[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].
Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi presentiamo l’intervista a Raoul Bruni.
1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?
Credo che oggi l’esercizio della critica militante non debba necessariamente comportare una scelta di campo. Il sintagma “scelta di campo” applicato all’ambito della critica letteraria ha sempre suscitato in me qualche perplessità: anche perché i “campi”, nell’universo letterario italiano, si confondono spesso con le parrocchie. Del resto, già nella seconda metà del Novecento alcuni dei critici militanti più insigni hanno agito al di fuori di campi e fazioni, rifiutando di improntare il proprio stile critico ai metodi di volta in volta dominanti. Cito un solo esempio tra molti: Luigi Baldacci, che anche Massimo Onofri, in un suo recente saggio (Ipotesi sulla critica militante: il caso Baldacci, in Altri italiani. Saggi sul Novecento, Gaffi, Roma 2012), ha indicato come campione paradigmatico della critica militante. Oggi, come ieri, l’unico vero requisito necessario per esercitare adeguatamente la critica militante mi pare sia rimasto quello dell’espressione di giudizi di valore (s’intitolava giustappunto così una raccolta di scritti militanti di Pier Vincenzo Mengaldo, pubblicata nel 1999 da Einaudi). Purché, s’intende, la formulazione del giudizio sia adeguatamente motivata e argomentata. Ho molto rispetto per Filippo La Porta, ma non condivido la sua opinione, espressa in una recente intervista, apparsa su «Il Giornale» del 29 marzo 2012, nella quale egli sembra suggerire, riprendendo un lemma oggi di gran moda, che la critica possa talora risolversi in un semplice tweet. Un plauso o una stroncatura non sufficientemente motivati equivalgono, nella maggior parte dei casi, ad una sorta di abdicazione critica. Gli slogan vanno bene per le pubblicità, le tifoserie, o al limite per i comizi politici, non certo per i libri e gli autori. Ciò detto, che la critica (militante e non) possa servirsi di efficaci formule epigrammatiche nel contesto di un discorso più ampio e articolato non solo è legittimo, ma anche auspicabile (moltissimi sono gli illustri esempi novecenteschi che si potrebbero richiamare a questo proposito).
Se, dunque, già nel secolo scorso, un grande critico militante era irriducibile ad un metodo preconfezionato o alla cerchia ristretta di una scuola critica, a maggior ragione dovrebbe esserlo oggi, dopo che il miraggio strutturalista di una “scienza della letteratura” è definitivamente tramontato. Più che una scelta di campo, il critico militante dovrebbe saper essere fedele ad un proprio canone della letteratura, anche (e soprattutto) quando esso è in aperto conflitto con il gusto predominante. Dovrebbe avere il coraggio di andare controcorrente: sia sul piano storiografico, riproponendo opere ingiustamente dimenticate, sia su quello, per così dire, geografico, prospettando una geografia letteraria diversa da quella, spesso angusta, imposta dall’editoria mainstream e dalla linea critica dominante. Mi spiego: è noto a tutti che i circuiti letterari di certe città (come Roma, Milano o Bologna) godono di maggior attenzione e visibilità rispetto a quelli di altre realtà geografiche (non solo del sud, ma anche del centro-nord). Ogni critico militante autenticamente tale non dovrebbe farsi condizionare, oltre che dai retaggi storico-letterari dominanti, da una geografia letteraria dell’Italia, quale quella ancora oggi prevalente, che trascura immeritatamente certe aree a discapito di altre.
