[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].
Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». La terza a rispondere è Clotilde Bertoni.
1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?
Direi che la domanda richiede una distinzione. È stata soprattutto la critica “accademica” a essere segnata da scelte di campo, legate a indirizzi di metodo più o meno vincolanti: scuola storica, idealismo crociano, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo, estetica della ricezione, Cultural Studies, tematologia e via dicendo. Un’ubriacatura teorica seguita da una crisi esacerbata da problemi pratici (il rattrappimento dell’università, il disinteresse dell’editoria per la saggistica letteraria), a cui si è reagito nei casi peggiori con la fossilizzazione in voghe importate in ritardo, nei migliori attraverso combinazioni ragionate di orientamenti diversi (applicazioni duttili dell’approccio psicoanalitico, inquadrature di generi o temi attente al complesso rapporto tra l’immaginario e il contesto storico-sociale).
Invece la critica militante, nella forma moderna iniziata a fine Settecento (già tra XVI e XVIII secolo fiorisce un dibattito fittissimo di intuizioni, sebbene gravato da una visione ancora normativa della creazione artistica), può essere condizionata da orientamenti imperiosi – come da noi la lunga egemonia crociana – ma di solito passa per scelte di altro tipo: prese di posizione ideologico-politiche, reazioni di appoggio o dissenso alle grandi sterzate culturali (svolta romantica, avvento del naturalismo, assalto delle avanguardie eccetera). Inoltre, l’approccio al presente implica sviste e ripensamenti, sollecita scelte più fluide e reversibili, promuove schieramenti che possono sfrangiarsi in infinite divergenze (i supplementi culturali italiani varati negli anni Sessanta, che in contrasto con le vecchie terze pagine lanciarono una critica aggiornata e anticonformista, espressero sul Gruppo 63 o sui primi romanzi postmoderni pareri che andavano dal consenso entusiasta alla drastica refrattarietà).
Se poi è assodata da un pezzo la perdita di autorevolezza dei critici di ogni genere, anche oggi le scelte di campo, rigide o negoziabili, sono parte ineliminabile dei loro pronunciamenti; ma probabilmente le uniche imprescindibili restano quelle preliminari, legate al senso complessivo delle proprie responsabilità (al di là della consistenza variabile di cui le circostanze le investono).
Innanzitutto l’indipendenza, a più livelli: indipendenza dall’industria culturale, dunque rifiuto di adeguare i giudizi alle convenienze, di compilare articoli su commissione, di scrivere per o su giornali di cui non si condividono le posizioni (niente di così scontato: per limitarsi a un esempio prossimo, la querelle divampata a inizio 2010 intorno alla collaborazione di Paolo Nori a «Libero» ha mobilitato interventi diversissimi, alcuni dei quali rivendicavano la libertà di scrivere ovunque e di attenersi a una coerenza tutta interiore – di quelle un po’ troppo vaghe e un po’ tanto comode); e inoltre indipendenza dai giudizi più accreditati, dalle parole d’ordine elitarie, da quel gusto del trend condiviso che Arbasino definiva l’«hula-hoop intellettuale»; tanto la mancanza di spregiudicatezza professionale quanto la salvaguardia della spregiudicatezza del pensiero sono baluardi indispensabili contro l’insidia paradossalmente più in agguato nel lavoro critico, l’accettazione acritica del vento che tira, sia poi il soffio travolgente delle predilezioni di massa, o le brezze che spirano nelle cerchie esclusive. Baluardi da sostenere anche con l’attenzione al linguaggio: se si è ormai affievolita la tendenza, tipica di certa critica novecentesca, a trincerarsi in gerghi criptici e astrusi, ancora serpeggia la propensione alle divagazioni generiche e ai virtuosismi verbali; eredità dell’elzevirismo d’antan o di ancor più polverosi sogni estetizzanti (il critico come artifex additus artifici) mai liquidata del tutto, forse perché torna sempre utile per camuffare sia i ragionamenti astratti troppo deboli sia le scelte concrete troppo opportuniste.
Può poi essere legittima, anzi proficua (se si traduce in ridiscussione del gusto corrente, in attacco a prevenzioni ostinate) la chiarezza di alcune linee d’insieme, ad esempio la concentrazione sul trascurato settore della poesia, l’interesse per le scritture alternative alla forma romanzesca o al contrario per i revival della narrativa d’intreccio, la curiosità, contro i culti passatisti del primato della letteratura, per le sue contaminazioni con altri campi; purché però questa chiarezza non si cristallizzi in pregiudizio aprioristico, e accetti la lotta di Giacobbe descritta da Debenedetti, il faticoso, e vitalissimo, corpo a corpo con i testi, che può confermare o sovvertire le persuasioni d’insieme, che vale comunque a rimetterle in moto.
