[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Alberto Casadei.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Sono convinto che un critico, in qualunque periodo storico-culturale operi, debba prima di tutto riconoscere dei valori che gli sembrino significativi in rapporto al passato e al presente, e che possano durare anche per le generazioni future. La correttezza sta, in primo luogo, nel difendere con coerenza i tratti che, sulla base della sua esperienza e della sua posizione nel campo di forze letterario, il critico considera importanti in un’opera: ciò vale tanto per quelle canonizzate quanto per quelle appena uscite.

Non credo quindi che si debba essere per forza manichei: la difesa di un valore dovrebbe riguardare, per esempio, Tolstoj quanto DeLillo, se si considerano questi due narratori altamente rappresentativi della loro epoca. Si dovrebbe evitare di misconoscere valori evidenti solo perché non li si ritiene adeguati sulla base di poetiche precostituite: magari io amo Proust più di Joyce o di Mann, ma non mi posso permettere di disconoscere l’importanza e la specificità dei loro modelli di letteratura. Posso invece essere certo che, alla distanza, un modello vince su un altro: è il caso di Dante, per secoli perdente in un confronto (improprio) con Petrarca, ma adesso considerato decisamente più significativo per la sua capacità di immaginare e rappresentare una realtà ben più complessa rispetto alla somma dei suoi singoli addendi, mentre gli aspetti psicologici e stilistici del Canzoniere sono del tutto riassorbiti e ridotti a un territorio circoscritto nell’immaginario della lirica moderna.

Il critico deve essere fedele a questo tipo di militanza: non quella di chi sta in uno schieramento ma quella di chi va in missione per (ri)scoprire aspetti fondamentali del fare letteratura nella sua epoca e per la sua epoca. L’eclettismo è però da evitare: e ci si riesce se si hanno chiari alcuni obiettivi. Il primo dovrebbe essere la difesa di opere che, nell’attuale ciclo di esplosioni di casi-del-momento seguite da un oblio totale dei medesimi, il critico ritiene che siano degne di essere rilette e reinterpretate quando saranno fuori moda.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Credo che una posizione tardivamente freudiana (l’aggettivo ha valenza metonimica) sul rapporto padri-figli o maestri-discepoli vada definitivamente superata, non perché non esistano conflitti generazionali, angosce dell’influenza ecc., ma perché su questi meccanismi dell’inconscio sappiamo ormai molto e rischiamo di esibirli come giustificazioni o spiegazioni di fenomeni che sono altri o di altro tipo. (È quello che avviene, in un altro campo, quando qualcuno continua a invocare la nostra inesperienza come condizione ineliminabile, usando categorie benjaminiane in modo ormai pedissequo e senza considerare quanto del presente ci sfugge solo perché non si osa guardarlo in faccia per quello che è).

Il rapporto con la tradizione è una necessità, non una costrizione. L’importante è sapere quali aspetti possiamo rinnovare per andare comunque oltre il passato, uscendo dalla concezione monumentale della storia. I maestri, ora, non sono i depositari di un sapere stratificato o, nei casi peggiori, accumulato: ciascuno può conoscere tantissimo senza bisogno di maestri, bastano internet e le tecniche di apprendimento reticolare e libero anziché lineare e gerarchizzato.

Ma quello che i veri maestri possono ancora insegnare è perché, per loro, determinate opere sono fondamentali, al di là della collocazione in un’asettica sequenza cronologica. La storia della tradizione si deve coniugare con la capacità di interpretare gli aspetti cognitivi nascosti nelle opere di lunga durata che chiamiamo classici: il mondo dell’aldilà dantesco non è solo la sintesi di nozioni già conosciute, ma è l’espressione di una visione plastica della realtà, come notava Eliot. Acquisita una nozione fondamentale come questa, adesso dobbiamo fare altri passi e notare, per esempio, che la creazione del Paradiso è il frutto di uno sforzo sulle potenzialità del pensiero e dello stile, che corrisponde a molte prerogative dell’attività cognitiva profonda, prerazionale, così come adesso cominciamo a concepirla: la plasticità è frutto di un’elaborazione che ora possiamo indagare meglio.

