[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Gianluigi Simonetti.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Mi pare che ogni esercizio critico lasci intravedere, magari anche solo come ombra, la prospettiva “politica” dell’autore rispetto all’oggetto del suo studio – e in alcuni casi anche rispetto a tutto il resto. Una esplicita scelta di campo non è sempre necessaria e spesso nemmeno utile; un po’ perché costituisce un aspetto tutto sommato secondario dell’esercizio critico, un po’ perché non è detto che le scelte di campo sbandierate coincidano perfettamente con l’ideologia implicita, che è spesso più ricca e contraddittoria di quella esplicita, tanto nell’opera quanto nel discorso sull’opera. «L’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi» non credo c’entri molto con tutto questo; la critica – non solo quella militante – prende posizione anche se non lo sa e non lo vuole, ed è sempre stato così.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Le continuità di scuola prevalgono nettamente, con esiti spesso deludenti, e in genere senza angoscia alcuna – semmai con la riconoscenza festosa del cane che ha trovato il padrone. Ma nemmeno la rimozione è la strada giusta. Un po’ di sana conflittualità, ecco l’atteggiamento che reputo più stimolante e al quale mi piacerebbe attenermi, almeno idealmente. Sento però che in questa direzione devo ancora migliorare molto; antagonisti del Padre non si nasce, ma si diventa (almeno nel mio caso).

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Non mi pare che lo studio scientifico debba consistere essenzialmente nella valorizzazione del canone e della tradizione. Lo studioso, uguale in questo allo scrittore, ha il compito primario di capire, e di dire la verità. Del resto non è infrequente che la comprensione di un’opera passi attraverso la cernita, il collaudo ed eventualmente la rottamazione, magari provvisoria, della cultura che abbiamo ereditato; anche per questo penso sia normale prendere sul serio i testi contemporanei, e formulare loro le stesse domande che siamo abituati a rivolgere alle opere del passato.

Stesso discorso per la selezione dei miei oggetti di studio: mi occupo di forme sulle quali mi sembra di aver qualcosa di più o meno interessante da dire, senza badare in prima battuta alla loro importanza o qualità in senso assoluto. Il che in concreto significa che spesso mi capita di lavorare su testi mediocri o brutti. Poco male: se quello che conta è l’accertamento del vero, o almeno un aumento di consapevolezza, allora tutti i fenomeni formali hanno la stessa dignità agli occhi dello studioso, perché tutti rimandano a quella realtà esterna al testo che è in fin dei conti l’oggetto ultimo del discorso critico (e della letteratura stessa).

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

Non credo che la rete abbia mutato metodi e linguaggi della critica – il che è probabilmente un peccato. Ha dato nuovo ossigeno al dibattito letterario, che era moribondo, tra l’altro allargandolo e democratizzandolo (non senza gli effetti collaterali che spesso caratterizzano i processi di democratizzazione). La filologia si è avvantaggiata meno delle novità introdotte dalla comunicazione telematica, ma ha anche subito meno danni; in definitiva direi che la discussione in rete ha giovato soprattutto alla critica militante, che ha trovato un pubblico fresco e in parte nuovo, attento ma spesso inconsapevole, pronto a intervenire più che ad ascoltare. Tutto sta a conservare la velocità, l’energia e l’accessibilità del dibattito in rete, senza arrendersi agli effetti collaterali cui alludevo prima: l’esibizionismo, l’approssimazione, la stupidità a volte micidiale di troppi interventi.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

In teoria, in modo profondo e radicale; di fatto, in nessun modo diretto e concreto. Rivelatrice al riguardo proprio l’esperienza di TQ. Quando lessi i documenti approvati dalle prime assemblee, ne condivisi lo spirito e in gran parte anche l’analisi – in particolare le riflessioni sugli effetti perversi delle politiche editoriali e sulla dittatura dei gusti della maggioranza. Mi convinceva, in generale, la dimensione collettiva e politica della discussione, la cesura con le questioni di estetica e di poetica, e anche la polemica culturale, ancora timida ma promettente, verso le generazioni precedenti. Da allora a oggi non ho cambiato idea – anche se la discussione nel frattempo si è un po’ burocratizzata, l’energia polemica in parte dissipata nella ricerca del riconoscimento. Il fatto è che nel corso dei mesi mi sono reso conto che operare nei gruppi su temi come editoria, università, librerie, festival e (soprattutto) qualità non mi interessava davvero. Che pur condividendo molte delle istanze di TQ, le cose che mi interrogano sul serio sono altre, e che solo sulle cose che mi interrogano posso dare un contributo significativo. Alla fine, il mio mestiere consiste nel leggere libri, scrivere su ciò che leggo e insegnare quello che ho capito; per fare questo la curiosità intellettuale deve venire prima della coscienza a posto, non può prendere ordini da lei. Lo stato di emergenza della mia generazione è reale; influenza indirettamente il mio lavoro; ma non voglio che l’oggetto esclusivo del mio lavoro diventi l’emergenza stessa.