2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
Anche stavolta mi sembra opportuno distinguere tra critica “accademica” e critica militante. È stata soprattutto la prima a ruotare intorno a maestri e scuole, cementate da indirizzi definiti; la seconda, oltre a essere contrassegnata, più che da scuole, da schieramenti spesso mobili e metamorfici, ha fatto riferimento non tanto a maestri quanto a numi solo ideali o a nomi di punta inclini più a sottolineare la propria eccezionalità che a fare proseliti, quali i cosiddetti “principi dei critici” – da Jules Janin a Emilio Cecchi – o gli enfants terribles come l’Arbasino degli anni Sessanta.
Le scuole comunque hanno evidentemente implicazioni sia positive che negative. Favoriscono grandi sinergie e brillanti iniziative, costituiscono uno stimolo sia in quanto piattaforma di base sia in quanto ingombro di cui sbarazzarsi; però incoraggiano atteggiamenti protezionistici, creano omogeneità eccessive o dissonanze frastornanti, nei casi peggiori si trasformano in corporazioni che dietro l’ostentazione di obiettivi comuni nascondono spregiudicate manovre accademiche. Al di là delle loro ambivalenze, sono in declino per motivi difformi: da un lato la crisi dei metodi e il disfacimento dei classici modelli pedagogici, dall’altro problemi materiali imperversanti, da una sequenza di riforme universitarie male impostate e peggio messe in pratica, a tagli di fondi che penalizzano le strutture, indeboliscono l’offerta formativa e frenano il ricambio generazionale.
In compenso, tale declino inizia a essere controbilanciato da forme di aggregazione più itineranti e libere, trasversali ad atenei differenti: grazie alla maggiore facilità degli spostamenti, che agevola i contatti ravvicinati, alle risorse dell’informatica, che favoriscono quelli a distanza, e all’apertura interdisciplinare e antigerarchica di alcune associazioni di ricerca, si sono moltiplicati convegni, seminari, scuole estive, che permettono incontri tra studenti, dottorandi e professori di competenze e provenienze diverse, trasformandosi a volte in fucine di idee e avvii di collaborazioni durature; una novità che autorizza l’ottimismo, sebbene gravata di infinite incognite dai problemi materiali di cui sopra.
Quanto ai maestri, scontato dire che segnano ogni maturazione intellettuale; posto però che è opportuno non trasformarli davvero in padri (deleteri i grovigli delle dipendenze e insofferenze edipiche, delle identificazioni eccessive e delle altrettanto eccessive rivolte), e che si può essere maestri nelle forme e situazioni più varie. Nel mio percorso piuttosto nomade, le figure di riferimento sono state numerose, troppe per menzionarle tutte: tra quelle decisive sia maestri come Giancarlo Mazzacurati e Mario Lavagetto (peraltro entrambi non tali nel senso più tradizionale, mai chiusi nei limiti di una cerchia o di un metodo rigido, sempre aperti a confronti profondi anche con gli interlocutori più giovani), sia un compagno di lavoro più grande di me solo di pochi anni, Massimo Fusillo (specie per la sua capacità di trasmettere tanto il coraggio di compiere scelte nette quanto quello di rimetterle sempre in discussione); l’itinerario di formazione può svolgersi all’interno come al di fuori delle gerarchie e dei contesti classici.
L’“angoscia dell’influenza”, poi, caratterizza ogni avvicendamento generazionale, e rimane un nodo con cui fare i conti (mentre la rimozione non mi sembra il suo opposto ma un modo erroneo di esorcizzarla): nodo che è occasione di crescita e slancio, se sbrogliato da una maturazione autentica (le confutazioni frettolose delle idee dei padri possono essere penose quanto i loro goffi scimmiottamenti, e magari risolversi in ripetizioni inconsapevoli delle idee dei bisnonni). Va aggiunto che l’avvicendamento attuale è particolarmente complesso, perché tra le generazioni che ci hanno formato e le nostre sono intercorsi epocali mutamenti, legati soprattutto al dissolvimento dei grandi orizzonti ideologico-politici, che ancora sorreggevano e alimentavano il lavoro dei padri, mentre il lavoro nostro deve misurarsi con la loro assenza o con gli infiniti dubbi su come ricostituirli.
