[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Antonio Tricomi.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Certamente sì, ma il problema è appunto questo.

Grossomodo fino agli anni Settanta dello scorso secolo, la critica militante non si è risolta in una galleria di ricognizioni testuali idiosincratiche; non è stata, almeno nei suoi risultati più alti, il mero esito di contrastanti tentativi di censire la produzione libraria, a loro coeva, condotti da lettori di mestiere pronti ad esternare nient’altro che il proprio gusto personale. Essa ha invece ambito a proporsi come uno sforzo di pur discutibile oggettivazione culturale innanzi a prodotti sempre liberamente sindacabili da ciascun fruitore quali quelli estetici. Chi se ne faceva carico, mirava in primo luogo a giudicare sia le opere contemporanee, sia i pilastri della tradizione ricorrendo a metodi interpretativi che pretendevano d’essere l’anello di congiunzione tra quei testi e una varietà di orizzonti culturali, saperi comunitari, gruppi sociali, formazioni politiche che all’esegeta professionista assegnavano il compito di svelare la coincidenza o la minima distanza o l’insanabile frattura tra le loro idee di civiltà e quella propugnata, anche solo indirettamente, da ciascun libro sondato. In pratica, la migliore critica militante ha cercato di costruire un ponte tra le “grandi narrazioni”, fintantoché la storia non le ha dichiarate “fuorilegge”, e la letteratura, nel senso che ha decifrato gli esiti e l’evoluzione della seconda con i criteri e in vista degli obiettivi delle prime. Scelta a tratti anche conformistica, o persino normalizzatrice, giacché incline a promuovere o bocciare un testo magari in base alla sua compatibilità, o meno, con specifiche forme di ortodossia ideologica. Ma anche scelta utile a quegli scrittori, e a quei lettori, che grazie al confronto con un’esegesi “orientata” potevano acquisire ulteriore coscienza delle loro poetiche, gli uni, o della propria cifra culturale, gli altri.

Nel trascorso quarantennio, e ancora oggi, in Occidente abbiamo visto, e tuttora vediamo, fra le altre cose: il logorio e poi – come anticipato – il crollo delle grandi narrazioni; la definitiva consacrazione di un’atomistica società dei consumi; l’eclissi dell’umanesimo; il crescente dominio – politico e culturale – dell’economicismo di matrice liberista; un disciplinamento dei saperi “sponsorizzato” da una retorica pubblica propensa a celebrare il supposto valore, produttivistico e conoscitivo, di sia pur squalificati “specialismi”; la perdita di prestigio della figura dell’“intellettuale-legislatore” e di una precisa idea del sapere, inteso come tentativo di ricomposizione di una totalità franta, elaborate, all’incirca, nei due o tre secoli precedenti; una rimozione della memoria storica che agevola manipolazioni del passato orientate alla convalida dell’ordine attuale; la conseguente incapacità delle scuole e delle università di offrire agli iscritti l’opportunità di un’autentica formazione anche solo professionale. Scenario che altresì include la marginalizzazione sociale di una letteratura e di una critica ormai declassate, da strumenti formativi, a meri prodotti, per altro ornamentali, dell’industria culturale.

E allora, se per critica militante continuiamo ad intendere – come la modernità ci ha insegnato a fare – un lavoro di mediazione tra narrazioni culturali condivise e opere letterarie, tra pubblico e poetiche (sia individuali, sia di gruppo) connesse a proposte di mutamento sociale, essa può oggi dirsi realmente praticata, persino a prescindere dalle loro intenzioni, da quanti sono richiesti di pronunciarsi su questo o quel libro appena pubblicato, su questo o quel caposaldo della tradizione, senza poter più aspirare a vestire davvero i panni del defunto intellettuale-legislatore? Talentuoso o meno che egli sia, ciascun critico pare ormai costretto, anche suo malgrado, a interpretare i testi esclusivamente in base al proprio legittimo, insindacabile, ma per ciò stesso mai del tutto razionalizzabile gusto personale, in una società di monadi, qual è la nostra, orfana – eccezion fatta per il discorso capitalistico egemone – di autentici saperi di riferimento che propugnino idee complessive di civiltà, di uomo, di arte, e nel contesto di quella già ricordata riduzione ai margini della letteratura che ha fisiologicamente sancito lo scacco dell’esegesi professionistica.

Ma negli ultimi decenni – magari si dirà – non sono mancati, in Italia, gruppi di scrittori – dalla neo-neoavanguardia, negli anni Novanta, fino al plotone di autori più di recente riconosciutisi o catalogati nel New Italian Epic – che hanno ritenuto di sentire profonde affinità tra loro o hanno addirittura sviluppato poetiche condivise. Di riflesso, neppure si son fatti attendere – forse si aggiungerà – critici che abbiano accolto tali proposte estetiche o appoggiato simili orientamenti intellettuali. A differenza dei principali movimenti costituitisi in età moderna, schieramenti come quelli succitati hanno però manifestato – e provato a diffondere nel circuito dell’industria culturale – predilezioni tutte letterarie, ossia mai collegate a concreti indirizzi politici da veicolare, a iniziative di piccole comunità socialmente impegnate. E, in più di una circostanza, si è rivelato assai arduo resistere alla tentazione di etichettare come semplici sinergie lobbistiche tali alleanze o convergenze tra scrittori che di rado s’è capito cosa avessero in comune. Così, i critici convenzionalmente militanti che hanno affiancato questi minuscoli eserciti di autori, oltre a non aver potuto, insieme con quelli, difendere sensibilità civiche a quelli estranee, hanno spesso ridotto la propria attività a un’operazione parimenti ispirata a logiche di clan.

Né è venuta meno – si potrebbe ulteriormente sostenere – la possibilità, per i critici, di mantenersi ancora fedeli a indirizzi metodologici o orientamenti intellettuali di varia natura. E però, la riduzione dei primi a matrici di discorsi solo metaletterari, ossia non più accreditati di un qualche valore e una qualche ricaduta sociali, e la parcellizzazione dei secondi, che sembrano ormai poter implicare esclusivamente scelte di campo effettuate a titolo individuale, rendono parimenti intransitiva la militanza del critico, nel senso che lo costringono comunque a far discendere ogni pretesa di autorevolezza dall’estrinsecazione – nei casi migliori, argomentata, coerente – di null’altro che la propria formazione di studioso, di poco più che la propria soggettività di cittadino ed esegeta.

Sia come sia, il critico oggi sembra insomma persino obbligato ad esibire predilezioni che tuttavia si rivelano sterili dal punto di vista socioculturale e per di più lo lasciano solo con se stesso, con la propria impotente autonomia di giudizio. È un’autistica libertà assoluta, quella di cui egli paradossalmente gode, che per alcuni è il segno di una rinnovata, e anzi della massima vitalità, della critica medesima, mentre per altri testimonia addirittura la fine di un’epoca in cui essa svolgeva un effettivo ruolo pubblico. C’è infatti chi ritiene che solo adesso che l’esegeta ha piena facoltà di non lasciarsi “zavorrare” da obblighi di rigore metodologico e da costanti riferimenti a più ampi scenari politico-culturali la critica possa del tutto assecondare la propria natura e mettere a frutto la sua vocazione democratica, connotandosi quale mera esplicitazione – più o meno impressionistica – del gusto di chi la frequenta e – giacché un gusto, più o meno educato, a nessuno manca – come discorso che chiunque voglia è legittimato a pronunciare in pubblico. E poi c’è chi invece pensa che questo declassamento del lavoro ermeneutico ad opinione e di ciascuno a potenziale, credibile commentatore dimostri che la nostra è un’epoca in cui la critica, concepita come attività intellettuale culturalmente verificabile e socialmente viva, non esiste più. Temo di dovermi iscrivere al partito degli “apocalittici”.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Credo di avere in parte già risposto a questa domanda. C’è una sostanziale latitanza di “scuole” e c’è, ancor più, la diffusa convinzione che fare a meno di esse sia un bene. Vero è anche, però, che le poche scuole che sembra di poter scorgere tendono a rassomigliare tremendamente a circoli privati, poiché gli iscritti, o meglio gli “iniziati”, che le compongono si comportano più come affiliati a una setta che come membri di una comunità. E allora, nei confronti dei “maestri”, vivi o defunti che essi siano, direi che si nota una perversa coincidenza di rimozione e angoscia dell’influenza. Non ne rigetta l’autentica lezione soltanto chi li ignora, ma anche chi li riduce a capibranco per darsi un’identità intellettuale e – magari – ritagliarsi uno spazio professionale, come altresì è chiaro che pure quelle “vette” riconosciute, tuttora in attività, troppo inclini a trasformare il loro magistero nel collante di una conventicola, non hanno forse veri insegnamenti da trasmettere.

