di Rino Genovese

Che cosa voglia dire essere un intellettuale è diventato oggi così problematico in confronto a ciò che poteva significare ieri, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, quando il significato del termine era ancora del tutto evidente a chi fosse inserito nel gruppo sociale detto intellighenzia (con un termine russo ricalcato sul francese e ritornato attraverso uno strano détour in Occidente), come pure al pubblico dei lettori di giornali e di libri identificabile in una ristretta élite, che una ripresa della vexata quaestio rischia di vedere scomparire il suo oggetto sotto gli occhi nel momento stesso in cui si accinge a parlarne. Uno scrittore, un artista, uno studioso facevano parte di un piccolo mondo obiettivamente attrezzato all’elaborazione e alla diffusione della cosiddetta alta cultura; e soggettivamente potevano sentirsi degli intellettuali in quanto erano riconosciuti come tali da un pubblico, e tra loro stessi in modo reciproco, in rapporto a un’impresa comunicativa di portata più ampia, che era poi quella della società in generale. Ciò poteva avvenire sia nel segno di una spinta in senso illuministico sia in quello di un richiamo alla tradizione in chiave antilluministica. Appare infatti come suo fatale marchio d’origine che il termine intellectuel sia divenuto di uso corrente in Francia durante l’affare Dreyfus, e che quindi si sia situato da subito nel vivo della polemica tra i valori dell’universalismo democratico e liberale e quelli del nascente nazionalismo antidemocratico e, nel caso specifico, anche antisemita. I contendenti dei due schieramenti si scontravano in nome di uno stesso insieme di valori, declinandoli però in modo opposto. Gli uni puntavano su quelle che agli altri sembravano semplici astrazioni – la verità, lo Stato di diritto, la democrazia –, e i secondi erano denunciati dai primi in quanto cultori delle radici tradizionali a scapito della verità e della giustizia. Sia per i dreyfusardi sia per gli antidreyfusardi, tuttavia, era assodato che la letteratura, il lavoro culturale, fossero altra cosa dalla pura costruzione di effetti estetici o, peggio ancora, un mezzo per cercare di far soldi e basta; che fossero, cioè, modi di assunzione di una responsabilità sociale.

Questo almeno è ciò che essi pensavano di se stessi, la maniera in cui concepivano enfaticamente la propria missione. Julien Benda, dreyfusardo e in seguito antifascista, riteneva che il “chierico”, cioè l’intellettuale, fosse il custode dell’umanesimo e della civiltà, e che solo in loro nome dovesse battersi, senza alcuna scelta di milizia politica in senso stretto, la quale, per il suo carattere di partito e quindi particolare, sarebbe stata un “tradimento” nei confronti di quei valori universali[1]. È però caratteristico che anche gli antidreyfusardi antisemiti si considerassero difensori dei valori in un altro modo. E gli sviluppi saranno notevoli. Per esempio, nel Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile nel 1925, ci si riferisce alla «costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni» per giustificare una presa di posizione di parte; nella risposta degli antifascisti scritta da Benedetto Croce si sosterrà – ma pur sempre con un richiamo alla tradizione – che «contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore»[2].

Se si guarda dall’esterno in maniera distaccata alle controversie del passato, senza considerare i contenuti e le implicazioni delle rispettive posizioni (che nel caso degli antidreyfusardi conducono ad Auschwitz passando per Vichy, e in quello di Gentile alla fine allo stesso luogo via Salò), che cosa si vede? La messa in movimento dei punti di vista, l’ininterrotto girare delle coppie vero/falso, giusto/ingiusto e così via: il girare cioè degli ordinatori concettuali, o meglio ancora, dei codici comunicativi della comunicazione quotidiana oltre che propriamente intellettuale. Il trascorrere del tempo distribuisce a ciascuno dei contendenti i torti e le ragioni: e nemmeno sempre, perché a mutare talvolta sono i termini stessi delle controversie che strada facendo si dissolvono, disperdendo nel nulla anche i torti e le ragioni: cosicché a restare è soltanto la forma scarnificata della disputa, il suo sangue rappreso. Benda scriveva: «Vorrei che esistesse come un affare Dreyfus in permanenza, che permettesse di riconoscere sempre quelli che sono della nostra razza morale e gli altri»[3]. E nella divisione manichea, perfino nell’uso della parola “razza”, dimostrava che la concezione della disputa in cui si sentiva inserito, e che avrebbe voluto perenne, corrispondeva pienamente a quella degli avversari, dei razzisti veri e propri.

