[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Gabriele Pedullà.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Sono contro qualsiasi ipotesi di critica a priori, cioè intesa come promozione di una particolare tendenza estetica. La critica è anzitutto capacità di ascolto, e questo mi porta ad avere poco interesse, generalmente parlando, per i giudizi di quanti interpretano invece la propria attività come pura e semplice apologia di uno stile, un movimento, una poetica. Il critico-compagno di strada, che difende a tutti i costi e si fa banditore di un gruppo di poeti o narratori, è tra le figure novecentesche per cui provo meno nostalgia. Credo però molto all’importanza di dividere il campo. Capacità di ascolto non vuol dire affatto degustazione ecumenica o assenza di conflitto: come pure non vuol dire olimpica serenità. Il critico è partigiano – e non escludo affatto che si possano creare delle speciali comunanze di sensi intellettuali e artistici con un autore o un gruppo di autori. Ben vengano, anzi, simili affiatamenti purchè ognuno continui a parlare dalla sua posizione. Non appena infatti il critico si riduce a portavoce del suo beniamino le sue analisi perdono gran parte del loro interesse e lui rischia di scadere a ufficio stampa di qualità – il ruolo che, nel campo dell’arte, spetta in genere ai curatori di mostre.

Nessuno mi sentirà mai fare un elogio dell’eclettismo. Al contrario penso che un buon critico debba coltivare le proprie strong opinions. Il presunto equilibrio del recensore militante non implica affatto che egli rinunci alle passioni in nome di una superiore equanimità, secondo un modello che in Italia rimane legato al nome di Benedetto Croce. Le passioni sono un potente strumento di conoscenza, anche se è ovvio che da sole non bastano e che, non appropriatamente decantate, possono divenire un ostacolo. Anche in questo senso parlo della necessità di coltivare le strong opinions (le strong opinions non educate, come del resto le passioni, non hanno alcun valore critico).

Piuttosto si tratta dunque di affinare il proprio orecchio e di imparare a costruire solidi argomenti a favore di un’opera o di un tipo particolare di letteratura; e se qualche volta, nel processo di analisi della propria reazione immediata, si cambierà idea, tanto meglio. Il critico ha il dovere di educare se stesso e di essere accogliente verso il nuovo e il diverso. In questo senso la polemicità connaturata alla critica (si scrive sempre per un’arte contro un’arte differente) ha valore solo quando è accompagnata da argomenti e da ipotesi interpretative; il semplice “mi piace non mi piace” ha un interesse unicamente aneddotico: persino quando a pronunciarlo è un grandissimo autore. La chiave della critica è la prova, e uno dei problemi maggiori di un critico è appunto quello di far sì che le prove non rendano indigeribile la lettura delle proprie pagine (un dilemma che i critici accademici in genere non avvertono). Gli argomenti razionali aiutano a comprendere meglio le opere anche quando, a un supplemento di indagine, essi dovessero rivelarsi insostenibili: la loro falsificabilità (e il fatto che inducano qualcuno a provare a falsificarli) li rende preziosi. Al contrario il “così è perché mi pare”, al quale spesso si accompagna un altrettanto perentorio e deludente “de gustibus non disputandum est”, ci ricaccia nella solitudine del sì e del no. Purtroppo molta della critica su internet è fatta così. Thumbs up, thumbs down. Grugniti di soddisfazione o di stizza. Non è un buon segno.

C’è un altro aspetto da non dimenticare mai. La critica conta anche per la sua natura relazionale, vale a dire per la sua capacità di stimolare un dibattito di opinioni. Se una poesia o un romanzo prevedono un rapporto a due, qui entra in gioco una terza figura che finisce per arricchire anche la relazione tra l’autore e il suo pubblico. La critica è una scossa elettrica che si trasmette a tutti coloro che entrano in contatto con essa. Anzi: dal punto di vista del sistema letterario ha più valore una discussione di alto livello che non un intervento isolato il quale, ipoteticamente, riuscisse a cogliere al primo colpo tutti i caratteri fondamentali di un’opera. Detto in altre parole (qui rubo una massima a Montaigne), il momento della caccia è spesso ancora più importante di quello in cui si consuma la selvaggina.

