[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].
Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Il quarto intervistato è Federico Bertoni.
1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?
A pensarci bene, tenderei a invertire il tenore logico della domanda: risponderei che è proprio l’attuale eclettismo dei metodi a rendere ancor più necessario prendere posizione, darsi un luogo e un punto di vista, imparare (e poi magari insegnare) quel “modo di guardare” di cui parlava a suo tempo Calvino, cioè un modo di essere nel mondo, tenacemente e consapevolmente in situazione. Quando invece si è garantiti (e al limite oppressi) da un pensiero teorico forte, da una cornice metodologica chiara e condivisa, non c’è altrettanto bisogno di rinegoziare criteri e presupposti del proprio lavoro, a meno che non si voglia spezzare quella cornice per avviarsi in direzioni eretiche o alternative. Evidentemente non è il nostro destino, e non è detto che sia per forza un male. Si può abitare la modernità liquida anche senza patire i tormenti dei naufraghi, e soprattutto senza affogare. Quel che si guadagna in libertà si ripaga in perplessità, spirito di adattamento, esercizio di un’intelligenza strategica per evitare che l’eclissi dei paradigmi teorici forti diventi un salvacondotto – un euforico “liberi tutti” – con cui legittimare quell’impressionismo critico (un misto di nichilismo e narcisismo sfrenato) di cui ha parlato spesso Romano Luperini. Forse hanno ragione i pragmatisti alla Stanley Fish (spesso giudicati responsabili delle derive scettiche e nichiliste) quando dicono che non è possibile essere relativisti, che il relativismo è una concezione che si può sostenere ma non una posizione che si possa occupare, visto che siamo sempre in situazione, condizionati dai presupposti e dagli schemi percettivi che strutturano il nostro modo di guardare, e in parte anche il luogo da cui guardiamo. L’importante è non dimenticare che quei presupposti esistono, soprattutto se vogliamo essere noi a parlare ed evitare che sia sempre il linguaggio a parlarci. Forse solo così si può sopravvivere felicemente all’eclettismo, evitando di farlo degenerare nel fenomeno che Remo Ceserani, qualche anno fa, ha chiamato il «supermercato dei metodi della critica», divenuti ormai «degli strumenti o utilities, dei programmi di lavoro ad applicazione indifferenziata, distinti solo per l’etichetta, o la griffe brevettata».
È qui che dovrebbe trovare il suo senso e il suo ruolo una critica degna di questo nome, più o meno militante che sia. L’operazione tentata a suo tempo da Jakobson in Linguistica e poetica per tracciare una distinzione netta tra la «critica» e gli «studi letterari», che dovrebbero garantire una «analisi scientifica obiettiva» dell’opera letteraria, si è rivelata per quello che era: un’utopia oltranzista; o forse un «miraggio linguistico», come lo ha definito polemicamente Thomas Pavel; o più probabilmente un superbo e generoso azzardo dell’intelligenza umana che si è infranto contro un dato irriducibile: che i testi letterari sono il mondo del contrasto, il luogo dell’antinomia e della contraddizione; che si può progettare euforicamente una «scienza della letteratura», come ha fatto Barthes in Critica e verità, e al tempo stesso intuire che le analisi «sicure» offerte da questa nuova scienza «lasceranno in disparte un enorme residuo», cioè (forse) l’«essenziale» dell’opera letteraria.
Il divorzio tra critica e teoria è stato indubbiamente un errore fatale, se non altro perché l’esperienza della modernità, almeno da Kant in poi, ha fatto della critica il luogo della consapevolezza, della riflessività, di quell’accanita messa in crisi di se stessi che – diceva Foucault – «consente di smarrire le proprie certezze». D’altra parte, ogni autentica teoria letteraria non ha nulla di neutro e di scientificamente imparziale, ma è un discorso per sua natura critico, partigiano, diretto contro i nemici di sempre, oggi più vitali e insidiosi che mai: doxa, senso comune, presunta naturalizzazione di ciò che invece è ideologico e culturale. Non so se sia stato un clamoroso fraintendimento o un gesto di aperta malafede identificare la teoria letteraria – «l’arma sovversiva per eccellenza», diceva lo stesso Barthes nel 1971 – con una sua versione ristretta e dogmatica, presto degenerata a metodo o ricetta, per poi liquidarla con lo slancio liberatorio di chi riscopre gli antichi valori dell’“umano”. Non per niente, un libro tanto puntuale quanto sintomatico come quello di Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune (1998), si basa su un assunto profondamente capzioso: cioè che tutta la teoria letteraria finisca per convergere e implodere in una sua manifestazione particolare, elaborata soprattutto in Francia tra gli anni Sessanta e Settanta e specializzata in tesi estremiste (la realtà è un effetto, l’autore è morto, il lettore è vivo ma ridotto a un crocevia di codici…) che non hanno retto alla longeva saggezza del senso comune.