Per ciò che mi riguarda, vivo come una piccola, grande tragedia una condizione di orfanità che credo mi accomuni a quanti, di questi tempi, non hanno superato i quaranta e si ostinano a concepire il lavoro culturale alla stregua di un’attività da svolgersi entro un orizzonte non già molecolare o – peggio ancora, forse – tribale, ma realmente comunitario. In un contesto simile, se lo si vuole proficuo, non si può che stringere un legame sempre uno a uno, e sempre a distanza, con quelle voci critiche – del passato o del presente – elette a propri modelli. Sentirsi allievi diretti, o comunque fedeli, di un qualche maestro mi pare non solo impossibile, ma addirittura un intendimento insensato e persino da evitare, poiché manca quella cornice socioculturale che consentirebbe a un tale rapporto di filiazione di dare interi i suoi frutti, di assumere un pieno, e credibile, valore conoscitivo. Non resta, allora, che accettare ed esperire fino in fondo il proprio dolore di orfani, intessendo un dialogo incessante e, se non da pari a pari, tuttavia alla pari con maestri giocoforza mancati, ma non per questo ignorati o abiurati.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Ritengo siano sempre una domanda posta al presente, un’aporia o una possibilità di futuro intraviste nell’oggi, l’urgenza di comprendere il proprio tempo e di agirvi, a suscitare e orientare la ricognizione del passato. Il clima letterario e culturale in cui si vive – quando per essere meglio inteso o addirittura modificato, quando perché, in tutta evidenza o inavvertitamente, influenza coloro che lo percepiscono o soltanto subiscono – obbliga a ripercorrere e, al limite, ridefinire la tradizione e il canone, a giudicarli non corpi inerti, immutabili, imperituri, ma processi in continuo divenire, sui quali grava costantemente una minaccia di morte e che si muovono insieme col presente, aspirando sempre a protendersi verso il futuro: dimensioni temporali, queste ultime due, che possono anche interrompere, esaurire, esautorare simili produzioni di senso, di forme, di verità. E dunque, per parte mia, la simbiosi è (dovrebbe essere) totale: la critica militante alimenta (dovrebbe alimentare) lo studio scientifico e ne è (dovrebbe esserne) alimentata; lo studio scientifico ispira (dovrebbe ispirare) la critica militante e ne è (dovrebbe esserne) ispirato. Il che non implica un’analisi dei testi di ieri e di quelli di oggi pigramente affidata ai medesimi criteri di valutazione, agli stessi metodi interpretativi. Implica, piuttosto, un’analoga, coerente intenzione intellettuale – ossia da storico e da critico della cultura tutta e, in seno ad essa, di quella peculiare quota di sapere costituita dalla letteratura – sia se si passano in rassegna opere canonizzate, sia se si esamina un libro appena pubblicato.

Di conseguenza, quando cerco di sondare l’attualità letteraria, non mi rivolgo necessariamente ai testi che magari considero più riusciti. La scelta cade invece sui lavori che, per le vie che prospettano o per le questioni che lasciano irrisolte, mi sembrano meglio capaci di intercettare e di esprimere, a volte persino senza averne consapevolezza piena, le tendenze in atto nella letteratura e nella cultura contemporanee, come pure le lacune e i punti fermi, le contraddizioni e gli obiettivi, che queste palesano o rivendicano. E la ricognizione di tali opere non può, anzi non deve prescindere dall’analisi del rapporto, più o meno esplicito, più o meno controverso, che esse intrattengono con le forme letterarie e le retoriche culturali del passato, sicché interrogare il presente vuol sempre dire ripensare la tradizione e il canone, proiettare la loro luce sull’oggi persino quando li si convoca non per aggiornarli, ma con l’intento di liquidarli. In sostanza, solamente un’attività critica ridotta a catalogo dei testi o a cicaleccio può spezzare il cordone ombelicale che la lega alla memoria della trascorsa letteratura e del sapere precedente. L’autentica critica militante, al contrario, non può mai emanciparsi dalla tradizione: al massimo può appena contestarla, in tal modo continuando comunque a promuoverla a ineludibile orizzonte interpretativo.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

A parer mio, la rete è una sorta di interstizio fra l’industria culturale e uno spazio libero (o sarebbe addirittura lecito affermare: anarchico) d’espressione. Con il trascorrere del tempo, essa potrebbe anche trasformarsi interamente nella prima cosa, o magari del tutto nella seconda, o persino restare ciò che ritengo sia ora: un ibrido a quote variabili (per alcuni aspetti analoga a un’estensione del circuito mass-mediatico, per altri aspetti somigliante a un luogo di aperto confronto alla pari tra gli individui) di quelle due cose. Staremo a vedere.

Ad oggi, mi sembra ancora vero che scrittori e intellettuali cercano fuori dalla rete la loro definitiva legittimazione pubblica, come pure che la maggioranza dei lettori continua a giudicare autore letterario chi pubblica libri, recensore chi collabora con quotidiani e riviste cartacee, studioso o saggista chi firma volumi di critica. Ciononostante, è per l’appunto innegabile che la discussione letteraria fuori dal web abbia guardato, e molto, a quella in rete, facendone tuttavia propri i limiti, non i punti di forza.

Da quanto ho fin qui affermato, credo si possa agevolmente dedurre che, per me, il critico letterario è quell’esegeta che, di fronte a un’opera, accetta di esaminarla in ogni sua parte, e nei rapporti che essa intrattiene tanto con altri testi, o prodotti artistici e del sapere, quanto con l’epoca che l’ha vista nascere, per preoccuparsi solo poi, e anzi appena in ultimo, di formulare, quale esito della propria indagine, un complessivo giudizio sul valore estetico e culturale di quell’opera. E dunque, almeno ai miei occhi, una cosa è l’esercizio della critica letteraria, un’altra cosa è la legittima espressione di pareri su un libro del tutto, o in larga misura, sganciati dalla paziente disamina di quel testo. In fondo, l’ho già suggerito: fare critica non significa esprimere un’opinione; può significare esprimere anche un’opinione, ma se significa esprimere soltanto un’opinione, allora non è più critica.