Intuiamo insomma nuovi motivi per cogliere la sublimità dell’ultima cantica, già in qualche modo accertata a livello linguistico (e certo tale da far capire perché Commedia non poteva essere il titolo generale dell’opera), ma ancora da verificare in tutte le sue potenzialità appunto di pensiero. Ecco, se non avessimo avuto maestri come Eliot, o Auerbach, o Contini ecc., che ci hanno fatto apprezzare aspetti fondativi del poema dantesco in linea con il gusto e la sensibilità novecentesche, non potremmo adesso cercare nuove vie per trovare ulteriori motivazioni della sua grandezza.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Ho in parte già risposto in precedenza, ma specifico che, a livello astratto, non ci dovrebbe essere nessuna differenza fra l’interpretazione di un classico e quella di un’opera appena uscita. (Discorso diverso è quello della maggiore o minore dignità di impegno scientifico, filologico, erudito dedicato a un testo piuttosto che a un altro: varrebbero qui alcune bellissime considerazioni dell’Auerbach di Filologia della letteratura mondiale su come individuare un argomento degno di studio).

Naturalmente però sappiamo tutti che, nella valutazione di un testo recente, valgono una serie di componenti “circostanziate”, che toccano la configurazione del campo di forze letterario: prestigio dell’autore, importanza della casa editrice, sostegno di uno o più critici autorevoli, successo di pubblico, presenza in internet (dai blog ai social network ecc.). Si può uscire da questi presupposti quando si valuta un’opera? Molto spesso no, a meno di non entrare in uno spazio sufficientemente libero di discussione, la quale però, per avere un’efficacia, dovrebbe poi contare su un pubblico esperto e dinamico pronto a recepirne gli esiti. In Italia, questo tipo di pubblico è quanto mai disgregato e ciò produce micropoteri nella valutazione del presente, che si riflettono per esempio nella geografia dei gruppi forti e nella scarsa importanza dei premi letterari (pensiamo a cosa vuol dire vincere un premio Pulitzer o, invece, un premio Streghello).

Il mio obiettivo sarebbe quello di poter dialogare con continuità e poi, per sintetizzare le valutazioni mie e di altri critici o esperti, di arrivare a un confronto specifico. Qualcosa in questo senso sto già facendo, con tanti altri, per le Classifiche di qualità e per il premio «Dedalus», ora collegati a pordenonelegge. Ma ancora siamo lontani da esiti che abbiano un’evidenza condivisa: solo continuando e migliorando su questa strada si potrà arrivare a letture del presente che siano credibili e, nel contempo, demistificabili.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

Innanzitutto, non parlerei ancora di dominio assoluto. La rete è un mezzo in fase iniziale, e in sostanza per ora ha principalmente potenziato le modalità di diffusione delle informazioni, permettendo l’aggregazione di gruppi più o meno coesi, per esempio per discutere di opere di attualità o addirittura in progress. È evidente che alcune forme di attenzione ai testi, tipiche della cultura “lenta”, umanistico-classicista, sono definitivamente scomparse dall’orizzonte di chi considera prioritario il continuo modificarsi delle pagine web. E certo il critico più autorevole nell’ambito della rete è chi si presenta assiduamente, interviene su tutto, propone posizioni estreme per suscitare reazioni immediate.

È indiscutibile che, al momento, molti dibattiti significativi si svolgono in rete, o al limite nei blog dei quotidiani on-line. Però ci potremmo domandare: di tutti questi dibattiti, quali hanno avuto una durata non effimera? E di quali sentiremmo adesso il bisogno di tornare a leggere i punti essenziali? Il problema non è tanto quello di conquistare un qualche momento di visibilità on-line, quanto quello di costruire un’immagine che abbia dei contorni, sia un “sé”.

Credo che il critico oggi debba sapere che, alla fine, la sintesi delle sue riflessioni andrà discussa anche in rete, ma non deve sintetizzare quanto proviene dalla rete, bensì un’idea interpretativa che dimostri una sua precedente coerenza. I metodi dovrebbero, finalmente, essere svecchiati, messi al passo (non al séguito) degli ambiti di ricerca cognitivisti, in analogia con quanto già avviene nella linguistica e nella critica d’arte: ma occorre una riflessione ampia e sistematica, filosofico-scientifica in senso alto, che non può avvenire direttamente in rete. Dopodiché, se si punta a far entrare in circolazione in tempi rapidi queste idee, la rete è indispensabile. Entro certi limiti, internet può anche contribuire ad aprire finestre per opere altrimenti di nicchia: la poesia, per esempio, dovrebbe alla lunga avvantaggiarsi di questa situazione socio-culturale. Spesso, però, secondo un processo ben noto, persino le innovazioni più interessanti della internet-art vengono riassorbite nel sistema di compravendita consueto. Anche per questo è indispensabile che si attui un processo di aggregazione di un pubblico competente e attivo non solo in rete, che sostenga in maniera convinta le opere significative.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

