di Rino Genovese
[Ho da poco pubblicato la seconda edizione, ampiamente riveduta e aggiornata, del mio La tribù occidentale, che apparve da Bollati Boringhieri nel 1995. Il nuovo libro, edito da Rosenberg&Sellier nella collana “La critica sociale”, si intitola Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario. Presento qui un ampio estratto dall’introduzione (rg)]
Il presente caos storico è una congerie ormai conclamata di storie frammentarie, al cui interno un Occidente che in quanto concetto geopolitico non si sa più nemmeno dove cominci e dove finisca, gioca un ruolo particolare tra altri. La condizione contemporanea è quella in cui l’universalismo di stampo illuministico cede non nell’urto con una contestazione nel suo stesso ambito (come durante il processo di decolonizzazione negli anni sessanta del Novecento, critica e insieme autocritica del «mondo illuminato»), quanto sotto una dinamica implosiva indotta dall’esterno, originata soprattutto dalla ripresa islamica che, nelle sue pur varie forme, ha i tratti di un universalismo uguale e contrario. Ma due universalismi sono soltanto due particolarismi. Dall’11 settembre 2001, e da quel che ne è seguito, niente meglio che il cattolicesimo conservatore di Ratzinger illustra questa riduzione dello spirito dell’Occidente spinto a chiudersi su se stesso, a opporre il particolarismo al particolarismo, facendo della religione né più né meno che il rito della «tribù occidentale».
D’altronde c’è, si può trovare, una logica nel caos? Se c’è, non può che essere quella del paradosso. A differenza della contraddizione, infatti, il paradosso implica un movimento immobile, un’oscillazione costante e infinita tra i corni di un dilemma che si ripropone ogni volta di nuovo: non c’è soluzione ma un’impasse che si autoalimenta di continuo. Il caos non sembra lasciarsi pensare altrimenti che bloccato dalla sua stessa altissima indeterminazione, dalla stessa sovrabbondanza dei possibili al suo interno. Nel caos storico il dilemma di volta in volta oscillante (e bloccante) è quello tra possibilità equivalenti che, poste in precario equilibrio reciproco, restano altrettanto irrealizzate o solo parzialmente realizzate. Una filosofia della storia che ne faccia propria la logica sarebbe un’antifilosofia della storia del tutto contraria a una prospettiva come quella di Hegel, incentrata invece sulla razionalità intrinseca a uno svolgimento temporale unilineare e, tutto sommato, pur nelle sue asperità, ordinato. Che l’Africa sia fuori dalla storia e ci resti, che la Cina, con l’antico dispotismo patriarcale, sia un mondo immobile, o che l’India con la sua religione sia fissata nell’immaginazione e nel sogno, sono in Hegel tutte formulazioni tese a mostrare che lo «spirito del mondo», se anche in tempi lontani transitò per quei lontani paesi, non è riuscito a mettervi le tende come in Europa. Lo spirito può essere bloccato solo quando riprecipita nella sua dimensione naturale, o se a questa semplicemente si giustappone, come avviene però soltanto nelle culture «altre». Universalità dello svolgimento storico e alterità naturale particolare sono in Hegel la contraddizione dialettica stessa: ed è grazie all’esaltazione di uno spirito capace di dominare la natura che l’Occidente la spunta risolvendo la contraddizione. Un modo, quindi, per scaricare sull’«altro» un’impasse che può essere invece considerata costitutiva della storia stessa dell’Occidente moderno.
Proprio in questa alberga ciò che è bloccato. Lo sforzo di ridurre il mondo a un’unica dimensione che si vuole universale, sia con la dominazione coloniale sia con quello che oggi si chiama soft power (ossia con la propria capacità d’influenza), non ha condotto al successo di quel tentativo (e in questo senso sotto il termine molto usato di «globalizzazione» si cela piuttosto il fallimento della storia universale che il suo compimento) ma a qualcosa di molto diverso: al compromesso di una storia particolare con altre storie particolari, all’ibridazione di tempi storici eterogenei – arcaico-tradizionali e moderni – e, in definitiva, alla mescolanza caotica del presente con il passato in una maniera che, dal punto di vista progressista classico, può segnare soltanto la chiusura di ogni futuro e di ogni progresso. In altre parole, la vanificazione del sogno «giacobino» (intendendo con questo termine, nel senso più ampio, la radicalità di uno spirito attivistico collegabile direttamente all’illuminismo storico).
Oggi gli aneliti di libertà e rivoluzione radicale nascono già catturati dal paradosso. Finanche autentici momenti di rivolta sono presi nella simbiosi con il passato, contaminati dalla presenza di una cultura egemonica di tipo per così dire neotradizionale, che ripropone l’antico come soluzione per il futuro: il che non accadeva, o almeno non era manifesto, ai tempi della liberazione dell’Algeria dalla dominazione francese, per esempio. Tunisia, Libia, Egitto, Siria: quattro figure odierne, diversamente conflittuali, del perdurante paradosso introdotto nella storia in primis dalla modernità occidentale e dalla sua pretesa universalistica. Quale il significato dei sollevamenti che – a partire dal 17 dicembre 2010, giorno del suicidio con il fuoco di Mohamed Bouazizi che dava inizio alla ribellione tunisina – hanno determinato, con un rapidissimo contagio, mutamenti di ampia portata in paesi da tempo chiusi al cambiamento?
È un significato che va attentamente analizzato. Parlare di un’affermazione pura e semplice della democrazia sarebbe semplicistico. In Tunisia, il paese più occidentalizzato tra quelli in cui sono avvenuti i mutamenti, un movimento di tipo sindacale, duramente represso, aveva aperto le ostilità contro il regime di Ben Alì già nel 2008. Il contesto sociale era quindi preparato alla rivolta. Ma nelle prime elezioni libere il successo del partito islamista Ennahda, che ha conquistato la maggioranza relativa nell’assemblea costituente, come dev’essere interpretato, specialmente se si considera che una tendenza più radicale salafita preme su questo partito dall’esterno con disordini e violenze? Siamo di fronte a un progresso o a un regresso? O forse a un progresso-regresso (espressione, questa, di evidente imbarazzo)? Sul carattere regressivo di questo «progresso» non hanno avuto dubbi le donne andate in piazza a protestare contro il progetto di nuova costituzione (non ancora adottata nel momento in cui scrivo) in cui la «parità» era stata sostituita dalla «complementarità» tra l’uomo e la donna. Questa formulazione, successivamente abbandonata grazie alla mobilitazione delle donne, avrebbe condotto la Tunisia indietro rispetto all’eguaglianza di genere sancita dalla costituzione del 1956, varata all’indomani dell’indipendenza dalla Francia. Si direbbe che l’alternativa, come nell’Algeria del 1992, sia tra un regime corrotto ma laico, che affonda comunque le radici nel processo di decolonizzazione (lo stesso Ben Alì non era che un generale golpista proveniente dall’ambiente politico del presidente deposto, il vecchio leader Bourguiba), e il baratro islamista, con tutto quanto comporta in materia di revoca, parziale o totale, della differenziazione delle sfere sociali, in particolare tra quella religiosa e quella giuridica. È il paradosso arabo-musulmano contemporaneo. Né le istanze progressive di libertà e democrazia né quelle puramente regressive sembrano al momento prevalere in Tunisia: ed è prevedibile che, nell’immediato, la situazione resterà di stallo. Del resto la probabilità di un arretramento della condizione femminile, pur essendo una minaccia grave, non è neppure il criterio di giudizio ultimo. Dirigenti e militanti del partito Ennhada hanno conosciuto l’esilio e anni di carcere: a giusto titolo sono da considerare degli eroi – non soltanto per la loro fede religiosa, ma anche per la tenace capacità di resistenza –, mentre la laicità filoccidentale del clan di Ben Alì consisteva in una corrotta subalternità postcoloniale, che di fatto aveva cancellato un’indipendenza faticosamente conquistata.
La prevalenza di élite di potere, militari o dinastiche, nei paesi del Maghreb e dell’area mediorientale, per lo più legate allo sfruttamento delle risorse petrolifere, è l’esempio di una sostanziale eterogenesi dei fini. Il processo di decolonizzazione non ha dato i risultati sperati: e questo sia in un’ottica occidentale liberale sia in una più radicale come quella di Frantz Fanon, teorico della liberazione dei popoli oppressi e militante della causa algerina. Il rapporto padrone-servo, già indagato da Fanon a proposito della relazione di potere coloniale, si è trasformato in quello tra un liberto che spadroneggia, spesso collaborando con gli antichi padroni, e un servo rimasto servo. È il significato dei Gheddafi, dei Mubarak, prima ancora dei Saddam, oggi di Bashar al-Assad: tutti questi personaggi, folcloristici e mostruosi, sono il risultato non di una occidentalizzazione pura e semplice dei rispettivi paesi (come ritengono molti e tra questi, in primo luogo, i militanti islamisti), ma di una cattiva e imperfetta decolonizzazione, di una determinata risposta creolizzante della cultura locale all’Occidente, che ha comportato una modernizzazione distorta e uno sviluppo economico (del resto relativo) staccato da una ridistribuzione del reddito e dal progresso sociale. […]
Il mondo contemporaneo – lo si osserva anche altrove, per esempio nella Russia di Putin o in Cina – non presenta un movimento proteso verso un avanzamento di marca otto-novecentesca, con l’eccezione, forse, di quel gruppo di paesi dell’America latina in cui negli ultimi anni si sono affermati governi classicamente progressisti. Che ciò sia potuto avvenire, del resto, va messo sul conto di un certo sganciamento di quell’area dagli interessi strategici degli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda. Il che non è avvenuto per la zona mediorientale, che resta la maggiore produttrice mondiale di petrolio. Da qui l’Occidente potrebbe ritirarsi, infatti, solo se fosse capace di riconvertire completamente il proprio modello di sviluppo e le fonti energetiche di cui si serve: in breve, soltanto con una rivoluzione ecologica. Fino a quel momento i destini arabo-musulmani resteranno, in un modo o nell’altro, intrecciati con quelli dell’Occidente: e ciò avrà l’effetto di restringere gli spazi delle istanze di libertà e democrazia, perché, in reazione agli interessi occidentali, l’islamismo non potrà che rafforzarsi. Se invece l’Occidente allontanasse i propri interessi vitali da quella regione del mondo, la sua influenza culturale indiretta non potrebbe che aumentare: e sarebbero le tendenze liberali e di sinistra interne a quei paesi a giovarsene.
S’intravede così con chiarezza il paradosso dell’Occidente contemporaneo, in via d’indebolimento ma ancora troppo forte per riuscire a riguadagnare in altro modo una forza che ormai solo una definitiva debolezza potrebbe dargli. Tramontare sarebbe la maniera di risorgere: significherebbe acquistare un’apertura al mondo grazie a una nuova consapevolezza circa il carattere fallimentare della pretesa di una proiezione universalistica sul mondo.
È un po’ la quadratura del cerchio che si propone come compito utopico all’Occidente: non essere più se stessa, trasformarsi in qualcos’altro, promuovere una sorta di esperanto globale in cui la prospettiva di una società mondiale diventi per la prima volta effettiva perché liberata dall’universalismo illuministico e dall’idea di una conciliazione finale della storia entro un impero planetario: non un unico governo mondiale, dunque, ma una confederazione di tempi storici arcaico-tradizionali e moderni, che, anche senza assumere la figura di una federazione di Stati (secondo il progetto kantiano), avrebbe quella di una coesistenza di forme di vita nella loro differenza reciproca. Sarebbe il compito di un’approssimazione all’infinito, di un’utopia che per definizione non può mai conchiudersi. E sarebbe il momento di un pensiero scettico-relativistico capace di porre non tanto la verità, con i suoi dogmi, quale punto di riferimento del movimento storico, quanto l’impensato come un indeterminato di volta in volta pensato. Ciò significa tenere d’occhio non il progresso in generale, come in una visione storicistica della storia, ma i progressi al plurale, quelli che possono derivare da situazioni di sovrabbondanza dei possibili in modo spesso inaspettato: da un aumento della speranza di vita al momento della nascita (nel senso, quindi, di uno sviluppo economico che abbia una ricaduta come benessere diffuso), alla presa di coscienza collettiva da parte delle donne di una comunità africana in ribellione contro l’usanza delle mutilazioni sessuali femminili.
A ben vedere, consiste proprio nel ridefinire i costumi di qualsivoglia cultura, nel rifiuto di sottoporvisi passivamente, la caratteristica comune dell’esperanto da costruire. A questo fine sarebbe del tutto fuorviante, com’è ovvio, l’idea di un consesso di dotti che scegliessero il «meglio» delle varie culture per proporne una unificazione a tavolino. È piuttosto attraverso una pluralità di conflitti sociali determinati, non riducibili a unità, che un nuovo esperanto potrebbe farsi strada. È un socialismo relativistico mondiale, quello che una siffatta congerie di lotte potrebbe arrivare a esprimere: dove «socialismo» sta per «contributo occidentale moderno alla (presunta) storia del mondo» e «relativistico» indica, con una tensione di segno opposto, l’apertura a tutte le storie particolari. Il pensiero politico liberaldemocratico, per tacere di quello conservatore, ha dimostrato nei fatti di non sapersi districare nel caos odierno; soltanto una rinnovata idea di socialismo potrebbe contribuire a uscirne.