Ebbene, l’opportunità, offerta a ciascuno di noi, di manifestare liberamente le nostre idee in rete, ha fatto sì che il web abbia rafforzato un’indebita equiparazione da vari lustri già proposta dall’industria culturale: quella, appunto, tra critica e opinione. Sicché Internet, potendo – a differenza, per esempio, degli organi di informazione – concedere teoricamente a ognuno di esternare i propri gusti, ha fatto il passo che il senso comune già aveva compiuto: promuovere tutti a critici, giacché un’opinione, anche una sola opinione, non manca a nessuno. A quel punto – e per citare a mo’ di esempio semplicemente il caso dei quotidiani – pagine culturali, da tempo strutturate sull’elezione della chiacchiera a critica, hanno preso sovente a ricalcare, proprio perché le vedevano capaci di attrarre molti utenti, talune formule di discussione, assai distorte, reperibili in rete. E così, i giornali decidono sempre più spesso di occuparsi non dei volumi e degli autori migliori, ma di quelli già capaci di suscitare nel web l’interesse di tanti navigatori, magari sperando che questi ultimi si trasformino poi negli acquirenti delle gazzette che agli scrittori e ai testi per loro più rilevanti concedono spazio. Oppure scelgono frequentemente di trattare quei libri e quegli autori che ben si prestano a essere presentati come “casi”, in modo che, su tali volumi e scrittori, possa accendersi una disputa in grado di rimbalzare, ancor più che sulle testate rivali, su Internet e da qui ancora tornare, portando magari con sé nuovi lettori, sulle colonne del quotidiano che la gazzarra ha inaugurato. Non c’è chi non veda, almeno spero, come la critica, con tutto questo, non c’entri nulla.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

Sostenere che, in una situazione simile, avverto immutabilmente instabili, se non risicati o addirittura sospesi, i miei effettivi margini di autonomia anche critica, è ancora poco. L’umiliazione sociale inferta – da un certo punto di vista, persino col nostro paradossale benestare – a noi trenta-quarantenni rende precarie non solo le esistenze che ci sforziamo di condurre, ma anche le stesse ipotesi professionali con cui ambiremmo a ritagliarci uno spazio nel consesso civile. Di riflesso, l’insopprimibile consapevolezza di non essere realmente inserito nella vita produttiva del Paese, di non ricoprire un ruolo certo in seno alle istituzioni scolastiche e universitarie, mi vieta di considerarmi un critico letterario, un intellettuale, a tutti gli effetti. Se tali qualifiche sono in primo luogo mestieri socialmente riconosciuti, allora posso al massimo affermare che quella del critico letterario, dell’intellettuale, è la mia ostinata ambizione identitaria, non è – o meglio: non riesce a divenire – il mio lavoro, il mio stare al mondo.

33 thoughts on “Cinque domande sulla critica /14. Antonio Tricomi

  1. Riprendo qui la discussione aperta con Simonetti. Noto che Tricomi, a differenza di lui, ha ben presente che il critico delle produzioni artistiche o è un intellettuale, votato quindi a una certa coerenza interna alle sue proposizioni, o non è. Simonetti, invece, vorrebbe sfuggire a questo “aut aut”: dice che il critico può essere di sinistra ma avere anche fantasmi reazionari, etc. Sicuro che può: ma allora è solo un cattivo intellettuale, io dico un pasticcione, sia pure magari interessante; la posizione di Simonetti sarebbe accettabile solo se lui assumesse che la critica è un genere letterario al pari di altri, perché all’artista non si richiede, come al critico, di essere necessariamente un intellettuale. Per tornare a Tricomi, apprezzo in lui la decisa opposizione all’ “opinione”: se un critico è un intellettuale, ciò che egli esprime non è una semplice opinione di gusto intorno a un’opera, ma una mobilitazione di saperi. Al contrario sono in disaccordo con l’aria di “nostalgia” di cui è pervaso il suo pezzo (e più in generale il suo lavoro). Nostalgia di che? La vita dell’intellettuale è stata per lo più una vita da bohème. Più o meno privilegiata, certo: uno godeva di un piccolo appannaggio familiare, un altro si arrangiava scrivendo articoli su gazzette che disprezzava… Proprio come adesso in Italia, “mutatis mutandis”, se – da precari – si vive nell’appartamento lasciato in eredità dalla nonna. Quella che è finita – e non è detto che sia un male – è la vecchia bambagia del Pci, che permetteva a molti di essere ben piazzati all’università e nel partito. Ma anche allora, del resto, se uno come Pasolini (per dire un autore studiato da Tricomi) non avesse imboccato la via dello scandalo e del cinema, i quattrini non li avrebbe fatti. Marginalità vuol dire aleatorietà delle chance. Che ci sia in più, oggi, una vergognosa precarizzazione – una cosa contro cui bisognerebbe lottare -, è vero: ma ciò non contraddistingue la condizione del lavoro intellettuale, riguarda tutti i lavori.

  2. La mia è una cortese sollecitazione ad Ennio Abate affinché faccia sentire la sua voce e pesare il suo giudizio, contribuendo a separare in queste interviste sul significato e la funzione della critica letteraria il grano (Tricomi, Bertoni, Pellini, Casadei e qualcun altro che ora mi sfugge) dal loglio (Giunta, Simonetti, Pedullà e qualcun altro che in questo momento mi sfugge)…

  3. Caro Barone,
    la (ti?) ringrazio della fiducia che ripone/i in me, ma è ora che io faccia il bilancio della mia partecipazione come commentatore di lungo corso (fin dagli inizi) su “Le parole e le cose”.
    Quando l’interlocuzione con molti degli autori che qui pubblicano è a senso unico o le risposte, se vengono, confermano sbrigativamente “la linea”, ci si può accontentare di parlare tra noi commentatori (del “quartetto” o “quintetto”)?
    Ci si ripete, col rischio di fare gli “spogliarellisti” o di essere inchiodati al ruolo decorativo o stereotipato del bastian contrario previsto dal copione.
    Perciò penso che, come minimo, diraderò i miei interventi su questo blog.
    Sui temi che a me e a lei stanno a cuore potremmo sempre discutere altrove e, spero, più positivamente. (Le ho già lasciato i miei recapiti mail).

  4. Caro Ennio,
    so che i rischi, e anche gli effetti, da te paventati esistono, ma non credo che si possano esorcizzare con il cenobio, con il ‘kepos’ o con l’afasia. Se abbandoniamo il campo a questa tribù di soddisfatti liberali post-moderni e di ossimorici anarco-riformisti, come faremo a “proteggere le nostre verità”? Io sono convinto che la massima che ispirò l’azione di Guglielmo il Taciturno nella guerra degli Ottant’Anni per l’indipendenza delle Province Unite sia la parola d’ordine appropriata ai tempi difficili in cui viviamo: “Non c’è bisogno di sperare per intraprendere e non c’è bisogno di avere successo per perseverare”.

    Salut et fraternité *

    * Formula di saluto adoperata dai Sublimi Maestri Perfetti.

  5. @ barone

    Guglielmo I d’Orange, però, non fu mica soprannominato il “’Taciturno” per niente.

  6. @ erotomachia baronis

    Wiligelmus, qui ortu erat Germanicus, Taciturnus appellatus est propter suam iudicandi facultatem, non silentii causa. Ille Batavorum magnus dux fuit non solum in aspero proelio, sed etiam in publicis disputationibus, cum vir bonus dicendi peritus esset. Disce igitur, o miser qui me reprehendere conaris, verborum multiplicem significationem discernere aut tace.

  7. Azz! I Sublimi Mestrui Perfetti! E chi se lo avrebbe mai crèso! La “cupola” illuminata a cui la storia e il destino hanno affidato il compito di guidare le masse beote incapaci di pensiero…
    Chi sa mai perché le loro illuminate dottrine (“verità”) vanno a ruba negli ambienti della destra estrema eversiva… ma sarà solo un caso, una coincidenza, neh?

  8. “Wiligelmus, qui ortu erat Germanicus, Taciturnus appellatus est propter suam iudicandi facultatem, non silentii causa. Ille Batavorum magnus dux fuit non solum in aspero proelio, sed etiam in publicis disputationibus, cum vir bonus dicendi peritus esset. Disce igitur, o miser qui me reprehendere conaris, verborum multiplicem significationem discernere aut tace.”