Così, quando tentiamo di relativizzare il nostro sconforto e ci ripetiamo, con Mario Lavagetto (e sulla scorta di Paul de Man), che «la crisi della critica non è (o è solo parzialmente) congiunturale», che «ogni vera critica si manifesta nel modo della crisi», avremmo bisogno anche di un’autentica consapevolezza teorica – e non certo della sua caricatura scientista – con cui delimitare ambizioni e circostanze del nostro lavoro. Si tratta di assumere deliberatamente la parzialità, l’instabilità categoriale, la revocabilità dei canoni e dei paradigmi; e soprattutto di fondare ogni nostro giudizio o analisi su una certa idea di letteratura, probabilmente non definibile a priori ma calata nel vivo di un confronto con i testi in quanto oggetti storici, e di un lavoro su di essi altrettanto storico. Un’idea soggettiva, storicamente condizionata, che però deve tendere costantemente all’universale e a quell’uso pubblico del proprio giudizio che è (era?) il tratto distintivo della critica in quanto esperienza centrale della modernità (era questa, peraltro, la vera posta in gioco della “scienza della letteratura”). Lo ha ribadito con forza Michel Charles in un libro sofisticato e disperatamente fuori moda, Introduzione allo studio dei testi (1995): «Ogni procedura di analisi è condizionata da un insieme di pregiudizi e di postulati che riguardano la definizione, gli scopi e le funzioni della letteratura e della lettura. Perché la teoria letteraria non è un sistema di lettura, ma è il fondamento stesso di qualunque lettura rigorosa».
Credo insomma che ogni nostra scelta o giudizio critico, necessariamente congiunturale, debba radicarsi in un sistema interiorizzato di domande: qual è la mia idea di letteratura? (E al limite: ho una idea di letteratura?) Qual è il suo ruolo nel sistema delle arti e dei saperi? Come concepisco il rapporto tra il testo letterario e quelle vaghe entità che chiamiamo vita, mondo, storia, realtà? Da quale particolare uso del linguaggio so riconoscere la voce di un grande scrittore?
Temo che anche queste domande, come il libro di Charles, siano disperatamente fuori moda, ma è proprio qui che dovrebbe iscriversi il passaggio delicato e cruciale dal privato al pubblico, dal soggettivo al comunicabile. Dire che il gesto critico è selettivo e parziale non significa certo farne una questione privata, come sembrano intendere i cultori dell’io e della non disputabilità del “gusto”. Ed è inutile piangere sulla crisi finché non sapremo (ri)costruire un terreno comune in cui declinare le nostre domande, in cui restituire davvero la critica, come ha scritto Mario Lavagetto, «alle modalità e ai limiti di una conoscenza eminentemente dialogica».
2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
Questa è un’altra faccia della domanda precedente. In effetti, il tramonto dei paradigmi teorici forti ha indebolito anche il concetto di “scuola”, mentre il senso comune ripete continuamente che non ci sono più veri maestri. C’è da chiedersi cos’altro dovremmo aspettarci in un paese che sta demolendo scientificamente il suo sistema educativo e che non perde occasione per umiliare i maestri di ogni ordine e grado, dalla materna all’università. Credo comunque che l’antropologia accademica permetta di distinguere sommariamente due figure principali. Da un lato il maestro come vero e proprio caposcuola, mediatore e custode di un metodo critico più o meno ortodosso, al cui “magistero” ci si possa richiamare per esibire un’appartenenza, una filiazione e anche una sorta di certificato di garanzia. Dall’altro, il maestro che pratica l’esercizio critico in funzione soprattutto esemplare, il cui primo obiettivo non è trasferire competenze ma fornire agli allievi gli strumenti per svilupparle in se stessi, con quel mobile spirito di ricerca che Lukács vedeva incarnato nella forma del saggio, «che tende alla verità, esattamente, ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno».