In primo luogo il socialismo – la sua stessa storia lo dimostra – non è, non è mai stato, piattamente universalistico. Nato dal cuore della questione sociale europea otto-novecentesca, esso è la componente che, dall’interno dell’universalismo illuministico, sottolinea il carattere particolare cui questo si riduce se non riesce a oltrepassare il carattere ristrettamente borghese della sua prospettiva. Ma nella proposta iniziale di un ampliamento dell’universalismo – anche attraverso la lotta per il riconoscimento dei diritti sociali e per un allargamento delle basi della democrazia – il socialismo fa valere a sua volta una sensibilità per il particolare, appunto per la specificità della questione sociale. In quest’ottica può darsi universalismo solo grazie alla contestazione di un particolare contro un altro particolare. È questa dinamizzazione introdotta nella storia europea l’antefatto del passaggio ulteriore, che resterebbe da compiere, verso la presa in carico della particolarità di tutte le identità culturali come formazioni da rompere non nel segno della costruzione di un universale più ampio, ma in quello di un relativismo che faccia di ciascuna cultura, evitando di elevare quella occidentale ad abc della civiltà, il punto di appoggio teorico di una pluralità di conflitti sociali svincolati dalla pura tautologia delle identità che affermano e riaffermano se stesse.
In secondo luogo una prospettiva socialista, non ridotta in senso economicistico, è l’unica capace di confrontarsi da pari a pari con le religioni. Il suo materialismo integrale è quanto di più vicino si possa immaginare alla dimensione teologica della redenzione. Nel momento in cui polemizzava con la religione (che oggi, anziché l’oppio dei popoli, è diventata la loro cocaina se si pensa agli effetti di effervescenza politica che provoca), il socialismo ne assumeva l’eredità come utopia concreta, nei termini di un’alternativa che era anche una forma di concorrenza. L’odierna ripresa religiosa su scala mondiale è in fondo proprio la conseguenza del venir meno di un socialismo servito male, in salsa burocratica e dispotica. Il tempo di un rilancio del socialismo, su basi democratiche partecipative, sarebbe giocoforza quello in cui le religioni indietreggerebbero, a iniziare dalle correnti che sembrano avere fatto della guerra perpetua il loro credo.
Nell’attesa, che rischia tuttavia di durare a lungo, ci sarebbe da coltivare lo spirito di tolleranza mediante le armi della politica democratica e della diplomazia internazionale. La tolleranza – come intendono mostrare le ultime pagine di questo libro – non è un espediente puramente liberale per cavarsi d’impaccio di fronte alla potenziale violenza di un interlocutore fanatico; è la precondizione stessa di un internazionalismo oggi – da basare non più, come in passato, su un universalismo affermativo ma su uno negativo, cioè consapevole del fatto che, denominatore comune delle culture, è soltanto la circostanza che tutte escludono alcuni aspetti assumendone altri come elementi di un’autoconsistenza olistica. Dinanzi a quest’arroganza identitaria sempre in agguato, l’idea di una società mondiale, costruita a partire da una pluralità di conflitti sociali che spezzino le culture dall’interno, è l’antidoto alla minaccia che esse costituiscono. È un’idea occidentale ma al tempo stesso non lo è. La prospettiva di un conflitto interno riguarda infatti lo stesso Occidente, e ne riprende la volontà d’influenza solo a patto di assecondarne in maniera autocritica il lento declino. Palese il paradosso di questo tentativo estremo: così, tuttavia, i corni del dilemma di una cultura particolare, tra il sopravvivere negandosi e il perire affermandosi, si lasciano pensare nella loro oscillazione. Se è soprattutto altrove, nel mondo segnato sulle antiche carte con un hic sunt leones, che il paradosso è una bilancia con i piatti del progresso e del regresso in equilibrio reciproco, in Occidente esso prende la forma di un’autodistruzione mitridatizzata, a piccole dosi, che può aprire alla speranza.
[Immagine: Andreas Gursky, May Day III (gm)].
Salve, un pezzo veramente interessante.
Geniale quando scrivi di socialismo relativistico mondiale. Approvo in pieno la condivisione di diversità e particolarità all’interno di una confederazione e la possibilità da parte dell’Occidente di riconvertire i propri interessi attraverso una rivoluzione ecologica.
Nel finale, però, scrivi dei conflitti sociali come antidoto, volevo capire, quindi, se intendi la rivoluzione popolare come un possibile cambiamento?
Autodistruzione vista come uso della forza per arrivare alla tanto agognata palingenesi sociale oltre che politica?
Salve,
un pezzo veramente interessante..condivido in pieno temi come il socialismo relativistico mondiale, coesistenza di diversità e particolarità all’interno di una confederazione e rivoluzione ecologica da parte dell’Occidente per sganciarsi dai propri interessi economici ed espansionistici.
Volevo capire, però, quando nel finale scrivi di conflitti sociali come antidoto, intendi anche una rivoluzione popolare?
Autodistruzione vista come uso della forza per arrivare alla tanto agognata palingenesi sociale oltre che politica?
Per Stefano.
La rivoluzione è una cosa del passato. Il nostro è piuttosto il tempo delle rivolte e dei movimenti sociali. Sempre che non si voglia fare un amalgama tra le recenti “rivoluzioni” nel mondo arabo, con tutte le loro contraddizioni, e un’idea di rivoluzione sociale e politica di derivazione europea. Ma quando questo amalgama in una certa misura fu realizzato – nelle rivoluzioni anticoloniali degli anni sessanta del Novecento, come quella algerina – i successivi sviluppi ne hanno palesato l’inconsistenza. Se si guarda alle ondate rivoluzionarie nell’Egitto odierno, si vede come il vero arbitro della situazione sia l’esercito, una forza per sua natura conservatrice e per giunta, in quel paese, un potere economico non indifferente.
Più in generale, al di là dello schema giacobino-blanquista-leninista – fondato sulla funzione di avanguardia di una minoranza, con tutte le sue conseguenze dittatoriali -, l’uso della “forza” (o semplicemente della violenza) non è mai riuscito ad andare. E così, per parafrasare l’idea marxiana con segno rovesciato, più che levatrice della storia quella violenza lo è stata della solita eterna preistoria.
@ Genovese
La sua analisi coglie bene che la “macchina del Progresso” s’è inceppata. Con danni rovinosi sia per le élites dei dominatori, che si barcamenano ai posti alti del Titanic in affondamento, sia per quelle dei dominati, costretti al massimo ad aggrapparsi alle zattere dell’ «antico come soluzione per il futuro».
Quant’è fragile, però, la sua proposta di un «socialismo relativistico mondiale» che dovrebbe portarci fuori da questi “opposti estremismi”!
Non voglio accusarla di offrire merce scaduta. Ma – con amarezza e senza presunzione avanguardista – le chiedo come fa a saltare così a pie’ pari la storia fallimentare del socialismo. E come si fa a non giudicare una strategia che propone di «tramontare» per «risorgere» (e che in fondo si affida alla “conversione” di banchieri, militari, politici d’alto bordo, ecc.) una predica da Esercito della Salvezza.
La rivoluzione sarà pur essa «una cosa del passato» (un tramonto senza più resurrezione?). Le rivolte nel mondo arabo avranno poco a che fare con «un’idea di rivoluzione sociale e politica di derivazione europea», se in effetti in Egitto i rivoltosi o i “rivoluzionari” sono costretti ad accettare la tutela dell’esercito o a invocarla contro “l’antico” islamista. D’accordo.
Ma in un momento come questo, in cui solo quelli che usano la forza riescono a imporre a loro vantaggio «la solita eterna preistoria» del dominio dei più forti, prendiamo almeno atto che è quasi ridicolo esorcizzare « l’uso della “forza” (o semplicemente della violenza)» che non abbiamo! Oppure ridursi a sputare addosso a giacobini e leninisti, che qualche rivoluzione davvero l’hanno fatta (e con qualche vantaggio, nei tempi supplementari, anche per termidoriani e riformisti).
Di forza questo nostro « tempo delle rivolte e dei movimenti sociali» ne può esprimere davvero poca (e sarebbe onesto chiedersi perché o chi l’abbia sedata o deviata!).
Non consoliamoci, però, con l’utopia del «socialismo relativistico mondiale», che mi pare una trovata per intellettuali “debolisti”. Un’idea del genere – razionale ma oggi senza forze sociali reali a sostenerla – sarà sempre meno attraente delle idee e delle immagini proposte dalle religioni e non intaccherà le guerre dei più forti tra loro, che continuano e anzi s’intensificano.
Quanto alle religioni su una cosa dovremmo rassegnarci: hanno il vantaggio di promettere alle masse un aldilà quasi imbattibile; e contemporaneamente le loro élites – il loro “zoccolo duro dirigente” – sa sempre scegliere in tempo i più forti con cui stare pur continuando a consolare i deboli.
Il futuro del socialismo, oggi come nel 1917, si misura sulla capacità di rispondere a tre grandi alternative: pace o guerra, crisi economica o progresso sociale, oppressione o liberazione dei Paesi e dei popoli emergenti. Abbiamo visto nel corso del 2011 potenze imperialistiche con una netta superiorità tecnologica e bellica scatenarsi contro un Paese e contro un popolo che non potevano opporre se non una minima resistenza (la Libia). Oggi vi è il pericolo concreto di una guerra su larga scala: quella che si verificherebbe in seguito all’aggressione scatenata dagli Stati Uniti e da Israele contro l’Iran. E non bisogna perdere di vista la guerra (per ora fredda) che gli Usa hanno cominciato a condurre contro la Repubblica Popolare Cinese. La situazione attuale ripropone, quindi, con urgenza la necessità della lotta contro l’imperialismo e la sua politica di aggressione e di guerra.
Ma vi è un altro problema di cui occorre tener conto: la crisi economica, fenomeno non congiunturale ma strutturale, non di breve ma di lunga durata, non settoriale ma globale. Oggi la Cina è sempre più vicina e il “socialismo di mercato” è un modello con cui occorre confrontarsi. Si tratta di un Paese che rappresenta un quinto della popolazione mondiale ed è diretto da un partito comunista. È chiaro che si possono e si devono discutere le scelte politiche del gruppo dirigente di tale partito, ma non può non suscitare un senso di ammirazione l’ascesa poderosa di un Paese di dimensioni continentali che riscatta dalla fame e dalla dipendenza centinaia di milioni di persone e che al tempo stesso modifica profondamente, in senso sfavorevole all’imperialismo, la geopolitica mondiale. Ecco perché, quando ci si interroga sul senso della storia contemporanea, diventa necessario porsi la seguente domanda: qual è stato il contenuto politico centrale del XX secolo? La risposta a tale domanda va ricercata tenendo conto che tutto il Novecento è stato scandito da lotte di emancipazione, che non è esagerato definire grandiose, condotte da popoli coloniali o da popoli che stavano per subire l’assoggettamento coloniale: basti pensare, oltre che alla Cina, al Vietnam, a Cuba e alla stessa Unione Sovietica che, nello scontro all’ultimo sangue con il progetto hitleriano di creare un impero coloniale in Europa Orientale, ha dato vita alla Grande Guerra Patriottica e, vincendola, ha posto la premessa decisiva della vittoria mondiale sul nazifascismo.
Questo processo storico è forse venuto meno nel XXI secolo? No, esso continua, sebbene con alcuni tratti nuovi. Oggi, ad esempio, la lotta anticoloniale si fonda sulla combinazione tra aspetti propriamente politico-militari e aspetti politico-economici. I Paesi emergenti cercano di assicurarsi non solo l’indipendenza politica, ma anche quella economica, e si sono perciò impegnati a spezzare (ad esempio, attraverso l’edificazione di sistemi scolastici di elevato livello qualitativo e massicci investimenti nel settore della ricerca scientifica) il monopolio tecnologico che gli Stati Uniti e l’imperialismo pensano di aver conquistato una volta per sempre. In sostanza, queste sono altrettante manifestazioni di quella lotta contro il colonialismo e l’imperialismo che ha costituito il contenuto principale del Novecento. Dunque, la risposta alla domanda testé formulata è questa: il futuro del socialismo, al netto del ‘clash of civilizations’ e del conflitto fra contrapposti fondamentalismi (da quello del mercato, proprio dell’Occidente capitalistico, a quello islamico nelle sue diverse e avverse varianti, sunnita e sciita, da quello protestante a quello cattolico), il futuro del socialismo, dicevo, coincide in larga misura con l’ulteriore sviluppo e il consolidamento di questi Paesi. Circa il significato e il valore della tolleranza e dell’universalismo in rapporto sia al ‘soft power’ sia al potenziale aggressivo immanente ai vari fondamentalismi mi riservo di intervenire nel prosieguo del dibattito.
