[Questo articolo è tratto dal nuovo numero de “il Reportage”, n.15, luglio-settembre 2013].
di Federico Mastrogiovanni
“È il silenzio la cosa che fa più paura. È come il buio, però nel buio puoi credere di vedere qualcosa. Invece nel silenzio arrivano i mostri peggiori”. Daniel respira con calma, beve lentamente da una bottiglietta d’acqua, che assapora come se fosse un buon vino. Il ponte alle sue spalle è d’un rosso vivo, costruito su binari deserti, immersi nella vegetazione. Non passano treni da qui, non più, da quando nel 2003 l’uragano Stan ha devastato i Paesi dell’America centrale e, in particolare, questo pezzo dello stato messicano, il Chiapas, facendo complessivamente oltre 250 morti. Ora i binari che partono da Tapachula, una città di frontiera, servono soltanto come cammino per i migranti, che si affidano alla via ferrata affinché li conduca al loro destino, o almeno da qualche parte, il più lontano possibile da casa.
Daniel è arrivato alla ferrovia abbandonata con un piccolo gruppo, che con le sue grida e la sua allegria si è fatto strada nella foresta in un pomeriggio di umidità e silenzio. Se sei un migrante centroamericano senza documenti non hai molte alternative per arrivare ad Arriaga, il pueblo da cui parte il treno merci diretto a nord, che attraversa il Messico fino agli Stati Uniti e che è soprannominato “la Bestia”, ma che potrebbe dirsi piuttosto “il treno della morte” o anche el tren de la dsaparición, perché ogni viaggio è un viaggio attraverso l’inferno, un inferno che migliaia di disperati accettano di attraversare. Dopo aver attraversato il Río Suchiate, il fiume che separa il Guatemala dal Chiapas, le strade che portano all’appuntamento con il treno del destino sono soltanto due: la via “ecologica”, che vuol dire camminare per 250 chilometri lungo i binari abbandonati, oppure la via “turistica”, cioè prendere il pullman per Arriaga che parte dal centro di Tapachula.
In entrambi i casi è come dedicarsi a uno sport estremo. Nel primo, infatti, bisogna percorrere la distanza tra i due paesi lungo un cammino estremamente difficile e sfiancante, esponendosi a ogni tipo di aggressione e violenza, compreso il rischio del sequestro di persona. Nel caso della via turistica, invece, i migranti, una volta sul pullman, devono superare un’infinità di posti di blocco “migratori” sulla strada: poco prima si deve scendere, aggirare a piedi il controllo e riprendere la strada per salire su un altro mezzo di trasporto. È all’altezza di uno di questi posti di blocco, nella zona conosciuta come la Arrocera, che quasi sempre si viene aggrediti.
Tre anni fa Daniel ha incontrato qui i suoi aguzzini. Con un gruppo di quattro compagni viaggiava verso gli Stati Uniti proveniente dall’Honduras. Approdato in Messico ha deciso di tentare la via “turistica”, sfidando la sorte e gli Zetas, il cartello di narcotrafficanti più potente e violento del Paese. Dopo poche centinaia di metri i cinque sono stati circondati da uomini e donne armati di machete e fucili: “Era una famiglia della zona che lavorava per gli Zetas – racconta Daniel, mentre facciamo una sosta dopo aver attraversato il ponte – sapevamo che stavamo rischiando ma non avevamo alternative”.
Dopo averli aggrediti, derubati dei loro pochi averi e malmenati, gli assalitori li hanno portati in una casa poco distante. “A quel punto – prosegue Daniel – è cominciato l’incubo. Ci hanno rinchiuso per tre giorni. Ci hanno pestato come animali. Ci hanno violentato tutti e cinque, tre ragazzi e due ragazze. E quando non ci picchiavano, nelle pause, scendeva un silenzio assoluto, che ci faceva diventare matti, in attesa delle prossime violenze. Di notte venivamo svegliati dalle grida dei nostri compagni violentati o dalle risate dei sequestratori. Sentire la loro carne schifosa contro il tuo corpo è disgustoso e doloroso, la sensazione di sporco rimane con te per mesi e non ti abbandona”.
