[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].
Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Daniele Giglioli.
1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?
In linea di principio sì. Come potrebbe essere altrimenti? Si sceglie per il solo fatto di parlare di un oggetto invece che di un altro. L’idea di scelta è insita nell’etimologia stessa del termine. La critica, anche quella intitolata al più infinito intrattenimento, opera in un regime di rarefazione del discorso: non si può parlare di tutto così come non si può dire tutto, e per il fatto stesso di privilegiare un oggetto si produce una mutilazione nel corpo del possibile, di quanto cioè poteva essere detto. Altra questione, mi sembra, è se sia ancora attuale quella pratica che nel secolo passato è stata chiamata appunto la critica militante. Nel senso stretto del termine, come critica fiancheggiatrice di una poetica o di un gruppo di scrittori, direi di no, anche perché le poetiche, perfino quelle implicite, sono le prime a mancare all’appello. A riguardarla col senno di poi, del resto, non è che abbia lasciato dietro di sé un grande arsenale: nel migliore dei casi un documento, quasi sempre a rimorchio di idee che gli scrittori erano di solito perfettamente in grado di teorizzare da sé. Il critico come stratega della battaglia letteraria è forse l’unica frase non felice che abbia scritto Walter Benjamin. Né mi sembra abbia più grande rilievo una visione della militanza in cui il critico si fa garante, se non della convenienza dell’opera a una certa idea di letteratura, quanto meno della sua qualità. Mettiamo per carità di patria da parte la questione teorica circa la natura del giudizio, che ci costringerebbe a riaprire la terza critica kantiana e a rimanere lì a chiosarla (perché lì, come si dice, c’era già tutto).
Ma troppo mutati sono la situazione, il contesto, la struttura della società, perché l’attività del critico possa ancor essere quella di un mediatore tra il gusto delle élites e la capacità di intendimento del pubblico di massa: una funzione che è sorta a fine Settecento a seguito del tracollo del sistema dei generi, del sorgere dello stato nazione modernamente inteso, del contraddittorio affermarsi di una società democratica quanto ai diritti ma ancora profondamente gerarchica quanto all’estetica. La rovina di questo tipo di critica era del resto già prevista fin dalla sua genesi nelle Illusioni perdute di Balzac, dove si mostra genialmente come la diffusione delle affiches, e cioè della pubblicità, mandò da un giorno all’altro in soffitta il potere effimero delle recensioni teatrali. Cose note e ripetute. Colpisce semmai che ci sia ancora qualcuno che ci creda: il critico come distributore di bollini, certificati, tre forchette. Blanda allucinazione, malafede, lutto per la perdita di una posizione di prestigio? Mi chiedo piuttosto se non sia il caso di rovesciare dialetticamente la malinconia, cercando opportunità fin qui nemmeno mai intraviste in una situazione che ha reso la parola del critico “quodlibetale”, qualunque, disarmata come quella di chiunque altro. A mani nude. Una contraddizione inizialmente vitale ma alla lunga mortifera ha insidiato infatti il discorso della critica (non solo letteraria: della Critica tout court, come habitus, postura esistenziale prima che culturale; qualcosa come un sinonimo di Modernità): il concubinato non risolto col principio suo opposto, ovvero il carisma. Implicito nel gesto critico era l’imperativo: penso da me, cammino eretto, esco dallo stato di minorità, mi servo della mia propria intelligenza (così Kant nel 1782); e invito voi lettori a fare altrettanto. Fatelo, perché lo dico io che la so lunga, e non a caso mi chiamo Voltaire o Sartre, Ruskin o Leavis o chi volete. Contraddizione in termini, doppio vincolo, analogo a quello di chi dica a un altro: sii spontaneo! La critica nasce dalla messa in crisi del principio di autorità, eppure rischia sempre di diventare autorità a sua volta. Il grande critico si trasforma allora in colui che dice il bene e il male, impone canoni, decreta successi, elargisce eternità…