Al centro della rete delle interpretazioni si trova infatti il lettore: il quale, sperabilmente, dovrebbe essere spinto dal contrasto delle opinioni a sviluppare in piena libertà il proprio giudizio. Se la critica di tendenza nel XX secolo ha proposto un modello di critica come contrapposizione tra due schieramenti impegnati nella guerra civile mondiale della letteratura (rivoluzionari contro conservatori), la critica alla quale penso io individua il suo modello piuttosto nel bilanciamento dei poteri della tradizione politica di Machiavelli e Montesquieu. È bene che non ci siano vincitori assoluti e che il dibattito continui (anche se naturalmente ci si può augurare che esso diventi sempre migliore, che a poco a poco i paralogismi cadano e che il gusto dei participanti alla discussione si faccia più sicuro). Uno dei motivi per cui non amo il modello del critico-fiancheggiatore è perché, rinunciando alla propria autonomia, un simile critico viene a far mancare una delle polarità su cui si dovrebbe basare il sistema dei checks and balances.

In un’epoca di eclettismo debole come la nostra (esiste infatti anche un eclettismo forte, che è in grado di assimilare in forme originali stili e teorie assai diversi tra loro), è tanto più importante prendere posizione con chiarezza. Da questo punto di vista penso che il fatto di partecipare da qualche anno al dibattito letterario nella doppia veste di narratore e di critico abbia avuto un buon influsso su di me. Ho notato che le mie strong opinions sono diventate più strong. E nel contesto attuale un poco di tolleranza in meno mi sembra un buon antidoto al laissez-faire di gran lunga prevalente sulla stampa quotidiana.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

I maestri insegnano a non commettere certi errori – a volte mettendoci in guardia, altre volte perché ci sono caduti già loro, e in tal modo li hanno resi più evidenti a chi si confronta con la loro opera. Ma i maestri servono soprattutto perché allenano il nostro gusto: semplicemente ci aiutano a vedere delle cose che da soli non eravamo stati in grado di cogliere. La prossima volta, forse, ci riusciremo da soli.

La parola metodo, invece, mi evoca una produzione seriale di opere replicate con lo stampino. E io dico: no, grazie. Ci sono però, questo lo ammetto, dei protocolli da rispettare. Prima di andare in sala operatoria ci si lavano le mani; allo stesso modo non si deve mai confondere il protagonista con l’autore del romanzo. Banali imperativi che ogni tanto qualcuno trascura, con gravi conseguenze per il malato e per il libro di cui si scrive.

Ma da soli i protocolli non bastano. Alla fine contano l’occhio e l’orecchio: il critico ideale rimane un connaisseur che sa trasformare i segni, quali lui solo riesce a cogliere, in un sistema concettuale di pensieri (la formula perfetta sarà dunque: analisi stilistica più filosofia). Qui il metodo va inteso tutt’al più in maniera non scientifica e non cartesiana, come empirico mode d’emploi. Nessuno mi toglierà mai dalla testa che il processo di apprendistato del critico, come quello di ogni altro scrittore, somiglia a quello del ragazzo di bottega che assista al lavoro del maestro nel suo farsi e a poco a poco impari a ripetere i medesimi gesti – ma naturalmente è meglio quando i maestri sono molti, perché è più facile che in questo modo l’allievo arrivi a sviluppare uno stile originale di lettura e di scrittura. Niente, soprattutto, è più lontano da me dell’idea che ci sia un canone di scuola da ereditare. Anche se è provato che sposare un metodo e un campo di ricerca aiuta nella carriera universitaria.

Ci tengo però a precisare un punto: il mio fastidio per le metodologie non ha niente a che vedere con un gusto per l’ineffabile dell’arte. A differenza dei saggisti di dieci o quindici anni più grandi di me, non provo nessuna affinità con figure quali Citati o Garboli. La loro autorevolezza si fonda su un’idea di autorità del critico di cui ho imparato a diffidare sulle pagine di Francesco De Sanctis, che lo soprannomina ironicamente il critico-Minosse. E la stessa interpretazione della personalità di Giacomo Debenedetti quale maestro “naturale” di auscultazione dei testi non mi convince per niente, perché trascura deliberatamente che quella eccezionale capacità medianica di entrare in rapporto con il non detto si era affinata nei decenni attraverso le letture più diverse e un rapporto privilegiato con la psicoanalisi.

