[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Pierluigi Pellini.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

La critica militante, nella forma moderna che conosciamo, nasce alla fine del Settecento con la svolta romantica, per poi accompagnare le battaglie di tutte le avanguardie ottocentesche e novecentesche. Più che a teorie e metodi (che hanno segnato solo alcuni decenni del Novecento), è sempre stata legata all’elaborazione delle poetiche e alla formazione dei gruppi culturali: non solo letterari, ma più in generale artistici – in un rapporto costante di interdipendenza fra attività creativa e riflessione critica, e di scambio fra le diverse arti. Per definizione, dunque, non si dà critica militante (e critica tout court, direi) senza scelte di campo – anche l’eclettismo teorico o il disimpegno ideologico (che è altra cosa) sono tali, poco importa se esplicitamente rivendicati o implicitamente praticati. Personalmente, tuttavia, stento a riconoscere la dignità di una scelta di campo a quella meccanica applicazione di un armamentario concettuale elaborato intorno alla metà del secolo scorso, e ormai fossile, che troppo spesso tende a essere confusa con la critica militante – per ingenua rivendicazione di chi la pratica; ma anche per interessata complicità di chi la osteggia: e trova comodo evocare sbiaditi fantasmi per trasformarli in teste di turco. Detto altrimenti: se «scelta di campo» e «parzialità» si trasformano (come purtroppo quotidianamente accade di constatare) in sinonimi di prevedibilità, non giovano all’esercizio critico – che vive nell’equilibrio precario di militanza (poetica, etica, politica) e apertura fenomenologica, capacità di cogliere valore e verità laddove, anche inaspettatamente, si manifestano. (S’intenda: “valore” estetico e “verità” esistenziale come prodotti sempre rinegoziabili di uno scambio sociale – non come entità assolute).

La fragilità, oggi, della critica militante in Italia, più che a carenza di metodi e teorie, va ricondotta – banale ma inevitabile dirlo – da un lato alla debolezza della letteratura, esclusa dal novero delle pratiche decisive per la costruzione dell’identità nazionale e spogliata del capitale simbolico che ne faceva, fino agli anni Sessanta-Settanta del Novecento, uno dei cardini del dibattito pubblico; dall’altro alla vittoria incontrastata del mercato, che fa economia di ogni mediazione critica, identificando valore e classifiche di vendita. Che in questa fase storica il recensore – da intellettuale critico che dovrebbe essere – tenda a trasformarsi in agente pubblicitario, al soldo degli uffici stampa delle grandi case editrici, è deprecabile, non sorprendente. Che poi l’affievolirsi della passione critica sia effetto collaterale di una voga “postmoderna” (o, sarebbe meglio dire, “postmodernista”) è insidiosa inesattezza, troppe volte ripetuta – anche sulle pagine della rivista che ospita il presente dibattito. Del postmoderno continua a circolare in Italia una visione macchiettistica (ilare disimpegno, turris eburnea citazionista e autoreferenziale), funzionale alla riproposizione, di necessità perdente, di un “ritorno alla realtà”; o alla stanca riedizione del conflitto fra avanguardia e tradizione.