2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
La concezione della critica per scuole e per maestri riguarda in primo luogo la saggistica accademica, molto meno, come ho detto anche prima, quella militante, la cui storia è segnata soprattutto da singole personalità. Nel Novecento abbiamo certamente avuto delle illustri scuole di critica letteraria, sia nell’ambito del tradizionale storicismo, sia in quello strutturalistico. Personalmente ritengo però che il ruolo di queste grandi scuole, che pure hanno fornito un apporto essenziale alla cultura del secolo scorso, si sia sostanzialmente esaurito (certi titoli, del resto, sono sintomatici: penso ad esempio a Notizie dalla crisi di Cesare Segre, o, sul fronte opposto, a Tramonto dello storicismo di Enrico Ghidetti, fino al più recente pamphlet di Mario Lavagetto Eutanasia della critica). Adesso – mi riferisco innanzitutto ai critici della mia generazione – si è costretti a reinventarsi una propria modalità di esercizio critico senza l’ipoteca di una scuola o di una maestro. Da un lato, ciò comporta un rischio, come quello che correrebbe chi affronta un viaggio senza una guida autorevole; dall’altro concede forse un maggior grado di libertà intellettuale. Del resto, devo confessare che sono sempre stato un po’ infastidito dall’abitudine accademica (quasi un riflesso pavloviano) a ricondurre banalmente un critico giovane (con il senso allargato che questo aggettivo ha acquisito in Italia) al magistero dello studioso con il quale questi si è laureato. Mi spiego meglio: il fatto che X si sia laureato con Y, non significa automaticamente che X sia allievo di Y. Chiunque ha frequentato l’Università, non solo in ambito umanistico, sa che ci sono singoli corsi di docenti con i quali non ci siamo laureati che hanno inciso sulla nostra formazione assai più del relatore della nostra tesi. Inoltre credo che un critico in formazione debba aprirsi agli stimoli non di un solo maestro o di una sola scuola, ma di una pluralità di esperienze critiche, non solo italiane.
Per quanto mi riguarda, devo molto al mio professore di italiano al liceo, Angelo Marchese (prematuramente scomparso nel 2000), illustre studioso, tra gli altri, di Dante, Montale e Manzoni – anche se il prezioso bottino intellettuale ricavato dalle sue lezioni l’ho scoperto solo dopo aver finito il liceo, negli anni della mia formazione universitaria e postuniversitaria. Che si è svolta in Università diverse (rispettivamente a Firenze e a Padova) dandomi la possibilità di lavorare sotto la guida di docenti di orientamenti e scuole diversi. Ecco perché mi considero – sia da un punto di vista critico, sia da un punto di vista strettamente accademico – una sorta di meteco e ho come riferimento non un singolo maestro o una singola scuola, bensì una pluralità di maestri e di scuole.
Partendo da questi presupposti, non posso certo simpatizzare con il clima di, più o meno consapevole, rimozione che domina lo scenario critico attuale. Troppo facilmente si liquidano o si ignorano tout-court scuole o maestri novecenteschi, che, al confronto dei loro omologhi odierni, sembrerebbero veri giganti. Ciò risulta evidente soprattutto nella nuova critica di certi (non tutti) blog letterari, che sembra completamente ignorare la tradizione interpretativa novecentesca.
3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?
Per quanto riguarda la mia personale esperienza di studioso, mi è difficile distinguere in modo netto l’ambito della critica accademica da quello, per così dire, militante. Si può essere militanti, anche se ci si occupa di un testo ormai canonizzato. Ammesso (e non concesso), poi, che il canone sia un qualcosa di fissato una volta per tutte. Da un lato, un canone letterario può essere arricchito di nuovi autori, precedentemente trascurati, dall’altro, può subire attacchi e revisioni, e va quindi difeso. Parafrasando Croce, si potrebbe forse affermare che ogni letteratura è letteratura contemporanea. Ciò non significa voler appiattire sul presente un oggetto letterario di un’altra epoca, bensì avere un approccio autenticamente ermeneutico, non certo frequente nell’ambito della critica e dell’accademia italiana. L’orizzonte presente incide sempre sull’interpretazione di un testo, non importa quanto antico. Inversamente e reciprocamente, non è illegittimo misurarsi con gli autori contemporanei con lo stesso rigore che si applicherebbe allo studio di un classico. Nella critica novecentesca italiana, non mancano esempi in tal senso: primo fra tutti, l’edizione critica dell’Opera in versi di Montale curata da Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini per Einaudi (che forse qualcuno dovrebbe ristampare). Certo, Montale era Montale e non voglio certo negare che intervenire sulla letteratura del presente comporti, come minimo, una maggiore cautela critica rispetto a quella che deve adoperare lo studioso di testi tradizionali. Tuttavia, al netto di eccessive spregiudicatezze, sarebbe auspicabile, da parte della critica accademica, una maggior attenzione al panorama letterario contemporaneo. Un confronto con gli studiosi europei e americani, sotto questo punto di vista, sarebbe per noi piuttosto impietoso. Non è certo obbligatorio per i critici accademici occuparsi della contemporaneità letteraria, ma il fatto che molti di essi ignorino completamente la produzione letteraria più recente mi sembra difficilmente giustificabile. Similmente, un critico militante che ignori il patrimonio tradizionale della nostra letteratura non potrà non avere una visione sfuocata o superficiale dell’attualità letteraria.