    De bello belgico libri tres, ab Erotico Barone, universali doctore, integerrimo magistro atque glorioso milite scripti.

  9. Per andare al punto: la piantiamo di prendere in giro l’interlocutore come ragazzini? Addirittura i giochi di parole sul nome, che inventiva, che satira, che coraggio!

  10. @ buffagni

    Il suo compare Barone è da poco intervenuto in calce a un altro post con due commenti della lunghezza complessiva di 18000 caratteri. Da semplice ma assiduo lettore di leparoleelecose, penso che, in un contesto di discussione aperta, la possibilità di uno scambio di idee non possa totalmente prescindere dal rispetto di certi limiti che non sono solo di spazio, ma anche di tempo, proprio e altrui. Barone, a mio modo di vedere, abusa del nostro spazio e del nostro tempo. Utilizza questo blog in modo parassitario, per adempiere con paranoica prolissità alla sua missione di ultimo baluardo a difesa del materialismo dialettico. L’ironia è un benevolo tentativo di ricondurlo alla ragione, e l’onomastica un destino spietato.

  11. @ erotomachia baronis

    Primo: i “compari” li avrà lei. Eviti di attribuirli a me, e dia una ripassata alle buone maniere.
    Secondo: se a parer suo “Barone abusa del nostro spazio e del nostro tempo”, si rivolga ai gestori del sito suggerendo di invitarlo a contenersi; o più semplicemente eviti di leggere i suoi interventi.
    Terzo: evidentemente, ci facciamo un’idea diversa di quel che sono “ironia” e “benevolenza”. Io trovo maleducato, infantile e di pessimo gusto dileggiare qualcuno per il nome che porta; né mi risulta che qualcuno sia mai stato “ricondotto alla ragione” così.
    Quarto: La ricetta infallibile per rovinare uno spazio pubblico di discussione è mancarsi di rispetto.

  12. @buffagni

    1) “Compare” mi sembra termine adeguato, data una certa complicità nella monopolizzazione a mio modo di vedere indebita dello spazio “commenti” di questo blog.
    2) Non ponendo alcun limite materiale al testo dei commenti, i gestori del sito avranno fatto le loro valutazioni. Forse si affidavano un po’ anche al buon senso dei commentatori. Per quanto mi riguarda, trovo che commenti smisuratamente prolissi rendano difficile la fruizione di questa sezione del blog, e me ne lamento con chi ne è direttamente responsabile.
    3) Non dileggio Barone per il nome che porta, al limite uso il nome che porta per dileggiarlo, che è cosa ben diversa, potrebbe chiamarsi in qualsiasi altro modo e farei lo stesso, basterebbe che il suo nome rimanesse composto da significanti dotati di significato. E non si tratta nemmeno di dileggiare, ma di suggerire il ridicolo di una certa postura saccente e pedantesca.
    4) Mancanza di rispetto, secondo il mio parere, è anche cogliere ogni pretesto di discussione per infliggere ai lettori di questo blog infinite variazioni sulla verità assoluta del materialismo dialettico.

  13. Erotomachia Baronis ha ragione. State monopolizzando lo spazio commenti di questo blog, andate spesso fuori tema e ripetete sempre le stesse cose come quattro pensionati al bar. È giusto che qualcuno ve lo faccia sapere

  14. I compagni di verità e di lotta sono gli autori del 90% dei commenti (nel loro caso, massinianamente, esteriorizzazioni) prodotti in questo blog negli ultimi otto mesi.
    Questa sarebbe la democrazia di cui si riempiono la bocca?
    Occupare manu militari (il “compagno di verità e di lotta” Buffagni è un vero esperto in materia) una piazza pubblica, scaricandovi quotidianamente tonnellate di cianfrusaglie, in un mix delirante di stalinismo-terzinternazionalismo d’accatto-messianesimo di quart’ordine-spirito di crociata-profetismo verde stinto-identitarismo-razzismo-clericalismo-fascioleghismo più o meno criptico-omofobie assortite, sarebbe democrazia?
    E cavarsela, a ogni pie’ sospinto, col refrain-mantra “nessuno ti chiede di leggermi”, è indice di “buone maniere” e di rispetto del diritto degli altri ad esprimersi, o non piuttosto la spia più evidente di quella mentalità totalitaria, falsamente dialettica e (solo) apparentemente ligia alle regole, tipica di chi si ritiene investito dal sacro furore dei portatori di verità?

    “Dialogare” significa mettersi in ascolto dell’altro, riconoscergli il nostro stesso diritto ad esprimersi, concedere alle sue tesi lo stesso rispetto che, giustamente, rivendichiamo per le nostre…
    E allora: quale dialogo può mai esserci quando io, a fronte dell’articolo che faccio finta di commentare, non solo ne contesto per principio la sostanza, ma mi sento in diritto di dire all’estensore cosa deve scrivere, come deve scrivere, quali termini deve utilizzare e, soprattutto, in quale accezione quei termini vanno correttamente intesi e interpretati?

    Grande è la meraviglia sotto il cielo!
    Ma non riguarda certamente la band di pensionati che porta in giro il suo spettacolino, non avendo nient’altro da fare che seminare tracce della propria presenza di tuttologi da bocciofila o da sagra paesana, quanto piuttosto i gestori del blog che non gli hanno ancora dato il benservito… E’ proprio così che sono morti, lentamente, i migliori siti presenti in rete.

    @l “compagno di verità e di lotta” (sic!) buffagni

    Ho visto che lei collabora, in qualità di valletto e <em<damo di compagnia, in un blog dove (sembra che) si discutono temi politici.
    Ebbene, perché non prova a portare lì le quintalate di commenti (si fa per dire) che scarica ogni giorno da queste parti? Crede che il suo “datore di lavoro” glielo permetterebbe?
    E, visto che le piace così tanto appellarsi al “senso democratico”, come mai non ha niente da ridire sul fatto che, per postare un commento in illo loco, bisogna prima lasciare un documento di identità e poi concordare il contenuto, link compresi, col gestore?
    Perché non porta lì gli altri “compagni” del suo giro di avanspettacolo, per la felicità sua e del democraticissimo padrone di casa?

    uc

  15. a erotomachia baronis.

    La “complicità” se la immagina lei. Per il resto, la pensi un po’ come vuole.

    a Marco Gusberti.
    La ringrazio per il suo parere.

    a Ugolino Conte.

    Lei è un maleducato e un vigliacco. Se ne vuole parlare di persona, chieda il mio indirizzo email ai responsabili del sito, che autorizzo fin d’ora a comunicarglielo. A disposizione.

  16. Un passo indietro rispetto alla discussione in corso.
    Una delle domande ai 15 critici interpellati da Allegoria (siamo pur sempre in calce a uno di questi interventi!) sollecitava considerazioni sul cambiamento della critica in rete. A parte un paio di eccezioni (mi pare), quasi tutti erano d’accordo nell’affermare che la critica, tutto sommato, continua a farsi sui libri, nelle biblioteche, nelle aule, nelle redazioni, …, e che la rete al massimo serve alla diffusione presso un pubblico più ampio. Più d’uno accennava sì al “dibattito” in rete, ma alludendo piuttosto allo spazio dei commenti, insomma spostava il focus della domanda. Evidentemente il tasto è dolente. Le riserve sono state unanimi, a parte quel paio di eccezioni. Parecchie di quelle riserve erano sensate e vanno ricevute e meditate.