Si dirà che era l’epoca delle forti passioni ideologiche, del nazionalismo e del socialismo prima, del fascismo e del comunismo poi, e che in quest’atmosfera va collocato il manicheismo, la tendenza alla scomunica reciproca dei partecipanti alla disputa. Ciò è vero al punto che perfino uno come Benda, che partiva da una concezione prepolitica della cultura e dei valori intellettuali, è trascinato nella mischia. Più vero ancora, però, è che era operante un presupposto sociologico, un’ideologia inconsapevole della specie intellettuale, se così vogliamo chiamarla, che determinava tacitamente la realtà in cui si formavano la disputa e la soggettività degli stessi contendenti. Se le ideologie sono insiemi di credenze che, nella mescolanza di passione e intelletto, designano che cosa sia reale e che cosa non lo sia, un’ideologia inconsapevole può essere definita come un apriori storico che plasma realmente le soggettività ancora prima che esse si dividano e si contrappongano idealmente. In altre parole, gli intellettuali formavano all’epoca un gruppo sociale piuttosto omogeneo seppure fluttuante, come lo definirà Alfred Weber citato da Karl Mannheim[4]: pur essendo ricchi o poveri, collegabili alla borghesia, alla piccola borghesia o anche al proletariato, pur collocandosi politicamente a destra o a sinistra, erano comunque figure sociali chiaramente riconoscibili: insegnanti di livello liceale e universitario, scienziati, autori di libri e di opere d’arte, giornalisti, ecclesiastici e così via. Costoro si sentivano ed erano gli ispiratori di una cultura che, diffondendo intorno a sé i propri raggi, li faceva essere, indipendentemente dalle scelte politiche, quegli organizzatori del consenso sociale di cui parlerà Gramsci nei Quaderni del carcere.

La sua, tuttavia, era una concezione ancora speranzosamente ottocentesca dei rapporti tra la cultura “alta” e la cultura “bassa”, tra le classi dirigenti e gli intellettuali, e tra questi e il popolo. Gramsci supponeva la possibilità di un’osmosi positiva tra la cultura dei dotti e quella popolare che si è rivelata un puro wishful thinking. La figura gramsciana dell’intellettuale organico mostrerà la corda, scindendosi in quelle di un’intellettualità disorganica, da una parte, e di un puro e semplice funzionariato, dall’altra. È un passaggio, questo, dall’Ottocento al Novecento, in cui si assiste al divorzio tra la cultura propriamente umanistica (cioè la letteratura, la storia, la filosofia, quelle che per un tratto prendono il nome di “scienze dello spirito”), e la cultura tecnico-scientifica. Perde così di evidenza la stessa idea di una formazione culturale (di una Bildung, per usare un’espressione centrale in Hegel) come unità decisiva di tutti i momenti del sapere nell’ottica di un umanesimo in senso lato. Un passaggio decisivo: non solo perché segna la nascita degli specialismi staccati dalla generalità delle conoscenze e dei rapporti tra di esse, ma perché spezza la tradizione dell’homme de lettres che tra Settecento e Ottocento aveva incarnato l’ideale illuministico. Sembra che il mondo occidentale moderno smetta di avere fiducia nell’avanzamento culturale, nell’educazione del genere umano, per dirla con Lessing, in quanto progresso morale e civile. Il manager, il tecnico del sapere economico e organizzativo, non l’intellettuale, sarà la figura chiave di questo periodo storico. È significativo che tutt’oggi il manager sia sulla cresta dell’onda, pur dopo il relativo “ammorbidimento” dei tratti della sua figura sociale nata con il duro modo di produzione fordista negli Stati Uniti e intrecciata, in Europa, addirittura con i totalitarismi. Nel frattempo, infatti, il modello della fabbrica sotto il comando di un uomo solo attorniato dal suo staff, ha smesso d’influenzare l’intera società; la sua importanza complessiva si è ridotta, e, seguendo la spinta delle trasformazioni produttive, quel modello ha cercato di far dimenticare la sua originaria parentela con la caserma. Il processo della razionalizzazione burocratico-amministrativa, di cui proprio il manager era la figura di spicco, ha perso terreno. Un altro processo, invece, affermatosi nel ventesimo secolo e giunto a maturazione alle soglie del ventunesimo, è diventato centrale: quello del consumo e della cultura di massa, o, nella terminologia di Horkheimer e Adorno, dell’industria culturale.