A chi fosse interessato a un’analisi, brevissima ma molto puntuale e informata, delle “Primavere arabe”, suggerisco questo articolo: http://corrieredellacollera.com/2013/07/25/in-egitto-il-premio-e-suez-nel-levante-il-nuovo-giacimento-in-medio-oriente-laccesso-diretto-della-cina-al-petrolio-iraniano-perche-lo-scopo-finale-e-sempre-la-cina-e-il-controllo-di-un-possibile/
L’Autore, Antonio de Martini, che è nato a Beirut e parla l’arabo, da una vita opera, prima come alto dirigente dello Stato italiano, poi come imprenditore, proprio nel Levante.
Il tentativo che faccio – nell’introduzione al libro e altrove – è quello di allontanarmi dalle certezze che una vecchia estrema sinistra continua a coltivare. Gli ultimi due interventi cercano di riportarmici. Per esempio: non è che Lenin e compagni abbiano fatto una rivoluzione contro il capitalismo e le cose in seguito siano andate male… Al contrario, quando si cancella la democrazia (i bolscevichi chiusero d’imperio la costituente, soppressero gli altri partiti di sinistra, etc.) le conseguenze deleterie sono già in atto, non in potenza. Non parliamo della Cina, in cui l’esito di tutto il processo è una delle forme più selvagge di capitalismo che mai si siano viste.
Fuori dall’angusto schema riforme/rivoluzione inviterei a riflettere su tre momenti e tre figure (in diversi modi tutt’e tre tragiche): Rosa Luxemburg, che insisteva sulla democrazia e sulla differenza tra “dittatura del proletariato” e “dittatura sul proletariato”, Salvador Allende, che ha difeso la democrazia fino all’ultimo, Olof Palme, che non ha mai smesso di puntare a un superamento del capitalismo.
La storia del socialismo è piena di errori (e persino di orrori), ma non è stata soltanto una storia di fallimenti, è stata anche e soprattutto una storia di conquiste – al di là di ciò che può pensarne Abate, “nuovo devoto al vuoto”.
I conflitti tra le culture e le civiltà (intendendo queste ultime come blocchi socio-economici costruiti sulla base di una cultura egemone), che attraversano il mondo contemporaneo, non sono in realtà conflitti di natura culturale, ma affondano le loro radici nella storia materiale, ossia in un mondo lacerato tra un universalismo vacuo e un particolarismo miope, tra l’anarchia delle forze del mercato globale e le comunità incentrate sulle identità locali, che lottano per resistere a quelle forze. Accade pertanto che quanto più queste ultime accrescono il loro impatto distruttivo, tanto più le comunità locali diventano morbose e paranoiche: è una gigantomachia che imprime il suo segno anche su altre questioni intellettuali, dalle dispute sul rapporto tra morale ed etica a quelle tra i filosofi di orientamento kantiano ed i filosofi del comunitarismo. Occorre allora ribadire che le culture, essendo generalmente inconsapevoli dei loro reali rapporti di parentela, un po’ come i bambini che ignorano il complesso di Edipo, nel momento in cui tendono ad affermare la propria autonomia formale obliterano necessariamente la loro genesi materiale dal bisogno, disconoscendo, di conseguenza, la propria determinatezza storica. È vero, come afferma Genovese, che lo scontro fra opposti universalismi li riduce a particolarismi e che i particolari sono caotici e casuali, ma è anche vero che il ‘medium’ dell’universalità è l’individualità. Esiste tuttavia un corrispettivo dell’unità fra individuale e universale noto come Stato-nazione, la cui vitalità e la cui diffusione smentiscono regolarmente i frettolosi certificati di morte o di estinzione stilati dagli apologeti dell’Impero. Nello Stato-nazione, in effetti, si trovano idealmente uniti ‘ethos’ e diritti formali, omogeneità etnica ed universalità politica, ‘Gemeinschaft’ e ‘Gesellschaft’. Inoltre, è proprio attraverso lo Stato-nazione che siamo diventati cittadini del mondo: la dimostrazione è costituita da un semplice esperimento mentale, quello di provare ad immaginare, oggi come oggi, partendo dal primato della solidarietà internazionale, masse di uomini e di donne precipitarsi sulle barricate al grido di “Lunga vita all’Unione Europea!”. Ciò che infatti decide del significato e del valore della solidarietà internazionale è il contenuto politico e ideologico della causa per la quale si è disposti a battersi: quella islamo-fascista è antipodale a quella socialista e quella nazionalista ed antimperialista è l’opposto di quella promossa dall’imperialismo euro-americano. Trovo pertanto ‘mostruoso’ che un fine analista, qual è indubbiamente Genovese, qualifichi come “mostri” leader antimperialisti e nazionalisti come Saddam Hussein, Muammar Gheddafi e Bashar al-Assad, di cui dovrebbero semmai essere riconosciuti il coraggio e la determinazione con cui hanno condotto e conducono la giusta battaglia contro il neocolonialismo, per l’indipendenza politica ed economica dei rispettivi Paesi, e contro l’oscurantismo religioso, per il progresso sociale.
Per quanto concerne, infine, la possibilità di immaginare quello che, in ambito teologico, è stato definito da uno studioso, Pier Cesare Bori, come un universalismo non monistico e non eclettico, cioè una risposta dialetticamente avvertita e culturalmente aggiornata alla crisi della versione classica dell’universalismo di impronta illuministica, vi è un’annotazione tratta dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci e risalente al 21 maggio 1957, che merita per la sua lungimiranza e per la sua radicalità di essere qui trascritta, anche per misurare la distanza etico-politica che intercorre fra il socialimperialismo di Genovese (= socialismo a parole e imperialismo nei fatti) e, va detto, di buona parte dell’attuale ‘sinistra’ italiana e la scelta lucida e coerente di schierarsi, sul piano politico e culturale, contro l’imperialismo, a fianco dei movimenti di liberazione nazionale che nel secondo dopoguerra sono stati protagonisti di una grande stagione di lotta per l’emancipazione umana.
“Il negro. Risveglio dell’Africa. Ci offre un volto della nostra umanità che finora non abbiamo voluto riconoscere […] se sento ‘in lui’, nel negro, mi si rivela qualcosa di me stesso che forse poteva restare ignoto per sempre. Come uomo, dunque, sono anche negro, pur non avendolo mai saputo. Da principio questo mi sgomenta, mi fa perdere il senso del mio terreno di vita, della storia che si è sedimentata in me. La scoperta del ‘logos’ in Grecia. Ma questo ‘logos’, per essere davvero ‘logos’, non dev’essere solo greco. Non può rinunciare a se stesso, ma per essere se stesso deve sentirsi in un’alterità che finora non aveva riconosciuta. Sempre più ampia, sempre più profonda, sempre più difficile costituzione dell’intersoggettività umana. C’è una civiltà africana, un pensiero africano. C’è una civiltà indiana, un pensiero indiano. C’è una civiltà cinese, un pensiero cinese. E il nostro pensiero greco, per essere se stesso, deve scoprirsi negli altri pensieri. Rinnovarsi, diventare altro, per rimanere, per ridiventare ‘logos’.” E ancora, svolgendo il filo di una riflessione sempre più affilata e sempre più rigorosa, ecco la domanda cruciale che pone il filosofo marchigiano in una nota successiva del 22 maggio 1957 (una domanda, giova rilevarlo, che attende ancora una risposta):
“…l’umanità, come Filottete, è malata, e Sofocle sa che anche la malattia, se riconosciuta, può avere la sua funzione positiva. Ma noi europei abbiamo riconosciuto la nostra malattia? Abbiamo capito noi, figli dell’Ellade, quello che Sofocle aveva capito? Tutti, bianchi, negri, gialli, ci troviamo di fronte al compito di una ‘trasformazione radicale’.”
Il signor Buffagni mi attribuisce Beirut come luogo di nascita.
Sono nato a Napoli.
Scrive Genovese nel suo intervento: “Più in generale, al di là dello schema giacobino-blanquista-leninista – fondato sulla funzione di avanguardia di una minoranza, con tutte le sue conseguenze dittatoriali -, l’uso della “forza” (o semplicemente della violenza) non è mai riuscito ad andare. E così, per parafrasare l’idea marxiana con segno rovesciato, più che levatrice della storia quella violenza lo è stata della solita eterna preistoria.” Orbene, riprendo questo giudizio non per spirito polemico, ma semplicemente perché ha un valore ideal-tipico, ossia rappresenta in modo esemplare la totale rinuncia degli intellettuali occidentali a riflettere circa la funzione storica della violenza come levatrice di progresso e la compiuta affermazione di una ‘koiné’ culturale ambiguamente fondata sull’ideologia dei diritti dell’uomo e sulle ‘guerre umanitarie’. Del resto, rimanendo sul terreno della storia, risulta evidente che uno stesso pregiudizio accomuna i revisionismi sulla rivoluzione francese e sulla rivoluzione bolscevica: il pregiudizio secondo cui nessun progetto di trasformazione radicale della società giustifica il deliberato spargimento di sangue umano. Pregiudizio rispettabile, ma discutibile, se si pensa che nell’Italia di oggi, a destra, i medesimi analisti che, al presente, abbracciano la logica della ‘Realpolitik’ per scatenare contro gli ‘Stati-canaglia’ guerre preventive e sovversioni interne, si atteggiano a severi moralisti quando devono giudicare, nel passato, fatti e misfatti della guerra di liberazione, mentre, a sinistra, coloro che difendono fermamente le ragioni della violenza antifascista negano qualsiasi legittimità all’uso americano della forza sullo scacchiere della geopolitica mondiale. Accade così che, richiamandosi ai diritti dell’uomo – l’unica ideologia sopravvissuta alla crisi delle ideologie -, si finisca per poter dire tutto e il contrario di tutto. Per la verità, devo dire che la posizione di Genovese mi ricorda abbastanza quella del gruppo dirigente della socialdemocrazia tedesca quando, nell’agosto del 1914, giustificò l’ingresso in guerra della Germania affermando che questo era l’unico mezzo per esportare la democrazia in Russia. L’unica differenza è che allora gli Scheidemann e gli Ebert ritenevano di potersi servire all’uopo dell’esercito di Guglielmo II, mentre ora per la bisogna ci si rivolge agli eserciti della Nato.
Torno ad inviare questo commento spedito ieri ma non so perché non pubblicato.
@ Barone
Caro Barone,
a differenza di Genovese, che ripropone il fantasma di un socialismo ”debole” ( il «socialismo relativistico mondiale»), lei ne ripropone uno “forte”. Per me sempre di fantasmi si tratta. No, non riesco a vedere socialismo in Cina e potrei definire comunista il partito che lì comanda solo se mi fermassi alla facciata. La sostanza è un altra, come il vecchio Mao vide senza illusioni. Non pare proprio che, dai suoi tempi ad oggi, i cinesi abbiano continuato a passeggiare sulla via radiosa del socialismo in un eterno presente («oggi come nel 1917»). E sinceramente sono respinto da una certa “ossessione continuista” e tranquillizzante della storia presente anche nei suoi precedenti commenti, dove mi ha ribadito la continuità tra Marx e il successivo marxismo, che sarebbe rimasto «“una guida per l’azione” e non solo un metodo di analisi o un criterio di interpretazione».
Mi scusi, ma per chi? Per quanti esseri respiranti di questo pianeta? Indipendentemente dai risultati storici ottenuti da Stati e partiti da esso “ispirati”? Dov’è finita – stiamo all’Italia che abbiamo più sotto il naso – dagli anni Settanta in poi questa storia del marxismo?
Lei me ne deve parlare e non ripetermi i principi dottrinari o la definizione di cosa è (fuori dal tempo e dallo spazio) il marxismo.
In una sua precedente replica (7 luglio 2013 alle 12:29), quando arrivava al giudizio sulle esperienze di costruzione del socialismo in Urss, lei, invece di dimostrarmi se esse erano in corso a mia insaputa e con mio grande scorno, si rifugiava ancora una volta nel dottrinario, scorgendo alla base delle cose da me dette uno schema interpretativo che era « sostanzialmente quello menscevico e socialdemocratico di Plechanov, di Martov e di Kautsky».
Mi scusi ancora e non per banalizzare: ma non siamo mica alla vigilia del ‘1917.
Nel 2013 lei vede la continuità del processo rivoluzionario « in direzione del socialismo e del comunismo», da Lenin a Stalin, a Kruscev, a Gorbaciov, ecc.?
Lei mi parlava delle « giravolte di Trozky, nonché dai cedimenti e dalle capitolazioni di Zinoviev e di Bucharin», approvava « la direzione di Stalin» (per lei «il meraviglioso georgiano»… e però non vedo come possa mettere sotto una medesima cappella, così alla rinfusa, Cases, Brecht, Benjamin, Gramsci e Togliatti), approvava «i processi di Mosca degli anni Trenta» ( nobilitandoli con le analogie storiche di Cromwell e di Robespierre).
Ma io, più terra terra, volevo che, senza fermarsi al 1953 (morte di Stalin), entrasse nel merito di quell’inarrestabile processo rivoluzionario, che a me e a molti altri pareva si fosse infilato in qualche dolina carsica che lo rendevano invisibile.
