confessare ad altri la propria infrazione, attenua in molti casi il sentimento atmosferico di vergogna personale e vicaria?

Proprio perché possiede l’autorità di un’atmosfera e quindi di una quasi-cosa, la vergogna attesta la necessità di una sorta di auto-trascendenza: un senso del limite, che è, forse, una garanzia essenziale dell’ontogenesi e filogenesi sia dell’individuo sia della comunità. Questa nostra interpretazione atmosferologica della vergogna si contrappone con forza all’odierna ingiunzione mediatica all’impudicizia (“dire tutto!, “mostrare tutto!”), che, superficialmente scambiata per sincerità e autenticità, è letale per il segreto “incondizionato” – quello estraneo a ogni svelamento, e non semplicemente non ancora svelato. E nel contrapporsi a questa “dittatura” della trasparenza psicologica l’atmosferologia rivendica la nostra appartenenza a uno spazio non solo fisico ma anche affettivo, a quello spazio emozionalmente intonato che condiziona più di quanto crediamo – e sicuramente più delle nostre astratte cognizioni ‒ le nostre azioni e le nostre idee, certificando così la nostra soggettività più autentica: vale a dire quel “sentirsi” su cui una filosofia degna di questo nome dovrebbe costantemente riflettere. Come di altri sentimenti, anche della vergogna quindi, tanto personale quanto vicaria, si dovrebbe senza dubbio dire: nostra res agitur!


[1] Cfr. T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Roma-Bari, Laterza, 2010.

[2] Con l’espressione “corpo proprio” e “proprio-corporeo” s’intende normalmente in fenomenologia la dimensione del corpo vissuto, cioè sentito in prima persona e proprio per questo distinto dal corpo fisico-anatomico.

[3] Cfr. T. Griffero, Vergognarsi di, per, con…Le atmosfere della vergogna, in M. Rotili-E. Antonelli (a cura di), La vergogna (Sensibilia 5-2011), Milano, Mimesis, 2012, pp. 161-190.

[Immagine: Ron Mueck, Boy (gm)].

 

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