3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?
Per molti versi, l’approccio al passato e quello al presente possono essere ispirati alle stesse linee di base, dall’intreccio di metodi differenti allo sforzo di documentazione (negli studi ponderosi come nelle note fugaci la filologia e l’erudizione restano un prezioso scudo contro rimasticature, arbitri, intuizioni fallaci e deliri ermeneutici). Tra l’altro, non credo che la ricerca “scientifica” comporti per forza l’adeguamento alla tradizione: certo, lo studio del passato non deve scompigliare ogni pantheon, né approdare necessariamente a canoni alternativi in stile Bloom, volutamente provocatori e idiosincratici, ma può sovvertire le gerarchie, riscoprire i minori, situare in nuova luce autori ossessivamente consacrati; se poi da questa sfida nascono anche libri dedicati a questioncelle irrisorie o a opere ben degne dell’oblio che le ha sepolte, persino questi possono rivelarsi meno inutili di alcuni tra quelli sfornati a getto continuo sui soliti grandi, che non di rado riciclano pigramente o addirittura presentano come novità folgoranti tesi elaborate venti, cinquanta o cento anni fa.
Il presente, poi, pone ovviamente maggiori insidie, in quanto bersaglio troppo prossimo e mobile. A dispetto di tutti i proclami di crisi del libro, l’avvicendamento delle novità è continuo e destreggiarsi nel loro guazzabuglio è arduo: come si è spesso constatato, se la critica “scientifica” sceglie liberamente i propri oggetti, quella militante si ritrova piuttosto scelta, da oggetti che reclamano imperiosamente attenzione; l’affannosa rincorsa alle novità è complicata da montature pubblicitarie e mode fuorvianti (basti pensare alla categoria della non fiction, oggi invocata a ogni piè sospinto non solo per le vere contaminazioni tra il piano documentaristico e quello immaginario, ma anche per autobiografie o romanzi storici che si riallacciano a tradizioni collaudatissime); a complicare le cose ulteriormente intervengono le ingiunzioni dell’industria culturale, che l’indipendenza su cui mi sono inizialmente soffermata può respingere ma non eliminare.
Sarebbe bene però rammentare che la trasformazione della cultura in merce, e le sue principali caratteristiche – il cinismo dell’editoria, le recensioni prezzolate, i successi di scandalo – non sono novità dei giorni nostri: il loro avvio segna già gli albori della società di massa (Balzac ne fornisce descrizioni memorabili), e la loro vertiginosa espansione novecentesca è constatata già parecchi decenni or sono; siamo negli anni Sessanta quando Debord dichiara la cultura «nuova merce vedette della società spettacolare», quando Manganelli definisce la recensione «rito sociale», quando Sanguineti osserva che «la critica militante si è ridotta oggi, nella quasi totalità dei casi, a fare da guida al consumo», quando si inizia a denunziare le manovre che inquinano i premi letterari; sulle differenze tra l’ieri e l’oggi val la pena di riflettere ancora.
Innanzitutto, va certo riscontrato l’aggravamento delle dinamiche suddette (ben mostrato dal film Senza scrittori di Luca Archibugi e Andrea Cortellessa): case editrici di qualità alta hanno svenduto il loro marchio, la lottizzazione dei premi è ormai pacifico dato di cronaca, molti scrittori raggiungono il successo grazie a punti di forza rigorosamente estranei al talento (fama ottenuta in altri campi o atteggiamento maudit, intrigante giovinezza o canizie veneranda), sembra che nessuno, dal politico al medico al concorrente di reality, possa vivere felice se non ha pubblicato almeno un romanzo. E il divario tra le opere inondate di plausi, e quelle emarginate in sommessi successi di stima cresce a dismisura: da un lato, l’editoria, la distribuzione e il marketing decidono quali libri mettere in risalto, la fiera dei festival al loro servizio li riveste di una patina di valore, e classifiche basate esclusivamente sull’impatto commerciale forniscono loro un altro attestato posticcio (solo un’iniziativa recente, le Classifiche di qualità Dedalus, ha messo in risalto la possibilità di un criterio diverso); dall’altro, la critica militante ha sempre minor spazio, perché varie testate hanno appiattito le recensioni in trafiletti superficiali che rasentano la scheda pubblicitaria.
