di Rino Genovese
Vorrei porre il problema dei rapporti che intercorrono tra i populismi contemporanei e il concetto di estetizzazione della politica, messo a fuoco dapprima da Walter Benjamin riguardo al fascismo, e poi in un certo senso sviluppato – pur senza un influsso diretto del primo autore sul secondo – da Guy Debord con le note tesi circa lo spettacolare “concentrato”, tipico dei regimi totalitari, e quello “diffuso” caratteristico della democrazia occidentale. Osservando attraverso una lente del genere la situazione contemporanea, si può dire che la politica sia oggi sempre più estetizzata, come del resto lo è l’intera vita sociale. La generale tendenza a una de-differenziazione delle sfere sociali (visibile soprattutto nella cultura arabo-islamica, con il prepotente ritorno della religione nella politica) si lascia leggere in larga misura come una ripresa del codice comunicativo elementare proprio di qualsiasi esperienza in senso lato estetica, quello basato sulla distinzione mi piace / non mi piace.
Soltanto ai seguaci delle estetiche idealistiche il sentimento del piacevole (o rispettivamente dello spiacevole) appare come un momento del tutto trascurabile antecedente al bello e al sublime; per una teoria di tipo humeano, al contrario, lo standard of taste, cioè un senso comune riguardo ai giudizi di gusto, si forma prioritariamente attraverso una comunicazione orientata al mi piace / non mi piace. All’uscita da un teatro o dalla proiezione di un film non mi viene chiesto di solito un giudizio articolato: piuttosto mi si domanda: “Ti è piaciuto?”. La risposta che ne seguirà – indipendentemente dalla sua capacità generalizzante, ovvero dal rapporto che intrattiene con la critica teatrale e cinematografica, con la storia delle arti e così via – avrà il suo centro nevralgico, anche se puramente soggettivo o idiosincratico, in un’opzione sintetizzabile nella semplice secca alternativa mi piace / non mi piace. Un’opera, un testo abborracciato confezionato per il consumo, sortiranno un effetto spiacevole sulla ricezione di un fruitore formato su Adorno, ma ne avranno uno formidabile su colui che avesse di mira il puro divertimento e coltivasse una visione “gastronomica” dell’arte. Questa prima soglia di valore è insopprimibile dalla comunicazione in ambito artistico e dalla disputa cui dà luogo (in contrasto, quindi, con il famoso de gustibus…). Solo successivamente potrà organizzarsi intorno a giudizi più raffinati, fondati sulla distinzione bello/brutto, che implica un rapporto critico con la tradizione culturale.
Le coppie mi piace / non mi piace-bello/brutto hanno la peculiarità di essere facilmente applicabili a qualsiasi cosa: un tramonto può essere detto bello quanto un romanzo o un grattacielo e perfino un teorema matematico. Tra i codici comunicativi possibili, si tratta di quelli a più ampio raggio. Il buono e il cattivo, o il giusto e l’ingiusto, con i loro aspetti morali e giuridici non hanno un campo di applicazione altrettanto vasto. Anche nel contesto di movimenti di rivolta altamente drammatici, e sotto condizioni culturali diverse da quelle occidentali, determinati particolari – come di recente l’apparizione del reggiseno blu di una manifestante egiziana, fotografata mentre viene trascinata a terra dalla polizia – rientrano immediatamente, quasi senza residui, nell’ambito di una comunicazione estetica. Ci vuole pochissimo per far slittare la comunicazione politica in una in cui il mi piace / non mi piace, più ancora del bello/brutto, la faccia da padrone. La rivoluzione culturale maoista degli anni sessanta del Novecento, all’interno di un regime autoritario, può essere letta a posteriori, al netto della violenza che sprigionò, come una gigantesca mobilitazione estetica di massa, fatta di libretti rossi, cortei e divise, la cui posta in gioco era il consolidamento del gradimento di una leadership. Ciò rientra sostanzialmente nello spettacolare concentrato di cui ha parlato Debord.