Insomma, a tutte le sue definizioni (« il marxismo è») io mi sento di rispondere: era, abbiamo creduto anche noi che fosse. Ora dobbiamo risvegliarci e vedere cos’è stato. E – credo – fare i conti con le rovine della storia del marxismo. (Qui Fortini la dovrebbe aiutare…).
Altrimenti, mi dovrebbe indicare dove, con chi e dove questa storia sta proseguendo il suo cammino. In questo ultimo suo commento mi pare s’intravveda la sua risposta: con la Cina.
Bene, me lo mi dimostri …
Tanto per intenderci, a me convince di più chi (La Grassa) dice che ci troviamo – contro tutte le nostre speranze – di fronte a vari capitalismi in lotta crescente tra loro.
Noi provenienti da una “vecchia storia” (quella della Grande Causa, di cui parlava Fortini) siamo – credo – tagliati fuori da questi processi. Oppure – semplifico – possiamo agire in essi al massimo come la brechtiana Madre Courage.
Se lei, però, è in grado di convincerci che in Cina il socialismo prosegue in forme inedite, o che la Cina «è sempre più vicina» (come suggeriva Bellocchio, ma negli anni Sessanta!) e resti uno o l’unico dei «paesi allegorici» di cui parlava Fortini, chissà…
A proposito dello stesso titolo dell’articolo, volevo far notare come sia incongruo attrribuire alla realtà, in questo caso alla realtà storica, la categoria dell’ordine. L’ordine sta nel pensiero, è una categoria tutta umana, e quindi non ha senso parlare di caos planetario.
Con tutta evidenza, il caos non sta nelle cose, nei fatti, ma sta nella testa di chi osserva, se è confuso, crede che sia la realtà ad essere confusa. Naturalmente, simmetricamente, sarebbe ugualmente senza senso dire che esista l’ordine planetario, chi lo dice in realtà parla dell’ordine nella sua mente.
Credo che il problema di fronte a cui ci troviamo davanti è proprio questo, la mancanza di un punto di vista ideologico che sia adeguato a mettere ordine nella realtà, per cui le analisi sono parziali, anche se qualcuno dice che questo è l’unico modo per fare bene il proprio mestiere.
Rifiutiamo dall’inizio dal perseguire un approccio complessivo, perchè così facciamo bene il nostro mestiere nel nostro minuscolo orto delle nostre specifiche competenze.
Possibile che non sia chiaro quanto sia essenziale avere una mappa che colleghi tra loro tutti gli orti esistenti, così che essi assumano un senso e non diventino fine a sè stessi?
Ringrazio Ennio Abate per l’attenzione che dedica ai miei interventi e rispondo che sì, “la Cina è vicina”, invitandolo a rivedere il giudizio critico che egli esprime riguardo alla natura sociale di questo grande paese asiatico.
Orbene, mi sembra opportuno, nel formulare un abbozzo di risposta su un tema così importante, prendere le mosse dalla posizione che Lenin assunse nel 1916 intervenendo nella discussione a proposito dell’autodecisione nazionale che si era aperta nelle file della sinistra di Zimmerwald, allorché il grande rivoluzionario russo respinse la tesi secondo cui, in un regime socialista, essendo eliminate le basi economiche dell’oppressione nazionale, anche la rivendicazione dell’autodecisione non ha più ragione di sussistere e la stessa questione delle frontiere nazionali perde sostanza. Per Lenin questa tesi è una sorta di “economismo imperialistico”, in quanto essa afferma che, nella fase dello sviluppo capitalistico, avendo l’imperialismo reso chiara la radice economica di tutta una serie di rivendicazioni politiche, il proletariato non si dovrebbe occupare che delle rivendicazioni economiche. In realtà, occorre sottolineare ciò che Marx ha indicato nella “Critica al programma di Gotha”, ossia che tra il capitalismo e il comunismo esiste una fase di transizione (fase di transizione che le esperienze storiche del Novecento hanno dimostrato essere più lunga e complessa di quanto i classici del socialismo scientifico potessero prevedere) e che in tale fase, continuando ad esistere lo Stato (quello Stato che è destinato ad estinguersi e ad essere sostituito dall’autogoverno dei produttori associati grazie al massimo sviluppo delle forze produttive e della produttività che si realizzeranno nell’epoca del comunismo), si pone ancora il problema delle sue frontiere e dell’autodecisione dei popoli a tale riguardo. Le cento patrie nazionali, precisa Lenin, non scompariranno così presto e l’odio, del tutto legittimo, della nazione oppressa verso la nazione dominante svanirà soltanto ‘dopo’ la vittoria del socialismo e non automaticamente con questa vittoria. In altri termini, Lenin osserva che tale odio può svanire soltanto «’dopo’ che si saranno definitivamente stabiliti rapporti del tutto democratici tra le nazioni». Sennonché, ribadisce Lenin, tali rapporti democratici sono possibili solo se il principio della ‘separazione’ viene effettivamente rispettato. Il proletariato vittorioso non può imporre il socialismo ad altri popoli, ma solo affermare il loro diritto all’autodecisione e fare di questo diritto la base di un loro libero sviluppo verso il socialismo. Lenin, dunque, spiega che la rivoluzione socialista non va concepita come un processo ‘economico’ che si separa dagli altri processi sociali e politici, ma come un rivolgimento in cui confluiscono le esigenze più diverse e perfino contraddittorie, da quelle democratiche a quelle reazionarie, laddove il compito dei comunisti è quello di convogliarle tutte insieme in una direzione rivoluzionaria. E, impartendo agli scolastici e ai dogmatici una lezione di realismo rivoluzionario, Lenin afferma nel modo più incisivo che «colui che attende una rivoluzione sociale ‘pura’ non la vedrà mai: egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione».
Del tutto coerente con l’impostazione data da Lenin al problema del rapporto tra autodecisione nazionale e socialismo è la politica interna e internazionale della Repubblica Popolare Cinese, basata sul “socialismo di mercato”, sulla difesa della sovranità nazionale e della pace, nonché su rapporti paritari, politici economici e commerciali, con gli altri Stati, a partire da quelli del Terzo Mondo di cui la Cina si ritiene parte integrante. D’altra parte, la politica di riforme e di apertura avviata da Deng Xiaoping non ha condotto all’omologazione della Cina rispetto all’Occidente e ha deluso le aspettative degli Stati Uniti e dei loro alleati, che puntavano a ribadire una divisione internazionale del lavoro in base alla quale la Cina avrebbe dovuto limitarsi alla produzione, a basso prezzo, di merci prive di reale contenuto tecnologico. Gli imperialisti contavano in tal modo di mantenere e accentuare il monopolio occidentale della tecnologia, confinando la Cina, così come tutto il Terzo Mondo, entro l’angusto recinto di un rapporto di dipendenza rispetto alla metropoli capitalistica. Non è difficile capire, quindi, perché i comunisti cinesi abbiano concepito e vissuto la lotta per contrastare tale progetto neocolonialista come la continuazione della lotta di liberazione nazionale: non vi è infatti reale indipendenza politica senza indipendenza economica. Grazie alla perpetuazione del monopolio della tecnologia, gli Stati Uniti e i loro alleati perseguivano peraltro lo scopo di imporre e fissare a loro esclusivo vantaggio i termini delle relazioni internazionali. Al contrario, con il suo straordinario sviluppo economico e tecnologico la Cina ha aperto la strada alla democratizzazione dei rapporti internazionali. C’è bisogno di aggiungere che di un simile risultato dovrebbero compiacersi non solo i comunisti, ma anche tutti i sinceri democratici?
I percorsi ramificati della storia, come insegna Lenin e come indica l’esperienza del “socialismo di mercato” cinese, dimostrano pertanto: a) che nel XXI secolo le vie da seguire per giungere al comunismo passano attraverso l’ulteriore sviluppo e il consolidamento dei paesi emergenti; b) che il diritto all’autodecisione nazionale va difeso con la massima energia e intransigenza, in quanto è costantemente sottoposto agli attacchi politici, militari e ideologici dell’imperialismo transnazionale attraverso una ‘guerra permanente’ i cui scopi sono la rapina delle materie prime, il controllo delle vie di comunicazione e lo sfruttamento della manodopera; c) che quel grandioso movimento anticolonialista ed antimperialista che ha preso avvio e slancio dalla rivoluzione d’ottobre, sconfiggendo l’imperialismo hitleriano in Unione Sovietica e l’imperialismo giapponese in Cina, questo movimento sta ancora continuando e non ha affatto esaurito la sua spinta propulsiva; d) che, «per i suoi princìpi, il comunismo è al di sopra del dissidio tra borghesia e proletariato […] e riconosce che il risentimento del proletariato contro i suoi oppressori è una necessità che rappresenta la leva più importante del movimento operaio ‘ai suoi inizi’; ma va oltre tale risentimento, perché il comunismo è appunto una causa di tutta l’umanità, non soltanto degli operai» (F. Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1845).
Immagino che le devastanti conseguenze del neo-colonialismo cinese in Africa, Asia e America Latina – che coinvolgono milioni di esseri umani deprivati di terra e di ogni fonte di sostentamento – siano nient’altro che “effetti collaterali”, piccoli e insignificanti “incidenti di marcia” nel lungo e radioso percorso, tracciato dai *compagni* (sic!) del gruppo dirigente di Pechino, che porta dritto al *comunismo planetario* (sic!!)
una casta di autocrati liberticidi depositari, nientepopodimenoché, dell’idea e del verbo socialista…
http://www.youtube.com/watch?v=fa3a50pLmu8
Immagino che le devastanti ripercussioni del neo-colonialismo cinese in Asia, Africa e America Latina – con milioni e milioni di esseri umani, in prevalenza contadini, deprivati di terra, acqua e di ogni altra risorsa disponibile per la sopravvivenza -, siano né più né meno che banali “effetti collaterali”, trascurabili “incidenti della storia”, nel radioso e lungimirante percorso, ideato e realizzato dai *compagni* (sic!) del gruppo dirigente di Pechino, che porta dritto filato al *comunismo planetario* (sic!!)…
Una casta immonda di autocrati liberticidi sarebbe l’unica depositaria in terra, qui e ora, dell’idea e della prassi socialista…
Le mie scuse al signor de Martini e ai lettori per l’errore.
Per farla molto corta e anche un po’ teppistica, a me pare che il progetto esperantistico , universalistico -negativo, socialistico-relativistico di Genovese abbia un difetto: che per provare a realizzarlo a parole basta il “soft power” cioè i corsi di esperanto e le predicazioni degli esperantisti; ma purtroppo, per tentare di tradurlo in prassi politica bisogna asfaltare a forza di missili un sacco di gente che non è d’accordo di farsi esperantizzare e insiste per tenersi strette le sue lingue e culture imperfettamente moderne e “creolizzate”, a volte persino i propri “personaggi, folcloristici e mostruosi”: per esempio, Gheddafi (col quale l’Italia aveva firmato un solenne trattato di amizicia per poi collaborare al suo assassinio) e Bashar el Assad, che resiste da anni a una sovversione sponsorizzata anche dal nostro governo.
Colgo l’occasione per dire che trovo poco carino attribuire a un innocente punto cardinale, l’occidente, politiche che hanno nome, cognome, indirizzo e forse anche codice fiscale.
Dicessimo Stati Uniti d’America e soci (Italia compresa), non saremmo più chiari? E qualora invece con la parola “Occidente” volessimo riferirci al capitalismo, non sarebbe meglio chiamarlo “capitalismo”?
Per concludere, a me sembra che chi aspiri a una qualsiasi forma di socialismo, relativistico o meno, una cosa di immediata utilità potrebbe farla subito: smettere di votare per i partiti italiani che spediscono aerei e soldati con bandiera tricolore ad ammazzare i possibili futuri iscritti ai corsi di esperanto universalista; se non altro per non trovare, poi, l’aula vuota (vuota come quella dove è solita insegnare la storia).
Ci scusiamo con Roberto Buffagni e Ugolino Conte, i loro commenti erano finiti nello spam
No problem.
Grazie.
Si informi meglio, Ugolino Conte. A guardare con simpatia al modello cinese sono soprattutto le masse diseredate dell’Africa e dell’America Latina. Recentemente il “Wall Street Journal” ha riportato dei dati che sono stati ripresi dal “Corriere della Sera” del 19 luglio scorso: “La Cina gode del 62% di gradimento in Africa e la sua popolarità in America Latina e in Asia è al 58%”. Le basta?
Ma figuratevi. Son cose che capitano.
Grazie per la lezione, professor Barone, ma il movimento di autodeterminazione dei popoli inaugurato con la Rivoluzione d’ottobre, e di cui lei coglie ancora la spinta propulsiva, sembrerebbe aver fatto astrazione della Polonia, della Romania, della Finlandia e dell’Afghanistan, della Cecoslovacchia e dell’Ungheria.