Rispetto al puro concetto storiografico che registra l’avvento di una società delle masse, i cui inizi vengono fatti risalire alla Rivoluzione francese (ma entro cui le élite non si dissolvono, quanto piuttosto sono indotte a modificarsi e a camuffarsi come nella versione sovietica), quella di una cultura industrialmente prodotta è una nozione più sofisticata, di tipo teorico-critico, che mette l’accento su un fenomeno collegato allo sviluppo tecnico e alla crescente centralità dei mass media nell’impatto con le strutture di una modernità che non riesce a essere moderna o borghese fino in fondo[5], dando vita a forme miste di modernizzazione e tradizionalismo. Penetrando nel miscuglio storico, innervandolo di mille sottili modalità di potere, i prodotti dell’industria culturale – con le loro manifestazioni “estetiche” arrivate oggi fino alla estetizzazione completa della vita quotidiana – precipitano l’intera società in una caotica ibridazione tra la cultura arcaico-tradizionale e quella moderna; mentre la storia stessa, bloccata da una sorta di crampo del progresso, si trova a mescolare alla rinfusa passato e presente, ovvero “gira in giro” (per usare un’espressione di Garcia Márquez), perdendo qualsiasi propulsione illuministica. L’industria culturale era presentata da Adorno come un contesto di accecamento, un antilluminismo obiettivo. Questa critica, per quanto rifiutasse d’inserirsi nell’ambito dell’umanesimo –  considerato, dopo le tragedie del Novecento, una semplice menzogna – era ancora una critica intellettuale di tipo “classico”. A essa si può aggiungere che il caos di passato e presente, che l’industria culturale non crea ma moltiplica e mette lucrosamente a frutto, sottrae le basi stesse di qualsiasi purezza d’intenti, di qualsiasi richiamo ai valori, tradizionali o moderni che siano. Mezzo secolo dopo, non pare esserci più spazio per la dissidenza: la disputa è interrotta. Gli intellettuali – sia quelli di stampo conservatore, sia quelli che avrebbero dovuto riprendere l’ispirazione dei loro progenitori progressisti, magari con maggiore consapevolezza teorico-critica – sembrano essersi accomodati. Le loro controversie, quando pure ci sono, appaiono sterili battibecchi messi su artificiosamente per promuovere se stessi sul mercato editoriale; non sono più drammatiche prese di posizione ideale, questioni di vita o di morte, e conseguentemente neppure funzioni di un movimento dei punti di vista.



[1] Cfr. J. Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it., Einaudi, Torino, 1986.

[2] Cito il testo dei due manifesti da Internet.

[3] J. Benda, Un régulier dans le siècle, in La jeunesse d’un clerc, Paris, Gallimard, 1968, p. 143.

[4] K. Mannheim, Ideologia e utopia, trad. it., Bologna, il Mulino, 1957, p. 155.

[5] Cfr., in proposito, A. J. Mayer, Il potere dell’ancien régime fino alla prima guerra mondiale, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1983. (Ringrazio Barbara Carnevali per avere attirato la mia attenzione su questo testo).

3 thoughts on “Il destino dell’intellettuale/1

  1. Uno dei problemi principali del dibattito sul ruolo dell’intellettuale oggi è il dibattito stesso, inflazionato e spesso ricoperto da una patina di nostalgia dannosa in primis a chi il dibattito lo prende a cuore davvero. Il tema non può non interessare, perché ci riguarda, e ci riguarda non in quanto addetti ai lavori, ma in quanto esseri pensanti che subiscono (raramente partecipano) le impennate e i mutamenti storico-antropologici dei quali la modernità si è fatto dispositivo e acceleratore. Trattare un tema presente con la nostalgia del bel tempo andato, cioè dichiarare che il passato ci sta davanti non fa che produrre sterili lamentele seriali come i prodotti di una catena di montaggio.

    Un punto di partenza potrebbe essere la presa di coscienza dell’innegabile paradosso presente nel ruolo stesso dell’intellettuale. L’intellettuale parla in nome di valori generali, però è espressione di un ceto caratterizzato e specializzato. Questa consapevolezza, per chi aspira a parlare o per chi ancora parla in nome di valori universali, non deve mai venire meno; le parole di Franco Fortini, in questo senso, sono un monito: «tra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome».

    Questo paradosso è evidente soprattutto in Italia, dove la funzione intellettuale è stata sin dalla nascita strettamente legata al ritardo culturale e politico della nazione italiana rispetto alle nazioni europee (penso al ruolo di personalità come De Sanctis, Salvemini, Gentile nell’istituzione scolastica, per esempio). L’intellettuale doveva prima di tutto assumersi la responsabilità di edificare culturalmente e poi politicamente le coscienze; così è stato soprattutto durante il secolo Novecento, che si è inventato due guerre perché si continuasse a edificare.