La verità è che non conosco lettura più formativa che le opere dei grandi fondatori di metodi: i maestri della critica che ci conducono nel loro laboratorio e ci mostrano come funzionano i testi. Tutto sta nell’atteggiamento che assumiamo nei loro confronti: se riusciamo cioè a trattarli da guide intellettuali o se invece le loro pagine diventano un testo sacro sul quale giurare. Tra i ricordi più vividi dei miei anni di formazione ricordo un convengo nel quale un paio di illustri accademici si sfidavano a singolar tenzone citando a memoria passi di dieci o quindici righe di Gianfranco Contini. Ipse dixit. Difficile immaginare una lezione più dannosa per gli studenti presenti in sala in quel momento.

L’atteggiamento dei critici più giovani verso i maestri del Novecento non è né di rimozione (qualche volta magari di semplice ignoranza), né di angoscia dell’influenza. Prevale, a ragione, la consapevolezza che nell’attuale società dalla comunicazione difficilmente un critico serio potrà godere dell’autorevolezza e del credito di cui hanno beneficiato le grandi figure di allora. Semplicemente, nel mondo di oggi è la stessa funzione di critica a essere mal vista (e non mi riferisco solo alle arti: magari fosse così!). Il critico viene descritto come un ostacolo alla macchina, cioè al sistema dei consumi. E come tale, se non si limita a sancire i giudizi del mercato (dando a essi una sorta di ratifica supplementare), viene trattato come un disturbatore della pubblica quiete da sospingere ai margini della società dello spettacolo. Proprio per questo, però, la critica diventa una pratica intellettuale sempre più preziosa: anche come palestra della democrazia. Tocca a noi difenderla.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Credo molto nella possibilità di fare militanza col passato, ma non tanto nel senso di piegare gli autori di ieri alla battaglia culturale di oggi (una cattiva abitudine di certa critica, che considera la tradizione come territorio di conquista e si fa in quattro per arruolare forzatamente gli spiriti magni nella propria squadra), quanto piuttosto nel senso di rivedere i giudizi tramandati e provare a valutare dal presente autori e opere di cinquanta, cento o trecento anni fa. Un supplemento d’inchiesta che è destinato a non finire mai. Nella mia attività di studioso mi sono occupato principalmente di letteratura del Rinascimento, ma come contemporaneista mi interessano soprattutto gli autori di seconda fila che meriterebbero di stare in prima. La mia scelta di Fenoglio quale soggetto del mio libro di esordio (nel 1997, anche se il libro è uscito nel 2001) va letta in questa prospettiva, anche se da allora le quotazioni del grande albese non hanno fatto che salire. Per intenderci: non mi verrebbe mai in mente di dedicare una monografia – poniamo – a Pirandello, Svevo, Montale, Calvino, Primo Levi o Pasolini, tanto per nominare autori sui quali bisognerebbe imporre per legge dello Stato una moratoria decennale.

Con gli autori cronologicamente più vicini mi piace il fatto che un ampio saggio da rivista possa svolgere una funzione paragonabile a quella che con un classico del Novecento spetta alle sistemazioni monografiche. Negli ultimi anni ho scritto testi piuttosto lunghi su autori quali Michele Mari, Tommaso Pincio, Valerio Magrelli, Sandro Veronesi, Francesco Pecoraro; ho accumulato parecchi interventi su Paolo Di Stefano e Andrea Bajani ai quali mi piacerebbe dare una forma più organica; avevo cominciato a prendere appunti per un saggio su Antonio Pascale che un giorno o l’altro spero di riprendere. Gli scrittori di questa lista sono semplicemente alcuni di quelli che mi piacciono. Confesso che non ne posso più di una tendenza tipica della critica italiana che, invece di puntare sui valori (ci sono? secondo me sì), spreca energie a stendere lunghe stroncature dei romanzi di Scalfari, di Moccia o della Mazzantini. Bella forza! Come se servisse a qualcosa, oltre che a godere per un istante della luce riflessa degli autori dei best-sellers televisivi attraverso una polemica prevedibile quanto inutile. Il diritto alle stroncature bisogna guadagnarselo investendo energie e passione sugli autori e sui colleghi che si ammirano. Almeno io la penso così. Fare diversamente significa accontentarsi di indossare la maschera del Signor No: una maschera che il circo dei media concede sempre con piacere ai contestatori inoffensivi mentre li invita a farsi anche loro due giri in pista, tra la donna barbuta e il puledro maremmano che predice il futuro.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