    Forse guadagneremmo tutti qualcosa dal chiudere i commenti e accontentarci del fatto di poter avere un aggiornamento culturale costante senza, come i nostri padri e fratelli maggiori, doversi abbonare ad alcunché, andare in biblioteca, scucire un euro, … Dopo tutto i lettori dei vecchi inserti e riviste erano passivi e non commentavano. Basta con la finzione dell’agorà virtuale che è solo caciara universale.

    E però: quante volte ho letto un commento intelligente (a volte al pari del pezzo commentato), seguito un paio di profili di pensiero profondo, avuto un’indicazione bibliografica, avuto l’occasione di limare o modificare quello che pensavo nello scontro con un altro? Forse chiudere tutto non è la soluzione migliore.

    Fatte queste premesse: mi dispiace della discussione in corso, soprattutto mi pare che alcune discussioni qui su LPLC (a prescindere dall’ovvio rarefarsi estivo) si siano progressivamente sclerotizzate (per il numero dei partecipanti, che è andato riducendosi – così almeno a me pare –, e per le dinamiche interne alle discussioni stesse): mi pare che questa ne sia un buono specimen.
    Invocare il buon senso, lo vediamo, non basta, perché le sensibilità su cosa sia buon senso sono diverse; d’altra parte porre regole stringenti non piace. Che si può dire? Non se ne esce.

    Dico quello che penso. Mi verrà forse fuori un tono da professorino. Spero me lo si perdonerà per l’intenzione (che sarebbe) nobile.
    1) Fare ironia sulle parole o pose di altri può starci, visto che si può rispondere con altrettanta ironia. Magari una volta a testa (to’, due), poi bon. Evitiamo il rilancio infinito?
    2) Si può ironizzare, però su un piede di parità: farlo dalla posizione del nickname pone immediatamente l’altro, che si firma con nome e cognome, nella condizione di vittima di cecchinaggio, che non sa in che direzione rispondere ai colpi. Non dico che non si debbano usare i nick: dico solo che usarli aumenta la dose di responsabilità, non la diminuisce.
    3) Facciamo tutti uno sforzo per contenere la lunghezza dei post? Ne approfitto per chieder venia di certi miei, specie all’inizio, quando ho scoperto il blog e pensavo davvero di essere arrivato allo Speaker’s corner. Non so se può valere per altri, ma io ho imparato che è cortese non scrivere un post più lungo del pezzo stesso che si commenta. Poi so perfettamente, Pascal docet, che per scrivere brevemente ci va tempo a sufficienza: l’arte del levare è appunto un’arte. Perdoniamo qualche prolissità, purché non impenitente (errare humanum… perseverare ecc…)?
    4) Di politica si litiga all’infinito. Va bene, è sano. Però magari l’eclissi di certi commentatori (ammesso che questa mia impressione sia corretta) dipende anche dal fatto che si sia percepita una forma di “colonialismo” della discussione politica nei confronti di ogni altro tipo di discussione; tutto condito, come ha notato “Erotomachia”, dall’impressione di voler evangelizzare al “Vangelo secondo Lenin” (cito Gaber). Per carità, ognuno ha le sue idee: però è spiacevole quando si è così tanto convinti delle proprie da arrivare a considerare tutti gli altri qui presenti, se va bene, dei finti anarchici o dei liberal-liberisti (magari nella forma “odiosa” di liberal-liberisti camuffati da liberal-socialdemocratici), se va male, degli imbecilli da guidare al vero, come ha notato ancora “Erotomachia”.
    5) I commenti sono commenti, cioè un genere servo, parassita del post. Me lo consenta, caro Barone, spesso i suoi commenti non si “attaccano” al post, ma sembrano vivere di vita propria (si potrebbe, credo, fare una verifica su certe marche linguistiche, specie dei suoi incipit). Forse un commento dovrebbe servire a dialogare, non a monologare.
    6) Infine: a me pare che sia proprio lo statuto del commento ad essere poco chiaro. Paghiamo ancora la novità del mezzo e lo gestiamo ancora con improntitudine. Poniamo il caso di un post di poesie. Se ne leggo una e mi limito a scrivere “bella”, sono nel giusto perché me l’hanno offerta solo come ballon d’essai (magari perché il poeta o la poetessa vuole fare una verifica prima di pubblicare) o faccio un uso liquido e postmoderno della poesia (degustata secondo il “mi piace / non mi piace” del bel pezzo di Genovese?). Se abbozzo arditamente un “commento critico” (prego prestare attenzione alle virgolette) sono un megalomane che senza aver letto gli 8mila libri di cui parlava tempo fa Magrelli pensa di poter esercitare una funzione serissima che non gli spetta o sono solo un lettore di poesia che tenta almeno di argomentare il suddetto “mi piace”? O ancora: la poesia è lì perché sia commentata piuttosto da esperti e i lettori dovrebbero piuttosto tacere e gustarsi la tenzone dialettica? (Sarebbe la cosa forse più bella da leggersi: ma tutti abbiamo 24 ore di vita al giorno e molte cose da fare. Anche i critici). Mi vengono in mente molti altri casi, ma mi fermo, spero di aver reso l’idea.

    Penso che la prima ragione di esistenza dei blog siano i post. I commenti sono solo un’appendice. Ma, nonostante tutti i difetti, continuo a pensare che alcuni aspetti positivi la discussione su un blog possa averli. Si impara, hanno una funzione pedagogica, se si fanno domande e si ha la pazienza di dare risposte..
    Mi risuona in testa una frase di Ceserani letta in una raccolta di saggi di didattica, quest’estate: «Quella stagione è ormai lontana. […] La vecchia generazione di insegnanti che furono protagonisti della stagione degli anni ’60-’70 […] è andata in pensione. Quei pionieri sono stati sostituiti spesso da nuovi insegnanti usciti da una università poco formativa, scarsamente addestrati al rigore della ricerca e allo spessore della storia, portati pericolosamente a seguire le mode mediatiche (festival della letteratura, articolesse di Citati e Baricco, ecc. ecc.)». Ce l’aveva con me e la mia generazione, e probabilmente anche con qualcuno più indietro. E ho pensato che in effetti la dispersione nella società di massa è capace di neutralizzare anche le migliori intelligenze (che ci sono), che non dico al liceo (come raccontava di fare Sanguineti), ma nemmanco all’università noi si leggeva inserti culturali, riviste (che so, un Belfagor) (anzi, a sconfessare Ceserani direi che se ho iniziato a farlo lo devo a certi stimoli forniti all’università). Ma sto per finire a parlare di scuola, didattica, … No, no, mi fermo. Insomma: se un blog, per facilità d’accesso e anche perché coinvolge quel tanto la voglia di partecipazione (anche un po’ narcisistica) dei lettori, riesce a colmare questo vuoto che la mia generazione in formazione ha scontato, non è una bella cosa?

    Sono stato prolisso, scusate. Giuro che taccio per un po’, per espiare il narcisismo e per leggere altri.
    Saluti a tutti.

  17. Passi per il “maleducato” (detto da lei, è un titolo di merito), ma “vigliacco” lo dice a se stesso o ai suoi pari , egregio Buffagni, io ho solo riportato un dato che può essere verificato da tutti in ogni momento.

    Lei qui si è sempre appellato alla libertà di accesso e alla possibilità, per tutti, di poter esprimere le proprie idee – cosa che le è stata ampiamente concessa, visto che ha potuto, tra l’altro, pur con i suoi modi sempre “garbati” e “affabili”, far passare una nemmeno tanto velata apologia dei *ragazzi* di Salò, insieme a paginate di esternazioni di chiara matrice omofoba (per tacere delle ultime perle sulla ministra Kyenge che le sottoscriverebbe anche l’ultimo dei borghezi di passaggio).