Purtroppo l’impossibilità attuale di delineare un futuro per giovani ormai pronti per la ricerca universitaria, o comunque per operare come esperti di letteratura, è una condizione frustrante e difficilmente superabile in tempi rapidi. Nell’ambito dei più generali problemi derivati dalla totale deregulation del capitalismo finanziario, quello della ricerca umanistica ha l’importanza che può avere una provincia piccola e sperduta, alla quale ormai si fa fatica ad assegnare un ruolo che sia percepito come socialmente significativo. Manca soprattutto una chiara progettualità, che faccia comprendere cosa si potrà raggiungere come risultato di ricerche specialistiche di cui i non addetti ai lavori non capiscono l’utilità.

Io credo che, se si vorrà cambiare qualcosa nel prossimo futuro, si dovrà per forza stabilire un patto molto più chiaro con coloro che studieranno materie letterarie con l’idea di lavorare sulle opere o comunque nel sistema culturale attinente alla letteratura. Solo l’ideazione e la realizzazione di grandi progetti di ricerca e insieme di alta divulgazione potranno ancora consentire l’immissione di giovani nell’ambito del lavoro letterario. Insisto anche sul versante della divulgazione, da sempre considerata in Italia o una cenerentola o un’attività a scopo di lucro, e che invece richiederebbe un impegnativo ripensamento per rinnovare la didattica universitaria, così come lo si sta facendo per quella delle scuole superiori.

Credo quindi che tutti coloro che sono attualmente all’interno del mondo accademico, e guardano con attenzione ai risvolti sociali della loro attività, non possano esimersi dal tentare di esperire nuove modalità e nuovi obiettivi della ricerca. Non basta cioè rivendicare una quota maggiore di finanziamenti per creare borse di studio o posti a tempo (in)determinato. Bisogna anche capire e far capire a quale fine deve tendere questo sforzo. Una sinergia fra competenze canoniche (filologiche, storiche, ermeneutiche…) e “situazionali” (esigenze e obiettivi della comunicazione in rete; modalità per ottenere una nuova fruizione dei classici; avvicinamento di tipi di fruitori di solito separati – studenti, docenti delle scuole, divulgatori, specialisti…) potrebbe portare a una nuova fase progettuale complessiva, di cui si sente il bisogno per superare le parcellizzazioni attuali, che spesso hanno impedito e impediscono di avere un futuro a giovani ottimamente preparati, ma in sedi prive di risorse.

6 thoughts on “Cinque domande sulla critica /6. Alberto Casadei

  1. Ho letto ieri sul Manifesto la ricerca che sta conducendo Nancy Frazer , non solo sul gender, ma sul linguaggio. E sulla nuova tendenza antropologica, politica, sociologica. La filosofa si collega a Polanyi.
    Di un fascino e serietà strepitosa. Ma in Italia si traducono romanzetti, saggi accademici su quello che gli editori offrono. E per lo più sono libretti che non meritano considerazione, ma vengono presentati ai premi. Perchè gli editori non vanno avanti? Se i romanzi sono poverissimi, a volte misei, perchè non cominciare e ricercare laddove la ricerca si fa davvero e tradurre e diffondere la Frazer, come Polanyi e ancora, ancora altri. Luce Irigaray non è stata presentata adeguatamente, Così i libri, ben più antichi della Zambrano. La ricerca va considerata, altrimenti non usciremo mai dalla nostra provincia. Chiedo a tutti gli editori (ce ne sarà uno,almeno, di tradurre e pubblicare la Frazer, che sta continuando , in maniera innovativa, la scuola di Francoforte. Non possiamo leggere solo romanzetti che lasciamo perdere dopo un po’. Dobbiamo aprirci all’innovazione, al cambiamento. Non va bene nè la critica accademica , nè quella spontanea, nè quella giornalettistica. Coraggio, editori, traducete tutto ciò che può far migliorare la prosa , la narrativa e la poesia. E basta con i corsi di scrittura, che fanno credere a tutti di diventare grandi autori. Troppi libretti sul mercato. Niente si muove. Assolutamente vanno tradotti Nancy Fraze e Polanyi. E pubblicati. Sarà un arricchimento per tutti. Ho trovato qualcosina tradotto qui da case editrici minori, ma degli spezzoni. Si può fare un salto di qualità

  2. Chiedo scusa per il refuso: si tratta di N.Fraser, non Frazer. E’ nei paperbach ‘Justizia interrotta ‘su Amazon. Vi posso dare nomi dei traduttori dall’inglese, lo posso fare io. Ne ho una che mi ha ritradotto tuto il quartetto di Alessandria di Durrell. Questi sono saggi, non ci vuole molto.