Dobbiamo davvero rammaricarci che questo sia finito? Secondo me no. Erano le vestigia di un privilegio. Chi le rimpiange ha quasi sempre un sostrato avvertibilissimo di personalità autoritaria. L’opportunità che vedo davanti ai nostri occhi è quella determinata dalla circostanza che il critico, se non vuole vivere nella blanda allucinazione o nella malafede di cui sopra, è costretto a scoprire in sé, e addirittura a inocularsi le stesse identiche fragilità di cui soffre il suo lettore: predominio del mercato, casualità stocastica degli incontri, delle informazioni e delle letture, scarsa rilevanza della propria parola, instabilità categoriale dei criteri, esautoramento della letteratura dal rango dei saperi autorevoli… Ed è proprio questo che gli dà diritto, forse per la prima volta nella storia, a pronunciare un “noi” non elitario; a essere cioè, come mai prima, davvero rappresentativo, e inverare così una potenzialità che il non risolto connubio tra critica e carisma aveva sempre invalidato. Michel Foucault chiamava questo tipo di prospettiva «ontologia del presente»: la configurazione di qualcosa che da una parte è lì da sempre (la dynamis implicita, la promessa messianica insita nel gesto critico), e che dall’altra si lascia cogliere e concettualizzare solo ora. C’è in altre parole, proprio a causa dello smontaggio dei poteri tradizionali della critica, la possibilità che la parola del critico diventi davvero qualcosa di diverso, una volta per tutte, da quella del sacerdote o dello scienziato. Una parola che non dica più: ecco come stanno le cose, ma piuttosto: ecco cosa è possibile fare – e io, con ciò che ho scritto, ne sono la prova – leggendo e commentando quel testo: quali pensieri, quali emozioni, quali sperimentazioni con la propria identità individuale e collettiva è possibile mettere in atto. Non si tratta più di dire al lettore: pensa come me, ma piuttosto: guarda quanto è bello, ricco, utile ecc. pensare per proprio conto. Il contenuto delle enunciazioni di un critico, a guardar bene, è sempre stato secondario rispetto alla sua capacità di istituire, di rendere possibile, non solo per sé, il proprio stesso aver luogo. Non è una sfida facile, ma vale la pena di giocarsela. D’altronde, abbiamo alternative?
2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
Vale più o meno lo stesso discorso. Negli ultimi due secoli la critica è stata anche un’istituzione, è riuscita perfino a farsi riconoscere dallo Stato una capacità di rilasciare titoli di studio aventi valore legale: se vuoi la laurea devi operare secondo certi standard, procedure, protocolli, ordini del discorso. La figura del maestro intesa in questo senso non è mai andata disgiunta da quella del dispensatore di crediti e di cattedre. Un compromesso coi poteri di questo mondo davvero poco socratico, con le luci perfettamente bilanciate dalle ombre: “tramando” artigianale di saperi, di tecniche, di abilità, capacità di delineare (ma perciò stesso anche di chiudere) un orizzonte di senso, da una parte. Dall’altra subordinazione, ricatto, complessi di Edipo e papa-maman a profusione – era inevitabile. Una storia, anche questa, ormai finita. Possiamo giudicarla in modo equanime. Rimpiangerla è antistorico quanto sbeffeggiarla. Nessuno dei critici oggi sulla quarantina che abbia la ventura di insegnare in Università si troverà mai a ereditare quella specifica funzione: nessuno sarà più maestro, non avremo “allievi” nel senso tradizionale del termine, anche perché le trasformazioni dell’Università negli ultimi decenni sono state tante e tali da rendere impossibile riproporre una simile opera di filiazione (ti lascio il mio verbo e la mia cattedra). Quanto ai maestri che concretamente abbiamo avuto: è ovvio che si sono fatti certi incontri e non altri. Se uno ha studiato a Pavia non può inventarsi una Bildung a Bologna, così come perfino Dio, diceva San Tommaso, può ricostruire l’imene di una vergine ma non far sì che la stessa non abbia perso la verginità. Ma è anche vero che, almeno per quello che mi riguarda, io considero i miei maestri tali non tanto per quello che mi hanno insegnato allora, ma per quello che di vivo e attivo di loro mi sembra in circolazione ancora oggi. In questo senso, per esempio, la figura di Mario Lavagetto, che è quella che per me più si avvicina al maestro tradizionalmente inteso, mi sembra si collochi per le modalità stesse del suo approccio al crocevia dei modi di far critica di tanti che non necessariamente lo hanno avuto direttamente come professore, relatore, mentore… Discorso analogo varrebbe, immagino, per altri. L’unica idea di maestro che mi sembra ancora oggi sostenibile è quella di chi ti ritrovi, sia pure metaforicamente, giorno per giorno nella tua stessa trincea.