    Ora, se lei crede davvero in questa libertà senza censure, così come ha potuto sperimentare, fino a prova contraria, in questo blog; se questo è un suo principio, dal momento che lo richiama a tutta voce, coerenza imporrebbe che si battesse perché fosse prassi in ogni luogo di pubblico dibattito.

    Lei è un uomo di destra, Buffagni, di quella destra che nasconde il suo integralismo e il suo radicalismo dietro le “buone maniere” e la parola d’ordine tipica dei pifferai di regime, ripetuta ad libitum, che “non esistono più né destra né sinistra”. Bene, niente da dire o da obiettare, saranno pure caxxi suoi. Il punto, però, è un altro, e glielo passo sotto forma di domanda: quanti blog e siti di destra sarebbero pronti ad accogliere e ad accettare le mie esternazioni quotidiane, qualora fossero portatrici di valori e di una visione del mondo diametralmente opposta alle loro farneticazioni e alle loro *verità*?

    uc

    p.s.

    Autorizzo la Redazione di questo blog a passare la mia mail al signor Buffagni, in ogni momento, qualora la richiedesse.

  18. @Conte
    Ma lei di mestiere cosa fa, il provocatore?
    E’ così infervorato a provocare che non si rende conto neanche delle sciocchezze che scrive. Io ad esempio non sono pensionato, ho molte cose da fare e mi ritaglio uno spazio per il web con grande fatica. L’altra volta mi accusava di non avere un blog, mentre è facilmente verificabile il contrario. Ancora, se sa leggere, può verificare che non è che ci sia questo grande accordo anche all’interno dei quattro che così tanto citate. Insomma, lei come il generale di un noto film, non si arrende neanche di fronte all’evidenza.

    Allo stesso modo, non capisco di cosa mi accusa. Se si accusa qualcuno, bisogna formulare con accuratezza il capo d’accusa. La colpa consisterebbe nell’inserire troppi commenti o troppo lunghi, oppure di contraddire il contenuto dell’articolo. Le pare un’accusa che possa essere sostenuta?
    Vede, io al contrario di lei, non mi permetto di tentare di offendere gli altri commentatori, giudichi da sè chi abusa del mezzo, a me pare in tutta onestà di utilizzare appropriatamente l’ospitalità che mi viene offerta.

    Infine, sì, credo proprio che lei sia alquanto vigliacchetto, nascosto dietro un nickname, tenta di insolentire coloro che non le garbano, dica lei stesso se si possa considerare l’atteggiamento di una persona coraggiosa.

  19. Cucinotta, ho mai fatto il suo nome in qualche commento?
    Ma perché si sente tirato in ballo? Perché ruzzola se nessuno la spinge? Crede di essere così importante? Di essere qualcuno solo perché appare in giro con la lucina rossa accalappia-clienti?
    Io le sue esteriorizzazioni manco le leggo più, me ne sono bastate un paio per rendermi conto di avere a che fare con un testimone di geova in salsa verde-pistacchio. Quindi, per cortesia, mi lasci perdere, se proprio sono allo stremo provvedo da me medesimo a soddisfare le mie esigenze…

    Quanto al “vigliacchetto”, egregia testa-di-cazzo, le è mai passato per la mente che quello possa essere il mio nome “reale”? Ci ha fatto almeno un pensierino?

    E poi, nick o non nick, dietro ogni intervento c’è una mail, un ip facilmente rintracciabile: se uno si sente offeso, può sempre adire le vie legali, non crede?

    Quindi, se lei ci tiene proprio tanto a sapere se mi chiamo Ugo Conte o Ciccio Mazzatosta, su, da bravo, richieda la mia mail alla Redazione – li autorizzo a dargliela.

    uc

  20. In un’epoca dominata dalla reazione termidoriana i confini della ‘massa reazionaria’ di lassalliana memoria si sono talmente ampliati da giungere ad abbracciare, oltre al centro e alla destra, tutta la sinistra moderata e buona parte della stessa sinistra radicale, accomunate da quel liberalismo di tono accidioso e di sapore cinicamente postmoderno che è tipico degli opportunisti del nostro tempo. Non desta perciò meraviglia che vi sia chi si lagna dello spazio eccessivo che ottengono in questo blog i frequenti interventi di Buffagni, Cucinotta, Barone e (fino a non molto tempo fa) di Abate. È pur vero che l’ironia della storia fa sì che, sia pure in trentaduesimo, la polemica di Zdanov contro le “jene dattilografe” di sartriana memoria sia trasmigrata, in forma di ecolalia, presso alcuni suoi inconsapevoli nipotini… Risulta nondimeno innegabile che i “quattro pensionati al bar” o il “Quartetto Cetra” – per citare gli epiteti con cui siamo stati (o ci siamo) antonomasizzati – hanno svolto con le loro analisi positive del presente e con la loro critica spietata dell’esistente (se ne veda un brillante ‘specimen’ nel dibattito intorno al “tramonto dell’euro”) una salutare funzione scrotoclastica sia a destra che a sinistra, talché alcuni frequentatori di questo blog hanno pensato di elevare proteste non meno acide che melense, il cui tono recriminatorio ed acrimonioso ricorda il falsetto di un impotente che dà lezioni di etica sessuale ad un onanista e ad un incontinente. In realtà, ciò che disturba sono la chiarezza, la puntualità e la coerenza con cui i quattro sunnominati intervengono, non monoliticamente ma secondo le modalità dialettiche di una ‘concordia discors’, sui nodi cruciali della congiuntura economico-sociale e politico-culturale; sono le posizioni controcorrente che essi assumono, coniugando la critica con l’‘analisi concreta della situazione concreta’; sono il modo conseguente con cui essi argomentano quelle posizioni, senza temere il conflitto con i poteri costituiti anche quando ad incarnare tali poteri vi sono personalità che provengono dalle file della sinistra un tempo comunista. Dovrebbe allora essere chiaro che il tempo e le energie che ciascuno di noi dedica alla elaborazione dei suoi interventi servono a sviluppare la battaglia delle idee: costituiscono, in altri termini, una forma specifica della lotta per il progresso sociale e l’indipendenza nazionale, che è da tempo all’ordine del giorno in questo Paese, così come in Europa e in altre parti del mondo. Desidero ricordare infine che, se Buffagni, Cucinotta, Barone e Abate possono utilizzare con una certa frequenza lo spazio dei commenti di questo blog, ciò accade, oltre che in virtù dell’intrinseca qualità teorica, politica e letteraria dei loro interventi, anche in forza dell’articolo 21 della Costituzione, che la redazione di questo sito web ha sempre rispettato e garantito, riconoscendo un ampio e crescente rilievo alle voci critiche, radicali e controcorrente che in quegli interventi si esprimono.

  21. Mi duole mettere in dubbio “la chiarezza, la puntualità e la coerenza” del suo intervento, dove, come al solito, “la critica si coniuga con l’‘analisi concreta della situazione concreta”, ma sull’articolo 21 della Costituzione si sbaglia di grosso, non le garantisce in alcun modo il diritto di vedere pubblicate le sue illuminanti disamine su questo sito internet, diritto che le è concesso, in totale discrezionalità, dai gestori dello stesso. Mi lasci poi dire che suscita una certa ilarità vedere appellarsi solennemente a questo articolo della Costituzione la persona che, fra le stesse pagine di questo blog, esprimeva qualche tempo fa la sua “incondizionata ammirazione” per un paese come la Cina, “checché possano dire il Dalai Lama o qualche altro dissidente” (http://www.leparoleelecose.it/?p=11519).

  22. a Ugolino Conte.