  3. “L’eclettismo è però da evitare: e ci si riesce se si hanno chiari alcuni obiettivi. Il primo dovrebbe essere la difesa di opere che, nell’attuale ciclo di esplosioni di casi-del-momento seguite da un oblio totale dei medesimi, il critico ritiene che siano de-gne di essere rilette e reinterpretate quando saranno fuori moda.”

    Mi sembra importante, da questo punto di vista, ribadire, da un lato, l’opposizione al carattere spurio e concettualmente androgino di un eclettismo che confina con il sincretismo e, dall’altro, il riconoscimento che l’ortodossia non consiste nella fedeltà a una dottrina ma ad un metodo, dal momento che le grandi acquisizioni della cultura umana scaturiscono (non dalla confusione eclettica ma) dalla fusione organica e produttiva, operata secondo una coerente procedura critica, dei prodotti intellettuali, delle correnti ideali e delle categorie concettuali esistenti in una determinata epoca (come dimostrano tutti i maggiori esempi di tale fusione: dai sistemi filosofici di Platone e di Aristotele alla teoria marxista, dal poema di Dante al romanzo di Balzac, dalla rivoluzione scientifica dell’età moderna alla teoria della relatività di Einstein).

    “Il rapporto con la tradizione è una necessità, non una costrizione.”

    Questa, per un critico letterario (accademico o militante che sia), è semplicemente una verità assiomatica: ma bene ha fatto Bruni ad enunciarla in questa forma efficacemente lapidaria.

    “La storia della tradizione si deve coniugare con la capacità di interpretare gli aspetti cognitivi nascosti nelle opere di lunga durata”.

    Verissimo: come diceva Calvino, il classico, questo contemporaneo del futuro, non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. Il ‘riuso’, assieme ad altri metodi atti a saggiare le potenzialità di produzione del senso di cui sono gravidi i classici (dalla psicoanalisi all’antropologia, dalla sociologia alla linguistica), potrebbe forse funzionare come cartina di tornasole per individuare “gli aspetti cognitivi nascosti nelle opere di lunga durata”.

    “…uno spazio sufficientemente libero di discussione, la quale però, per avere un’efficacia, dovrebbe poi contare su un pubblico esperto e dinamico pronto a recepirne gli esiti. In Italia, questo tipo di pubblico è quanto mai disgregato e ciò produce micropoteri nella valutazione del presente, che si riflettono per esempio nella geogra-fia dei gruppi forti e nella scarsa importanza dei premi letterari (pensiamo a cosa vuol dire vincere un premio Pulitzer o, invece, un premio Streghello).”

    A distanza di poco meno di duecento anni registriamo, inquietante riprova del nodo mai sciolto del rapporto tra modernità e modernizzazione nella storia del nostro paese, l’inquietante attualità dei rilievi svolti da Giacomo Leopardi nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”: «Non ci meraviglieremo punto che gli italiani, la più vivace delle nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall’immaginazione neanche per un momento, la più ragionatrice nell’operare e nella condotta, la più priva affatto di immaginazione, di opere sentimentali e di romanzi e la più insensibile all’effetto di queste tali opere e generi (o proprie o straniere).» Le conclusioni che Leopardi trae dall’esame dei comportamenti degli italiani sono chiare: il cinismo e l’ipocrisia delle classi colte, così come del popolo, sono i caratteri costitutivi della nazione, dovuti alla mancanza di una “società stretta”, che genera comportamenti su cui tornerà nello “Zibaldone”, trattando degli “usi” (non dei “costumi”) prevalenti nella nostra popolazione.

    “È indiscutibile che, al momento, molti dibattiti significativi si svolgono in rete, o al limite nei blog dei quotidiani on-line. Però ci potremmo domandare: di tutti questi dibattiti, quali hanno avuto una durata non effimera? E di quali sentiremmo adesso il bisogno di tornare a leggere i punti essenziali? Il problema non è tanto quello di conquistare un qualche momento di visibilità on-line, quanto quello di costruire un’immagine che abbia dei contorni, sia un “sé”.”

    Del tutto giusta è la preoccupazione circa il carattere eminentemente volatile, ‘liquido’ e tendenzialmente labile di ciò che ‘scorre’ attraverso la rete (una sorta di ‘panta rhei’ eracliteo in cui ‘logos’, ‘pathos’ ed ‘ethos’, disarticolati l’uno dall’altro, sembrano seguire le leggi dei moti browniani, sostituendo alla ‘leggibilità del mondo’ la ‘mondità del leggibile’).