Se la prima tipologia appare leggendaria e remota (o definitivamente estinta) già per la mia generazione, la seconda mi sembra ancora attuale, e credo che possa sopravvivere all’avvicendarsi delle generazioni e al declino di civiltà denunciato da molti. Dico attuale in senso strettamente logico, cioè reale, esistente nel mondo empirico: perché questi maestri esistono, lavorano, sono testimoni attivi di una resistenza culturale che esercitano dentro e fuori le aule universitarie, nella pratica quotidiana dell’insegnamento. Mi permetto di essere un po’ enfatico perché su questi argomenti non coltivo scetticismi di sorta. Credo nel rapporto tra maestri e allievi per il semplice fatto che credo fermamente nell’insegnamento, il fondamento sociale e pragmatico dell’esercizio critico. Perché anche l’insegnamento è un modo di fare critica, in un certo senso la più militante che conosco. Non condivido affatto le diagnosi apocalittiche di chi rimpiange il passato perché non è più possibile mettere a frutto le proprie ricerche nei corsi universitari, ormai liofilizzati dalla riforma del 3+2 e rivolti a una platea di zucconi che non conoscono Dante e il latino, che hanno fatto cattivi licei o addirittura l’istituto tecnico e stanno tutto il giorno su facebook, signora mia. Che non sia più possibile infliggere agli studenti corsi monografici sugli scritti minori di Ludovico Antonio Muratori mi sembra soltanto un bene, con tutto il rispetto per Ludovico Antonio Muratori. Il resto si fa, si può ancora fare. Anzi, forse il modo migliore per recuperare il fondamento comune e intersoggettivo della critica è entrare in un’aula, prendere la parola e mettere alla prova le proprie domande nell’ascolto e nel dialogo, mostrando a un gruppo di ventenni che un testo scritto qualche secolo fa (o anche trent’anni fa, visto che Fortini o Volponi possono essere figure molto più astruse e remote di George Eliot o Victor Hugo) li può riguardare da vicino, può essere una fonte di domande vitali, può perfino dire cose sul loro presente che non potrebbero chiedere a nessun’altro tipo di esperienza estetica o comunicativa.
Scendendo al piano personale, posso dire di essere stato molto fortunato come in altri settori della vita. Ho avuto un maestro che per certi versi ha compendiato le due tipologie tratteggiate prima, Mario Lavagetto, figura dall’altissimo profilo intellettuale che mi ha insegnato a correggere le virgole, a fare bene le note, a costruire un saggio in modo efficace, e poi varie cose necessarie e difficili sulla letteratura e anche sulla vita, cose che tengo bene a mente quando parlo con i miei studenti. Quanto ai maestri indiretti, indicherei soprattutto tre nomi: Erich Auerbach, Giacomo Debenedetti, Roland Barthes. Tre figure molto diverse, che forse confermano implicitamente l’inevitabile eclettismo di un approccio critico. Tre grandi esempi di metodo, che illustrano un uso non dogmatico della teoria, una capacità di mobilitare forti strumentazioni concettuali ma anche di metterle in ombra (o in discussione) di fronte alla smagliante evidenza dei dettagli e testi. E tre maestri dalle fortune alterne: quasi canonizzato Auerbach negli ultimi anni, dopo tempi difficili legati alla cattiva stampa del concetto con cui, più o meno impropriamente, è stato spesso identificato, cioè il realismo; molto in auge anche Debenedetti, talvolta contrapposto a Contini in una ideale competizione tra maestri, incensato (con vari malintesi) da quelli che Cortellessa ha chiamato «giovani critici artisti», e infine riabilitato dalla cattiva coscienza retrospettiva di un’accademia che lo ha sempre tenuto ai margini; decisamente in ribasso Barthes, in uno dei fenomeni per me più incomprensibili della recente vita intellettuale, che probabilmente – me ne rendo conto ora – mi ha indotto a citarlo almeno un paio di volte nella risposta precedente.