Non mi pare, in conclusione, che nel primo decennio del Duemila alla critica letteraria abbiano fatto difetto le scelte di campo; non sempre, però, sono state scelte all’altezza dei tempi: capaci di produrre conoscenza sui testi e sul mondo; e di offrire stimoli all’attività creativa.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Conviene precisare che il riferimento a scuole e maestri ha segnato prevalentemente la critica accademica; quella militante è stata spesso, e quasi per sua stessa natura, insofferente di genealogie e tradizioni, incline piuttosto a rivendicare – di volta in volta – l’anarchica soggettività dell’interprete o la novità dirompente delle poetiche e delle ideologie di riferimento. Del resto, le trasformazioni nel contesto oggettivo in cui opera il critico militante (riviste, redazioni dei giornali, case editrici, ecc.) rendono difficilmente praticabile, anche a distanza di pochi decenni, un concreto riferimento ai modelli del passato. Di scuole e scuolette, più che in ogni altro paese occidentale, pullulano invece le (ex) Facoltà di Lettere della penisola: aggregazioni indotte più spesso da meccanismi di potere baronale, o nei migliori dei casi da scelte ideologiche, che da autentica trasmissione di uno specifico sapere. (Che il divieto delle carriere interne a un singolo ateneo confligga con il fiorire delle famose Scuole, e perciò con i superiori interessi della presunta scienza, è l’argomento pretestuoso ricorsivamente impiegato dalle consorterie accademiche per bloccare una delle poche norme che potrebbe indurre moralità nel corrotto sistema dei concorsi universitari italiani). Se c’è un aspetto positivo, nella catastrofica riduzione degli spazi di reclutamento in ambito umanistico, cui si assiste in Italia da qualche lustro, è questo: si assottiglia (mai abbastanza, però) il numero dei mediocri mestieranti cui l’interessata ipocrisia degli allievi consente di usurpare il titolo di Maestro. (Infinita gratitudine per il docente con cui mi sono laureato e addottorato in Italia, Remo Ceserani; e per quello con cui ho studiato in Francia, Philippe Hamon: l’uno per convinto eclettismo, l’altro per ironico disincanto, mai hanno ambito a farsi caposcuola – al contrario di Francesco Orlando, da cui ho imparato forse più che da chiunque altro, ma solo a costo di ricusare precocemente, non senza qualche patema, ogni ortodossa fedeltà).

Ora, «rimozione» e «angoscia dell’influenza» non mi paiono reazioni antitetiche: entrambe presuppongono un nodo irrisolto di ansia e competizione. Che inevitabilmente, non voglio negarlo, fra generazioni contigue c’è. Eppure mi pare altro – di straniata e leggermente invidiosa lontananza, direi – l’atteggiamento più congruo: i nostri “padri” hanno vissuto una stagione intensamente vitale degli studi letterari (probabilmente l’ultima); hanno goduto delle opportunità di carriera offerte dall’università di massa, soffrendone solo in minima parte la crescente burocratizzazione; hanno avuto allievi numerosi e lauti finanziamenti; hanno esercitato scampoli di potere culturale, fette ragguardevoli di potere accademico; fino a metà anni Ottanta, hanno pubblicato libri di critica letteraria che potevano vendere qualche migliaio di copie e ottenere qualche decina di recensioni. Sono stati insomma davvero padri e maestri (e, chi più chi meno, un po’ baroni), ma con sgravio di coscienza: perché figli a loro volta della contestazione, di Marx e Freud, i più aggiornati di Foucault e Lacan. Il pensiero critico istituzionalizzato. (Qualcosa come il Partito Rivoluzionario Istituzionale, in Messico).