Dopo una settimana il gruppo viene dato in consegna ad altri affiliati di Tapachula, gestori di bordelli nella città di frontiera. Daniel trascorre laggiù altri quattro mesi, in un buco, obbligato a prostituirsi ogni notte, picchiato a sangue se si ribella: “C’è stato un momento in cui avevo perso ogni speranza, volevo lasciarmi morire”. Poi decide di tentare la fuga e scappare verso nord. Ma dopo poche ore, viene ripreso e massacrato di botte. “Non avevo tenuto conto della facilità con cui i miei sequestratori avrebbero potuto ritrovarmi. Nonostante le ferite alcuni giorni dopo ho fatto un secondo tentativo di fuga, ma questa volta sono scappato verso sud, verso il Guatemala. Volevo tornare a casa. Ho riattraversato il fiume a nuoto e mi sono rimesso in cammino, in pullman, a piedi, nei retro dei camion e sono arrivato in Honduras. Ce l’avevo fatta”. Sono passati tre anni prima che Daniel decidesse di ritentare il sogno americano, spinto dalla situazione economica disastrosa del suo Paese.
Ci ritroviamo alla stazione di Arriaga, dove l’ho atteso tre giorni per poter prendere la “Bestia” insieme a lui e ai suoi compagni (io, da Tapachula, mi sono servito di un’auto, lui per evitare i controlli ha scelto di venire a piedi). I binari della ferrovia si squagliano sotto il sole. L’umidità è del 90 per cento. verso mezzogiorno cominciano ad arrivare altri gruppi di migranti, che occupano tutte le zone d’ombra disponibili, ogni albero, ogni vagone abbandonato, ogni tettoia diventano punto di assembramento e riposo. Il pasto più comune che si consuma lungo la linea del treno è composto da tortillas, fagioli, chili, tonno e acqua. E insieme ai migranti compaiono anche venditori ambulanti di bibite, panini, schede telefoniche, scarpe, teli e cartoni per ripararsi dal sole e dalla pioggia.
Henry ha 30 anni, viene anch’egli dall’Honduras. È la seconda volta che prova ad arrivare negli Stati Uniti. Il tentativo precedente era andato a buon fine, ma poi ci sono stati dei problemi: “Sono andato a vivere in New Jersey, per dodici anni. Mi sono sposato e ho avuto una bambina. Ma mia moglie è morta poco dopo il parto a causa di complicazioni, nostra figlia oggi ha un anno e quattro mesi. Ora è laggiù da sola presso alcuni parenti. Io sono stato espulso perché mi hanno fermato mentre guidavo senza documenti. Sono arrivato un mese fa in Honduras e ora devo ricominciare tutto da capo”.
L’attesa è lunga e snervante, ma la gente aspetta con pazienza. Poi cominciamo a udire il rumore lontano della locomotiva che arranca verso Arriaga. Nessuno sa con esattezza quando il treno arriverà, né quando ripartirà. La Bestia non ha orari. Dalle zone d’ombra della stazione si fanno avanti centinaia di persone. Alcuni, nelle ore o anche nei giorni di attesa, hanno alloggiato nelle cosiddette casas de seguridad, letteralmente case di sicurezza, alloggi privati che, a pagamento, vengono messi a disposizione dei migranti. Qui si dorme, si mangia, ci si lava e qualcuno ti avvisa dell’arrivo del treno: una casa de seguridad, che può ospitare fino a 200 persone al giorno, è una sorta di albergo illegale che vive grazie all’abbondante flusso migratorio.