Penso che in questo caso si possa parlare davvero di rimozione e di angoscia dell’influenza, o addirittura di postume rese dei conti. Sarà un problema mio, di quell’ingenua fascinazione che provo ogni volta che sfoglio un suo libro, ma trovo davvero surreale che uno dei pensatori più originali e inquieti del Novecento, non sistematico e imprendibile, sempre pronto a spiazzare il lettore e a rimettere in gioco le sue stesse tesi, venga spesso identificato con il profeta più rigido e dogmatico del verbo strutturalista, specializzato in giochetti linguistici e formule teoriche insostenibili, di cui denunciare le oltranze ideologiche o i veri e propri errori interpretativi. È evidente che anche i maestri sbagliano, e forse dai loro errori si può imparare più che dai propri. È evidente che molte di quelle tesi sono datate, iscritte in un preciso contesto culturale che la sensibilità storica del critico – sua dote primaria – dovrebbe riuscire a sfaccettare, enucleando gli spunti che possono dire ancora qualcosa di utile sul nostro presente. Da qui a rinnegare un’intera eredità critica e intellettuale, buttando a mare troppe cose, ce ne corre. Non credo che sia il modo giusto per uccidere i propri padri. Se vorremo farlo, e diventare davvero adulti, dovremo trovare forme migliori.
3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?
Rispondo in modo un po’ corrivo dicendo che si coniuga alla meno peggio, nel senso che uno sguardo attento e sistematico all’attualità letteraria, in un paese in cui si pubblicano (dati Istat 2009) circa 14.000 “testi letterari moderni” all’anno, equivale più o meno a un lavoro a tempo pieno. Detto questo, è ovvio che una tradizione incapace di dialogare con il presente si condanna automaticamente al silenzio, mentre una critica militante schiacciata sull’attualità perde qualunque prospettiva o senso della storia, dunque anche un vero mordente sull’orizzonte contemporaneo. La “militanza” è soprattutto uno sguardo e un approccio: ha a che fare con alcune di quelle domande di cui parlavo prima (che cosa “fa” la letteratura? qual è il suo rapporto con la società e con la storia?), e non tanto con la natura (o la data di pubblicazione) degli oggetti analizzati.
D’altra parte, non vedo perché i criteri di analisi messi a punto su testi canonici non debbano funzionare anche per i testi contemporanei. Sono perfettamente d’accordo con alcuni critici più “anziani” quando ribadiscono la priorità di una buona preparazione filologica (intesa in senso lato: come padronanza di una minima cassetta degli attrezzi per l’analisi del testo), una competenza tecnica che certi studiosi tendono invece a snobbare perché troppo ostica, pedestre, nociva per quella “degustazione” del testo che richiede un approccio intuitivo e immediato, fondato nel giudizio creativo e nella squisita sensibilità del critico. Trovo inoltre un po’ ridicolo l’appello a una presunta specificità dei nuovi linguaggi espressivi (?), inaccessibili alle strumentazioni obsolete dei critici accademici, quando il grado di attualità di molti libri sembra collocarsi soprattutto a livello dei contenuti e dei codici culturali. È del tutto ovvio che il background dei “giovani scrittori” abbia una componente generazionale e non possa essere interamente condiviso da critici della mia generazione, e ancor meno di quella precedente come Luperini o Mengaldo, ma in questo non vedo un ostacolo insormontabile per il giudizio e l’interpretazione. Mi sembra anzi, per quanto posso vedere, che l’attuale tasso di sperimentazione sia piuttosto scarso e che ci sia un forte richiamo, certamente condizionato dall’industria culturale, a forme letterarie tradizionali, a generi collaudati e ideologicamente rassicuranti, o addirittura al modello del romanzo “ben fatto”, che in genere non richiede strumenti di analisi particolarmente innovativi o sofisticati.
Credo che il problema, più banalmente, sia riconducibile a un conflitto di giurisdizioni, dunque a una questione di logistica (ne ha parlato qualche tempo fa Andrea Cortellessa), o forse più propriamente di pragmatica, nel senso che il termine ha in linguistica e in semiotica (ma visto il ruolo che giocano le merci in queste faccende, probabilmente ha ragione Cortellessa). Un problema di cornici, di quadri istituzionali, di luoghi in cui si può o non si può parlare di certe cose. E la sensazione è che si stiano cristallizzando forme di separazione sempre più nette, estremamente nocive sia per la letteratura che per la critica, e avallate dall’inesorabile senso comune. Così molti scrittori, specie se “giovani”, dunque un po’ scapigliati e insofferenti al giudizio, ostentano un palese fastidio nei confronti dei critici, specie se “accademici”, dunque rinchiusi in biblioteca a perdere gli occhi sui loro polverosi codici. Un divario per nulla sfumato dal fatto che molti accademici, negli ultimi anni, siano diventati anche romanzieri o poeti. Da qualche parte c’è poi quel che resta dei critici militanti, o anche dei critici che non si autodefiniscono militanti (forse per eccesso di understatement) ma che vorrebbero resistere alla continua, implacabile erosione della propria area di ascolto, e che dunque reagiscono come possono, magari dando l’anima per l’insegnamento, facendo dei testi una fonte di domande e risposte, cercando insomma di spezzare il cerchio magico che si stringe intorno a un senso di inutilità sociale sempre più assillante.