Anche chi di noi ha avuto in sorte una carriera universitaria non eccessivamente lenta (il sottoscritto è nel novero dei salvati), non avrà mai più fondi di ricerca a pioggia, concorsi da gestire a ripetizione, editori pronti a mandare in libreria ogni iperspecialistica ricerca erudita; né (per fortuna) una scuola. Sono passati pochi decenni, sembrano secoli. Non si prova urgenza di rimuovere un passato percepito come remoto; né di misurarsi agonisticamente con esempi palesemente inarrivabili – per anacronismo, prima ancora che per eventuale altezza d’ingegno. Modelli e antimodelli, con libertà disorientante ma non priva di risvolti positivi, possiamo andarceli a scegliere liberamente: nei due secoli della modernità letteraria, almeno.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Fra un critico militante (capace di coniugare intervento sul presente e rigore della ricerca – però non chiamiamola “scientifica”, per carità) e un semplice recensore, la differenza non dovrebbe essere, soltanto, che il primo vanta in bibliografia titoli su rivista e in volume, il secondo esclusivamente collaborazioni giornalistiche. Il primo dovrebbe rivendicare libertà di scelta e intermittenza d’intervento: dovrebbe cioè poter recensire in tempi non preordinati solo libri della cui rilevanza – in positivo o in negativo – è convinto; lasciando all’onesto lavoro redazionale il compito di sbrigare l’attualità corrente (e corriva). Per questo reputo in un certo senso ossimorica ogni idea di “Classifiche di qualità”: non ogni due mesi, non in tutte le “categorie” capita di leggere libri che meritino di essere segnalati. (Ovvio che l’ambizione, benemerita, di contrapporsi al botteghino impone a un meccanismo come quello delle votazioni di pordenonelegge di mutuarne anche i tempi: e infatti anch’io ho accettato di collaborare e provo a dare con qualche regolarità un mio perplesso contributo). Per questo – insieme a sincera ammirazione; e anche invidia: sia detto in tutta serenità – di fronte a colleghi la cui firma compare settimanalmente o quasi sui supplementi letterari dei maggiori quotidiani nazionali non riesco a non nutrire qualche sgomento. Tutti decisivi, i libri di cui parlano? Non sarà che l’ansia di presidiare una posizione finisca per sottrarre peso a una parola critica di necessità inflazionata? E ancora, con implicito, forse meschino omaggio alla divisione del lavoro intellettuale: quale è il loro primo mestiere? Il rischio, pare a me, è che l’agenda della cronaca culturale detti le regole del gioco. Che non sia cioè il giornale a offrire ospitalità – come un tempo? – alla penna prestigiosa dell’intellettuale; ma questa a fare il lavoro (sporco o pulito che sia) dei praticanti di redazione. Perché conta esserci; e possibilmente usare la carta stampata come trampolino per andare in radio, o meglio ancora in televisione. Che a latere si possa anche vantare una bibliografia di saggi e studi universitari (e alcuni dei colleghi cui penso hanno titoli di altissimo livello), in realtà poco importa.

Troppo screditata, oggi, l’università, perché un professore-intellettuale possa ricevere ospitalità saltuaria e libera su un grande quotidiano. La scelta dei professori-recensori è perciò in qualche misura obbligata. Me ne fosse capitata l’occasione, con ogni probabilità avrei fatto lo stesso. Anche se, esattamente come la ricerca storico-letteraria, la critica militante mi interessa solo quando ha da dire qualcosa sui destini generali. Quando cioè affronta, con strumenti ermeneutici analoghi a quelli messi alla prova sui classici, opere di cui si può azzardare una precoce canonizzazione: perché dicono qualcosa di non scontato su di noi e sul mondo. (Forse perché sono lettore lento e distratto, mi reputo fortunato se mi capita di leggerne una all’anno). (Mi diverte anche, di tanto in tanto, l’arte desueta della stroncatura: ma è altra cosa).

Erudizione specialistica e coazione alla cronaca – risposte solo in apparenza opposte alla conclamata crisi della critica – condividono l’inessenzialità degli oggetti cui si applicano. Parlare al presente in veste di storico (studiando autori del passato che ancora mirano diritto alla nostra coscienza, oggi); e di valori universali in veste militante (scommettendo sulla tenuta non solo per noi e per l’oggi di scrittori contemporanei): questa l’ideale deontologia. Poi, la pratica quotidiana, sia dello storico della letteratura, sia del critico militante, è inevitabilmente intessuta di motivazioni contingenti; e anche di compromessi.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