La Bestia sbuffa e stride sulle rotaie mentre entra in stazione. La tensione cresce. Chi è arrivato fin qui ha già percorso centinaia di chilometri con ogni mezzo, a piedi, in barca, nei combi, i piccoli pulmini collettivi. Probabilmente è stato rapinato, ha sofferto la fame e la sete, e ancora non si trova nemmeno a metà del viaggio. “Sappiamo cosa ci aspetta – racconta ancora Henry, che ha preso posto in cima a un vagone grigio pieno di cemento – qualcuno perché ha già fatto una o più volte questo viaggio, altri perché hanno ascoltato il racconto degli amici e parenti che ci hanno provato. Ora inizia il primo tratto del tragitto, il treno arriverà ad Ixtepec, nello stato di Oaxaca. C’è il rischio che il treno venga assaltato dagli Zetas o da altri gruppi criminali. Se salgono armati qui sopra, con il treno in movimento, non c’è modo di scappare. A volte succede che alcuni Zetas si infiltrino tra i migranti e all’improvviso, magari di notte, rapinino tutti, oppure ci sequestrino per chiedere un riscatto ai nostri parenti negli Stati Uniti. Ognuno di noi vale da duemila a cinquemila dollari. Se poi i soldi non arrivano ti sparano in testa. Questo è uno dei rischi, per questo ci portiamo appresso pietre e bastoni, per poterci difenderci in qualche modo”. Henry viaggia con un gruppo di quindici persone alle quali si sono uniti Daniel e i suoi compagni. Sono quasi tutti honduregni, oltre ai bastoni e alle pietre condividono l’acqua e il poco cibo a disposizione.
Alle cinque del pomeriggio, senza alcun preavviso, la Bestia – dopo essere stata caricata di farina di mais, cemento, alluminio, benzina – si mette in movimento. Gli ultimi migranti si lanciano sui vagoni e prendono posto sul tetto. Il tetto è ancora molto caldo dopo un’intera giornata di sole ed è anche molto scomodo. Si sta gli uni vicini agli altri e se è possibile si usano dei cartoni stesi sulla superficie di metallo per rendere un po’ più confortevole il viaggio. “Io so benissimo che di queste 400 persone che si trovano adesso sul treno ne arriveranno a destinazione, negli Stati Uniti, al massimo venti – continua Henry – e delle venti donne che ho contato, probabilmente una o due. Ognuno di noi sa che queste sono le cifre finali, ma è convinto che tra quelle poche persone ci sarà anche lui. Io per esempio ne sono certo”.
Il clima sul treno è di calma apparente. A turno ci si stende un po’ sulla lamiera per riposarsi, mentre c’è sempre qualcuno di guardia. “Non tutti ci sono ostili durante il cammino – racconta Christian, un giovane honduregno che ha fatto parte della resistenza contro il colpo di Stato del 2009 e che ha deciso di emigrare per dare una speranza ai suoi due figli – alcuni addirittura ti ospitano a casa, ti danno da mangiare, ti fanno sentire una persona, quando tutti gli altri, durante il viaggio, te lo fanno dimenticare. Purtroppo, però, sono più quelli che ci vedono come carne da macello, da cui spremere il più possibile, perché siamo indocumentados e non abbiamo diritti”.
Il tempo trascorre lentissimo. Il convoglio della speranza non supera mai i 25 chilometri all’ora, anche per le pessime condizioni della ferrovia. Poi, dopo tre ore di viaggio, senza un motivo apparente, la Bestia comincia a rallentare. Che cosa succede? Scatta l’allerta: uomini e donne si preparano a qualcosa che non sanno, ma che intuiscono, pronti a saltare giù, a correre, a scappare, a difendersi. È già buio, in lontananza si intravedono lampi di luce. Sul treno si è fatto silenzio assoluto, nessuno ride più, non si gioca più a carte. È l’incontro con il destino.
All’entrata del piccolo pueblo di Chahuites, nello stato di Oaxaca, quando il treno è ancora in movimento, ai due lati del convoglio spuntano degli uomini incappucciati e che impugnano fucili ad alto potenziale e con torce elettriche da un lato e dall’altro del convoglio. “Scendete da quel cazzo di treno brutti figli di puttana! Forza! Forza! Veloci, bastardi! Non fate cazzate, veloci! Figli di puttana, scendete che ora sono cazzi vostri!”, gridano.
I vagoni si svuotano in un attimo, centinaia di ombre schizzano via dall’alto verso il buio, saltando giù con il treno ancora in moto. Nel giro di pochi secondi una trentina di agenti arrestano un centinaio di persone. I migranti vengono sbattuti faccia a terra su quattro file, poi insultati, minacciati, schiacciati al suolo dai grossi scarponi neri dei poliziotti. Il treno ora è fermo e comincia quella che gli agenti chiamano “un’identificazione”. Non è presente alcun funzionario dell’Instituto nacional de Migraciòn, l’agenzia del governo che ha il compito di occuparsi dei migranti. Anche solo per questo l’operazione di arresto è illecita.