Da parte mia, faccio sempre del mio meglio per far dialogare in qualche modo gli orizzonti, interrogando la storia letteraria per declinare e approfondire alcune domande che mi interpellano dal presente. Ad esempio, una vecchia ossessione radicata nella mia idea di letteratura e in una delle questioni-cardine dell’estetica occidentale, cioè la mimesis e più in generale il rapporto tra arte e mondo, mi ha portato a convogliare una serie di passioni letterarie e di problemi di scuola (Stendhal, Nabokov, il romanzo borghese, le metamorfosi del romance, la letteratura della Resistenza, ecc.) in una riflessione sintetica, che ripercorreva una lunga tradizione ma che tentava di declinarsi in uno scenario contemporaneo nel quale, guarda caso, si cominciava a parlare di fine del postmoderno, di ritorno del referente e perfino (più o meno a sproposito) di rinascita del realismo, che ha confermato così la sua natura di eterna fenice letteraria. Non a caso, il libro che ne è scaturito si concludeva con l’analisi di un romanzo contemporaneo, Underworld di Don DeLillo, in cui trovavo illustrate in forma esemplare alcune mie tesi e intuizioni. Allo stesso modo, vorrei dedicare le mie prossime ricerche a un altro problema che mi occupa da qualche tempo, il rapporto tra letteratura e storia, anch’esso impostato già nella Poetica di Aristotele (qui nous délivrera des Grecs et des Romains?) ma risalito a un grado di urgenza negli ultimi anni, dopo l’11 settembre e una serie di avvenimenti che sembrano fare dell’attuale voga del “romanzo storico”, nelle sue varie forme e tipologie, un fenomeno qualitativamente diverso da quelli analoghi che lo hanno preceduto, e che forse potrebbe rivelarci alcune dinamiche fondamentali del nostro tempo.
4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?
La domanda è pressoché dovuta (anche pensando alla discussione iniziata con Verifica dei poteri 2.0) ma anche molto insidiosa, almeno per me. Non ho alcuna competenza specifica in materia, non ho dati attendibili su cui basarmi – e sospetto che in questi campi la quantità sia un parametro fondamentale. Dunque mi limito a una riflessione necessariamente impressionistica, più o meno una sensazione. E direi che la sensazione ha due facce, una ottimista e una più perplessa.
La faccia ottimista dice che questo potrebbe essere l’uovo di Colombo, lo strumento risolutivo con cui spezzare l’isolamento della critica e sfuggire alla triste sorte dei suoi canali tradizionali. Inoltre, la possibilità di dare voce ai lettori e ai loro interventi in tempo reale può favorire enormemente il dibattito e lo scambio intellettuale, infittire quella rete dialogica e intersoggettiva (e ovviamente anche polemica) che è il terreno di coltura della critica.
La faccia perplessa dice che tutto questo non si è (ancora) realizzato. Posso sbagliarmi, ma non mi pare che i vari siti e blog letterari (a volte anche di notevole interesse) abbiano cambiato in modo sostanziale la situazione della critica o abbiano costruito una comunità intellettuale ampia e solida, eventualmente alternativa rispetto a quella della cultura “ufficiale”. Non è nemmeno escluso che tutto questo finisca per accentuare le forme di segregazione di cui parlavo prima, e forse è sbagliata l’idea che un nuovo strumento tecnologico, in quanto tale, possa abbattere le mediazioni e garantire un accesso diretto alla discussione critica. Va detto poi che la qualità più rivoluzionaria della rete, cioè la sua potenziale democraticità, ha il suo contraltare nel rischio della banalizzazione, nell’accumulo di materiali inerti, nell’impulso vagamente bulimico con cui possiamo “pubblicare” la prima cosa (o sciocchezza) che ci passa per la testa.