Non vedo nessun dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo: a meno che, naturalmente, non si parli di puri numeri. Nel qual caso, effettivamente, confermo: è ormai probabile che la massa di interventi sulla letteratura affidate ogni giorno al web superi, e anche di molto, quelli pubblicati dalla stampa cartacea. Eppure, nel complesso, questo flusso mi sembra poco significativo. La rete costituisce purtroppo la principale coltura artificiale della bêtise flaubertiana: una gigantesca cloaca magna del narcisismo, che invera la diagnosi del grande narratore francese sul non-pensiero dei luoghi comuni quale mera ripetizione di idee ricevute (cioè non pensate, non assimilate, ma riecheggiate per pura coazione mimetica). Naturalmente sulla rete si pubblicano anche tanti testi di grande qualità, ed è probabile che nei prossimi anni il loro numero cresca ulteriormente. Nel caso dei miei racconti, per esempio, mi ha colpito molto che un paio degli interventi più acuti siano stati affidati al web da lettori non professionisti di straordinaria perspicacia (per non professionisti intendo qui esclusi dal sistema della carta stampata). Ma sono ancora delle eccezioni. Per il momento la legge dei grandi numeri è troppo forte: e i pochi buoni vengono schiacciati dal rumore di fondo.

Gli sforzi di siti come «Le parole e le cose», «Doppiozero» o «Lankelot» mi sembrano tanto più meritori in quanto promuovono delle vere e proprie oasi di civiltà nella generale barbarie del web. Il loro livello è spesso più alto di quello della stampa quotidiana. Vedo però almeno tre rischi della scrittura per la rete, chiaramente connessi alla particolare natura del medium e dunque intrecciati tra loro. Innanzitutto la verbosità. Ci aspetteremmo interventi appuntiti, perché – ci dicono – il lettore digitale non ha la pazienza di sorbirsi testi lunghi; invece nella maggior parte dei casi è facile constatare come la tentazione a dilunguarsi finisca per avere il sopravvento: tanto, senza carta e inchiostro, lo spazio disponibile è illimitato. Naturalmente, con la progressiva trasformazione delle recensioni sulla stampa cartacea in francobolli critici, questa possibilità di sviluppare con agio il proprio discorso diventa sempre più preziosa, ma ho l’impressione che sino a oggi venga troppo spesso interpretata come mera assenza di controllo e di misura, laddove le contraintes giornalistiche hanno almeno il vantaggio di favorire la stilizzazione.

Secondo: la fretta. Su internet tutti rispondono all’istante; un intervento scatena un dibattito nelle prime ore, appena postato, o non lo scatenerà più. La probabilità di confrontarsi con il nucleo profondo di un pensiero (quando c’è) diventa così molto più bassa: e, infatti, da quando i commenti vanno inviati con la stessa velocità di un pistolero, la tendenza a soffermarsi nel dibattito su dettagli marginali invece che sul vero punto della disputa si è fatta sempre più diffusa.

Il terzo punto è strettamente legato a questo. Mi riferisco – ovviamente – alla polemicità. I pistoleri sparano: le rivoltelle sono lì appositamente per lo scopo. Insulti, dileggi, tendenza a trascendere immediatamente dal piano delle idee a quello delle offese personali… Chiunque ha bazzicato anche per poco su un sito internet di argomento letterario sa di cosa parlo: persino sui siti migliori, e persino tra fior di professionisti della penna abituati a discutere urbanamente in altre sedi.

L’origine del problema è ovviamente comune. Quel che amo poco della critica in rete è appunto la tendenza a sospingere sempre di più la scrittura verso l’oralità: a renderla cioè fluviale, irruenta, poco sorvegliata. Il dibattito in rete è sicuramente vivo, ma, al di là degli argomenti spesso troppo deboli messi in campo dai duellanti, è l’aspetto propriamente letterario della critica che mi pare venga mortificato a beneficio dell’esigenza di affermare immediatamente – cioè subito ma anche senza mediazioni – le proprie idee. Io invece continuo a credere nella forma. E quando leggo un bel saggio postato su un blog seguito da una folla di reazioni scomposte – secondo una modalità cui dopo un po’ si rassegna anche colui che ha scritto il testo da cui la discussione è nata – beh, vi confesso che vengo assalito da una grande malinconia. E la critica come grande forma letteraria della modernità?

