[Dal 29 luglio al 1 settembre 2013 Le parole e le cose osserverà una pausa estiva; la programmazione regolare riprenderà il 2 settembre 2012. Durante questo periodo, per non lasciare soli i nostri lettori, pubblicheremo dei video, delle interviste, delle fotografie e delle playlist. L’immagine di copertina non verrà cambiata regolarmente].

Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le risposte di Paolo Zublena.

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Dipende da che cosa si intende per scelta di campo. L’eclettismo delle teorie e dei metodi non è certo la necessaria premessa di un tout va bien, e, tutto sommato, non è forse nemmeno troppo legato a una indeterminazione del giudizio di valore estetico, che procede piuttosto da esigenze legate alle logiche di mercato. Di solito la faziosità dichiarata nasconde un eccesso di ideologismo o un eccesso di narcisismo.

Più che essere parziali, è importante sottrarsi alla corrente familiare, al discorso dominante o alla sua stampella falsamente dialettica. Si tratta di cercare quello che non c’è, di descrivere l’apparizione dell’opera d’arte, il suo carattere di enigma. Per Adorno le opere d’arte documentano un valore di verità storicamente situato (anche se non determinato), ma insieme presentano e velano un «di più». Del resto il contenuto di verità di un’opera non ha a che fare (o almeno non è in rapporto consequenziale) con le intenzioni e l’ideologia di un autore. Molto spesso gli schieramenti e le scelte di campo avvengono in base all’ideologia e alla poetica esplicita degli autori, più che a partire dall’intrinseco contenuto di verità dell’opera, e semmai dall’ideologia in essa implicita. Uno dei compiti della critica in generale, e della critica militante in prima battuta, consiste nel mostrare le contraddizioni e i possibili rapporti (rimozione, compromesso, reazione ecc.) tra quello che l’autore crede di fare e quello che fa, tra poetica esplicita e poetica implicita, tra ideologia e prassi (di scrittura): adornianamente, nel portare alla luce ciò che nell’opera eccede la sua forma.

Un’operazione del genere, sia nella critica dell’antico sia in quella del nuovo, dovrebbe anche – oltre a fare un lavoro di mediazione tra il lettore “specialista” e il lettore comune – aiutare gli autori a essere all’altezza del loro tempo, riconducendo la loro prassi di scrittura a concettualizzazioni in grado di stimolare l’intrapresa di percorsi di ricerca lontani dal già visto e dalle sirene del mercato.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Bisogna distinguere tra gli eventuali casi individuali e uno spostamento sociale di ordine storico. Quella dei maestri con i loro discepoli è una struttura tipica del “mondo di ieri”: ma ciò rientra in una più generale frattura tra generazioni che si manifesta in tutti i settori della società. Quel tanto di democratizzazione del sapere generato da una maggiore accessibilità degli strumenti ha fatto sì che si potesse scegliere con più libertà i propri modelli, e d’altra parte ha dato luogo a un certo rischio di anomia. Meglio comunque avere molti maestri che uno solo, dal punto di vista metodologico. Ognuno poi deve essere all’altezza del proprio tempo: per questo, tra l’altro, trovo del tutto anodini i capricci di qualche (non più) giovane critico nei confronti dei mostri sacri (come certo tiro a Contini andato di moda in anni recenti) che con infantilismo narcisista trascura l’enorme distanza storica che pochi decenni hanno prodotto nelle modalità di trasmissione del sapere. Per quanto riguarda l’università, l’inerzia è più lenta: la legge – scritta e non scritta – istituzionalizza la dipendenza dell’allievo dal maestro, ma questa dipendenza non è più ricompensata con la promozione al ruolo (se non in pochi casi). Ci sono così molti casi di studiosi nemmeno più tanto giovani di ottimo valore che – restando fedeli al proprio maestro –, non sono stati messi in condizione di costruire la propria autonomia scientifica (o almeno l’hanno vista soggetta a limitazione), ma soprattutto la loro indipendenza lavorativa. Si assiste quindi a un apparente paradosso: una generazione che aveva i mezzi intellettuali per essere più indipendente delle altre, e che finisce per essere – spesso – indotta a seguire gli ordini di scuderia in vista di una sempre più chimerica uscita dalla precarietà.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Lo studio scientifico per me non è tanto diretto alla valorizzazione del canone e della tradizione, quanto a una sua radicale revisione attraverso l’interpretazione (con il passaggio intermedio della raccolta di nuovi dati empirici: di qui la necessità dei ferri del mestiere filologico e storico-linguistico). È del tutto opportuno che i metodi e i criteri della critica siano gli stessi per i testi già assunti nella tradizione come per quelli nuovi: ferma restando la consapevolezza delle condizioni di situatezza storica delle opere, e quindi il loro rapporto con l’epoca che le ha partorite e le sue forme istituzionalizzate. La prospettiva con cui è opportuno inquadrare il presente non mi sembra poter essere altra se non quella che Foucault – nell’ambito della definizione della «critica» – chiamava «ontologia del presente», cioè la capacità di intravedere nella contingenza dello stesso presente una possibilità di cambiamento per il futuro: problematizzare l’esistente, cercare nuovi dati, denunciare i dispositivi di controllo attraverso i quali siamo governati, dare vita a nuove forme di soggettività. Il che vuol dire, nei termini della critica letteraria, farsi nuove domande su un testo, analizzarne le forme attraverso unità di analisi recepite da altre discipline, decostruire i paradigmi ricevuti in eredità, farlo agire sul presente, fare riverberare questa prassi sulla costruzione di una soggettività. In tutto ciò sono d’accordo con quanto scriveva Daniele Giglioli sul «verri» (45, febbraio 2011) nel suo saggio Tre cerchi. Critica e teoria, anche se non mi sembra scontata la necessità del passaggio dal paradigma ermeneutico dell’interpretazione a quello performativo dell’esemplificazione. Lavorare con i piccoli indizi (formali e tematici), senza dimenticare quelli grossi, continua a sembrarmi il miglior viatico per la prassi della critica letteraria.