Da questo dibattito si capisce che, a parte le prese di posizione più o meno scolastiche o ideologiche, i miei gentili contraddittori sono d’accordo nel fare dei Gheddafi, Assad e simili dei grandi eroi dell’indipendenza nazionale naturalmente antimperialista. Allora perché non lasciare al suo posto anche Mubarak in Egitto, personaggio se vogliamo meno folcloristico e mostruoso degli altri due? Si dà il caso che un impetuoso vento di rivolta lo abbia buttato giù (e accade, talvolta, che le masse abbiano proprio ragione, nonostante i dogmi marxisti-leninisti). La situazione del mondo è oggettivamente caotica perché, da una ventina d’anni, manca un principio unico di dominio del mondo, sia pure “diviso in due” come nel mondo bipolare di una volta. Che questo debba condurre alle cosiddette guerre umanitarie – sulle quali mi sono espresso molto criticamente in passato anche su questo sito – non è un destino ineluttabile. Per una inversione di tendenza, una precondizione indispensabile sarebbe la ripresa di una nuova forma di socialismo democratico a livello mondiale, in rottura con l’arroccamento delle culture in se stesse.
Grazie a tutti gli intervenuti, nonostante tutto…
@ Genovese
Mi permetto di farle notare che non è troppo simpatico vederla scendere dalla cattedra così in fretta, cavandosela con qualche battuta e etichettandoci sbrigativamente come gentili» estremisti di sinistra e dogmatici m-l.
Per quel che mi riguarda, non volevo riportarla a vecchie contrapposizioni della sinistra (estrema o moderata). È lei, invece, che da esse si lascia calamitare, accomodandosi poi sulla classica posizione socialdemocratica antileninista, secondo la quale la rivoluzione del ’17 non sarebbe stata neppure anticapitalistica, perché non avrebbe rispettato «la democrazia».
Non vorrei, per reazione, ricordarle anch’io – leninisticamente – che proprio
questa democrazia, che per lei è un assoluto fuori del tempo e non *come minimo* anche un involucro-maschera, permette al capitalismo di continuare la sua opera di distruzione facendo passare appunto le sue guerre come ”democratiche”.
No, non sono io “un devoto del vuoto”, ma, siccome mi legge troppo distrattamente e forse con sufficienza, è lei che rischia di esserlo.
Lei ha i suoi “santini”, io i miei, Barone i suoi, altri i loro. Confrontiamoli.
Vediamo quanto ancora reggono, se reggono, nella valutazione degli eventi.
Non mi risulta però, ad es., che Rosa Luxemburg, che lei si annette assieme alla Arendt americanizzata e a Palme, abbia mai pensato che Lenin non avesse fatto una rivoluzione contro il capitalismo. O che pensasse alla democrazia – differenziando appunto tra “dittatura del proletariato” e “dittatura sul proletariato” – nei termini socialdemocratici che lei difende. Basti pensare proprio grazie a chi la povera Rosa fece la fine che fece.
Per concludere brevemente adesso, se lei non ha più voglia di discutere a fondo, dico che la sua intenzione di riprendere «una nuova forma di socialismo democratico a livello mondiale, in rottura con l’arroccamento delle culture in se stesse» mi pare profondamente idealistica, esclusivamente culturalista e che non tenga conto
dei conflitti sempre più aspri tra le grande potenze d’oggi e della debolezza intrinseca dei “movimenti antisistemici”. E mi permetto di aggiungere che proprio quel drammatico conflitto Luxemburg-Lenin sulla questione spontaneità/organizzazione è il vero rompicapo irrisolto che nessun pensiero politico è riuscito a dipanare. O si tira la coperta verso il movimentismo (coi suoi rischi: vedi Egitto) o si tira quello verso l’organizzazione d’élite ( con altri rischi: vedi esperienze del “socialismo reale”). Evitare il rompicapo forse è la cosa peggiore.
Caro Abate,
non credo che il dilemma più forte sia tra organizzazione e spontaneismo. Lei cita l’Egitto, ma certo saprà bene che anche lì di spontaneismo ce nè ben poco, che nulla funziona in assenza di organizzazione. Potrei anche dirle che perfino nella tanto enfatizzata organizzazione leninista, di spontaneo ve ne fu tanto, a partire dalla scelta dei tempi drammaticamente dettati dagli esiti tragici della guerra in corso. Il punto mi pare piuttosto stia nella natura dell’organizzazione, della sua gerarchizzazione e della sua omogeneità interna.
Questa è una questione che mi interessa molto, e le riassumerò brevemente come la penso.
Una determinata organizzaizone che vuole cambiare la società non può darsi un’organizzazione spontanea perchè così nega la propria stessa ragione d’essere. Se davvero voglio fare la rivoluzione, non posso credere che le persone la pensino già in modo rivoluzionario. La rivoluzione a quello serve, innazitutto a cambiare le persone e la loro ideologia se mi passate il termine.
Pertanto, come comunità politica costituitasi appunto con finalità rivoluzionarie, si deve partire dal cambiare all’interno dell’organizzazione stessa, il che implica uno sforzo collettivo guidato verso lo scopo e quindi intrinsecamente non spontaneo. Per farla la rivoluzione, non credo ci sia altra via, sennò si rimescola il pensiero dominante, non lo si cambia, mi pare un’ovvietà.
La cosa invece che trovo più controversa, più difficile da risolvere è cosa fare dopo la presa del potere. Qui, credo sia davvero difficile trovare un equilibrio tra la necessità di non tradire la rivoluzione, impedire il ritorno indietro, e la burocratizzazione, trovare una soluzione per cui chi gestisce il potere rivoluzionario non lo consideri nè un totem che non si può confrontare con i fatti e quindi se necessario rivedere, nè, ancora peggio, un mezzo per fini personali, una sua dotazione che egli intenda difendere come un capitalista difende il proprio capitale, nè ancora ovviamente un traditore dei fini rivoluzionari.
Penso che alcuni diritti liberali debbano essere custoditi gelosamente anche quando il liberalismo sia superato, come debba essere garantito un equilibrio dei poteri che rimane in fondo l’unica vera garanzia contro ogni tentativo dittatoriale.
Mi fermo qui, scusandomi per lo stile così conciso che mi pare però coerente con il contesto.
Il “Wall Street Journal” che sponsorizza la “rivoluzione comunista planetaria”…
Da Zimmerwald a Via Solferino…
Barone, visto che tra nobili ci si intende, vuole che le rimandi ancora il link del “Principe”?
Sottoscrivo quanto ha argomentato Abate in risposta a Genovese che…”se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!” Nelle considerazioni che seguono cerco di riprendere e di approfondire gli stimoli ricevuti, nel corso di questo dibattito, da altri interventi e, in particolare, da quello di Cucinotta.
Più che materia di previsione è ormai oggetto di constatazione la tendenza che si coglie in certi ambienti sociali e politici a identificare la Cina, per usare un linguaggio reaganiano, come l’attuale incarnazione dell’“Impero del male”. D’altra parte, è pur vero che il decentramento cognitivo, oltre ad essere euristicamente fecondo, è un ottimo antidoto alla tendenza paranoica che sta assumendo la morale contemporanea, la quale, nel momento in cui tende ad attribuire all’Altro la responsabilità del proprio male, esprime uno stile politico che si fonda sulla proiezione all’esterno di ciò che di se stesso il soggetto non è in grado di sopportare.
Può essere utile allora, in base a questo diverso punto di vista, muovere dalla premessa secondo cui la Cina è lo specchio deformante in cui si riflette la crisi della democrazia capitalistica occidentale, la sua trasformazione in una “herrenvolk democracy” (‘democrazia del popolo dei signori’) e il suo rapporto sempre più contraddittorio con la tradizione liberale. Se questa premessa è corretta, la conseguenza che ne deriva è la necessità di una critica radicale della democrazia. In effetti, sia il ‘demos’ che il ‘kratos’ sono entità compatte, uniche ed univoche, non duali e non scindibili. Così, la democrazia presuppone l’identità di sovrano e popolo (la sovranità popolare), laddove, da un lato, la società divisa in classi ha scisso e reso illusoria questa identità mettendone a nudo la falsità ideologica, e, dall’altro, la divisione dei poteri così come la stessa esistenza di un’opposizione pubblica e organizzata, nel corso del grande passaggio storico dal liberalismo alla democrazia, si sono rivelate altrettante maschere dell’unità del potere in mano ad una sola classe (basti pensare all’inesistenza o alla marginalità di una reale opposizione nell’attuale regime di eccezione vigente in Italia, scaturito da un colpo di Stato ‘freddo’).
È possibile affermare perciò che, se la libertà è differenza, la democrazia è identità (si badi bene, identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, degli sfruttatori e degli sfruttati, di coloro che comandano e di coloro che ubbidiscono, ossia la completa identità del popolo omogeneo): ciò spiega, fra l’altro, la dialettica, a volte aspramente conflittuale, che si instaura fra liberalismo e democrazia. La mia impressione è che, nella fase storica che stiamo vivendo oggi, questo nodo teorico-pratico si sta avvicinando alla sua recisione. La ‘democrazia è infatti diventata un’idea debole, dal momento che è un sostantivo (democrazia) che ha sempre bisogno di aggettivi qualificativi per definirsi (liberale, sociale, autoritaria, di massa, rappresentativa, diretta ecc.): ciò denota una mancanza di autonomia concettuale e, in definitiva, un indebolimento della nozione stessa (non a caso, si parla sempre più spesso di ‘post-democrazia’).
Naturalmente, la critica della democrazia che àuspico non è né la critica della democrazia condotta da un punto di vista liberale né quella condotta da un punto di vista tecnocratico (che è quanto dire: Locke contro Rousseau o Spencer contro Rousseau) né, tanto meno, quella che opera, come ha fatto Gianfranco Miglio, un ‘mix’ tra l’una e l’altra; essa è una critica di tutt’altra natura, che muove da una realtà storica in cui, paradossalmente, la democrazia entra in crisi perché ha vinto su tutta la linea (quindi, Hegel e Marx). Ma, quando si è vinto su tutta la linea, è evidente che l’unico nemico che rimane è se stesso. In realtà, anche se si fa un gran parlare di liberaldemocrazia, la democrazia ha dei problemi con la libertà e, quindi, è proprio in questo punto nodale che essa va aggredita sul piano critico. Per quanto riguarda la Cina, essa, checché possano dire il Dalai Lama o qualche altro dissidente, merita profondo rispetto e incondizionata ammirazione, poiché è un paese che ha compiuto progressi giganteschi sul terreno della rooseveltiana “libertà dal bisogno”: una libertà che costituisce la matrice e la radice di tutte le altre libertà, oltre che la condizione di una pace durevole.
@ Barone
“Per quanto riguarda la Cina, essa, checché possano dire il Dalai Lama o qualche altro dissidente, merita profondo rispetto e incondizionata ammirazione, poiché è un paese che ha compiuto progressi giganteschi sul terreno della rooseveltiana “libertà dal bisogno”” ( Barone)
Ci andrei più piano con questo entusiasmo filo-cinese. Una cosa è riconoscere o perfino ammirare certi (!) “progressi giganteschi” ( lo fanno anche i capitalisti “invidiosi”), altra vedere la Cina ancora come un possibile “paese allegorico” in senso fortiniano (che è l’unico “abbastanza” accettabile concessione all’utopia che oggi ancora mi sentirei di fare).
***
Per approfondire e confrontarci senza scudi, copio qui una vecchia recensione della compianta Edoarda Masi:
Hui Wang
Il nuovo ordine cinese
Società, politica ed economia in trasformazione Prefazione di Edoarda Masi
2006 pp.192
Un’indagine dall’interno della transizione che si è aperta in Cina dopo il 1989: il conflitto tra l’apertura neoliberista al mercato globale e le istanze del movimento democratico nelle analisi di uno dei più significativi intellettuali cinesi contemporanei. Il volume di Wang Hui ricostruisce le trasformazioni che hanno mutato radicalmente, nell’ultimo quindicennio, l’economia, la società e la politica cinese: traccia un quadro delle riforme economiche dell’epoca post-maoista, mettendo in risalto come esse abbiano determinato ineguaglianze sociali, polarizzazione di classe e corruzione politica. L’autore analizza la Cina contemporanea come parte del nuovo ordine globale neoliberista, dove l’”estremismo del mercato” cerca di ridurre al silenzio le esigenze di democrazia e giustizia sociale: ma questo determina un nuovo terreno di conflitto, una transizione “aperta” e dall’esito non scontato.
PREFAZIONE
di Edoarda Masi
Autore di questi saggi è una delle menti più libere e acute nel presente panorama culturale in Cina. Letterato, eminente studioso di Lu Xun e di altre personalità di fine Ottocento-primo Novecento, come Yan Fu e Zhang Binglin, condirettore dei periodici letterari «Xueren» (Lo studioso) (1990) e «Dushu» (Letture), resta fedele all’impegno politico che è tradizione lontana e recente degli uomini di cultura in Cina. Questo è un libro importante perché i temi toccati, se riguardano nello specifico immediato la Cina, sono pure comuni a tutti noi in ogni luogo del mondo – in parte nuovi, in parte emersi durante la rivoluzione culturale e già prima, nei complessi dibattiti che hanno animato il percorso della Republica popolare. Se l’autore ha voluto che alcuni suoi saggi fossero conosciuti anche all’estero, è certo per aprire un dialogo – già felicemente iniziato, lui presente, lo scorso anno all’Università di Bologna. Le righe che seguono si propongono come continuazione del dialogo.