In una prospettiva non troppo distante, Siegfried Kracauer, con le sue tesi intorno alla “massa come ornamento”, aveva colto nella parata, o nell’esercizio ginnico collettivo, la necessità di tenere impegnate le masse nell’inessenziale al fine di porle in una passività sostanziale nel momento in cui le si mobilita per le “grandi imprese” richieste dai nazionalismi. L’accento cade qui sul momento comunicativo-politico dell’estetizzazione, che cancella gli interessi dei gruppi sociali contrastanti in una massificazione indistinta. La coppia bello/brutto, operante in uno slogan del tipo “è bello morire per la patria”, fa sì che l’estetizzazione si radicalizzi fino a diventare una sorta di culto barocco della morte. Lo scopo è predisporne l’esito sui campi di battaglia in una manipolazione integrale, ovvero come controllo delle popolazioni in senso foucaultiano: sicché la stessa pulsione di vita possa rovesciarsi in una sacrificale pulsione di morte nel dispiegamento della “servitù volontaria” cui le masse sono ridotte.
Tutto ciò è chiaro. Un po’ più difficile è cogliere – nel segno di un evolversi dell’estetizzazione dalla società di massa protonovecentesca al diffuso individualismo atomistico contemporaneo – il passaggio dai totalitarismi a quelli che si è soliti chiamare oggi piuttosto genericamente “populismi”, con un termine che andrebbe rigorosamente scomposto nei suoi significati.
Anzitutto, il populismo è storicamente un antefatto dei totalitarismi. In Russia si chiamavano populisti letterati e militanti orientati a un socialismo su basi comunitarie contadine, che – in alcune punte estreme – praticarono il terrorismo e forme settarie di organizzazione. Sebbene Lenin sia stato un critico del populismo, ne fu per molti versi anche l’erede: il socialismo terroristico e autoritario che derivò dalla rivoluzione russa affonda le radici in quell’humus. Per quanto riguarda il fascismo e il nazismo, che forme nazional-populistiche ne siano l’antecedente è cosa nota. Va invece sottolineato in modo specifico che la trasmigrazione di fascismo e nazismo, dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale, nell’Argentina di Perón costituisce l’atto di nascita, e la costituzione del paradigma, del populismo nel senso contemporaneo del termine: inizialmente una sorta di prosecuzione di quei regimi totalitari con altri mezzi. Qui l’estetizzazione viene avanti soprattutto con la figura di Evita (che tra parentesi era stata un’attrice), mentre – in maniera più netta rispetto alle esperienze europee – emerge la confusione deliberata e costante della distinzione destra/sinistra, che è uno dei due elementi caratterizzanti il populismo, il secondo essendo il suo aspetto cesaristico-bonapartista, attraverso cui la comunicazione politica è interamente risolta in una relazione tra un capo più o meno carismatico e un (non meglio precisato) popolo.
In che senso il rapporto peronista, come si potrebbe definire questa costellazione, implica una estetizzazione basata sul codice mi piace / non mi piace? La risposta è da ricercare nello spostamento del baricentro, rispetto al fascismo storico, dalla dittatura vera e propria al momento plebiscitario. Di solito non si ricorda che il peronismo è andato due volte al governo per via elettorale, tra gli anni quaranta e cinquanta, e vi è tornato una terza negli anni settanta, con il suo leader ormai invecchiato e prossimo alla morte, ancora per via elettorale. Questo è insieme un punto di contatto con Hitler, che pervenne al potere tramite elezioni (il caso di Mussolini è un po’ differente), ma anche un punto di distacco. Perché il peronismo stabilisce una relazione duratura e proficua con il principio della sovranità popolare: non la nega ma la svuota dall’interno, si potrebbe dire. Si tratta di un notevole punto di differenza dalle esperienze europee. Il fascismo si ripresenta nella chiave populistica sudamericana come un succo, un’essenza certamente illiberale (le condizioni in cui potevano operare i partiti di opposizione, per esempio, non erano certo delle migliori nell’Argentina di Perón), ma al tempo stesso del tutto democratica, nel senso di quel paradosso della democrazia che trova la sua massima manifestazione appunto nel plebiscitarismo. Qui l’astratta volontà generale rousseauiana è resa concreta da un capo, non potendo per definizione avere un’espressione diretta che non sia legata alla istantaneità della singola decisione collettiva. Poiché la volontà generale è per sua natura mutevole (in un momento successivo può infatti rivelarsi diversa da quella espressa nel momento precedente) e aperta alla molteplicità, allora, per controllarne il paradosso, la si prolunga e la si condensa nella volontà di uno solo.