5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
Confesso che ho una gran paura dei discorsi generazionali. Ne sono coinvolto e tentato, li considero uno dei grandi propulsori della storia e della lettura che ne diamo, ma quando penso alla mia generazione, e al pulviscolo di discorsi che la avvolge, mi metto subito in allarme e sento affiorare un miscuglio emotivo fatto di reticenza, pudore e vera e propria paura. Paura soprattutto di cadere nel vittimismo, in quella spaventosa forma di autocommiserazione collettiva che Flaubert ha inchiodato nel romanzo più spietato di tutti i tempi, L’educazione sentimentale, forse la diagnosi più lucida della sua e della nostra modernità.
Così si inizia con le constatazioni. Abbiamo fallito. Non abbiamo combinato nulla. Siamo stati impotenti di fronte alla storia, o forse la storia ci ha preso a calci e ci ha buttato fuori dalla porta. Non abbiamo lottato abbastanza contro i nostri padri, che forse erano già troppo deboli. A nostra volta siamo stati deboli e immaturi di fronte ai nostri figli, e spesso ci è mancato perfino il coraggio di avere dei figli.
Poi si passa agli alibi e alle giustificazioni, che magari ognuno sintonizza sulla sua data di nascita e sulla sua storia personale. Ma che ci posso fare se nel Sessantotto non ero ancora nato, e se nel Settantasette facevo la prima comunione? Che colpa ne ho se sono stato adolescente negli anni Ottanta, nel decennio-chiave che ha prodotto questo schifo e che forse nessuno, nemmeno un fantomatico “Grande Vecchio”, è riuscito davvero a governare? Che diavolo potevo fare di fronte a quelle cose enormi che hanno cambiato il corso del mondo, ma rispetto alle quali gli spazi della mia agency diventavano sempre più risicati?
Non c’è dubbio che in questo paese ci sia un gigantesco problema generazionale, dovuto certamente a massicci fenomeni demografici e sociopolitici (invecchiamento della popolazione, mentalità reazionaria e piccolo-borghese, politiche dissennate sulle pensioni, ecc.) che travalicano le piccole sorti della letteratura e del ceto intellettuale. Per quanto mi riguarda, mi trovo in una situazione piuttosto ambigua, certamente atipica, in cui storia personale e storia generazionale non collimano affatto. Non so con quale coraggio potrei dire di essere stato tenuto ai margini, visto che sono entrato in ruolo all’università molto presto, e molto in alto, almeno per i parametri di un mondo ferocemente gerontocratico come quello dell’accademia italiana. Certo, la situazione che ho vissuto in questi anni ha qualcosa di paradossale, o di metodicamente folle: a un gigantesco flusso di pensionamenti non è seguito alcun vero ricambio generazionale, per i noti tagli ai finanziamenti che stanno strangolando l’università. In questo modo, la mia posizione già ambigua rischia di diventare totalmente anomala e forse anche un po’ autistica, per l’assenza di termini di confronto (o anche di scontro) a livello generazionale. Come se non bastasse, la Legge 240 (la cosiddetta Legge Gelmini) non farà che aggravare la situazione, con il combinato di verticismo e di precarizzazione che mi ha fatto spesso pensare al newspeak orwelliano: se questa è una riforma “antibaronale”, allora la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza. È infatti evidente a chiunque non sia completamente in malafede che la legge non fa altro che concentrare il potere al vertice, e proprio in una congiuntura economica e demografica in cui quel vertice diventa sempre più stretto. Un’intera generazione di studiosi, in parte tagliati fuori e in parte entrati per il rotto della cuffia, verrà dunque esclusa de iure o de facto, assoggettata alle manovre di una oligarchia tecnocratica priva di qualunque statura intellettuale, che a volte sembra giunta al potere per una sorta di darwinismo alla rovescia. Sarà un altro capitolo – molto meschino – della crisi storica degli intellettuali?