Di materia politica trattano i saggi qui raccolti. In essi emerge centrale la questione della rottura-continuità fra presente e passato socialista: su dove si collochi la rottura e dove la continuità. Wang Hui rileva, sostanzialmente, che lo stato (post-socialista o sedicente socialista) totalitario repressivo delle libertà civili e sociali, contro il quale (ad un tempo con la critica al socialismo) si invocano da molte parti democrazia, modernità e neoliberismo, esercita invece la sua funzione autoritaria per instaurare, con più forza, il neoliberismo capitalistico. Si dimostra che non solo lo stato non è contrario né assente nell’affermazione del cosiddetto mercato, ma che quest’ultimo non avrebbe mai potuto prevalere senza l’appoggio pesante e dispotico dello stato stesso. Il quale diventa esplicitamente e pienamente promotore-gestore del neoliberismo, secondo Wang, dopo la rivolta del 1989. Quel movimento – al quale sarebbe seguita la svolta sociopolitica maggiore – è stato a suo parere un fenomeno complesso, nel quale confluirono componenti diverse e opposte. Pluralità di componenti, aggiungo, che si può estendere alla rivoluzione culturale, e in genere a tutti i movimenti di opposizione al partito-stato durante la RPC: popolari, sostanzialmente (anche se in parte inconsciamente) orientate alla conquista di libertà non solo politiche ma anche economiche e sociali; «gruppi di interesse»; intellettuali (che si dividono, se pur confusamente, a favore dell’una o dell’altra). Credo che l’espressione «gruppi di interesse» designi in sostanza i gestori del capitale e i relativi esponenti e clienti politici e mediatici. La crisi rivelata dalle molteplici istanze di libertà indusse lo stato a riaffermare la propria funzione repressiva e di imposizione dell’«ordine» e a rallentare momentaneamente il ritmo troppo veloce delle «riforme»: ma col fine, subito dopo perseguito, di procedere a queste ultime in termini irreversibili e – per così dire – imponendole dall’alto, senza più spazio alcuno per le «libertà».
La critica alle ideologie di Hayek, al «libero mercato», al «meno stato più mercato», ecc. si rifà a Braudel e potrebbe rifarsi a Chomsky (per ricordare, fra i molti, gli autori più famosi fra i non marxisti. Fra i marxisti, l’autorevole opinione di István Mészáros è che «il sistema del capitale non potrebbe sopravvivere una settimana senza l’appoggio massiccio che continuamente riceve dallo stato»). In Cina e altrove si tratta oramai di evidenza, per chi non sia in malafede. Wang sottolinea la mistificazione che vorrebbe far passare per «libero mercato» esattamente la cancellazione della libertà e del mercato, attraverso l’imposizione di rigidissimi vincoli da parte di colossi transnazionali e grazie alla tirannide esercitata dalle burocrazie in complicità e a tutela degli stessi. Il compito assegnato agli intellettuali critici è di distinguere fra l’ideologia del mercato e le politiche effettivamente adottate, e di svelare i meccanismi anti-mercato entro la società del mercato.
Il processo rilevato da Wang Hui è analogo a quello in corso nelle già democrazie liberali, dove lo stato va trasformandosi in un agente diretto del capitale, con la progressiva cancellazione dei margini di autonomia politica che in una fase precedente gli venivano assegnati. Ma la descrizione è assai meno semplice a proposito della Cina – dove il punto di partenza è una società postrivoluzionaria, caratterizzata per un verso da una forte interazione fra stato e società, e per l’altro (prima e durante la rivoluzione culturale) attraversata da una critica rivoluzionaria dei suoi aspetti non democratici e non socialisti. Il concetto di «via capitalistica», allora largamente divulgato, non era lontano da quello di una «via del capitale postcapitalistico»: incompatibile con la realizzazione della piena umanità dei lavoratori. In Cina, sia pure fra minoranze, c’era un’alta consapevolezza del problema, già negli anni sessanta-settanta. Il fallimento del processo rivoluzionario ha lasciato una situazione estremamente confusa, dove nei dati oggettivi e nelle interpretazioni si intrecciano frammenti di diversa origine e spesso in reciproca contraddizione.
Scrive Wang Hui, nel capitolo Gobalizzazioni alternative e la questione del moderno:
«All’interno, attraverso il decentramento del potere politico, lo stato ha promosso un processo di privatizzazione con l’autonomia dell’impresa e la riforma del sistema finanziario; ha sviluppato rapporti mercantili in ogni settore della vita sociale e, pur con una grossa crescita economica, ha dissolto il sistema di garanzie sociali e ristrutturato i rapporti fra le classi e gli strati sociali. All’esterno, con le riforme del commercio estero e del sistema finanziario, gradualmente ha portato la Cina nell’ambito dei rapporti di mercato globali governati dall’Omc e dall’Fmi, quindi ha riorganizzato i rapporti legali e contrattuali nella società in concerto con l’ordine economico del neoliberismo.[…] Dopo il 1989 meccanismi di interazione fra stato e mercato son venuti a sostituire quelli fra stato e società».
Mentre le esperienze positive e negative delle società postrivoluzionarie e specialmente di quella cinese confermano il legame necessario – e già insito nell’originaria ipotesi socialista – fra l’istanza del socialismo quale «autogestione dei produttori» e la democrazia, nelle formulazioni di Wang Hui si aggiunge a questa consapevolezza l’aspirazione a un «libero mercato» effettivo, differente e anzi opposto al capitalismo neoliberista (dove la maschera del «libero mercato» cela tutt’altra realtà). È una posizione assai vicina a quella di Noam Chomsky. Distinguere fra mercato e «mercato» capitalistico (per non parlare del «mercato» del neoliberismo) è utile per non confondere fra loro le diverse forme di scambio di merci esistite nel corso della storia (incluso un mercato mondiale, almeno a partire dalla fine del XVI secolo) e per aver chiara, d’altra parte, la specificità e unicità del sistema del capitale; piuttosto dubbia appare invece l’idea di un «ritorno» a forme di mercato non capitalistiche, alternativa all’ipotesi socialista (la quale è in ogni caso da riformulare).
Nello stesso saggio, molto interessante, Wang Hui sottolinea l’importanza dello stato-nazione nello sviluppo del capitalismo. Ma quello di cui parla è il colonialismo-imperialismo. Omette l’analisi della struttura interna del capitale, della necessità che dall’interno lo muove, e del rapporto, presente fin dalle origini, fra il capitale e lo stato (che in quanto stato capitalistico nasce come stato liberale). Così emerge una contraddizione fra la critica (scontata) allo stato antilibertario del «socialismo reale» e quello che oggi si chiederebbe allo stato. Finché si resta entro la struttura globale capitalistica, si riprodurrebbe inevitabilmente lo statalismo conosciuto nel «socialismo reale», con tutte le conseguenze contraddittorie. «Stato e rivoluzione» verso stalinismo: benissimo in teoria. Ma… perché dal primo si è finiti nel secondo? Solo questione di libere scelte politiche? Il rimedio proposto per rovesciare la falsa nozione che la politica (lo stato) debba cedere alla «libertà» che verrebbe dal mercato assolutamente non controllato, è di affidare la soluzione dei problemi alla politica in quanto tale, agita non dallo stato ma dalla società, che controlli lo stato; e che, nella versione di Wang Hui, sembra avvicinarsi al concetto, oggi molto in voga ma estremamente impreciso, di «società civile».
Controbilanciare il potere politico (partito-stato o stato del capitale) con la «società civile» porta inevitabilmente a far riferimento a una leadership alternativa in fieri, di carattere (inizialmente) intellettuale. Questo va non solo contro la mozione all’uguaglianza, ma verso la ripetizione di una vecchia storia: la formazione di nuove élite politiche in competizione con le vecchie e candidate a sostituirle. Gli studenti che durante la rivolta del 1989 esaltavano se stessi quali rappresentanti del popolo, senza peraltro accettare di comunicare col popolo su un piano di uguaglianza (vedi le testimonianze di Claudia Pozzana e Alessandro Russo; o il commento di un acuto osservatore cinese: «figli di quadri!») sono ancora intellettuali che si propongono come leader politici. Si ripete il confluire di uno statuto tradizionale dei colti, votati in Cina alla dirigenza politica, con la proposta leniniana di un gruppo di intellettuali (non importa se in alcuni casi di origine operaia) che si propongono come guida culturale e politica al popolo – smentendo nei fatti la mozione all’uguaglianza da essi stessi promossa.
Il problema non è solo cinese: dato per esaurito il ruolo dei guan o ganbu (in Cina) o dei chierici (in Europa) e quello degli intellettuali leniniani o «organici» gramsciani, quale può essere una possibile funzione di elaborazione teorico-politica da parte dei colti in una prospettiva di uguaglianza nella società?
[…]
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Sempre a proposito di democrazia e della necessità di una sua critica rigorosa capace di contrastare gli inni predicatori e mortiferi che ci vengono da tutti i pulpiti, come auspica Barone, mi pare che l’esigenza è diffusa almeno tra quanti ancora osano pensare.
Ricordo di aver letto tempo fa tirando un po’ il fiato un intervento di Mario Tronti dal titolo quanto mai deciso. Lo leggete a questo link:
http://www.sinistrainrete.info/teoria/321-httpwininfoautorgimmaginiheadgif-per-la-critica-della-democrazia-politica.html
Caro Genovese,
ma possibile che si debbano personalizzare i giudizi politici a questo modo? Cos’è, la sinistra italiana ha preso l’abbrivio con Craxi e Berlusconi e adesso non riesce più a frenare, fate X Factor con tutti?
Non ho mai incontrato il sig. Mubarak. Della sua vita privata so soltanto che qui in Italia vive una sua nipotina molto carina e un po’ troppo vivace e sventata, se non rammento male una volta è anche finita in Questura. Mubarak era certamente a capo di un regime autoritario e poliziesco. Se lei si contenta della favoletta della buonanotte che il suo rovesciamento + vicende successive fino all’attuale colpo di Stato dell’esercito (in Egitto l’esercito comanda da una quarantina di secoli) è un’affermazione della democrazia che rompe “l’arroccamento delle culture in se stesse”, buon per lei, si vede che è molto giovane.
Non ho avuto il piacere di conoscere neanche Muhammar Gheddafi e Bashar el Assad. Del primo ho sempre trovato deplorevole il taglio di capelli e il guardaroba, del secondo so che è un oculista come la signora Kyenge e porta i baffetti.
Gheddafi non era il candidato ideale al Premio Tocqueville; la famiglia Assad, (soprattutto il padre dell’attuale presidente) non si ispira, nello stile di governo, al modello socialdemocratico scandinavo.
In Libia, però, mi risulta che attualmente non c’è più Gheddafi, ma in compenso c’è l’anarchia, con bande armate locali e straniere che spadroneggiano, rubano, ammazzano. Chi può, scappa. Quando c’era il corrotto dittatore, il popolo libico aveva il reddito pro capite più alto dell’intero continente africano, perché l’arretrato Gheddafi, non avendo mai letto gli articoli di Alesina e Giavazzi, non aveva privatizzato il petrolio e usava parte dei profitti per fornire un livello di vita decente alla popolazione (sì, ci mangiava anche sopra, lui e i suoi, forse organizzando cene eleganti con le amazzoni della sua guardia del corpo).
In Siria non c’è dubbio che i servizi segreti facciano paura, in compenso i ribelli ne fanno molta ma molta di più. Sono salafiti, pregiudicati reclutati nelle galere e prezzolati dalla famiglia reale e dal governo dell’Arabia Saudita per acquisire il controllo del mondo arabo. Non so se ha visto il video, circolato su internet, in cui uno di questi combattenti per la democrazia si mangiava il fegato di un nemico ucciso (senza le posate). Le stesse bande di criminali hanno rovesciato e ammazzato Gheddafi.
Le operazioni di destabilizzazione che hanno condotto alle “primavere arabe”, (e che certo hanno fatto leva anche su opposizioni interne autentiche e presentabili ai regimi autoritari di quei paesi, presto però travolte e messe da parte) sono finanziate dai Sauditi, decise dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna (la Francia partecipa con una sua agenda parzialmente diversa).
I Sauditi vogliono l’egemonia sul mondo arabo. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fanno guerra preventiva alla politica cinese che punta a estendere l’influenza della Repubblica Popolare in tutta l’Africa, attuando una “strategia del caos” che impedisce ai cinesi (e en passant anche a noi italiani) di stabilire rapporti diplomatici ed economici solidi e duraturi in una zona strategicamente molto importante come il Levante.
A questo scopo USA e GB, con la Francia in seconda fila che persegue una sua guerra parallela, finanziano e armano, attraverso la Casa di Saud, le suddette bande di assassini salafiti, con l’idea di licenziarle quando avranno sbrigato la bisogna (più facile da dire che da fare, come si è visto in Afghanistan).