Il rapporto peronista affronta, in un certo senso tagliandolo di netto, proprio questo nodo: la sovranità popolare non è meglio rappresentata da un leader della nazione intera anziché da una pluralità di partiti che finisce col frammentarla? Il fatto che in Argentina il peronismo duri tuttora, nel 2013, non indica, insieme con una riuscita “istituzionalizzazione del carisma” nei termini di Max Weber, che quella rappresentazione era particolarmente tenace e profonda?
Queste domande, evidentemente retoriche, riconducono alla questione di come sia possibile istituire il rapporto peronista – il tipo puro del populismo contemporaneo – attraverso il privilegiamento di una logica come quella del mi piace / non mi piace. La confusione tra la destra e la sinistra (risalente storicamente al fascismo italiano e, più indietro, al bonapartismo del secondo Bonaparte che, sulla scia del Napoleone dei Cento giorni, si voleva un imperatore democratico) riesce a presentarsi come la massima espressione della sovranità popolare grazie al nesso con l’elementare alternativa sì/no costituita dal plebiscito. In proposito, non c’è da chiamare in ballo l’onnipresente spettro della forma merce – come fa Debord che riferisce qualsiasi modalità spettacolare alla fantasmagoria delle merci. Questa visione delle cose è riduttiva: perché non v’è dubbio che Perón ed Evita, con la loro ridistribuzione del reddito, abbiano posto un freno allo straripante dominio della forma merce (e difatti le politiche liberiste successive mal si sono conciliate con lo spirito propriamente peronista). Risiede piuttosto nella struttura della comunicazione politica che instaura, il nocciolo regressivo e repressivo del populismo, la passivizzazione delle masse cui dà luogo.
Dai tempi delle gloriose origini sudamericane, tuttavia, il populismo contemporaneo ne ha fatta di strada. Se Perón, dal suo esilio nella Spagna franchista, poteva strizzare l’occhio ai montoneros, cioè all’ala sinistra del suo movimento incline alla lotta armata, e se il brasiliano Vargas, nella sua ultima fase, si avvicinava ai comunisti, questi erano ancora i segni di una confusione destra/sinistra capace di osare e disposta a rischiare politicamente. I populismi odierni – quello mediatico berlusconiano o quello più tradizionale leghista, basato su un’invenzione localistica anziché sul nazionalismo, o, da ultimo, il grillismo organizzato grazie alla rete – non hanno bisogno di andare tanto lontano. Per scombinare le carte del gioco democratico è sufficiente presentarsi, di volta in volta, come il “presidente operaio” che si è fatto da sé (Berlusconi), o come un capopopolo dalle scarpe grosse e dal cervello fino (Bossi, fin quando ne è stato capace), o ancora come il buffone (Grillo) capace di convogliare, indifferentemente, il risentimento degli elettori sia conservatori sia progressisti nei confronti dei loro punti di riferimento politici abituali. Il populismo odierno, del resto, non ha da rivaleggiare con il comunismo (e quindi non ne è neppure l’anticamera, come paventavano a suo tempo, più o meno strumentalmente, i generali golpisti latinoamericani); più modestamente il suo compito consiste nel rendere impossibile qualsiasi politica socialdemocratica bloccando il sistema politico in quanto tale, e sfruttando una difettosissima costruzione europea per condurre al punto di ebollizione il rancore contro le élite. La sua proposta si riduce interamente alla personalità del leader cui, come da copione cesaristico, sono attribuite qualità più o meno taumaturgiche. Il momento del mi piace / non mi piace è quindi sovraordinato rispetto a quello della, pur necessaria, confusione di prospettive tra la destra e la sinistra: ciò in linea con la diffusa estetizzazione della vita quotidiana e in connessione con l’accresciuto ruolo dei mass media.