    Lei si conferma maleducato e vigliacco. Visto che non ci arriva da solo, le spiego perché le do del vigliacco. Lei è un vigliacco perché mi insulta – “valletto” e “damo di compagnia” sono insulti anche nel suo vocabolario, credo – a distanza di sicurezza.
    Se non capisce che cosa significa “a distanza di sicurezza”, mi ripeta questi insulti faccia a faccia e glielo spiegherò nel modo più esauriente, a meno che lei non sia un invalido o un vegliardo.
    Se dopo aver vigliaccamente insultato, lei è nondimeno è capace di dare e chiedere soddisfazione, sarò lieto di continuare la discussione con lei, ma di persona, in privato, e in presenza di testimoni di sua e mia scelta.
    Altrimenti, non vedo ragione di risponderle.

  23. Al Moderatore. La prego di comunicarmi privatamente la mail di Ugolino Conte, che vi ha autorizzato a farlo nel commento qui pubblicato. Grazie mille.

  24. Insulti?

    Dal dizionario enciclopedico Treccani:

    Valletto1
    vallétto1 s. m. [dal provenz. vallet, der. del lat. vassallus «vassallo»]. –

    1. Nel medioevo e anche in età moderna fino al sec. 18°, paggio, donzello, staffiere, giovane cameriere: un giovane v. del padre, il cui nome era Guiscardo … più che altro le piacque (Boccaccio); ecco in un baleno I tuoi v. a’ cenni tuoi star pronti (Parini). In partic., v. d’arme, il giovinetto che seguiva, a cavallo o su un ronzino, l’uomo d’arme, con funzione di scudiero; nell’esercito francese del sec. 14°, l’arciere a cavallo che seguiva l’uomo d’arme; l’insieme dei valletti d’arme costituiva la cavalleria leggera, alla quale era affidato il servizio di esplorazione e di fiancheggiamento dell’esercito, e che era tenuta in disparte quando si veniva al combattimento.

    2. estens. Nell’età moderna, ognuno degli uscieri del municipio (soprattutto di Roma, dove il nome è esteso anche agli uscieri di alcuni teatri) che, in speciali occasioni, indossano la divisa di cerimonia (cfr. donzello, a Firenze).

    *

    Damo

    damo s. m. [formato sul femm. dama], fam. tosc. – Fidanzato, giovane amato, amante: avere, farsi il d.; le ragazze vanno in su e in giù col d. (Pea); anche, il ballerino che danza in coppia con la dama (cioè il suo cavaliere): ballando, di sopra la spalla del suo d. lo fissava con foga (Bontempelli).

    *

    Vigliacco

    vigliacco agg. e s. m. (f. -a) [dallo spagn. bellaco «malvagio, vile, furfante» (voce di origine oscura), raccostato a vile] (pl. m. -chi). – Vile, ma è voce più pop. e più spreg. di vile, e si riferisce non soltanto a chi per mancanza di coraggio fugge davanti al pericolo o accetta per pusillanimità sopraffazioni e ingiustizie, ma anche e soprattutto a chi agisce con arroganza e prepotenza contro chi è più debole quando sia certo di restare impunito: gente v.; più spesso con uso di sost.: è stato un v.; vi siete comportati da v.; è una vera v. quella donna! Per estens., azione v., comportamento v., che rivelano vigliaccheria. ◆ Dim. vigliacchétto; accr. vigliaccóne; pegg. vigliaccàccio; tutti solo come sost. ◆ Avv. vigliaccaménte, con vigliaccheria, da vigliacco: comportarsi, fuggire vigliaccamente; infierire vigliaccamente sulla popolazione inerme.

    ***

    Stranamente (?), nei primi due non c’è nessun accenno a un uso insultante o irridente dei termini in questione. Nel commento “incriminato” vogliono rimarcare la posizione “defilata” del soggetto in questione rispetto ad altri blog, in particolare “questo”, nei quali lo stesso è “capace” di *articoli*, in forma di *commento*, di centinaia di righe. Il tono ironico, poi, andava e va da sé, fa parte del gioco.

    Solo la prosopopea [Prosopopea
    proṡopopèa (non com. proṡopopèia) s. f. [dal lat. prosopopoeia, gr. προσωποποιία, der. di προσωποποίεω «personificare», comp. di πρόσωπον «faccia, persona» e ποιέω «fare»]. –

    1. Figura retorica per cui si introducono a parlare persone assenti o defunte, o anche cose inanimate, astratte, come se fossero presenti, vive, animate: è una figura questa, quando a le cose inanimate si parla, che si chiama da li rettorici prosopopeia (Dante); è, come dicono i retori, una prosopopea dell’Allighieri (Carducci, citando il sonetto «Dante Alighieri son, Minerva oscura …» attribuito al Boccaccio); Prosopopea di Pericle, titolo di un’ode di V. V. Monti, nella quale il poeta personifica e fa parlare l’erma di Pericle, scoperta a Tivoli verso la fine del sec. 18°.

    2. fig., spreg. Aria d’importanza, gravità affettata e ridicola, che spesso si accompagna a sussiego, presunzione, arroganza: parlare con p.; ha una gran p.; senti che p!; lo spettacolo in sé lo annoiava, perché non aveva niente di autentico – era solo cartapesta e retorica, finzione e prosopopea (Melania Mazzucco).] di certi personaggi può portarli a scambiare l’ironia con l’insulto.

    Le cose stanno in modo <em<ben diverso, invece, per quanto riguarda il termine *vigliacco*: i Tre Cani, non ammettono eccezioni di sorta nell’uso del termine…

    ***

    Buffagni, la prego, non mi mandi i padrini per la scelta dell’arma…

  25. @Conte
    Coerentemente con la sua vigliaccheria, lei la butta in rissa senza confrontarsi coi fatti.
    Lei mi ha tirato in ballo, e lo sa bene, è proprio da vigliacchi farlo senza pronunciare esplicitamente il nome così da potere poi negare e non risponderne, ma stavolta le è andata male.
    A differenza del dare del vigliacco, non so che tipo di offesa sia dare del “testa di cazzo”, non mi pare esprima un’accusa, è solo un atto di sbruffonaggine pronunciato a distanza di sicurezza. Ne sarà molto fiero, questo lo capisco, mi pare in linea col personaggio che lei interpreta.
    Del suo indirizzo E-mail non so che farmene, vorrei che lei ci dica come si chiama, se Ugolino Conte (ma che genitori ha?), dica senza infingimenti che questo è il suo nome invece di usare frasi ipotetiche. Se come credo, si tratta solo di un nickname, allora sveli il mistero, ma non a me, lo sveli urbi et orbi visto che urbi et orbi ha espresso questi concetti così lusinghieri sulla mia persona.
    Su, un piccolo sforzo ancora, tifiamo tutti per il suo tentativo disperato di vincere la sua vigliaccheria!

  26. @Ugolino Conte, Buffagni, Cucinotta, erotomachia Baronis, Barone.

    La discussione è interessante e saremmo pure curiosi di assistere a un duello nato a causa nostra; oltretutto sarebbe una pubblicità formidabile per il sito. Oggi però è il nostro secondo compleanno, siamo assediati dalla malinconia dei compleanni, dal senso della vanitas, dello spreco universale; perciò chiediamo a tutti quanti di moderare i toni. Potete continuare a discutere ma senza insultarvi, sfidarvi a duello o chiedere gli indirizzi email. E comunque non metteteci in mezzo. Grazie.