4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?
I siti internet dedicati alla critica e alla letteratura nascono inizialmente come area d’espressione alternativa agli spazi ufficiali della cultura. Non per nulla, come ha osservato di recente Emanuele Zinato, in Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni (Carocci, Roma 2010), siti come «Nazione indiana», denunciano, fin dalla scelta dei nomi, la propria condizione di marginalità. D’altra parte, solo ora cominciano a nascere riviste accademiche di critica letteraria on-line che abbiano una qualche autorevolezza, mentre prima la cultura accademica ufficiale respingeva aprioristicamente ogni contagio con la rete (anche sotto questo punto di vista l’Italia è assai in ritardo rispetto ad altri Paesi). Ora, le scritture critiche on-line sono spesso incondite o scomposte, tendono a preferire il giudizio secco, poco argomentato: quasi che la critica possa ridursi al “mi piace” di un social network quale facebook o, come si diceva sopra, ad un semplice tweet. Nondimeno, esse rappresentano senza dubbio l’officina nella quale si forgerà la critica futura, anche se il processo di maturazione sarà probabilmente assai lento e graduale. Tant’è che nessun critico militante può oggi sottrarsi al confronto con la rete.
Certamente, il bello della critica on-line – la grande libertà di espressione – è anche il suo limite più evidente: spesso la genuina polemica letteraria si trasforma, nello spazio dei commenti agli articoli postati, in un violento e/o pretestuoso scambio di contumelie, laddove il passo dai massimi sistemi alle basse questioni personali è brevissimo. D’altra parte, i blog letterari sono ancora ben lungi dall’aver acquisito quell’autorevolezza di cui godevano nel secolo scorso i periodici letterari militanti cartacei più prestigiosi. Dei passi avanti però si stanno facendo: mi riferisco innanzitutto, tra i siti più recenti, a «Le parole e le cose», i cui contributi, firmati da critici e studiosi di generazioni e orientamenti diversi, sono rigorosamente selezionati, e a «Alfapiù», la neonata propaggine on-line di «Alfabetadue», che propone quotidianamente nuove recensioni non solo letterarie, senza tralasciate siti letterari vivaci e stimolanti quali «404: file not found», «Doppiozero» e «Sul Romanzo». Inoltre, pur con tutti i suddetti limiti, la critica on-line garantisce una nuova forma di pluralismo, dando voce a chi non troverebbe spazio nei circuiti letterari tradizionali. Così come è un fatto senz’altro positivo che in questi siti internet ci siano molte meno concessioni al conformismo e al “politicamente corretto” rispetto agli ambienti della cultura ufficiale.
Anche per quanto riguarda il mercato, non bisogna dimenticare che prima dell’avvento della rete, erano quasi esclusivamente i media, e specialmente la televisione, a decretare il successo dei libri. Ciò accade anche oggi, laddove un’apparizione a trasmissioni televisive come quelle di Fabio Fazio garantisce automaticamente un esorbitante aumento delle vendite del libro promosso. Anche da questo punto di vista, la rete ha garantito una maggiore democratizzazione permettendo a scrittori del tutto sconosciuti di emergere, per così dire, dal basso, grazie ai blog e ai social network. Compito della nuova critica militante sarà quello di esercitare la propria essenziale funzione mediatrice anche attraverso i canali della rete, senza che il mezzo utilizzato ne infici il rigore e l’autorevolezza.