A rischio, ancora una volta, di cadere in flagrante contraddizione con quel che faccio (figuro, a dire il vero con scarso merito, fra i promotori del blog letterario «Le parole e le cose»); e soprattutto di far le spese del sarcasmo di un qualche dottorando che col senno di poi s’imbattesse – fra cinquanta o cento anni – in questa inchiesta “allegorica”, farò senz’altro professione di cecità, giacché di un «dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo» mi ostino a non vedere neppure l’ombra. Siti e blog letterari sono ottima cassa di risonanza per scritti già pubblicati, il più delle volte, anche su carta; consentono ai critici frustrati dal volume delle vendite dei loro saggi (i miei si attestano in media intorno alle cinquecento copie: tolte le biblioteche e qualche malcapitato studente universitario, si precipita verso numeri a due cifre) di trovare finalmente un pubblico; favoriscono una circolazione caotica e frammentaria di informazioni e anche di idee; offrono infine occasione di psicoterapia a buon mercato ai numerosi squilibrati che, ortonimi o più spesso pseudonimi, infestano qualsivoglia dibattito, trasformandolo in rissa di sguaiate banalità, in sfogo di rancoroso livore. Che da un blog possano nascere nuovi metodi e linguaggi della critica, mi pare escluso – se non in senso deteriore.

Delle potenzialità della rete dovrebbero invece far tesoro, finalmente anche in Italia, e anche nelle materie umanistiche, le agonizzanti riviste cosiddette “serie”. Quando si apprende che nella sola italianistica fioriscono più di cento muffosi e inutilissimi periodici specialistici (per tre quarti, fabbrica di glorie accademiche locali: privi di lettori e di qualsivoglia dignità culturale), viene spontaneo un applauso ai (per altri versi deleteri) pasdaran della valutazione bibliometrica. Che gli umanisti dimostrino almeno pietà per gli alberi stoltamente abbattuti: di riviste ne dovrebbero esistere non più di dieci al mondo in ogni disciplina; e tutte on line: pronte a diventare banca dati a disposizione dei ricercatori (e dei valutatori); soprattutto, sottratte al malaffare di un’editoria parassitaria – naturalmente foraggiata da denari pubblici (quelli delle biblioteche costrette a esosi abbonamenti).

Che invece la cosiddetta critica 2.0 sappia influenzare il mercato, è probabile: la fioritura di blog e social network ha un ruolo sempre più rilevante nell’orientare i consumi – anche culturali. Non dispongo di dati precisi in materia, ma pare evidente che fra rete e mercato si stia saldando un legame di qualche importanza. Che tuttavia questa evidenza possa, o perfino debba, modificare, a breve o medio termine, stili, linguaggi e metodi della critica militante – o perfino della ricerca storico-letteraria – mi pare tutto da dimostrare.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

Non esito a ammetterlo: di fronte a fenomeni come TQ, ho reazioni violentemente schizofreniche. Plauso, da un lato, per una sana ribellione generazionale – nel paese più gerontocratico dell’Occidente, dove una perversa alleanza di ottuso sindacalismo e poteri economici forti perpetua, all’ombra del Vaticano, una struttura sociale di nuovo pienamente patriarcale (nipoti precari e sfruttati, che elemosinano vitto e alloggio a padri iper-garantiti, e paghette a nonni baby-pensionati); plauso anche, ma senza entusiasmi, per il conato d’impegno di gruppo, per l’ostentato rigetto di decenni di individualismo intellettuale (diffidenza, però, nei confronti di un’azione collettiva che si sostanzia, di fatto, meno di comuni proposte poetiche o politiche, che di rivendicazioni di potere). E dall’altro lato, impulso irresistibile a canticchiare Brassens: non fa differenza, «con caduc ou con débutant, petit con de la dernière averse, vieux con des neiges d’antan», perché «quand on est con, on est con, le temps ne fait rien à l’affaire».

C’è qualcosa di profondamente malsano – maldestra sublimazione, appunto, di un trauma tanto più irreparabile quanto meno rilevante – nell’ansia di autorappresentazione che anima i critici della mia generazione. Generazione senza qualità: che non può vantare benemerenze né storico-politiche (non abbiamo fatto né la guerra, né la Resistenza, né il Sessantotto, e nemmeno il Settantasette), né culturali (quanti libri resteranno, fra quelli pubblicati finora in Italia dagli under 50? fra saggi, romanzi, raccolte poetiche, cosiddette “altre scritture”, difficile arrivare a dieci – beninteso: nessuno di questi firmato da me). E che invece, fra lagnosa e aggressiva, non smette di denunciare un’ingiusta esclusione, di rivendicare spazi e potere, in una sorta di edipismo vuoto (perché, nella generale latitanza di padri forti, il bersaglio polemico sfuma). Francamente, riserverei espressioni come «gravissima emergenza storica» per cose più serie.