  27. Ai Moderatori.

    Obbedisco volentieri. Mi permetto solo di aggiungere una cosetta. Non sarebbe più pratico intervenire prima, e censurare le offese alla persona?
    Il bel titolo che avete scelto per il sito recita “Le parole e le cose”, e allude al fatto che tra parole e cose c’è una relazione. Ecco, una delle relazioni possibili tra parole e cose è questa: che chi viene offeso reagisca, e non soltanto a parole. Qui le conseguenze sono nulle: basta prender sul ridere la sfida antidiluviana (vi informo però che qualcuno, non solo io, continua a prenderle sul serio e a farle per davvero, queste cose). Altrove c’è meno da ridere.
    Comunque, mi scuso per il fastidio. E’ casa vostra: richiamare eventualmente all’ordine gli intervenuti spettava a voi, non a me. Di nuovo scusandomi per il disturbo, vi saluto cordialmente.

  28. @LoVetere:

    Ho fatto il commentatore su web per 10 anni su Nazione Indiana, fino al 2011. L’impressione sul periodo piu’ recente e’ che la crisi economica si sia mangiata il dibattito e che quella sociale abbia dissipato il letterario, Ogni commento e’ adesso funzionale a metriche aliene all’agone estetico e alle poetiche.

    Chi non ha interesse concreto (da insegnante, da accademico, da spodestato, da book-jockey, da editore, da attivista, da attention seeker, da autore che ha pagato 1500 euro per farsi il libretto e va pietendo audience), dubito trovi interessante leggere i siti letterari, tanto a scopo conoscitivo quanto di arricchimento culturale.

    Alla fine della giostra, resiste ancora e solo l’opera: le poesie nel caso del poeta, le traduzioni nel caso del traduttore, i saggi nel caso del saggista. Gli innovatori (del web e non solo) sono passati a fare altro, da tempo.

  29. A coloro i quali usano con tanta sicumera e disinvoltura l’epiteto-clava “vigliacco”, auguro sinceramente, dal profondo del cuore (e lo sto dicendo senza nessuna ironia), di ritrovarsi dentro, qualora la vita gli riservasse (come non gli augurerei mai) una prova estrema, anche solo un’oncia del “coraggio” che io devo inventarmi ogni giorno per combattere un nemico senza nome e senza nick, senza ip e senza mail, che se ne frega delle dispute da blog, dei titoli accademici e delle offese, vere o presunte che siano.

    Era la premessa, veniamo al seguito.
    Sì, perché la storia di questo thread avrà (quasi) sicuramente un seguito, anche se non in rete. E lo avrà, dopo che avevo già archiviato la “pratica”, in seguito alla comparsa di un commento in cui l’autore ha voluto mettere a tutti i costi la “ciliegina” (avvelenata) sulla torta.

    E’ stato tutto registrato, virgole e punti compresi, adesso sarà chi è competente, e deputato a farlo, a stabilire alcune “cose” e a presentare gli eventuali “conti”.

    Stabilirà, ad esempio:

    1) se le espressioni “valletto” e “damo di compagnia” (in un contesto in cui si fa esplicito riferimento alla quantità di materiali prodotti nei blog e al ruolo occupato negli stessi) siano offensivi e rubricabili come reati;

    2) se l’uso reiterato dell’epiteto “vigliacco” sia o meno un reato (la Cassazione lo definisce di natura “penale”);

    3) se la negazione e la denigrazione pubblica dell’identità personale sia o meno un reato (il fatto che il nome possa essere di fantasia, non significa niente, laddove la persona reale sia immediatamente identificabile dalla sua mail e dal suo ip, già verificati dal gestore in sede di moderazione: in tre secondi la polizia postale gli notifica l’eventuale reato, anche su semplice segnalazione e senza nessuna denuncia);

    4) se l’utilizzo, più o meno apertamente ripetuto, di minacce, di chiamata al regolamento dei conti e alla risoluzione fisica del confronto, duelli compresi, sia o meno un reato (e davvero non so se l’esclusione di “vecchi” e “infermi” sia un’attenuante o un’aggravante);

    5) se definire “testa-di-cazzo” uno che ti dà del “vigliacco” sia o meno un reato;

    e soprattutto (il più odioso e miserabile)

    6) se diffamare persone terze in luogo pubblico e con mezzi a larga diffusione, persone oltretutto assolutamente estranee all’evento, e irriderne e disonorarne la memoria in quanto defunti, sia o meno un reato (bastano un paio di click in rete per sapere a cosa si va incontro)…

    Bene, tutto questo lo stabilirà chi di dovere.

    ***

    Io ho dato del “valletto” al sig. Buffagni che, in risposta, mi ha apostrofato con ripetuti “vigliacco”. Ho replicato al primo (al successivo gli ho dedicato una canzone) e poi morta lì: insulto per insulto, pari e patta, fa parte del “gioco” della rete, può succedere. Alla fine, sappiamo bene noi e chi ci conosce se siamo tali. Amen, ci staremo più attenti la prossima volta, visto che la comunicazione in rete non rimanda né l’espressione del volto né il tono della voce, che da soli basterebbero, in genere, a dissipare ogni equivoco e ogni intenzione malevola.

    Sempre io, in risposta al solito epiteto di “vigliacco” (totalmente imprevisto, stante la sequenza degli scambi) ho dato del “testa di cazzo” al sig. Cucinotta. Pari e patta, finità lì, fa parte del gioco?
    Nemmeno per sogno: il signore in questione torna alla carica con un’altra valanga di insulti. Si fosse fermato al 5), avrei ancora abbozzato; e invece no, stavolta ci aggiunge il vilipendio irridente della memoria dei miei genitori…

    E allora, miei cari, si va *tutti* davanti a un giudice, se nelle prossime ventiquattro ore, a partire da questo momento, non arrivano due parole di scuse, pubbliche, per le persone insultate in quella odiosa parentesi. Tutto il resto era ed è un gioco: *questo* proprio no.

    ***

    Alla Redazione del blog.

    Mi dispiace avervi rovinato il compleanno e vi auguro buone cose.

  30. ai Moderatori.

    Come ho detto più sopra, non spettava a me riprendere il commentatore che ne prendeva il giro un altro. Mi dispiace di aver dato involontariamente inizio a questo litigio, e me ne scuso di nuovo.

    a Ugolino Conte.

    Mi dispiace soprattutto che in questo litigio occasionato, benché involontariamente, da me, e nel quale tutti abbiamo trasceso, lei sia stato offeso in un affetto intimo. E’ un incidente increscioso che non doveva succedere.
    Per la parte di responsabilità che ne porto, le chiedo sinceramente scusa. Naturalmente, adire le vie legali è un suo diritto, ne disporrà come meglio crede.

  31. Caro Ugolino Conte,
    se questo le può restituire un po’ di serenità, le chiedo volentieri scusa, a prescindere (dai miei effettivi torti, s’intende), come avrebbe detto Totò.

  32. Non ho mai chiesto scuse personali.
    Comunque la storia, per quanto mi riguarda, finisce esattamente in questo momento.

    uc

  33. Ci dispiace che la discussione sia degenerata. La colpa è anche nostra; avremmo dovuto vigilare di più e meglio. D’altra parte abbiamo un lavoro, una vita e tante cose da fare, come tutti. Ora che chi si è sentito offeso ha ricevuto delle scuse, le porgiamo anche noi per la nostra negligenza; dopodiché provvederemo a cancellare le frasi offensive e chiuderemo la discussione. Vorremmo aggiungere due cose:

    – Per rispondere ai problemi che sono emersi nel corso di questo dibattito, cambieremo le regole di accettazione dei commenti.

    – Si è parlato di vie legali. Fermo restando il diritto che ciascuno di voi ha di ricorrervi, è giusto farvi sapere che, se ciò accadesse, valuteremmo seriamente l’ipotesi di chiudere il sito, perché non vogliamo essere coinvolti in questo tipo di faccende e soprattutto perché forse, onestamente, non ne vale la pena.

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