5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
Impossibile è non confrontarsi, direttamente o indirettamente, con la situazione di diffuso disagio economico e sociale che riguarda soprattutto gli italiani tra i trenta e i quarant’anni. Chi, come me, lavora da precario (da “non strutturato”, come si dice in gergo) all’Università si è ormai assuefatto all’insicurezza e nutre sempre meno illusioni verso la prospettiva di un lavoro stabile. A differenza di ciò che accadeva in passato, inoltre, le collaborazioni a periodici militanti anche prestigiosi, come pure a certi quotidiani, solo raramente sono retribuite. Tant’è che per molti di noi la critica militante è diventata una sorta di volontariato culturale. Scrivere articoli gratuitamente, sorretti dalla sola forza della passione, e farlo con impegno e acribia è certamente un’ardua prova di resistenza intellettuale. Per persistere nell’impegno letterario in un momento come questo occorre fors’anche un’idea quasi religiosa della letteratura; così scriveva, nel 1979, il geniale storico delle religioni romeno Ioan Petru Culianu, risalendo all’etimo della parola “precarietà”: «Apro il vocabolario di latino alla parola “precario” e vengo a sapere che significa “ciò che è ottenuto con preghiera” […]. La precarietà […] è la sola via per ritrovare la religione in un tempo laico».
Da un po’ di tempo a questa parte si è creata quasi una sorta di moda letteraria legata al tema della precarietà, che ha spesso prodotto risultati piuttosto deludenti. La narrativa oggi in voga tende perlopiù a ridurre la precarietà ad una questione meramente economico-sociale, non rendendosi conto di come questa condizione di incertezza investa ambiti ben più vasti. Per questo, come critico, prediligo quelle opere che hanno declinato in modo inconsueto il topos ormai stantio della precarietà: dall’originale esordio narrativo di Vanni Santoni Personaggi precari (RGB, Milano 2007) al recentissimo romanzo in versi di Francesco Targhetta Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn, Milano 2012), nei quali il motivo della precarietà è svolto in chiave psicologica ed esistenziale, ancor prima che economica.
sono anni che cerco quel libro del 2007, ma non si trova
un critico deve innanzitutto capire come funziona un testo scritto, quale insieme sociale e quale insieme di idee e di valori, quali aspirazioni hanno prodotto l’individuo che scrive…. un critico è un po’ un filologo, un po’ visionario, un po’ diagnostico. Ma è necessario riflettere, mettere in relazione il proprio sentire, le proprie associazioni tra di loro e con gli altri. Molti non ruminano e non rileggono i libri. non meditano, si lasciano invadere da immagini , sensazioni, e non richiamano alla mente il testo. Bisogna avere amore per la lingua, collegamenti di varie letture, intuizione del pensiero dell’autore. Cioè’ ermeneutica’. Trovare la chiave che ti apre un mondo denso e complesso come un testo letterario. L’attività critica si nutre di tutto questo: di un continuo rileggere , in un monologo ininterrotto, ne quale gli autori tornano suggeriscono qalcosa- Dunque il critico è a metà strada tra il lettore comune e lo studioso accademico, che è in grado di trasformare un lib ro di forte impatto in uno strumento di conoscenza utile a tutti. Non finisce mai di trovare cose nuove in un libro. E mi vengono in mente Garboli e Debenedetti. Ma soprattutto Auerbach. Auerbach parte da un breve brano dell’autore edilata la scena fino a comprendere e ‘vedere’ tutto il libro, la cifra stilistica, il linguaggio, gli scenari. Provate a leggere la scena del calzerotto in ‘gita al faro’. Si parte da un calzerotto, da una madre che prepara il figlio aduna gita. Gita che non si farà mai. E si spalancano tramite una telefonata, scenari altri, si affacciano personaggi, si dialoga:-Se piove, non si potrà andare al faro. Alla fine la gita viene rimandata molte volte, e l’attesa , la gioia pregustata di andare cambia registro. Poi diventerà un’altra cosa…
Mi associo volentieri alla voce di Raoul Bruni, al suo “equilibrio dinamico”, cioè alla puntualità delle sue opinioni raggiunta attraverso il controllo di un sistema di forze, che restano felicemente attive.