Non è, a dire il vero, la prima volta che i rappresentanti di un ceto intellettuale di mezza età, evidentemente a corto di più cogenti ragioni, si appellano al ricambio generazionale per garantirsi un posticino al sole. Mi è capitato di assistere, pochi anni fa, a un incontro pubblico in cui alcuni recensori militanti, quasi tutti canuti, tutti vicini alla sessantina, tutti mediaticamente sovraesposti (ben oltre i loro meriti culturali) venivano presentati come «giovani critici»; tali sono rimasti, nel gergo degli addetti ai lavori, fino all’avvento di TQ. Sarebbe opportuno produrre, prima che manifesti militanti, opere di valore (letterarie e critiche); e magari anche dati storico-sociologici certi (il metodo, per una volta, ben rodato: quello di Bourdieu): con ogni probabilità ne risulterebbe che raramente, nella storia unitaria (forse solo all’indomani della Resistenza, et pour cause), un gruppo di trenta-quarantenni ha detenuto nell’industria culturale (o quantomeno nelle redazioni dei giornali e nelle case editrici) spazi di potere paragonabili a quelli conquistati nell’ultimo decennio dai miei coetanei – dal che si potrebbero desumere, purtroppo, argomenti in favore del più bieco darwinismo sociale: proprio perché scarsamente garantiti e privi di «sicurezze materiali», molti si sono fatti strada. In vari casi con pieno merito: non è questo il punto; resta stupefacente la sproporzione fra dati di realtà e autorappresentazione vittimistica; e anche, in alcuni casi, fra richiesta di riconoscimento e credenziali esibite.

Diversa la situazione di scuola e università. Nella prima, l’ottusa difesa sindacale dei diritti acquisiti di precari spesso ignoranti; nella seconda, una gestione baronale e localista; in entrambe, i drastici tagli di bilancio: queste le ragioni di un oggettivo invecchiamento della docenza, di un blocco – non meno crudele perché parziale – di reclutamento e avanzamenti di carriera (un blocco che peraltro, senza voler scatenare guerre fra poveri, rischia di penalizzare assai più i ventenni di oggi e di domani, che gli attuali TQ). In ogni momento della vita universitaria, a ogni briciola di potere accademico che (sempre più raramente) mi capita di gestire, regolo la mia condotta sulla base di questa consapevolezza. Che certo non muta, però, le mie «scelte critiche»: un brutto romanzo scritto da un TQ, a maggior ragione se ostenta stantie velleità di denuncia sociale (cioè di lagna autobiografica), resta un brutto romanzo – quand’anche l’autore fosse stato ingiustamente bocciato a un concorso universitario.

L’emergenza storica è altra: quella di un welfare europeo smantellato; di un modello di civiltà probabilmente al capolinea; e anche, in questo contesto, quella di un paese come l’Italia, invecchiato e incapace di immaginarsi un futuro, dove i processi degenerativi altrove bene o male governati dispiegano la loro forza distruttiva senza correttivi politico-istituzionali; dove ogni corporazione (compresa quella dei letterati) mira all’interesse proprio, senza attenzione ai destini generali. Di questa situazione (dicendolo, vorrei sbagliare), le più rumorose rivendicazioni generazionali mi paiono sintomo, non rimedio.

2 thoughts on “Cinque domande sulla critica /11. Pierluigi Pellini

  1. Caro Pellini, so che me ne vorrà perché mi metto a fare le pulci a una frase soltanto di un intervento che ne contiene centinaia e in cui la frasetta incriminata è marginale affatto. Me ne vorranno anche i lettori perché sono off topic.