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

Il vero tema politico della nostra epoca è la crisi del compromesso socialdemocratico e l’indebolimento della classe media: i trenta-quarantenni sono semplicemente i primi che si sono affacciati sul mercato del lavoro al di là di una soglia epocale. Lo scontro non è dunque tra vecchi e giovani ma tra una piccola élite finanziaria e il resto della popolazione mondiale, a sua volta divisa tra le classi medie occidentali, sottoposte a un attacco senza precedenti, e gli emarginati di ieri, i quali solidarizzano con una globalizzazione che, mentre distrugge lo stato sociale da noi, porta un principio di benessere da loro. Con una politica che ha rinunciato a qualsiasi strumento di controllo sui movimenti dei capitali finanziari e un miliardo e trecento milioni di crumiri cinesi pronti a prendere il nostro posto per pochi spiccioli, la prospettiva si annuncia piuttosto scura negli anni a venire.

Per indole sono un riformista. E da giovane ho creduto a lungo che l’Europa occidentale sarebbe approdata pacificamente al socialismo attraverso crescenti imposte progressive e tasse di successione appropriate allo scopo – vale a dire la redistribuzione dei redditi e la scomparsa della rendita. Naturalmente all’epoca il processo di democratizzazione della vita pubblica era già sotto attacco, ma la speranza (l’illusione) era che si trattasse di una breve parentesi prima di un nuovo ciclo espansivo. Ora sappiamo che non è andata così. Da vent’anni assistiamo in tutto il mondo occidentale alla smobilitazione degli strumenti che i lavoratori novecenteschi avevano costruito per costringere i grandi capitalisti a scendere a patti. Uno degli effetti dello smantellamento dei partiti di massa è l’assenza di veri strumenti di pressione capaci di costringere i rappresentanti degli interessi dell’élite economica a trattare per davvero. Di fronte alla minaccia di delocalizzare altrove la produzione, i sindacati possono solo arrendersi e accettare la lenta cancellazione dello stato sociale (fino alla prossima prova di forza: anch’essa inevitabilmente perdente). E proprio la cultura, con i progetti di sostanziale privatizzazione dell’università, è uno dei campi in cui questo processo si mostra in maniera più chiara.

Allo stato attuale la politica è del tutto impotente. La volatilità dei capitali, approvata negli anni Novanta, rende infatti le grandi multinazionali simili ai banditi dei film western, che lo sceriffo può inseguire solo fino ai confini della contea o dello stato perché oltre quel limite hanno giurisdizione unicamente i marshal federali. Offrire ai cittadini gli strumenti per far sentire la propria voce fuori dagli stati nazionali sarà nei prossimi anni uno dei primi obiettivi di qualsiasi progetto politico non appiattito sulle parole d’ordine del neo-liberismo. Serve una nuova creatività istituzionale, ed è qui che gli intellettuali potranno dare il loro contributo.

I nuovi rapporti di forza hanno reso la prospettiva riformista non solo impotente ma addirittura ridicola. Perché il riformismo sia efficace tutte le parti in causa devono essere interessate a trattare, ma questo succede appunto solo quando il conflitto aperto non conviene a nessuna di esse. Invece, scomparsi i partiti di massa, indeboliti i sindacati e caduta la dittatura sovietica (che in Europa occidentale voleva dire anche la costante minaccia dell’armata rossa), i grandi poteri finanziari non temono più nessuno mentre sono temuti da tutti e ormai condizionano in maniera aperta la politica degli stati. Non è esattamente la condizione migliore per trattare. Con il risultato che l’assenza di freni rende il piccolo club di miliardari in dollari che controllano l’economia del pianeta sempre più aggressivo nelle richieste. E che, per esempio, le tasse sui profitti delle imprese scendono a livelli che solo pochi anni fa sarebbero stati giudicati ridicoli mentre lo stato sociale va a rotoli.

Oggi la prima preoccupazione di un vero riformista deve essere quella di “riarmare” i cittadini. Si tratta ovviamente di una metafora, ma la metafora, nelle sue implicazione più battagliere, è qui scelta in piena consapevolezza. Per tutto il Novecento i sindacati e i partiti di massa non sono stati altro: strumenti democratici di lotta. Al tempo stesso però la politica di per sé non basta. Urgono nuove idee. Ed è proprio qui che agli intellettuali si chiede un contributo per contrastare il discorso ufficiale sulla globalizzazione e poter riaprire finalmente i giochi.