I migranti vengono perquisiti sommariamente. Qualcuno riesce a fuggire protetto dal buio. Si sentono degli spari di M16. A chi domanda le ragioni dell’irruzione, i poliziotti danno motivazioni diverse: “Siamo stati allertati dalle telefonate di alcuni cittadini spaventati”, dice il primo agente. “È un’operazione che serve a proteggere gli stessi migranti – spiega sicuro un altro federale col volto nascosto dal passamontagna – perché da queste parti continuano a ripetersi assalti da parte di gruppi criminali”. Per questo è stato fermato il treno, aggiunge. “Abbiamo avuto notizie allarmanti. Ci hanno detto che alcuni gruppi criminali stavano rubando le rotaie, con il rischio di deragliamento dei treni”, dice un terzo agente. La cosa certa è che il numero di fermati, fatti sdraiare faccia a terra, è di cento persone. All’arrivo degli addetti alla migrazione, dopo più di un’ora, le persone trasferite all’ufficio migratorio sono soltanto 47. Dove sono finiti gli altri?
“Quando il treno si è fermato – racconta Victor ormai al sicuro fra le mura della Casa del migrante di Ixtepec – sono riuscito a saltare senza farmi male, ma i federali mi hanno catturato. Mi hanno fatto sdraiare faccia a terra, poi mi hanno perquisito e mi hanno chiesto quanti soldi avevo con me. Gli agenti mi hanno tolto dalle tasche tutto quello che avevo, 1.200 pesos. Poi mi hanno preso per un braccio, mi hanno tirato su e mi hanno detto di andarmene di corsa, che se mi rivedevano mi ammazzavano. Io sono corso via e sono riuscito a raggiungere nuovamente il treno fuori dal paese, salirci su in corsa e arrivare fino qui”.
La sua testimonianza coincide con quella di decine di altri migranti che sono riusciti a scappare da Chahuites e a raggiungere Ixtepec. “La polizia federale da queste parti si dedica a rapinare i treni carichi di migranti – spiega padre Alejandro Solalinde, il sacerdote che per anni è stato responsabile della casa del migrante di Ixtepec e ora, dopo molte minacce di morte, ha dovuto abbandonarla e dedicarsi alla difesa dei migranti a un livello più istituzionale – questa pratica purtroppo è molto comune, ma è difficile che si riesca a formulare delle denunce penali contro i federali, perché i migranti non si fidano, hanno paura. Spesso, infatti, la polizia sequestra interi gruppi di migranti e li vende agli Zetas, che a loro volta chiedono un riscatto consistente”.
Dei 47 fermati, i 42 centroamericani sono stati espulsi e deportati nei loro Paesi di origine dall’Instituto nacional de Migraciòn. Degli altri non si ha notizia. Così come non si ha notizia di decine di migliaia di migranti desaparecidos, portati via dalla polizia o direttamente dagli affiliati ai cartelli della droga. Di tanto in tanto vengono scoperte delle fosse comuni in varie zone del Messico, nelle quali si ritrovano decine di corpi senza nome.
Dalle quattrocento persone che occupavano i vagoni del treno il numero si è già abbassato considerevolmente, proprio come sosteneva Henry. Molti rimarranno in Messico a cercare fortuna, altri proveranno a prendere il prossimo treno. Altri ancora torneranno a casa, rinunciando al loro sogno. Da Ixtepec, prima tappa della ferrovia, si parte per Veracruz, Città del Messico e poi per la frontiera settentrionale. D’ora in poi il principale pericolo sono gli Zetas, organizzazioni criminali che tra le altre attività hanno quella di sequestrare gruppi di migranti per chiederne il riscatto alle famiglie. Chi non paga viene ucciso, oppure costretto a lavorare anni come “kapò” e vessare altri migranti. “Da queste parti si dice che i migranti sono come il maiale – conclude malinconicamente padre Solalinde – non si butta via niente. Tutto quello che si spreme dal migrante diventa oro, qui. E a quanto pare nessuno ha intenzione di chiudere la miniera”.
[Immagine: Migranti in Messico (gm)].