    “L’ottusa difesa sindacale dei diritti acquisiti di precari spesso ignoranti” è frase che non mi piace molto, capirà. Senza negare che i sindacati sappiano essere assai ottusi e che ci siano precari ignoranti, penso che a parecchi colleghi di mia conoscenza alcuni diritti non ancora acquisiti spetterebbe di diritto acquisirli, e in fretta.
    Nelle politiche scolastiche degli ultimi vent’anni ogni nuovo ministro si è sentito in dovere di fare la riforma epocale: ora che ci sono io, c’è la selezione per merito, ecchediamine! Metta il caso di uno di quei miei colleghi: gli dicono che la fila da fare è quella della Sis, lui si mette in coda buonino, fa tutto quello che deve fare, supera la selezione meritocratica, poi pochi anni dopo gli dicono “s’è scherzato. Ti rifacciamo un’altra selezione. Come dici? L’hai già fatta? Ma allora vuoi far valere un diritto acquisito? Privilegiato, vergognati! Non sai che oggi c’è la meritocrazia?”.
    Insomma, in due parole, non è che tutti i diritti acquisiti siano dei gretti privilegi.

    Pronto ovviamente a discutere con lei di cosa non va nella nostra selezione e dei mille problemi della scuola. (Ma no, facevo per dire. Ad agosto… Buone vacanze. Torno nel silenzio della città semideserta).

  2. Caro Lo Vetere,
    non gliene voglio affatto: perdoni anzi il ritardo della mia risposta – sono in un paesello sperduto dell’appennino abruzzese e accedo a internet con difficoltà.
    La frase incriminata era troppo spiccia e non ho difficoltà a accogliere buona parte delle sue obiezioni.
    In particolare, ha perfettamente ragione quando denuncia la schizofrenica successione di riformette e controriformette, spesso abborracciate, e sempre protette dalla retorica meritocratica, che hanno reso caotico e spesso aleatorio l’accesso ai ruoli dell’insegnamento (qualcosa di molto simile è avvenuto con le riforme didattiche, e non solo, nelle università).
    Personalmente, penso che – con tutti i suoi difetti su cui si potrebbe lungamente discettare – il vecchio concorso nazionale fosse la modalità di selezione più seria, rigorosa e democratica. Penso anche che un maggiore coinvolgimento delle università nella selezione del personale docente delle scuole (sul modello francese, per esempio) sarebbe utile.
    Credo che i posti liberi (sempre troppo pochi, disgraziatamente) andrebbero messi a concorso tutti, azzerando tutte le graduatorie pregresse di supplenze, anzianità e quant’altro. La mia polemica contro i sindacati, e in particolare contro la CGIL (cui per qualche anno sono stato iscritto), nasce dal fatto che hanno sabotato ogni tentativo di far prevalere la logica del concorso contro quella del punteggio e dell’anzianità di servizio – come se la scuola potesse essere amministrata come le poste (con tutto il rispetto per i postini).
    Di recente, i sindacati sono riusciti a svuotare completamente il TFA (che poteva essere una ‘sanatoria meritocratica’, se mi passa l’ossimoro), beffando ancora una volta i neolaureati (che non sono tutti ignoranti frutti dell’università berlingueriana licealizzata, come vuole un altro luogo comune a volte non privo di ragioni, ma spesso anche falso).
    Vede, se i precari ipersindacalizzati, per voce dei loro rappresentati, rifiutano ogni competizione concorsuale (se hanno esperienza e sono tanto bravi, riusciranno facilmente a sbaragliare i neolaureati, no?), a me viene spontaneo definirli ignoranti – anche se poi so benissimo che non tutti sono ignoranti e che anzi molti di loro meriterebbero la cattedra (motivo per cui, ripeto, la mia frase troppo spiccia era infelice).
    Grazie e buone vacanze!

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