Ciò che Bernard Manin ha chiamato “democrazia del pubblico” (e Nadia Urbinati, più precisamente, “plebiscitarismo dell’audience”) trova la sua espressione maggiore nel continuo plebiscito senza plebisciti proposto dai sondaggi di opinione. È lampante qui l’opzione binaria, l’alternativa idiosincratica del tipo mi piace / non mi piace. Meno evidente, invece, è come la sovranità popolare venga affossata nel momento stesso in cui ci si presenta come suoi cultori. Il posto vuoto del sovrano – caratteristico della democrazia secondo Claude Lefort – è subdolamente e ininterrottamente occupato. Perciò probabilmente nessuna teoria della democrazia futura potrà ancora fondarsi su un principio ormai logoro come quello della sovranità popolare. Allo stesso modo in cui le correnti del populismo letterario, macinando al loro interno la cultura popolare, hanno fatto di questa una mera astrazione priva di contenuto almeno quanto ne idoleggiavano le caratteristiche, così il populismo politico-antipolitico, mettendo nell’impasse la democrazia e il suo principio, li stravolgono al punto che alla fine di essi non resta più niente.
[Immagine: Silvio Berlusconi a “Porta a Porta” (gm)].
Interessante. Non mi è molto chiaro l’accenno e il paragone finale con il populismo letterario, così come non capisco a chi ci si riferisca.
(forse un) O.T.
Genovese,
si tenga pronto e si attrezzi alla bisogna: stanno per arrivare, e più logorroicamente incrudeliti che mai (in particolare la mesta Lucia, che non ha ancora digerito il fatto che lei abbia snobbato la sua ultima esteriorizzazione).
Hanno passato un mese d’inferno di astinenza da commento, la loro droga quotidiana, costretti a barcamenarsi e a sacramentare tra bocciofile e interminabili partite di scopone – e adesso, fino al prossimo luglio, ve la faranno pagare cara…
Io l’ho avvertita.
Saluti.
uc
Un intervento di grande spessore: vorrei però chiedere all’autore se non pensa che le tecniche di quello che egli chiama il plebiscitarismo dell’audience sono ormai diffuse non solo presso le forze propriamente populiste, ma in misura più o meno grande presso tutti gli attori della scena politica, e se questa circostanza non dipenda dalla sostanziale perdita di potere della politica che ormai tende a essere un’esecutrice delle decisioni prese nelle sfere tecnocratiche della finanza.
Due sole notazioni.
La prima: si sarà accorto l’autore che la dicotomia sinistra/destra sta appunto tutta quanta dentro la logica binaria che pure egli pretende di stigmatizzare ed attribuire al populismo?
La seconda: ho frainteso o il nostro pretenderebbe che tutti stessimo fermi a far lavorare in pace la gloriosissima socialdemocrazia senza rotture di scatole di chi pretenderebbe, udite udite, di proporre una politica differente? Ma che monellacci che siamo, non permettiamo che i potenti di turno, dietro una qualsiasi sigla più o meno appropriata, ci sodomizzino, li facciamo pure faticare!
Ottima analisi, convincente e molto illuminante sulle dinamiche in corso.
Qualche appunto sui passaggi più vicini a noi.
Mi sembra che la Lega e Grillo corrispondano al modello tracciato anche per la confusione o il rifiuto della distinzione destra/sinistra. Quanto al berlusconismo, si è sempre detto di destra, ma una destra che non esita a essere anche anticapitalista (quando le fa comodo), clientelare, assistenzialista. Quindi il modello peronista sembra calzare anche qui del tutto.