Le popolazioni del Levante si trovano in mezzo al fuoco incrociato. Scappare tutti non possono, sono troppi. L’aiuto fornito dalla UE consiste nel catalogare tra le organizzazioni terroristiche le milizie di Hezbollah, un partito che in Libano prende il 50% dei voti e che si è guadagnato il rispetto e la gratitudine di tutti i libanesi per la sua fitta rete assistenziale e per la resistenza coraggiosamente e vittoriosamente opposta all’ultima aggressione israeliana. Segnalo che se cade il governo di Assad, il Libano sarà il prossimo della fila a ricevere la visita delle rondini di primavera di marca salafita. Non credo che a Beirut non vedano l’ora, con i massacri hanno già dato.
Non ho obiezioni a una “ripresa mondiale del socialismo democratico”, francamente non ho capito bene che cosa sarebbe ma socialismo e democrazia sono parole dignitose. Suggerirei però di controllare il prodotto, invece di credere dur comme fer all’etichetta. Se socialismo democratico vuole dire dare una mano ai salafiti assassini a distruggere il Levante, c’è qualcosa che non va.
Ho letto il link che Abate riportava nel suo ultimo intervento.
Ebbene, credo che Tronti faccia un bel po’ di confusione. La fonte della sua confusione sembra derivare dal fatto che egli si riferisce a Tocqueville e quindi confronta USA ed Europa di allora.
Non v’è dubbio che allora, la tendenza ugualitarista che v’era in America non si riscontrava certo nei paesi europei d’allora, e quindi sembra avere ragione quando dice che lì si ha una tensione egualitaria prevalente, mentre in Europa prevale la tendenza libertaria.
Tuttavia, prudenza vorrebbe che egli usasse il tempo passato, perchè soprattutto da noi in Europa le cose sono tanto cambiate (ma credo che magari in misura minore siano cambiate anche negli USA, seppure in senso inverso), che oggi la situazione si è capovolta.
Tralasciando adesso la stretta attualità verso cui il nostro sguardo rischia più facilmente di essere offuscato, non si capisce come si possa considerare più egualitaria la società USA rispetto, dciamo alla Francia degli anni settanta.
Da un altro punto di vista, se è vero che la capacità di valorizzare tutti, offrendo loro il massimo di opportunità, ha indubitabilmente un contenuto egualitario, nel momento in cui la società USA consente ad un singolo individuo di raggiungere qualunque traguardo, per quanto alto esso sia, vediamolo adesso dal lato economico, esso non è per niente egualitario. Se è vero che chiunque ne abbia le capacità, ha diritto di emergere, non sembra tuttavia egualitario che il traguardo che la società gli consente di raggiungere sia illimitato, questo in un’europa ancora non del tutto americanizzata, non lo si pensava.
La critica che io rivolgo però a Tronti è più radficale, e sta nel suo implicito far coincidere democrazia ed egualitarismo e liberalismo con libertà. E’ proprio attraverso questo postulato che Tronti attacca la democrazia. In verità, concludere a partire dal fatto che il potere della maggioranza sia egualitario nel senso che ogni testa conta egualmente, che democrazia coincida con egualitarismo, mi pare un ragionamento discutibile. La cosa che tuttavia mi ha più colpito è che Tronti affronti il problema della democrazia a partire dall’esaltazione della libertà. Insomma, egli mette in dubbio le certezze che abbiamo sulla democrazia basandosi sulle sue proprie certezze riguardo alla libertà. Ciò lo trovo alquanto stravagante, dato che, ma credo che sia un’opinione largamente condivisa, quasi un’ovvietà, di tutti i concetti politici, la libertà è di gran lunga il più controverso. Come si può, io dico, scegliere come fondamento delle proprie tesi il terreno che è obiettivamente il più scivoloso, mi pare una scelta non condivisibile.
Qui, mi rifuto di entrare nel merito di tutta la complessità del concetto di libertà, anche se è un punto ineludibile, ma ci sto scrivendo un intero capitolo di un libro e non è argomento che si possa riassumere, e torno quindi al concetto di democrazia.
Se ci teniamo strettamente al significato etimologico, allora ci rendiamo conto che il potere della maggioranza per funzionare, abbia bisogno di alcuni elementi di contesto. Il primo è che la maggioranza ha diritto a prevalere solo se e in quanto le minoranze vengono rispettate, cioè riconoscendo che esistono diritti intoccabili che prescindono dal volere della maggiornaza. Ciò implica un quadro istituzionale e un insieme di leggi, cioè un insieme di regole che siano adeguate a garantire queste condizioni. Come dicevo, ciò richiede una divisione ed un equilibrio dei poteri.
C’è però un’altra condzione aggiuntiva che generalmente non viene richiamata, e cioè che tutti i cittadini siano in qualche misura liberi, che cioè l’autorità, diciamo lo stato, impedisca lo strapotere di qualcuno e la sua capacità di determinare il pensiero èrevalente. Capisco così di sollevare un altro vespaio, ma non posso evitarlo proprio perchè ritengo che liberalismo e democrazia non siano due opzioni alternative. In proposito, penso che ciò che effettivamente è una democrazia, dipnde da alcune condizioni preliminari che nei nostri ordinamenti sono rappresentate dall’ideologia liberale. La democrazia insomma non è un’alternativa al liberalismo, nè dipende costitutivamente dal liberalismo. Il punto fondamentale quindi non sta nella nostra concezione della democrazia in quanto tale, ma nei principi che stanno a monte rispetto ad essa, ed è per questo che continuo nella mia personale crociata antiliberale.
Colgo l’occasione di questo dibattito politematico sull’imperialismo, la democrazia, il liberalismo e il socialismo per approfondire una questione cruciale, giustamente evocata dall’ottimo Buffagni: la questione della Libia e di Gheddafi. Parto dall’ultimo atto della guerra di aggressione scatenata dalla Nato contro la Jamaria libica, ossia dal linciaggio di Gheddafi ad opera delle bande di tagliagola salafiti finanziati, armati e addestrati dai servizi segreti degli Usa, della Francia e della Gran Bretagna. Con la spettacolarizzazione di quel feroce e prolungato assassinio, esponendo in modo osceno le immagini orrende del corpo ferito e martoriato di Gheddafi, la stampa imperialista è riuscita persino a superare il primato sadico delle foto scattate nel 1967 al cadavere di Che Guevara. Questa totale mancanza di ‘pietas’ nei confronti di un nemico dell’imperialismo occidentale dà un’idea particolarmente plastica sia della barbarie dei mercenari sia del fine, ad un tempo monitorio e terroristico, che la Nato ha attribuito all’azione militare che essa ha esercitato, per interposta persona ma anche direttamente, nel vicino paese nord-africano.
Per quanto mi riguarda, l’ammirazione che ho sempre provato nei confronti di Muammar Gheddafi, leader della Jamahiria libica, risale al periodo della rivoluzione anticolonialista da lui guidata negli anni ’60, nonché all’opzione socialista e alla linea coerentemente antimperialista che questo esponente della piccola borghesia rivoluzionaria araba ha sempre perseguito marcando con l’impronta di una personalità fiera, coraggiosa e intelligente non solo il movimento dell’islamismo radicale, ma anche quello dell’unità panafricana. In effetti, fedele sino all’ultimo all’impegno militante che aveva contrassegnato tutta la sua vita, Muammar Gheddafi ha affrontato le estreme conseguenze della grande sfida sull’uso della violenza, che egli lanciò alle potenze imperialiste fin da quando nel 1969, con un colpo di Stato militare, rovesciò la monarchia del re Idris e dette inizio alla decolonizzazione della Libia e alla costruzione di un regime popolare e socialista: la Jamaria. A potenze che avevano la pretesa di essere le uniche a decidere quanta violenza sia lecita nelle relazioni internazionali Gheddafi lanciò così il guanto della sfida, entrando nel novero di quei dirigenti del Terzo Mondo che non si sono trincerati dietro nessun paravento e hanno utilizzato la violenza o, comunque, la forza in tutta una serie di azioni: garantire le acque territoriali, partecipare alla politica mondiale sostenendo e finanziando movimenti di liberazione e rivolte antimperialiste e anticolonialistiche, dall’Ira alla resistenza palestinese, ivi comprese le uccisioni mirate degli oppositori (arma strategica usata peraltro, e su larga scala, da Israele e dagli Usa). La politica internazionale di Gheddafi è stata quella di mettere la Libia al centro della periferia nella lotta contro il centro imperialista. Inoltre, la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo e le sue risorse naturali ne hanno fatto un paese molto poco trattabile rispetto agli altri paesi usciti dalla decolonizzazione. A ciò si aggiunga che la Libia non è mai entrata in alcun blocco, ad esempio in quello sovietico, e ciò l’ha privata di qualsiasi copertura internazionale, come apparve chiaro nel 1986 e come è stato confermato dagli eventi del 2011. Questa scelta di non allineamento fu teorizzata da Gheddafi nel “Libro verde” o “Terza teoria universale”, in cui la Jamaria libica, un intreccio tra dittatura carismatica e democrazia diretta di tipo roussoviano, rappresentava l’alternativa sia al capitalismo liberale sia al socialismo sovietico.
Vi è poi un’altra questione, a mio avviso assai rilevante, che nasce dalla riflessione sulla guerra di aggressione contro la Libia, e che provo a riassumere in questi termini: come mai il signor Pietro Ingrao, la signora Rossana Rossanda, la signora Susanna Camusso, gli attori Dario Fo e Franca Rame, lo stesso Presidente della Repubblica, esponenti prestigiosi della sinistra italiana, si sono schierati a fianco della Nato? Si tratta, in questo caso, di una questione politico-ideologica che non esito a definire sconvolgente, poiché riguarda l’atteggiamento della stragrande maggioranza della sinistra rispetto alla guerra contro la Libia e non, semplicemente, l’opinione personale dello scrivente. Sarebbe necessario, volendo abbozzare una risposta a questo interrogativo, approfondire le ragioni della decadenza, che data perlomeno dagli ultimi trent’anni, di un punto di vista comunista sulle questioni internazionali: un punto di vista che ha finito con l’abbandonare la categoria interpretativa dell’imperialismo e ha completamente abbracciato la teoria imperialistica di quello che si può definire “interventismo umanitario”. L’atto di nascita di questa teoria risale, non a caso, alla guerra del Kosovo di quattordici anni fa, quando fu attribuita al ‘sanguinario dittatore’ dei Balcani, Milosevic, la responsabilità di un genocidio inesistente che sarebbe stato compiuto contro la popolazione albanese del Kosovo, ragione per cui i bombardamenti della Nato contro la Serbia furono nobilitati da siffatta motivazione ‘etica’. Ricordo, a questo proposito, che una lucida analisi critica della teoria imperialistica dell’‘interventismo umanitario’ è stata svolta dal filosofo del diritto Danilo Zolo nel saggio intitolato “Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale” (2000).
Coloro che vivono sotto il tallone di ferro dell’imperialismo e sono consapevoli del nesso sanguinoso che stringe l’imperialismo alla guerra e alla reazione, non dimenticheranno mai l’esempio di coerenza, di coraggio e di fierezza che ha fornito questo anziano statista e leader della rivoluzione antimperialista, abbandonato dalla viltà di quanti avrebbero dovuto difenderlo, a cominciare dalla sinistra europea.
Caro Barone,
piccola aggiunta a uso interno del nostro Quartetto Cetra.
Il colpo di stato con il quale Gheddafi rovesciò il governo (installato dalla Gran Bretagna nel dopoguerra) di re Idris l’abbiamo appoggiato direttamente, con i servizi segreti, noi italiani; naturalmente previo benestare USA: la vicenda di Suez era ancora vicina.
Il colpo di Stato di Gheddafi è costato l’espulsione dalla Libia dei coloni italiani, che vi persero tutto e non solo non furono risarciti dallo Stato italiano, ma una volta rimpatriati furono trattati come lebbrosi in quanto fascisti o discendenti di fascisti, quindi impresentabili: più o meno come i profughi istriani. L’antifascismo infatti replica, rovesciandolo in modo speculare, l’errore del fascismo, che definiva *veri* italiani solo gli appartenenti a uno schieramento politico: fascista prima, antifascista poi.
In compenso, noi italiani ritornammo a lavorare in Libia con l’ENI e le molte altre industrie che colà operavano e operano: prima di questo recente tradimento in posizione preminente, adesso, grazie ai nostri illuminati governanti, in posizione subordinata.
Rimango veramente sbalordito dalla superficialità e dall’ingenuità (volendo essere benevoli) con la quale, non solo qui, il senso comune progressista tratta questioni essenziali di politica estera. In un ambito nel quale da sempre vige, purtroppo, la legge del più forte, e succedono cose da gelare il sangue nelle vene, si danno giudizi politici ispirati a un conformismo intellettuale sloganistico che fanno cadere le braccia. In confronto alle chiacchiere sui diritti umani attualmente in voga, assurge al rango di magistrale, audace teoresi la propaganda vittoriana sul “fardello dell’uomo bianco”.
Dio non voglia che in futuro le vicende storiche si incarichino di proporci un corso accelerato, full immersion e a domicilio, sui meccanismi di funzionamento base del conflitto tra potenze. Il risultato in termini di competenze sarebbe garantito, ma i costi di iscrizione sarebbero tremendi.