    Nel corso degli anni Ottanta, con la vittoria del «pensiero debole», la «fine delle ideologie», «la fine della storia e dei grandi conflitti», insomma la fine della fine, l’intellettuale si è visto privato della propria funzione, disconosciuto e non più legittimato a parlare. A partire da questo momento la frattura tra rappresentanza sociale e appartenenza di classe si è fatta ancora più profonda nel paradosso intellettuale. Talmente profonda da considerare vergognoso e quindi colpevole l’atto di «prendere la parola» e presuntuosa la sola pretesa di farlo. Questo paradosso non ha necessariamente segno meno. La distanza che esso esprime, per quanto insanabile, salvaguarda dalla tentazione di una falsa universalità (Adorno, appunto) che tende a stabilire un comune denominatore che unisce tutte le identità particolari rendendole, di fatto, irrilevanti. L’assioma dell’uguaglianza va ben al di là della questione della segregazione razziale o dei diritti delle donne e degli omosessuali. Esso è stato assunto negativamente e piegato alle esigenze del sistema economico dominate ‒ quello della permissività liberale più sfrenata ‒ favorendo nei soggetti una doppia illusione: da un lato la rivendicazione di libertà e uguaglianza, e dall’altro la sua qualificazione come livellamento sociale, che di fatto non si è realizzato. Da qui nasce la vittima moderna (non l’idea di intellettuale-vittima, tanto cara ai nostalgici), vittima in prima istanza di processi economici spregiudicati e disumanizzanti che si sottraggono al controllo degli individui poiché li trascendono: così la rappresentazione umanitaria è mistificata e diventa un feticcio.

    Ma qualcosa sta cambiando, e parlare di rappresentazione dell’intellettuale in senso classico (e per classico intendo il modello dominante e di riferimento degli intellettuali degli anni ‘70), non è più possibile, perché la trasformazione è in atto: dopo l’11 settembre, con il crollo delle Twin Towers e il successivo collasso finanziario del 2008 sono crollati sia il modello di una politica liberal-democratica che il modello di una economica del mercato capitalista. Le strutture e le ideologie che hanno sorretto fino a dieci anni fa la società occidentale e quindi il modo in cui essa si è rappresentata, oggi risultano fallimentari. E così l’idea di un intellettuale come l’abbiamo conosciuta fino a questo momento. Ma qualcosa di nuovo si sta muovendo. A partire dalla consapevolezza che l’ibridismo e la mescolanza sono la modernità, sono il presente che viviamo, cioè un presente fluido, ritengo non esaurito il ruolo intellettuale tout court – semmai sono esaurite le forme tradizionali della cultura e dell’azione intellettuale ed è proprio da qui che si deve ripartire: creando nuovi spazi di dibattito, nuove identità, che consapevoli e coscienti della tradizione, guardano avanti.

  2. Edward Said in una delle sue “Reith Lecture” pubblicate in Italia con il titolo “Dire la verità. Gli intellettuali e il potere”, ha provato a tradurre nel contesto attuale il discorso sugli intellettuali. Come fa Said a difendere ancora l’intellettuale universale e a elevare una sorta di inno allo spirito critico nell’epoca della sua decadenza, nel nome di Gramsci, Adorno e Wright Mills? Il capitolo centrale di questo testo è dedicato a “Gli intellettuali in esilio: espatriati e marginali”. Ma l’esilio in Said è anche una condizione allegorica, che caratterizza l’intellettuale odierno in quanto figura ai margini. In questa luce, infatti, nella sua prefazione a “Mimesis”, scritta poco prima di morire, egli interpreta anche l’espatrio a Istambul di Auerbach.
    La marginalità dell’esule diventa così la sua forza. “L’intellettuale che si riconosce nella condizione di esule non obbedisce alla logica delle convinzioni date, ma è pronto alle avventure del coraggio: a rappresentare il cambiamento, a essere sempre in cammino e non acquietarsi mai”. Esule non è solo lo scrittore migrante, è anche lo scrittore o il critico italiano in condizione di precarietà e di marginalità. Da questa frontiera potrà paradossalmente nuova forza critica.

  3. Ringrazio Panichi e Zinato per i loro commenti, tutti e due molto appropriati. Avverto la loro insofferenza per un discorso intorno agli intellettuali che appare datato. Il mio sforzo – in più “puntate”, se la redazione di questo sito sarà d’accordo – vorrebbe proprio mostrare, nel prosieguo, come a partire da quello che ci siamo lasciati alle spalle sia possibile una posizione nuova intorno alla questione degli intellettuali. Ho scelto di cominciare con una specie di flashback storico. Ma solo una barra e il numero 1 accanto al titolo segnalano che si tratta di un lavoro “in fieri”. Ciò può avere generato qualche equivoco. Come spero di mostrare prossimamente, io non ritengo affatto che la funzione sociale e critica dell’intellettuale sia qualcosa che appartiene al passato, e che non ci sia più nulla da fare per rilanciarla. In questo pezzo, però, intendevo far vedere come andavano le cose quando tutto era, per così dire, ovvio e pacifico, perché il gruppo sociale degli intellettuali era circoscritto e riconoscibile.

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