Purtroppo, quel momento è ancora lontano. Usciamo da una sconfitta epocale, e ci attende una lunga fase di incertezze. Il deserto, in altre parole, si trova ancora in gran parte davanti a noi. Ma almeno, rispetto a qualche anno fa, ho l’impressione che ne siamo divenuti tutti più consapevoli. È il primo passo per ripartire.

2 thoughts on “Cinque domande sulla critica /10. Gabriele Pedullà

  1. Importante nel discorso di Gabriele Pedullà è la distinzione tra ‘eclettismo debole’ (sconfinante nel sincretismo, magari previa decostruzione delle opposizioni) ed ‘eclettismo forte’ (tendente ad un’autentica sintesi critica, previa analisi dialettica). Da questo punto di vista, una rilettura della voce ‘eclettismo’ dell'”Encyclopédie”, curata da Diderot, il quale rivaluta l’eclettismo filosofico identificandolo con la razionalità argomentativa del metodo critico e ne fa l’espressione più alta della libertà di pensiero, è altamente auspicabile per chiarire e approfondire la differenza tra una versione ‘debole’ (che è poi quella criticata dallo stesso Pedullà) ed una versione epistemologicamente ‘forte’, che potenzia (non depotenzia) la lettura e l’interpretazione, acuisce le distinzioni, individua le opposizioni e ricerca le giuste mediazioni (anziché giustapporre, diluire e dissolvere in un pluralismo amorfo ed impressionistico i ‘valori oggettivi’ delle opere esaminate). Ho infatti l’impressione che la melassa post-novecentesca e ‘debolista’ in cui vengono annegate le distinzioni e le opposizioni arrechi notevoli vantaggi personali ai vari Tartufi in circolazione. Per quanto mi riguarda, trovo quella melassa così disgustosa che, per salvarmi da quel contatto vischioso, sarei portato, se l’esigenza di essere tattici rispetto alle proprie analisi non mi suggerisse un comportamento più accorto, a non vedere alcun’altra alternativa se non quella di scegliere, di fronte alla retorica delle omologazioni e delle contaminazioni, propria di questa fase putrescente della crisi del capitalismo, il profilo tagliente della ‘forma pura’ o, se si vuole, il gramsciano “spirito di scissione”. Un profilo che nasce dal tracciare una netta linea di demarcazione come quella che separa nell’economia il lavoro salariato dal capitale; nella società il proletariato dalla borghesia; nella politica i comunisti non solo dai moderati, dai conservatori e dai reazionari, ma anche dai semplici progressisti; nell’ideologia i rivoluzionari dagli opportunisti; nella filosofia i materialisti dagli idealisti e dagli spiritualisti; nella scienza le analisi oggettive dai giudizi di valore; nel campo delle “scelte di vita”, infine, gli atei dai credenti. Lo “spirito di scissione”, del quale qui tesso l’elogio, è certamente scomodo e può generare diversi inconvenienti, ma ha il vantaggio inestimabile, a differenza delle varie forme di “servitù volontaria”, di preservare la verità, la dignità e la libertà. Esso si rivela inoltre, per dirla con Carlo Emilio Gadda (cito da “Eros e Priapo”), un efficace antidoto, utile anche nel campo della critica letteraria, alla classica sequenza del trasformismo italico: ossia una “tesi vana”, un’“antitesi barocca” e una “sintesi ruffiana”.
    Infine, spero che non appaia come un vezzo puristico il fatto di muovere al prof. Pedullà, di cui, in linea di massima, ho apprezzato nell’intervista qui riprodotta i giudizi, l’orientamento e le idee, due rilievi di carattere grammaticale, il primo dei quali concerne una bella metafora da lui proposta circa l’importanza ‘terapeutica’ del metodo: “Prima di andare in sala operatoria ci si lavano le mani” (forse era meglio scrivere: “ci si lava le mani”), mentre il secondo concerne l’anglicismo ‘best sellers’ (ahimè, al plurale, così da far venire in mente la parodia dei plurali di siffatti forestierismi fatta da Renzo Arbore nella mitica trasmissione “Quelli della notte”, quando nel pronunciare il plurale di ‘sports’ emetteva un sibilìo tanto sinistro quanto intenzionale…).

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