Nel caso dei testi nuovi, al di là del problema della scelta, che può avere anche ragioni di contingenza e casualità, va rilevata la diversità dell’esercizio: non più decostruire una tradizione critica, ma fondarne una. Tutti avranno presente il brivido da esploratore che si prova a parlare per primi di un testo – a fornire le prime categorie di analisi –, specie se si avverte che il testo in questione è – ma ancora opacamente – destinato a dirci qualcosa sul presente che cambierà la nostra visione, che promette di influenzare il futuro.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

Non ha certo cambiato i metodi della critica, semmai ne ha condizionato – e in modo potenzialmente assai positivo – l’accessibilità ai dati. Quanto al linguaggio, è ovviamente cambiato quel linguaggio critico che è stato concepito direttamente per la rete. Ma più interessante mi sembra la formidabile potenzialità di archivio che la rete offre anche per la critica – come per tutto il resto.

Tuttavia, a parte l’ovvio rischio di dispersione, la possibile anarchia assoluta che la rete cova, sembra più importante ragionare su aspetti più generali della politica del web. L’abbattimento delle frontiere, lo sfrangiamento dei confini (tra paesi, tra individui, tra pubblico e privato), la possibilità o illusione di democrazia diretta worldwide è funzionale a quella prassi di critica come problematizzazione dell’esistente, come rifiuto della verità imposta dall’autorità di cui si diceva prima? O non rischia di essere l’istituzione di una super-autorità (“è vero: lo dice Internet!”), di un super-dispositivo di controllo che attraverso la simulazione della democrazia diretta nasconde un potere del tutto affrancato dal valore di verità? Da un certo punto di vista, la rete è funzionale alla critica, perché mi dà strumenti di demistificazione; da un altro, è funzionale al suo opposto, perché me li dà in una larghissima palude di indifferenziazione, o, peggio, in un ordine gerarchico condizionato dall’ideologia dominante attraverso il mercato. Rispondere a questo dilemma (a questa aporia?) credo sia un’operazione che ci occuperà per i prossimi anni.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale? 

Ne scrivevo già prima. Tuttavia il generation gap è un problema politico generale, e può (deve) influenzare le proprie scelte di cittadino e di lavoratore intellettuale, più che quelle di critico. Da questo punto di vista, anzi, tendo a vedere con un certo sospetto la maggior parte delle opere che – spesso si direbbe in modo un po’ opportunistico – cavalcano la rappresentazione della precarietà economica e lavorativa. A volte sembra di vedere certi scrittori che più o meno cinicamente fanno mercato delle vittime del mercato.

Altra cosa è l’opposizione a questa diffusa precarietà nella prassi quotidiana lavorativa e nella propria militanza politica: che è in primo luogo opposizione all’ideologia dominante, che – se combatte talvolta a parole la precarietà – nei fatti non fa altro che pretendere la legittimazione

2 thoughts on “Cinque domande sulla critica /15. Paolo Zublena

  1. Insieme a quello di Alfano, il contributo più intelligentemente (e meno spocchiosamente) problematico della quinzaine. I.M.H.O., nevvèro.

    uc

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