Questo porta a un altro punto: mi sembra che sia nelle forme dittatoriali e totalitarie, sia nelle forme di “corruzione interna” della democrazia, il populismo abbia sempre avuto come alimento l’opposizione alle derive incontrollate del sistema capitalistico, nei suoi aspetti più disgreganti sul piano sociale. La reazione alla distruzione sociale causata dal capitalismo si allea alle pulsioni antimoderne (anti-individualistiche), cercando collanti sociali identitari di vario tipo. Poiché tutto questo è un prodotto necessario della modernità, non può che radicarsi nel mito della sovranità popolare. Però nasce proprio dalla differenziazione sociale. I sistemi si rendono sempre più autonomi, e ogni sistema tende a colonizzare gli altri, quando i rapporti di forza lo consentono. Il grosso dei problemi viene dal sistema economico; agganciandosi al populismo, il sistema politico riesce a metterlo a freno. Il problema è che la democrazia liberale non riesce in questo intento, quando non riesce a costituire forze (partiti politici di massa, organizzazioni sociali, movimenti) e forme istituzionali (stato sociale) per “domare” il sistema economico. La democrazia liberale tende a autodistruggersi se alimenta in modo unilaterale l’individualismo che la costituisce ma che dà energia anche ai rapporti di mercato. Allo stesso tempo, se si sopprime quell’individualismo, costitutivo della modernità e ormai inestirpabile, la società viene ingabbiata in un sistema autoritario (per quanto soft come il populismo). L’oscillazione tra questi due esiti – la disgregazione indotta dai rapporti di mercato e l’ingabbiamento delle libertà individuali in un ordine etico, populista ecc. – è il rischio inevitabile della modernità.
Le democrazia liberali possono salvarsi solo se ne sono consapevoli, e se trovano l’equilibrio che permette di salvare l’autonomia della politica sui mercati. Ma non penso che la sovranità popolare in quanto tale sia destinata a sopravvivere solo nella forma del populismo. Non può che rimanere la fonte di legittimazione della democrazia.
Per Giul.
Caro amico, lei tocca un punto effettivamente debole nell’articolo. Dopo avere cercato di distinguere tra i populismi, avendone individuato i tratti comuni, non si può, congedandosi, fare riferimento a un “populismo letterario” del tutto indifferenziato! Per cavarmela, potrei risponderle che proprio il populismo russo, una forma di socialismo fatta da militanti e scrittori, con la sua esaltazione della comunità contadina finiva in un idoleggiamento della cultura popolare che la svuotava della sua contraddittorietà interna, volendo piegarla a una missione salvifica che essa non aveva… Ma dicendo questo ho detto poco o niente. Perché la questione è: come per i populismi in senso politico, è possibile anche per il “populismo letterario” dare una definizione concettuale univoca e, al tempo stesso, capace di distinguere? Al di là di movimenti o gruppi che si sono autoconsiderati tali (per esempio nella Francia degli anni trenta, Eugène Dabit con “Hotel du Nord”, divenuto un fim per la regia di Marcel Carné, vinse un premio del romanzo populista), e al di là dell’epiteto gettato in faccia a scelte di poetica che si disapprovano (in Italia Asor Rosa con le stroncature contenute nel suo “Scrittori e popolo”), esiste un fenomeno letterario populista? Quando uno come Pascoli scrive che “la grande proletaria si è mossa” (con riferimento alle imprese coloniali italiane) sta facendo del populismo letterario o del populismo puramente politico? E quando Gramsci proporrà un’arte e una letteratura nazional-popolari, questo è populismo (come a suo tempo sosteneva appunto Asor Rosa) o non è, più semplicemente, una visione ristretta dei rapporti tra le opere artistiche e letterarie e la società? Inoltre: esiste ancora un momento squisitamente autoctono della cultura popolare o tutto non è ormai soltanto estetizzazione e industria culturale? Come teorico dell’ibridazione delle culture, io penso che, proprio nella mescolanza (che non è miscela ma miscuglio), un nocciolo relativamente “altro” ci sia, e che la cultura dell’iperconsumo non cancelli mai del tutto l’alterità. Per fare un esempio, l’antica radice contadina vive ancora in un fenomeno, pur modificato dalla modernità, come la mafia; ma si potrebbe asserire qualcosa di simile per i rapporti tra certe forme espressive tradizionali siciliane e alcune creazioni teatrali di Emma Dante? Oppure queste ultime propongono una pura estetizzazione di quelle forme?