    “…occorre una riflessione ampia e sistematica, filosofico-scientifica in senso alto, che non può avvenire direttamente in rete. Dopodiché, se si punta a far entrare in circolazione in tempi rapidi queste idee, la rete è indispensabile. Entro certi limiti, internet può anche contribuire ad aprire finestre per opere altrimenti di nicchia: la poesia, per esempio, dovrebbe alla lunga avvantaggiarsi di questa situazione socio-culturale.”

    Una volta chiarito il corretto rapporto tra elaborazione e divulgazione, anche la rete può svolgere una funzione utile sul piano della socializzazione, discussione e diffusione dei contenuti della ricerca. E non è nemmeno da escludersi, tanto per citare ancora una volta Eraclito, che “la via all’ingiù” e “la via all’insù” possano interagire fecondamente in una sorta di danza dialettica.

    “Nell’ambito dei più generali problemi derivati dalla totale deregulation del capitalismo finanziario, quello della ricerca umanistica ha l’importanza che può avere una provincia piccola e sperduta, alla quale ormai si fa fatica ad assegnare un ruolo che sia percepito come socialmente significativo. Manca soprattutto una chiara progettualità, che faccia comprendere cosa si potrà raggiungere come risultato di ricerche specialistiche di cui i non addetti ai lavori non capiscono l’utilità.”

    “Respice finem”, dicevano giustamente i Romani. Fondamentale è porre, come fa Bruni, il problema di “una chiara progettualità”, confrontandosi con la logica culturale distruttiva, organicamente anti-umanistica, del capitalismo finanziario, collegandola al tema della crescente frammentazione delle ricerche specialistiche e ponendo con forza l’esigenza di una sintesi non solo linguistico-disciplinare, ma anche politico-culturale dei saperi. Laddove non vi è dubbio che una strategia di “rinazionalizzazio-ne” delle nostre istituzioni formative e di ricerca, che in modo non autarchico, ma attraverso un costante confronto e dialogo con le altre culture a partire dalla nostra specifica identità nazionale, accompagni la realizzazione della medesima strategia sul terreno economico e politico, restituirebbe alle discipline umanistiche, così come a quelle scientifiche, spazio, spessore, dignità e incidenza.

    “Solo l’ideazione e la realizzazione di grandi progetti di ricerca e insieme di alta divulgazione potranno ancora consentire l’immissione di giovani nell’ambito del lavoro letterario. Insisto anche sul versante della divulgazione, da sempre considerata in Italia o una cenerentola o un’attività a scopo di lucro, e che invece richiederebbe un impegnativo ripensamento per rinnovare la didattica universitaria, così come lo si sta facendo per quella delle scuole superiori.”

    Queste parole di Bruni sono miele per le orecchie di chi, come lo scrivente, ha appreso da filosofi come Ludovico Geymonat, oltre che dalla diretta partecipazione ai movimenti degli studenti e degli operai della fine degli anni sessanta del secolo scorso, l’importanza strategica dell’interazione fra i lunghi respiri della ricerca ed i brevi respiri della didattica, fra il “pensare difficile” e il “mostrare semplice”, fra alti livelli di elaborazione ed alti livelli di divulgazione in un paese, come il nostro, in cui non esiste né in campo umanistico né in campo scientifico, a causa del carattere mandarinale del mondo accademico (ma forse si potrebbe dire ‘mafioso’) e della sordità delle case editrici ad iniziative che non garantiscano ritorni economici immediati, una tradizione di “divulgazione rigorosa” paragonabile a quelle esistenti in Inghilterra, in Francia o in Germania.

    “Non basta cioè rivendicare una quota maggiore di finanziamenti per creare borse di studio o posti a tempo (in)determinato. Bisogna anche capire e far capire a quale fine deve tendere questo sforzo.”

    Già, il fine…e i fini, in buona sostanza, hanno inevitabilmente un carattere politico e sono semplici. Provo ad enunciarne una serie, in negativo: il nemico principale è oggi il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale e l’imperialismo, ‘in primis’ quello americano, sul piano geopolitico. Una volta chiariti i fini, diceva De Gaulle, l’intendenza seguirà.

  4. Chiedo scusa al prof. Alberto Casadei per lo scambio di identità con il prof. Raoul Bruni, scambio a cui la calura agostana non è sicuramente estranea…

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