Direi però che un altro problema, il principale forse, è costituito dall’affievolimento della vigilanza e della passione critica, da forme di chiusura intellettuale prossime all’autismo, dalla diminuzione dell’interesse al lavoro altrui, e di qualsiasi tipo di coraggio; non solo le stagioni d’oro delle contestazioni e dell’impegno, ma anche epoche a cui guardiamo con disprezzo erano caratterizzate da dispute sbrigliate e attacchi a eminenze di ogni sorta, che oggi non si immaginano nemmeno: situazioni all’ordine del giorno nella vituperata Italia giolittiana – quel polemista indipendente e scatenato che era il giovane Croce denunciava l’appartenenza alla massoneria e l’abitudine ai favoritismi di alcuni ministri dell’Istruzione, con la stessa caustica franchezza con cui la sua crescente autorità sarebbe stata di lì a poco dissacrata da Papini – adesso farebbero scalpore.
Per smuovere la stagnazione sarebbe opportuno evitare non solo riguardi e conformismi, ma anche schizzinosità eccessive: concordo con quanti, riesaminando la funzione del critico, hanno dichiarato le logiche del mercato non monolite da aggirare, ma rovello con cui misurarsi. Da un lato, andrebbe rilanciata la pratica, spesso rimpianta ma da un bel po’ languente, della stroncatura, che servirebbe a smontare le patenti di qualità fasulle e a osteggiare più concretamente il potere dell’establishment (posto che gli estremi patologici sottopongono a durissima prova la disponibilità più aperta: quando i libri dernier cri sono romanzi abborracciati dai ghostwriter delle star, memorie in cui personaggi noti sciorinano i loro traumi infantili, o elenchi di ricette peraltro assai lontane dall’Artusi, metterci le mani è impossibile perché sono già cadute le braccia); e d’altro lato, non andrebbero ostracizzati subito gli autori ritenuti “di genere”, o gratificati dal successo di vendite, ogni apprezzamento sui quali suscita invece di solito biasimo o fraintendimenti (parecchi anni fa scrissi un breve saggio sul ricorso al poliziesco di alcuni romanzi contemporanei, in cui sottolineavo lo spessore dei primi Camilleri: la conseguenza più buffa non è stata sentirmelo periodicamente rinfacciare, ma venire altrettanto periodicamente interpellata come specialista del poliziesco, quando sia prima sia dopo mi sono sempre occupata di tutt’altro, e di polizieschi – a parte appunto quelli di Camilleri, che poi non sono nemmeno tutti tali – ne ho letti pochissimi).
Stringere una relazione viva con espressioni e disfunzioni dell’attualità culturale è tanto più importante anche perché ha sempre una valenza politica, visto che, come è stato già ampiamente sottolineato, interrogarsi su un testo significa interrogarsi sul tempo che lo ha prodotto e su quello che lo recepisce. La riflessione sulle nuove opere, o sul senso delle riedizioni e riscoperte, può svilupparsi in ragionamento sull’orizzonte d’attesa, su fenomeni di costume, sul rapporto tra il discorso artistico e quello sociale: per quanto mi riguarda, sta soprattutto in questo l’interesse di affiancare alla ricerca sul passato lo sguardo sul presente. Beninteso, la critica letteraria resta lontana dal giornalismo d’assalto, e le tocca, magari pour cause, di subirne le frecciate (nel 1970, Bocca, intervenuto in una discussione sul romanzo tra Citati e Cassola, e accusato da quest’ultimo di ignoranza e conformismo, replicò che certo, non aveva mai «trovato il coraggio per cantarle chiare, sul Corriere della Sera, a un Tolstoj e magari a un Laclos», ma era solo riuscito «a scrivere qualcosa in difesa dei Pinelli, dei diritti civili, dei sindacati»); tuttavia, se non può incidere vigorosamente sull’attualità, può aiutare e sollecitare l’approfondimento delle sue dinamiche: soprattutto se, anziché concepire la letteratura come un’incontaminata roccaforte in cui ripararsi dal disordine della realtà, la considera in relazione ai dubbi e ai crucci che questo disordine provoca.
4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?