5 thoughts on “Cinque domande sulla critica /12. Gianluigi Simonetti

  1. Mi permetto d’interferire grazie alla “democratizzazione” (di cui si parla nel testo) indotta dalla rete, e mi auguro non a casaccio ma con una domanda-obiezione pertinente. Simonetti dice, proprio all’inizio, che lo scrittore ha un’ideologia implicita e una esplicita: va bene, è una cosa che ho già sentito dire. Invece non sapevo che anche il critico ne ha, o può averne, una implicita e una esplicita. Ciò rischia di diventare drammatico, perché, se tra le cose che a un critico tocca stabilire, ci sarebbe la differenza tra l’ideologia esplicita e quella implicita di uno scrittore, il fatto che una differenza del genere ci sia anche nel critico condurrebbe alla conclusione che ci vuole un altro critico che spieghi il pensiero del critico! Oppure Simonetti pensa – come in effetti alcuni critici – che tra il critico e lo scrittore in quanto artista non ci sia distinzione alcuna, che la critica sia soltanto un genere letterario al pari di altri?

  2. @Genovese

    No, secondo me la critica è un genere ancillare (ed è bene che lo resti, visto che spesso tira fuori il meglio dai suoi complessi di inferiorità). Detto questo, la storia è piena di critici che hanno spiegato e spiegano il pensiero di altri critici; e d’altronde mi pare che ogni discorso ideologico abbia un lato esplicito e uno implicito (non solo quello letterario, non solo quello critico).

  3. Mi sembra che – se a contemplare questa dialettica tra autore e critico ideologicamente motivati tornassimo a porre la figura del filosofo dell’estetica (invece di parlare sempre e soltanto di teorici della letteratura) – forse la riflessione potrebbe ulteriormente decollare.
    Sintetizzando il mio pensiero, credo sia più naturale, consono e corretto che gli autori (se veri autori) principalmente coltivino la propria poetica; che i critici facciano il loro mestiere in fecondo dialogo con gli autori; e che i filosofi dell’estetica tornino olimpicamente a giudicare e a pontificare sui frutti di tale dialogo, rendendo operativo forse, domani, anche un canone.
    Sono ancora convinto che se la poetica – come si desume dalla limpida sintesi anceschiana – consiste nella “riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali”, essa inevitabilmente si fortifica ponendosi in fecondo dialogo con la critica; e anche che entrambe – critica e poetica – per sentirsi definite e forse divenire un giorno un possibile oggetto di canone – debbano essere congiuntamente contemplate dal filosofo dell’estetica: il solo in grado di trarre la sintesi, cogliendo il senso profondo, di quel dialogo.

  4. Scusate, fatemi fare un po’ il filosofo che cerca di chiarire preliminarmente i termini che si usano. Il significato più comune di ideologia, e che mi sembra anche quello a cui Simonetti si riferisce, è quello di un insieme di credenze. Uno scrittore è esplicitamente reazionario, legittimista, e tuttavia implicitamente, per le descrizioni che compie della società del suo tempo, si trova a essere in un certo senso anticapitalista, cogliendo il nocciolo di un certo sviluppo storico. Un altro è antisemita, filonazista, ma per la cruda rappresentazione della guerra che ci dà, è quasi un pacifista. Questo mi sembra il senso in cui Simonetti adopera la differenza tra implicito ed esplicito.
    La poetica di cui parla Buffoni, cioè un insieme di credenze riflessive su un’opera o anche all’interno di un’opera (come poetica incorporata), può essere solo esplicita. Se sono surrealista, e mi rifaccio a quella poetica, sarebbe poi puramente contraddittorio che fossi al tempo stesso, che so, naturalista come Zola (anche se un critico potrebbe dire che mi sono sbagliato di poetica!).
    Per farla breve, l’ideologia ha una portata “politica”, sia pure in senso lato; la poetica riguarda il discorso sull’arte e la letteratura da parte di un artista o di un gruppo di artisti, o anche dei critici a essi collegati.
    Quello che mi pare strano è che anche un critico potrebbe avere quella “ambiguità” che è propria dell’arte e della letteratura. Se la critica è un discorso “secondo”, le si chiederebbe di essere del tutto esplicita nelle sue prese di posizione e nell’indicare il punto di vista in cui si colloca: soprattutto di non sbagliarsi quando si autodefinisce in un modo e non in un altro. Una critica che avesse in sé della doppiezza (dopo il tramonto dei metodi critici: crocianesimo, critica stilistica, marxismo, strutturalismo, etc.) potrebbe essere un pasticcio. Il che non sarebbe per un’opera artistica o letteraria.

  5. @Genovese e Buffoni

    L’ideologia implicita di un’opera letteraria può essere diversa da quella implicita, ma non è detto che la contraddica o addirittura vi si contrapponga, come si potrebbe dedurre dagli esempi proposti. Né la critica deve per forza ridursi a soppesare lo scarto tra questi due fattori – può benissimo funzionare una critica che lavora sulla poetica, e dialoga o collabora con gli autori, come raccomanda Buffoni (anche se forse a me questo tipo di critica interessa un po’ meno). Non capisco invece perché stupirsi dell’ambiguità della critica: se è opportuno (o addirittura doveroso, secondo alcuni) che essa sia esplicita nelle sue prese di posizione e nell’indicare il punto di vista in cui si colloca, questo non vuol dire che non conservi a sua volta un elemento di ideologia implicita, oggetto potenziale di analisi. Io per esempio conosco diversi critici di estrema sinistra che nutrono evidenti fantasmi reazionari o di destra (per fare un altro esempio estremo, contrappositivo), e non lo vedo come un pasticcio, ma come una cosa interessante…

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