Credo che non si tratti assolutamente di semplificare e tanto meno di banalizzare l’indagine, ma di renderla duttile, affrontando la sfida del ‘disordine’ col fare interagire diversi modi di procedere, adeguandoli di volta in volta alle peculiarità dell’opera: al suo linguaggio, al suo stile, ai suoi personaggi, ai suoi temi,
Si cercherà di inserire l’opera nel contesto socioculturale, nel canone in cui si inscrive; con un’etica dell’impegno interpretativo, che consiste in primo luogo nel leggere a fondo il testo, nel chiosarlo punto per punto, nel penetrare nella rete strategica dei suoi segnali, nel far parlare i suoi silenzi, in un confronto continuo con altri testi estratti dallo schedario della memoria e
dagli scaffali delle biblioteche. Poi si formuleranno ipotesi di lavoro, possibilmente
sempre più ampie e consapevolmente sempre in fieri, adattando ai nostri sforzi
l’aporia feconda del circolo ermeneutico della comprensione, per il quale la tensione
esplicativa verso il senso (da dare al testo e al nostro compito) non potrà essere soddisfatta altro che attraverso un continuo ‘andirivieni’ tra le parti e il tutto.
In questo modo, forse la letteratura non cesserà di essere in pericolo ma almeno
la critica non rischierà di diventare un suo pericoloso avversario.
“Il divorzio tra critica e teoria è stato indubbiamente un errore fatale”, afferma con giusta ragione Federico Bertoni. Potrebbe allora risultare utile riproporre la domanda apparentemente ingenua che si poneva J. P. Sartre nel lontano 1947: “Che cos’è la letteratura?”. Non sono mancati, peraltro, coloro i quali, per cercare la risposta a tale domanda, si sono lanciati in affascinanti cavalcate storiche attraverso i differenti spazi di questa pratica, mostrando che non può essere imprigionata in una definizione aprioristica. Tuttavia, secondo il mio sommesso avviso, nel cercare una risposta a questa domanda (domanda che – si badi – presuppone l’esistenza della letteratura) non può essere trascurata, come ha ricordato a suo tempo Franco Brioschi in un saggio fondamentale intitolato “La mappa dell’impero”, la dimensione propriamente logica del problema, che si riassume nella seguente aporia: io non giudico letterario un testo in base a determinate caratteristiche ritenute tipiche della letteratura (connotazione, ambiguità, scarto dalla norma ecc.), ma, al contrario, proprio perché so che il testo è letterario, considero queste caratteristiche prevalenti. In realtà, ciò che intendevo dimostrare era già contenuto nelle premesse: insomma, il testo non è letterario perché ha determinate caratteristiche, ma possiede certe caratteristiche perché è letterario. Per la verità, già in sede storica, dovrebbe risultare evidente che il problema della definizione dello ‘specifico letterario’ non può essere risolto né in base ad una concezione ingenuamente sostanzialistica della ‘letterarietà’ né in base ad una dicotomia pregiudiziale fra testi letterari e testi non letterari. Insisto tuttavia su questo punto anche perché, proprio partendo dalla dimensione logica del problema (dimensione pertinente quindi alla definizione della letteratura, su cui si interroga lo stesso Federico Bertoni riferendosi alla riflessione metateorica di Compagnon), si apre quello che a me pare lo spazio nuovo e fecondo (non più dell’autonomia semantica del testo ma) della pragmatica della comunicazione: uno spazio che risulta tematizzabile, come a suo tempo è stato proposto, fra gli altri, da Fortini, in termini di ‘ri-uso’, talché alla domanda posta da Sartre si affianca, in un rapporto di feconda complementarità, la domanda: “Che cosa fa la letteratura?”. Riguardo poi all’eclettismo delle teorie e dei metodi nel campo della critica, ritengo invece che Bertoni dimostri un entusiasmo eccessivo per il pluralismo spesso amorfo ed impressionistico che, lungi dal caratterizzare e delimitare quel campo, lo rende sempre più indifferenziato e perciò disponibile, se non alla chiacchiera più banale, alla ‘sussunzione’ da parte dell’industria culturale, del consumismo e, in buona sostanza, del mercato capitalistico. Non mi sarei soffermato su questa posizione, se essa non mi fosse apparsa funzionale, in quanto premessa teorica e culturale, alla giustificazione di quell’eclettismo che, essendo, per l’appunto, un tratto caratteristico del pensiero postmoderno, conduce inesorabilmente alla vanificazione delle contraddizioni dialettiche oggettive in differenze adialettiche soggettive, laddove la critica, come ben dice, con felice contraddizione, Federico Bretoni, cessa di essere “un discorso per sua natura critico, partigiano, diretto contro i nemici di sempre, oggi più vitali e insidiosi che mai: ‘doxa’, senso comune, presunta naturalizzazione di ciò che invece è ideologico e culturale”.