La mia dimestichezza con la rete (migliorata solo ultimamente, grazie al coinvolgimento nel sito-blog «Le parole e le cose», e nella direzione di una rivista on line di comparatistica) resta ancora parziale, ma comunque il suo contributo al lavoro intellettuale mi sembra palese quanto i suoi rovesci negativi. Permette di guadagnare tempo e crea assuefazioni tali da farne perdere quasi altrettanto; offre una profusione di dati utilissima, ma ancora insufficiente e spesso inattendibile, eppure ormai elevata da molti a unico strumento di ricerca, con risultati di inquietante pressappochismo; garantendo al mercato il contatto con fasce di ricezione disparate, gli permette di sondare le attese quanto di indirizzarle e manipolarle, e funziona anche da esca di trovate pubblicitarie dal fiato corto (più volte l’editoria ha reclamizzato come proposte dirompenti opere nate on line che, al di là della genesi, di nuovo non hanno niente, e magari ricalcano soluzioni ultrarisapute).
Se poi parlare di dominio assoluto della rete nel dibattito critico mi sembra al momento eccessivo, dal mezzo stanno certo affiorando novità consistenti. Intanto, le riviste on line, in grado di assemblare collaboratori di provenienza diversa e di raggiungere un pubblico eterogeneo, dunque di rinverdire la tradizione sfiorita delle riviste, dando ulteriore risonanza a quelle cartacee che ancora mantengono un profilo altissimo, e compensando la decadenza di quelle tenute in piedi solo da calcoli editoriali ristretti e circuiti universitari asfittici. Inoltre e soprattutto, il fenomeno più innovativo e ambivalente, i blog, che da un lato stanno riaprendo la voglia di confronto e discussione, dall’altro minacciano continuamente di sabotarla con frequentissime degenerazioni.
Il problema non è tanto lo slittamento in risse scomposte dei conflitti che li animano, slittamento certo estremizzato dalla virtualità dell’interazione e dall’appiglio dei nickname, ma che in fondo rientra nelle migliori tradizioni. Nell’antica Roma le rivalità letterarie si venavano di malanimo ringhioso, le dispute dei philosophes arrivavano alla ripicca meschina, le rivendicazioni artistiche e ideologiche otto-novecentesche avvenivano a suon di duelli, pugni e insulti; gli esempi si potrebbero moltiplicare: la compostezza e il bon ton hanno in fondo latitato nelle polemiche di tutti i tempi (come gli immancabili laudatores dei tempi che furono dimenticano facilmente), forse perché non sono doti abbastanza presenti in questo mondo, forse perché l’inclinazione a giudicare gli sdegni concettuali espressione obliqua di antipatie o di mire subdole alligna curiosamente proprio tra quelli che sul lavoro concettuale costruiscono tutta la propria vita (Simone de Beauvoir diceva che è strano osservare quanti intellettuali si rifiutano di credere alle passioni intellettuali). Il punto, piuttosto, è che i diverbi del web rischiano sovente di perdere ogni ragion d’essere, perché gli interventi a ripetizione dei frequentatori compulsivi (che da un lato si attirano a vicenda e dall’altro scoraggiano i meno forsennati) li trasformano in curiosi psicodrammi traboccanti di pettegolezzi e recriminazioni, convertendo così un campo potenzialmente apertissimo in un’altra opprimente cittadella. Disfunzioni comunque non tali da sottrarre a questa novità la sua energia, specie se adeguatamente sorvegliate: i blog che arginano gli eccessi beceri, e puntano su una gamma vasta di argomenti e collaboratori, stanno rivelando un potere di rivitalizzazione delle idee e degli scambi che va decisamente oltre le derive occasionali.
5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
La generazione dei trenta-quarantenni (come del resto parecchie altre) si trova indubbiamente stretta in un’emergenza inaudita, creata dalla crisi dell’economia, dal disfacimento delle vecchie strutture politiche, da governi che mascherano sotto le formule del ricambio e della flessibilità forme clamorose di sfruttamento e precariato. Ma se ci limitiamo all’ambito intellettuale, mi sembra che, per quanto riguarda le sicurezze materiali, la situazione dei trenta-quarantenni non sia troppo peggiore di quella delle generazioni immediatamente precedenti, e che sia poi decisamente migliore per quanto riguarda le possibilità di esprimersi.