Mi piacerebbe sentire, a riguardo, l’opinione degli amici di “Le parole e le cose”, critici e teorici della letteratura. Io, per me, preferisco risponderle come le dicevo: mi riferivo all’aspetto “letterario” del populismo russo in quanto protosocialismo che feticizzava le potenzialità rivoluzionarie del popolo.
Per Giorgio Mascitelli.
Purtroppo sì, purtroppo sì. In Italia lo vediamo chiaramente: il populismo ha contagiato tutta la scena, e anche le forze politiche che dovrebbero opporvisi lo subiscono e spesso cercano di imitarlo. In Argentina, grosso modo, sono ancora a quel punto, pur dopo le tragedie trascorse. È che quando un paese finisce su quella strada è molto difficile uscirne. La finanza, i gruppi tecnocratici e simili, fanno il loro mestiere; soltanto una politica “risanata” potrebbe contrastarli con efficacia.
Per Vincenzo Cucunotta.
Non intendo “stigmatizzare” la logica binaria: piuttosto utilizzarla per descrivere un fenomeno a più facce come il populismo: è una riduzione della complessità (spero non indebita). Una caratteristica del populismo è quella di confondere sistematicamente la distinzione destra/sinistra, il che significa che si danno populismi più di destra o più di sinistra, ma che in fin dei conti la tendenza alla confusione è dominante.
Non è che il socialismo democratico se la passi granché bene in Europa e nel mondo: ma resta, se non altro in linea di principio, una cosa diversa dal liberalismo (meglio, dal liberismo in senso economico) a cui lei lo assimila nella sua personale “crociata antiliberale”.
Per Mauro Piras.
Una differenza che era già venuta fuori tra noi: tu vedi i “guasti” della politica come prodotti dalla differenziazione moderna, per cui una sfera – in particolare quella economica – colonizzerebbe la politica inceppandola, e da questo blocco nascerebbe il fenomeno populista come una forma di modernità antimoderna, anti-individualistica e identitaria. Al contrario, io vedo la modernità come un insieme di processi modernizzanti sempre incapaci di farcela, inclini a cedere all’ibridazione e quindi alla de-differenziazione delle sfere. In questo senso – insieme con la politica, che con il populismo cede senza mediazioni all’ibridazione culturale, diventando un fenomeno moderno-antimoderno – lo stesso individualismo liberaldemocratico finisce con l’essere bloccato. Per esempio il familismo italiano, un’antropologia culturale specifica, impedisce lo sviluppo dell’individualismo. Come se ne esce? Non con la riproposizione di ciò che è bloccato, ma con un richiamo all’utopia, cioè con una ripresa del conflitto sociale su larga scala e con una politica a esso collegata che rompa con le pastoie in cui si è cacciata: dunque con un individualismo sociale che, in certe realtà (come nell’odierno mondo arabo-musulmano), sappia mettere in primo piano i valori dell’individuo, e in altre (nel mondo occidentale) ricollochi al loro posto i valori della solidarietà, della fraternità nella lotta, che sono quelli classici del socialismo. Chiaro che poi tutto si gioca sulla scommessa di una fuoriuscita della politica dalla cultura neoliberista e dell’iperconsumo in cui oggi è avviluppata. Ma se la democrazia è diffusione del potere (e non semplice espressione della sovranità popolare), allora il vecchio nesso tra la democrazia e il socialismo può ritornare di attualità.
@Genovese
Veramente, non sono io ad assmilare la socialdemocrazia al liberalismo, è la stessa socialdemocrazia che dimostra giorno dopo giorno di praticare l’identica politica economica dei più ortodossi liberali.
La mia opinione in proposito è che il difetto stesse già all’origine, che la socialdemocrazia abbia goduto di una congiuntura storica estremamente favorevole, un autentico colpo di fortuna, sfruttando il concomitante effetto della crescita postbellica favorita dal piano Marshall (dal che si potrebbe dedurre che nessuno è più socialdemocratico degli USA…), e dalla presenza tra i vincitori dell’URSS e della paura che questa incuteva al mondo capitalistico.