A questo proposito, ritengo, se mi è permesso intercalare al presente discorso un’impressione di natura psicologico-morale, che la tendenza a ‘giocare’ con le categorie del postmoderno e, nel contempo, a riservarsi un margine critico, magari grazie ad un “pensiero teorico forte” (quale è, ad esempio, lo storicismo), rispecchi un’oscillazione fra il gusto dell’avventura e della dissipazione culturale e il senso della responsabilità politico-intellettuale.
Mi sembra importante allora, da questo punto di vista, ribadire, da un lato, l’opposizione al carattere spurio e concettualmente androgino di un eclettismo che confina con il sincretismo e, dall’altro, il riconoscimento che l’ortodossia non consiste nella fedeltà a una dottrina ma ad un metodo, dal momento che le grandi acquisizioni della cultura umana scaturiscono (non dalla confusione eclettica ma) dalla fusione organica e produttiva, operata secondo una coerente procedura critica, dei prodotti intellettuali, delle correnti ideali e delle categorie concettuali esistenti in una determinata epoca (come dimostrano tutti i maggiori esempi di tale fusione: dai sistemi filosofici di Platone e di Aristotele alla teoria marxista, dal poema di Dante al romanzo di Balzac, dalla rivoluzione scientifica dell’età moderna alla teoria della relatività di Einstein). In questa ottica, che si può definire in un certo senso trascendentale, è senz’altro da sottoscrivere quanto afferma Michel Charles: “La teoria letteraria non è un sistema di lettura, ma è il fondamento stesso di qualunque lettura rigorosa”, così come la chiosa di Federino Bretoni: “è proprio qui che dovrebbe iscriversi il passaggio delicato e cruciale dal privato al pubblico, dal soggettivo al comunicabile”.
Per quanto concerne, infine, la possibile riduzione strumentalistica delle categorie e delle stesse teorie come fruttuoso ‘modus operandi’ della critica, è doveroso osservare, in primo luogo, che essa non è filosoficamente neutrale (giacché sottintende, ancora una volta, un approccio eclettico e pragmatistico ai problemi di metodo e di contenuto della critica) e, in secondo luogo, che le categorie non sono dissociabili dalle concezioni del mondo in cui affondano le loro radici, a meno che non vengano svuotate del loro rapporto con la realtà (strategia culturale, questa, tipica della Chiesa cattolica, ben esemplificata da quel procedimento di appropriazione che consiste nello svuotare del suo duro contenuto materiale la categoria di alienazione, categoria-chiave della ‘traditio’ hegelo-marxiana, in modo da farle svolgere, dopo averla inserita in un contesto filosofico di natura psicologico-spiritualistica, una ben diversa funzione). Ciò detto, il problema che si pone è quello di definire la natura del testo letterario. In questo senso, il punto di vista che a me sembra corretto, come ho già sostenuto nel dibattito sulla categoria di ‘ipermodernità’ proposta da Donnarumma, è quello che definisce la natura del testo letterario come rapporto: un rapporto che, esistendo ed operando entro una totalità di rapporti, rende impossibile l’individuazione dei caratteri essenziali del testo se quest’ultimo viene isolato sia spazialmente sia temporalmente dalla totalità cui appartiene. Occorre dunque affermare con forza che i testi non nascono ‘ex nihilo’, ma – quale che sia il tipo di mimesi (o di antimimesi) che media il loro rapporto con la realtà – hanno sempre bisogno di questa proprio per esistere come testi. Si può aggiungere che fra testo e realtà intercorre un rapporto di complementarità non riducibile né ad un riflesso speculare né ad una derivazione meccanica, ma paragonabile ad una traduzione complessa, fondata su codici storicamente determinati, dell’elemento materiale in elemento formale. Laddove va ribadito che tale traduzione, facendo emergere aspetti nascosti dei fenomeni rappresentati, conferisce alla letteratura un’insostituibile funzione conoscitiva, diversa e complementare rispetto a quella di altre attività culturali (quali la filosofia, la scienza ecc.).
Chiedo scusa al prof. Federico Bertoni se nel corso del mio intervento, a causa di quella “fretta che l’onestade ad ogni atto dismaga”, ho deformato prima il suo cognome in Bretoni e poi sia il nome sia il cognome in un ancor più improbabile Federino Bretoni.