I cinquanta-sessantenni di adesso – beninteso con numerose eccezioni – sono stati penalizzati sommamente, nella scuola dalla scarsità dei concorsi e dalle protrazioni indefinite delle supplenze, nell’università da politiche baronali e dal decreto del 1980 che congestionò gli spazi, garantendo la stabilità anche a ricercatori improduttivi e immeritevoli, e sbarrando l’accesso a parecchi altri; inoltre, la loro partecipazione alla sfera pubblica è stata sovente ridottissima, le loro potenzialità non abbastanza valorizzate. Invece molti dei trenta-quarantenni attuali, grazie a ragioni disparate (dall’esigenza di svecchiamento che si è fatta strada nell’editoria e nel giornalismo, alla volontà sanamente rabbiosa di riprendersi un futuro troppo vago), hanno guadagnato un peso che, almeno dalla fine degli anni Sessanta, non era mai più toccato a loro coetanei; alcuni hanno persino raggiunto posizioni di rilievo nelle principali testate e case editrici, a dimostrazione che l’industria culturale può essere così tentacolare da veicolare pure le voci che la contestano.
Questo maggior risalto nella scena pubblica ha generato nuove forme di aggregazione, in particolare il movimento TQ, di cui condivido sia le principali proposte su università, biblioteche, editoria e beni culturali, sia la volontà di impegno collettivo, mentre mi lascia perplessa la sua mancanza di una vera connotazione politica. Esprimo la riserva con imbarazzo e rispetto, perché ammiro molto la generosa dedizione che persone già occupatissime su altri fronti gli riservano; ma di fatto il movimento mi sembra nella stessa situazione di vari nuovi soggetti che stanno venendo alla ribalta, che esprimono una legittima urgenza di partecipazione, e una sacrosanta esasperazione verso partiti ridotti a gusci vuoti, ma che non sono ancora riusciti a proporre un’alternativa alla democrazia rappresentativa classica, e che, se non arrivano a precisare meglio i propri obiettivi, rischiano di finire dispersi o strumentalizzati.
Posto poi che la fascia generazionale in questione racchiude età e situazioni differenti, in quelli come me più grandi, e che hanno avuto la fortuna di una carriera relativamente rapida, è vivissima la preoccupazione per quanti sono costretti al precariato o a lavori loro non congeniali, mentre le capacità di insegnamento e ricerca che dimostrano renderebbero l’università la loro sede naturale. Una preoccupazione intrisa di disagio, perché intralciata da ostacoli massicci: la carenza di concorsi, il diradamento dei fondi di ricerca (che frustra anche i tentativi di coinvolgere precari di talento in convegni e seminari), e ogni tanto, aggiungerei, l’ostilità categorica riservata da alcune persone all’accademia. Ostilità che può avere molte ragioni d’essere, ma che perde ogni forza costruttiva se si spinge ad atteggiamenti pregiudiziali di diffidenza o sufficienza, intanto ridicoli (c’è chi dà tranquillamente per scontato che tutti gli incontri universitari siano copertura di trame losche o vetrina di esibizioni carrieristiche, quasi non ne esistessero tanti animati da esclusive e limpidissime intenzioni di lavoro), e inoltre nocivi, perché la chiave per reagire all’impasse in cui ci dibattiamo può essere solo il dinamismo delle proteste mirate, non la staticità dell’indiscriminata lagnanza.
A questa impasse contribuisce una questione che le domande non sollevano, quella di genere. Sebbene nell’ultimo cinquantennio, tra infiniti inceppamenti e arretramenti, la situazione delle donne abbia registrato molti progressi, la loro presenza nel settore universitario e sulla scena culturale resta circoscritta (non credo che un raffronto dettagliato con gli anni Sessanta-Settanta evidenzierebbe un miglioramento così sensibile). Giocherà un insieme di concause; oggettivamente i talenti non mancano: sorge il dubbio che qualche residuo di maschilismo ancora sopravviva, e tra uomini di generazioni differenti. Non è un punto facile da affrontare se si è donne: ci si espone fatalmente all’accusa di frustrazione rancorosa (secondo la sempiterna tendenza a ritenere ogni convinzione schermo di umori e malumori viscerali), o a quella di veterofemminismo stantio (in fin dei conti invece più fondata: ma succede di cadere in atteggiamenti passatisti quando il presente somiglia al passato un po’ troppo). E non è un punto facile da affrontare in assoluto: tira in ballo sul piano pratico problemi relativi a tutta la vita associata, e su quello teorico discussioni e confusioni infinite (le rivendicazioni sulla specificità femminile messe in campo dai Gender Studies spesso non fanno che ricalcare i più triti stereotipi sull’eterno femminino). Comprensibile dunque che il questionario lo tralasci; ma in effetti ne costituisce una dimostrazione ulteriore. Tra le persone interpellate gli uomini sono tredici, le donne due: direi che la sproporzione un po’ si avverte; è spiegata in parte da ragioni contingenti, perché alcune studiose e critiche di riconosciuto livello appartengono alla redazione di questa rivista, ma probabilmente è anche dovuta al fatto che altre studiose e critiche non hanno raggiunto la visibilità a cui avrebbero diritto. Alle domande esplicite se ne aggiunge una implicita, su cui prima o poi varrà la pena di tornare.