OT (?)
http://www.giornaledibrescia.it/in-citta/ecco-come-aprire-un-blog-in-poche-mosse-1.1532547
@abate @ barone @ buffagni @ cucinotta
O, a seconda dei punti di vista,
Caro Conte,
grazie. Ma forse, se ci trova tanto noiosi basterebbe non leggere, le pare?
Caro Giulio,
lei è davvero gentile e spiritoso. Io continuo a trovare più azzeccato il Quartetto Cetra (mai visto il video di “In un vecchio palco della Scala”?) però apprezzo il pensiero.
Cari Tutti,
ho capito, ho rotto le tasche con le mie querimonie sul Levante (e immagino anche con le altre geremiadi che ogni tanto scrivo qui).
Che volete? Da giovane ci sono stato a lungo, nel Levante. Conosco bene quei luoghi e quei popoli, e ci sono molto affezionato. Mi immagino con facilità, purtroppo, che cosa sta succedendo da quelle parti. Ricordo anche come si comportava il nostro paese e il nostro esercito, in quegli anni lontani; e facendo il confronto con quello che facciamo oggi, mi viene da suonare la “Pavane pour une infante défunte”, altro che Gino Paoli o il Quartetto Cetra.
Poi certo, è una triste verità che la puntura di zanzara sulla pelle tua fa più male del missile sulla pelle altrui. Finché missili e zanzare continuano così, no problem.
allo spettabile Rino Genovese c/o Leparoleelecose (e per conoscenza anche alla platea scalpitante sotto il palco)
ma perchè invece di “socialismo relativistico mondiale”, che pare una definizione senza storia nè agganci al reale, non parliamo di municipalismo libertario, allora? E’ una bella utopia suscettibile di innalzare molti cuori nelle nostre città inarcate dentro i loro innumerevoli conflitti territorializzati.
Certo, un’utopia suscettibile di produrre un mucchio di splendide sconfitte, come fu per il modello storico di ogni municipalismo libertario: la comune di Parigi prima della settimana di sangue (quando divenne modello storico di quella successione blanquismo-giacobinismo-leninismo che lei stigmatizza su basi etiche).
D’altronde, in tutto l’attuale guazzabuglio di anticapitalismismi (non è un errore di battitura, ma una concrezione di ideologie), quello che manca è una serena, ancorchè tardiva, presa d’atto dell’unica, ma fondamentale, ragione del Bakunin a criticare il babbo natale di Treviri: Stato e Capitalismo sono un unico Ircocervo, è inutile immaginare la creazione di stati anticapitalistici, lo Stato è una struttura antiumana e intrinsecamente incompatibile con democrazie e rispetto delle individualità.
Da poco sentii un rappresentante di associazioni indigene sudamericane (di quelle che hanno problemi seri anche con i miracolosi santoni della neasocialdemocrazia stile Correa) dire che la crisi non è economica, ma di civiltà, una crisi della civiltà occidentale fondata sull’aberrazione dello stato-nazione.
Tanti cuori per lui. E’ così raro sentir dire questa semplice semplice verità le cui conseguenze sono così spaventosamente utopiche da far tremare i polsi e liberar gli sfinteri.
Ecco, Genovese, per esempio più del risveglio arabo a me fa notizia il risveglio indigeno sudamericano, che propelle non poco sotto le varie star della neasocialdemocrazia, ma che da esse è non poco intralciato nel suo reale potenziale creativo (spesso a fucilate, peraltro).
Ah, en passant, le concezioni degli indigeni sono fortemente radicate nel concetto religioso di Pachamama, e ciò non costituisce un ostacolo nel renderle avanguardie di un diverso modello di società.
Poi ecco, mi pare che il suo relativismo universalistico, oltre ad essere speculare all’universalismo relativistico del tremendo Costanzo Preve, abbia la grossa pecca di essere un universalismo sotto mentite spoglie, giacchè la sua idea di fondo è che l’occidente operi una ritirata strategica dal resto del mondo al fine di renderne più appetibile l’occidentalizzazione (aiutare le spinte liberali ecc. ecc. nei paesi arabi).
E quanto orientalismo c’è nel parlare degli Assad e dei Gheddafi come di frutti mostruosi di una “modernizzazione distorta”? Laddove modernizzazione e occidentalizzazione sono sinonimi, e laddove i caratteri oppressivi e sanguinari sono esiliati dal campo dell’occidente e della modernità (è distorta, no?) come se gli fossero estranei (non credo servano esempi).
Caro Buffagni,
ma perché contrapporre alle puerili divagazioni di Giulio e del Conte Ugolino soltanto il Quartetto Cetra e non, ad esempio, i Quattro Moschettieri o, per mantenere un filo di coerenza con il tema di questo blog, quattro personaggi altamente significativi della “Montagna incantata” di Thomas Mann?
A questo proposito, si potrebbe perfino sottoporre ai nostri antipatizzanti un quesito fra il serio e il giocoso, come quello di scegliere a quali dei personaggi più caratteristici del romanzo di Mann accostare ciascuno di noi. Siccome il gioco mi diletta, comincio io a giocarlo: che so?, al gesuita Leo Naphta si potrebbe avvicinare proprio Lei, caro Buffagni, mentre con Lodovico Settembrini potrei appaiarmi io, lasciando per Abate, che oltre ad essere un teorico è anche un creativo, la somiglianza con quel ‘trickster’ che è Mynheer Peeperkorn; Cucinotta, dal canto suo, potrebbe essere avvicinato all’ingegnere Hans Castorp… Non vorrei, però, che questo gioco di simulazione sia troppo impegnativo per chi ha solo artigli, ma non ali, cosicché può essere utile consigliare ai nostri antipatizzanti una lettura estiva, in attesa che gli afosi caldi agostani passino e si torni, nel mese di settembre e quindi in un clima più mite e ventilato, a frequentare questo blog. Si tratta, per l’appunto, del saggio di Reinhard Brandt intitolato “D’Artagnan o il quarto escluso. Su un principio d’ordine della storia culturale europea 1,2,3/ 4”, che, spaziando dai pitagorici, dagli indiani e dai persiani sino all’età moderna, pone in luce l’importanza (sia sofica che filosofica) del numero quattro, il fascino del quale risiede, non da ultimo, come asserisce Aristotele, nell’essere ‘eusy’nopton’, ossia qualcosa che, essendo facile da abbracciare con lo sguardo, diviene segno e simbolo della bellezza.
Caro Barone,
perché il Quartetto Cetra cantava, i tre (+ 1) moschettieri e i personaggi di Mann, no. Però mi piacciono molto anche quelli. I moschettieri, non c’è di meglio. Noi saremmo più o meno dell’età giusta per l’ultimo volume della trilogia, l’eccezionale “Visconte di Bragelonne”. Sempre buono il vecchio Mann: se non ricordo male, però, il gesuita Naphta è modellato sul giovane Lukàcs, io non c’entro molto, religione a parte…
Caro Detvito scassiale,
mi sono sempre stati molto simpatici, gli anarchici. Non la vedo come lei, ma è sempre una boccata d’aria fresca, sentirla cantare così chiara. Le “splendide sconfitte”, come non emozionarsi? (Dico sul serio, eh? Non faccio dell’ironia). In bocca al lupo.
@ buffagni
Ricambio la simpatia. Anche se condivido raramente il senso dei suoi commenti, li leggo con interesse, e mi piace il suo stile di argomentazione.
@ barone
Settembrini? Mah, a me lei ricorda di più Dulcamara, che “in ogni arte è professor”
http://www.youtube.com/watch?v=h0OFOrXWNfY
O, rimanendo in ambito letterario, Brichot, il sorbonnard del clan Verdurin, compagine con la quale il nostro amato quartetto mi sembra presentare alcune segrete affinità.
Caro Giulio,
la ringrazio e la saluto cordialmente.
@Conte
Mah, rivolgeva a sè stesso quel link sulla facilità di farsi un blog personale?
Perchè non risulta che lei l’abbia, e invece, guardi un po’, io il mio blog ce l’ho e tento per quanto possibile di curarlo, pensi che passi falsi fa fare la distrazione…
Se poi invece lei ritiene che farsi un blog si traduca nel non intervenire su blog altrui, anche qui la devo correggere, non mi risulta che sia così e non capisco cosa glielo faccia pensare.
Caro Cucinotta,
mi scuso del ritardo con cui rispondo al suo commento del 30 luglio 2013 alle 11:49. Vado subito al sodo. Dopo che il Novecento ci ha chiarito quanto fallimentari siano state le esperienze del socialismo (socialdemocrazia europea, “socialismo reale”), in un quadro mondiale sconvolto da una globalizzazione che ha i volti ambigui o tremendi di un neoimperialismo (al momento ancora e soprattutto statunitense) e, infine, immersi come siamo nella confusione e nel degrado delle idee e delle pratiche politiche, ha senso parlare di rivoluzione o discutere cosa fare dopo la presa del potere?
Se non vogliamo apparire pateticamente nostalgici e fuori tempo, due cose serie possiamo fare:
– studiare a fondo le rivoluzioni del passato ( eventi rari e mai scaturiti dalla sola volontà dei rivoluzionari, che sempre hanno dovuto attendere il coagularsi – anche casuale e imprevisto – di circostanze oggettive favorevoli;
– indagare teoricamente (secondo nuovi schemi che noi stessi dobbiamo ricostruire e di continuo verificare) *questa realtà*; evitando, se possibile, di confonderla con i nostri pensieri o i nostri desideri, per capire se e quando in essa si aprono dei varchi. Per una «presa del potere»? La formula mi pare oggi non solo generica ma deviante. Temo che possa dare la stura a elucubrazioni avveniristiche o d’ingegneria socio-politica, che gli eventi con la loro imprevedibilità renderebbero insignificanti. E perciò ho sempre trovato saggia l’idea dell’«analisi concreta della situazione concreta» di Lenin che una rivoluzione riuscì a viverla e a guidarla (magari per un attimo, ma che attimo!). E anche il rifiuto di Marx a illustrare cosa sarebbe stato il comunismo. Detto in parole povere, non vorrei mettermi nei panni di quel cacciatore che vendeva la pelle dell’orso prima di averlo catturato.
Il problema spontaneità/organizzazione a cui avevo accennato mi pare più urgente. Specie se ce lo ponessimo – appunto – in modo concreto. A partire, ad esempio, dalla nostra condizione di intellettuali dissenzienti. Qui su LPLC, pur provenienti da storie diverse e intervenendo ciascuno con un proprio accento, ci siamo ritrovati spontaneamente a formare – si è detto – un “quartetto”, che tenta di sviluppare un pensiero critico (necessariamente politico) in rotta con quello di quasi tutti gli autori dei post di LPLC.
Perché non chiedersi ora: ha senso proseguirle in questo modo spontaneo? ha senso spremere come un limone lo spazio dei commenti (l’unico a noi concesso dalla direzione del sito) o intasarlo per controbattere le tesi degli autori dei vari post? Con risultati ormai scontati: risposte diplomatiche e ben educate in alcuni casi, silenzio “strategico” sulle questioni politiche di fondo da parte di chi capisce l’antifona e non vuole veramente discutere, uno strascico di etichettature sberleffi e cinguetti vari. A me pare che bisognerebbe appunto organizzarsi come vero gruppo ed agire per sviluppare al meglio questo lavoro critico.
Quanto al link che rimandava a Tronti, l’avevo segnalato come esempio e solo per ricordare che la critica alla democrazia ha ancora una sua legittimità almeno tra le persone pensanti in questo Paese. Non entro ora nel merito delle sue obiezioni al taglio che Tronti ha dato alla questione («Tronti affronti il problema della democrazia a partire dall’esaltazione della libertà»).
Caro Abate,
io capisco bene il suo punto di vista, ma mi pare che lei faccia un errore di prospettiva. Poichè siamo circondati dal pensiero dominante, rischiamo di credere che, soltanto perchè non ci riconosciamo in esso, siamo, come quartetto cetra, omogenei. Purtroppo, non mi pare che sia così, vedo al contrario che appena si approfondisce anche di poco la discussione, saltano fuori differenziazioni di ogni genere.
Ora, è chiaro che tutto ciò non ci impedisce certo di dialogatre tra noi, anzi è per me molto utile discutere con persone che stimo e da cui traggo continuamente spunti interessanti per la maturazione ulteriore delle mie idee. Tuttavia, continua a non essermi affatto chiaro come lavorare per organizzarci, senza sapere quale sia la base comune per cui organizzarci.
Ad esempio, ma lo cito solo appunto a scopo esemplificativo,non capisco che interesse dal punto di vista politico manifesti verso di me una persona che non sente minimamente l’esigenza di leggere il libro che ho scritto, in cui cioè i miei interventi non abbiano neanche sollecitato quel minimo di curiosità che pure mi pare un elemento importante come stimolo a una maggiore aggregazione.
Dopodichè, può darsi che io sia eccessivamente pessimista, ma per il momento non potrei risponderle diversamente da così.