3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?
Ma non si sono sempre coniugati? Contini non li praticava entrambi? E come lui tanti altri. Criteri e metodi, invece, è ovvio che divergano, anche se il precetto che bisogna leggere i contemporanei come classici e i classici come contemporanei conserva il suo valore di sollecitazione. Purché significhi, beninteso: leggere i contemporanei con la serietà che si riserva ai classici, e i classici con la ricerca di risorse vitali che si suppone applichiamo naturaliter ai contemporanei. E purché si sfugga, invece, quanto al passato, alla trappola della lettura attualizzante a tutti i costi. Meglio il più meccanico dei lachmaniani che un critico che pensi di abbattere il capitalismo o il patriarcato rileggendo Omero: mete condivisibili, per quanto mi riguarda, ma da perseguire iuxta propria principia. Il passato è importante proprio perché passato, altro, in parte sempre irriducibilmente estraneo: appiattirlo sull’oggi rende un pessimo servizio all’oggi in primo luogo, lo impoverisce, ne fa una macchina da tautologie, un eterno presente che si nutre solo di se stesso. Altrettanto esiziale è d’altronde il rischio, implicito in un’idea di critica militante che non abbia preso sul serio gli argomenti di cui alla prima domanda, di leggere i contemporanei alla ricerca di quelli che saranno i classici di domani. Chi resterà? Chi durerà? Questo si chiama usurpare l’opera del tempo. Pericolosissimo, se fosse possibile, ma per fortuna non lo è. Anche il futuro, agli occhi di un critico, deve essere pensato in termini di alterità. È qui e ora che possiamo giocarci il nostro rapporto con i testi. Alle generazioni future il compito di regolarsi con il loro. Niente mi fa più senso di quella concezione proprietaria della critica che si compendia in espressioni come: il Baudelaire di quello, il Kafka di quell’altro, lo scopritore di Caio, il crocevia obbligato degli studi su Sempronio. Solo atto critico degno di questo nome è quello che, prelevando dalla potenza del comune, restituisce al comune una potenza accresciuta, se è vero che a rigore, col suo gesto, il critico dovrebbe essere chiamato a prefigurare una situazione in cui tutti siano critici, e dunque il critico come professione non esista più (un’affermazione, questa, che non va confusa con la solita ipocrita professione di umiltà per cui il critico è al servizio dell’autore, o della poesia, e dunque deve cancellarsi, sparire, ecc; perché si deve per forza essere al servizio di qualcuno?). Infine, il problema di come scegliere gli oggetti. Chi potrebbe oggi esibire una regola, un dispositivo vincolante? Nemmeno però si può onestamente sostenere: a caso. Nessuno opera senza riferimenti, criteri sia pur rinegoziabili, credenze egemoni nella propria comunità interpretativa più o meno immaginaria. Ma fare giusta parte al caso (cioè alla propria contingenza, alla storia che si è avuta, agli incontri che si fanno, alle curiosità anche irriflesse, alle strade che magari non portano da nessuna parte…) è qualcosa che non depotenzia l’atto critico, e che semmai lo accresce, portandogli in dono la consapevolezza e la ricchezza della propria parzialità. Siamo gettati, esattamente come tutti gli altri lettori, nell’universo potenzialmente infinito della letteratura-mondo; tutto ciò che di buono ne trarremo non potrà venire che da chi sappia assumere con la massima radicalità la situazione. Il rischio è certo che l’oggetto dell’attenzione critica diventi un n’importe quoi, un pretesto per gli esercizi del critico medesimo: non conta di cosa parlo ma cosa ne ricavo, cosa ci faccio. Ma è poi un gran male? E non è sempre stato, almeno in parte, così? Specialisti a parte, chi ha letto anche uno solo dei drammaturghi seicenteschi analizzati da Benjamin nel Dramma barocco tedesco? Eppure il libretto non è male. C’è tutta una ontologia micragnosa per cui il Grande Critico è colui che si occupa delle Grandi Opere (o dovrebbe: deontologia) da cui faremmo bene a congedarci quanto prima. Impoverisce la realtà e paralizza la prassi.
4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?