Nella sua intervista Clotilde Bertoni afferma giustamente che “andrebbe rilanciata la pratica, spesso rimpianta ma da un bel po’ languente, della stroncatura, che servirebbe a smontare le patenti di qualità fasulle e a osteggiare più concretamente il potere dell’establishment”. Condivido questo elogio della stroncatura, un genere di critica militante che, se ha il suo ascendente più pittoresco e gaglioffo in Giovanni Papini e, quindi, in una polemica spesso pregiudiziale e ad effetto, il cui esito politico era quasi sempre la conferma o la restaurazione dei ‘sani valori’ di un’Italia piccolo-borghese, nazionalista, tradizionalista, clericale, conservatrice e perfino reazionaria, conta anche, nel secondo dopoguerra, precedenti più vicini a noi, e non solo in senso cronologico, come la togliattiana “battaglia delle idee” e i corsivi di Roderigo di Castiglia e, fra anni ’60 e anni ’70, la mitica rubrica dei “Libri da non leggere”, curata sui “Quaderni Piacentini” da Piergiorgio Bellocchio, poi ripresa da questo valente saggista nelle caustiche note della rivista “Diario”, all’altezza degli anni ’80, con la memorabile stroncatura del “Nome della rosa” di Umberto Eco. Fermo restando che una corretta concezione e una fruttuosa pratica di questo genere letterario – di cui oggi, nel clima di soffocante conformismo e di dominio onnipervasivo della “cultura Nato” in cui siamo immersi, si avverte un impellente bisogno -, presuppongono l’esistenza e l’operatività di un’organizzazione politico-culturale antagonista, legata ad un progetto di radicale trasformazione dell’esistente, in questa rapida ricapitolazione di alcuni momenti topici del genere della ‘stroncatura’ ritengo doveroso ricordare il pamphlet che Alessandro Dal Lago ha dedicato agli “Eroi di carta”, assolvendo con la stroncatura di “Gomorra” un elementare dovere di onestà intellettuale. Nell’ambito della cultura di estrazione marxista, solo Alberto Asor Rosa aveva avuto il coraggio di espungere Saviano dalla sua “Storia europea della letteratura italiana”, ma con “Eroi di carta” Dal Lago sviluppa una demistificazione critica impietosa di questo ‘bestseller’, entrando nel merito, decostruendo e ricostruendo quel testo, individuando le forzature stilistiche e le incongruenze logiche, denunciando la confusione tra l’io narrante, l’io autoriale e l’io reale e svelando, attraverso un’analisi sia formale che contenutistica, la natura culturalmente di destra dell’opera di Saviano. Ancora una volta, anche e soprattutto a partire da questa specifica angolazione della critica militante, che trova la sua espressione elettivamente polemica nel genere letterario della stroncatura, si riconfermano il significato euristico e il valore tutt’altro che caduco di quella concezione (e della pratica che ne discende) come capacità di spiegare e di distinguere, nei testi e nelle operazioni, ciò che è progressivo e ciò che è regressivo, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e – ‘incredibile dictu’ (per l’esangue cultura post-moderna) – ciò che è bene e ciò che è male. E’ evidente allora che una critica di questo tipo, oltre ad essere tecnicamente agguerrita e culturalmente scaltrita, può assolvere una funzione (non gastronomicamente eupeptica né accademicamente esornativa ma) politicamente avanzata solo se si organizza come tendenza di classe (certamente non in senso settario) e dimostra di non temere il conflitto con i poteri costituiti. Articolare un progetto radicalmente alternativo alla società capitalistica, alla sua ideologia e ai suoi ‘valori’ è dunque la ‘conditio sine qua non’ di questa essenziale connotazione della critica militante, della sua autonomia ideale e della sua efficacia operativa.