Sarà colpa mia, ma questo dominio assoluto non lo vedo proprio. Quanto meno, la prima generazione di lit-blog si sta avviando verso un mesto tramonto. Non mi sogno affatto di negare le grandi potenzialità della rete, ma certo sono ancora tutte da scoprire. Per il momento mi sembra che, almeno sul piano della critica, Internet abbia rappresentato una sorta di realizzazione parodica di quello che dovrebbe essere il motore primo della critica: presa della parola, tentativo di pensare da sé. Realizzazione parodica perché non per questo è vero che ogni scarafone è bello a mamma sua, ovvero che il mio pensiero, non argomentato, urlato, spiattellato in forme di continui obiter dicta, valga quanto un altro: per nulla. Ha lo stesso diritto, ma non lo stesso valore. Domina in rete la domanda implicita (spesso anche esplicita): e chi l’ha detto? È la stessa da cui prende avvio la critica. Ma l’avvio è appunto solo un incipit, poi bisogna ragionare, argomentare, persuadere. La rete è piena di aspiranti oligarchi, di sanculotti che si credono Pitagora, e viceversa. Ed è purtroppo percorsa da una tonalità affettiva che ha sì a che fare con la critica (ovvero: c’è qualcosa che non mi sta bene; Adorno diceva che critica è introdurre un elemento di negatività nell’essere), ma finisce per esitare nel suo opposto: non la gioia affermatrice di chi si emancipa, ma il risentimento del subalterno. Parodico è anche il costante atteggiamento di debunking che anima spesso la retorica di chi si esprime in rete: tutto ciò che sapete è falso, ora vi spiego come stanno davvero le cose. Come negare, anche qui, la parentela con la critica? Ma anche purtroppo con la paranoia. La mia impressione è che ci vorrà tempo (generazioni, forse) perché si crei un sensorio adatto a sfruttare le opportunità del mezzo. Ma credo che più in generale su tutto l’intero universo del Web 2.0 si stia avviando una riflessione meno ingenua e più disincantata rispetto all’euforia iniziale.
5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
Se il nostro paese sta vivendo un momento di gravissima emergenza storica non è certo solo rispetto ai trenta-quarantenni, ma anche ai sessantenni che non possono andare in pensione, ai cinquantenni che perdono il lavoro o ai ventenni che non lo troveranno mai. Per quanto riguarda poi più nello specifico il cosiddetto e mal denominato lavoro intellettuale, o culturale (un sintagma ormai foriero di più danni che benefici: ricatti, illusioni, compromessi al ribasso, al punto che c’è chi, come Sergio Bologna, propone di sbarazzarsene senza rimpianti), non mi pare proprio che i trenta-quarantenni siano fuori dalla vita produttiva: in tanti ormai occupano posizioni di prestigio nei giornali, all’università, nell’editoria, nella macchina infernale degli eventi, dei festival, delle proloco più o meno titolate… Né, dove ciò accade, tengono un comportamento molto diverso da quello delle generazioni precedenti: peggiore, semmai, non quanto alle pratiche in sé ma quanto alla legittimazione storica e sociale, dato che nessuno può più permettersi la pia illusione di sentirsi, a scelta, coscienza critica, funzionario dell’umanità, intellettuale organico, e via accumulando gusci vuoti. Forse aveva ragione Althusser quando diceva che senza ideologia (cioè coscienza sia pur necessariamente rovesciata della propria situazione nella struttura sociale) è impossibile operare con efficacia. Se c’è un’emergenza che la generazione dei trenta-quarantenni dovrebbe avvertire è quella di star dissipando non le proprie opportunità di esserci e di contare, ma quella che Benjamin chiamava la debole forza messianica concessa a ogni generazione. Questa è almeno l’angoscia che sento io personalmente. Probabile del resto che tutte le generazioni l’abbiano provata. Ma è certo che nessuna l’ha mai risolta ricorrendo al vittimismo. Quanto alla sicurezza delle generazioni precedenti, sarà bene che ci abituiamo a pensare che la relativa sovrabbondanza di opportunità di cui hanno goduto le generazioni postbelliche è stata un’eccezione, non la regola della storia. La stragrande maggioranza dell’umanità ha sempre vissuto in uno stato di emergenza. Una critica che voglia essere all’altezza del suo compito non può che partire da qui.
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