Una volta terminato il ciclo della tempestosa crescita postbellica, seguita dopo meno di due decenni dalla caduta dell’URSS, la socialdemocrazia ha mostrato la sua inconsistenza. Ciò a livello storico è un fatto conclamato, sul piano teorico aspetto ancora qualcuno in grado di evidenziare le differenze tra socialdemocrazia e liberalismo. Nel frattempo, ritengo questa differenza sostanzialmente inesistente.
Nell’interessante analisi di Genovese mi pare manchi un nesso importante, quello fra democrazia, sovranità popolare, stato sociale e stato nazionale. A me pare che simul stabant, e simul sono caduti o stanno cadendo. Genovese sarà probabilmente di diverso parere, ma il nesso c’è, e andrebbe tematizzato.
Colgo l’occasione offerta dall’articolo di Genovese su “Populismi ed estetizzazione” per porlo a confronto, in un’ottica singolarmente (e, a mio giudizio, felicemente) prepostera, con la disamina che dei temi relativi alla democrazia capitalistica e al mito della sovranità popolare ha svolto Concetto Marchesi, cui si deve una delle demistificazioni più corrosivamente antipopulistiche della nostra cultura sia letteraria che politica. È proprio nel saggio dedicato dal grande latinista a Seneca che è dato incontrare una definizione della democrazia che rientra nell’àmbito di una critica radicale dello Stato rappresentativo moderno (critica che, per quanto disconosciuta, è una delle fonti del pensiero comunista): «Questa concezione della democrazia si è arricchita di nuovi e di nuovissimi dati [la prefazione della monografia su Tacito da cui traggo la citazione è quella del 1933, l’anno fatale in cui dal ventre della repubblica di Weimar viene partorito il mostro della dittatura nazista]: ma non è ancora superata né superabile nella sua fondamentale definizione di esercizio molesto e spensierato di libertà che tende alla soppressione di se stessa [nel trattato “De Clementia” Seneca indicava il principato di Nerone quale “laetissima forma reipublicae, cui ad summam libertatem nihil deest, nisi pereundi licentia” – la forma più lieta di governo: un regime di assoluta libertà a cui manca soltanto la possibilità di morire]; perché nelle lotte dei partiti, degl’interessi e delle ambizioni la libertà democratica trova la sua ragione di essere e la sua ragione di morire; perché ancora oggi la democrazia è la più insidiosa potenza conservatrice che alleva liberamente e tumultuosamente il proprio gregge per sgozzarlo e lasciarlo sgozzare». Lo stesso disprezzo per il ‘volgo’ è dato incontrare nel saggio su Tacito, là dove viene ribadito il disgusto per il volgo “avido di piaceri”, talché Marchesi, osservando che Tacito aveva «sperimentato tutta l’abiezione della moltitudine», aggiunge che l’autore delle “Historiae” offriva ben altri spunti per riflessioni amare dello stesso tipo e parla della ‘moltitudine’, identificata con la ‘populace’ di ascendenza illuministica, come di «una comparsa storica che accorre sempre dove c’è da festeggiare il padrone che abbia con sé la pompa maestosa dei grandi servitori». E nel saggio su Arnobio, che vede la luce nel medesimo lasso di tempo (cioè sotto la dittatura fascista), Marchesi scrive: «Non c’è così cupo pessimismo che non possa ancora più oscurarsi al contatto degli uomini. Ma è da vedere se la umanità, come elemento squisito e intraducibile di distinzione spirituale, non sia da ricercare nell’individuo piuttosto che nel gregge degli uomini». Laddove il senso aristocratico della distinzione spirituale potrà stupire chi pensa che il comunismo si identifichi con il socialismo sentimentale. Una posizione che ha perfettamente compreso un intellettuale grande-borghese del primo ‘900, interprete intelligente del socialismo scientifico, quale fu Schumpeter, che fece lo stesso tipo di osservazione in un libro che meriterebbe di essere rimeditato [Capitalismo, socialismo e democrazia, 1954]: «Marx non versò lacrime sentimentali sulla bellezza dell’ideale socialista…[e] nulla era più lontano da lui della tendenza a corteggiare l’operaio… E’ questo uno dei suoi titoli di superiorità su quelli che Marx chiamò socialisti utopisti». Dunque, il “divorzio spirituale dalle moltitudini” che Marchesi rivendica può stupire solo chi non tenga conto del clima storico in cui gli scritti, ove queste ed altre consimili espressioni ricorrono, videro la luce. Un clima in cui la resistenza morale degli antifascisti attingeva la sua forza anche dal disprezzo per i “bandarlog”, la tribù di scimmie del Libro della jungla di Kipling, il “popolo delle scimmie” di cui parla con disprezzo Gramsci: una colluvie di elementi sradicati e distruttivi, costituenti la feccia della borghesia, un ‘servum pecus’. E va detto che quel gregge asservito non si identificava, nel pensiero politico di Marchesi durante gli anni ’20 e ’30, con la povera gente, ma con la piccola borghesia, naturale strumento dei propositi controrivoluzionari degli industriali e dei proprietari terrieri che costituivano la classe dirigente. In Marchesi non vi è, insomma, traccia di populismo, ma nemmeno di quell’elitismo che, nella veste formale della teoria della classe politica di Mosca o in quella della ‘massa di manovra’ di Pareto o in quella, più volgarizzata, della “Psicologia della folla” di Le Bon, aveva incontrato tanto successo come anello di congiunzione tra l’ideologia grande-borghese e le ideologie piccolo-borghesi coinvolte in quel micidiale processo di estetizzazione della politica, così lucidamente individuato da Walter Benjamin, che aveva richiesto, per contrastarlo, la politicizzazione dell’arte. Un processo che continua a svolgersi sotto i nostri occhi, moltiplicato ed esteso dagli odierni mass media, un processo che risponde a un disegno di colonizzazione delle menti, lucidamente indicato nell’epigrafe che Guy Debord (opportunamente richiamato da Genovese) ha tratto da Feuerbach e premesso al suo saggio sulla “Società dello spettacolo”: «E senza dubbio il nostro tempo…preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere…Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusione è anche per esso il colmo del sacro». Gli effetti deformanti ed alienanti di questo duplice processo di colonizzazione delle menti e di estetizzazione della politica furono chiaramente previsti da Marchesi, il quale non si sorprenderebbe troppo nel guardare l’attuale ‘popolo degli iloti’ (per usare la potente espressione coniata dal suo conterraneo Luigi Russo): un popolo che si degrada in ‘plebe’ – plebe con il telecomando in una mano e con il telefonino nell’altra, plebe isolata nelle villette unifamiliari -, cioè in una piccolissima borghesia egoista e ringhiosa, meschina ed astiosa, incolta e stordita dalle sirene del consumismo. A questo “grande piatto di sabbia sparsa” (come lo definisce negli stessi anni lo scrittore cinese Lu Hsun), cui ben si applica il rilievo fatto già nel secolo scorso dal Constant, per cui «la democrazia fa degli individui una polvere di atomi che, non appena viene il temporale, si converte in fango», il Marchesi contrappone il ‘popolo’ che si rivela capace di riscatto, il “pauper plebeius atque proletarius”, «attore di un immenso e incompiuto dramma storico», che egli evoca nelle pagine della sua “Storia della letteratura latina” dedicate ai fratelli Gracchi. Marchesi era un profondo conoscitore dell’animo umano, che aveva appreso dallo studio della cultura classica e, in particolare, della civiltà latina il senso delle invarianti, il senso che oggi si chiamerebbe della ‘lunga durata’; ma egli è anche, insieme, un marxista, che ha appreso dal materialismo storico e da quella geniale sintesi teorico-politica che è il “Manifesto” a ragionare in termini di continenti e di generazioni. La stessa antropologia non è disgiunta, conforme alla lezione di Labriola, da quella psicologia sociale che funge da mediazione e filtro tra la struttura e le sovrastrutture; né l’atteggiamento con cui Marchesi guarda ai moti profondi delle moltitudini risulta in contrasto con il punto di vista raccomandato da Rosa Luxemburg in quella sua lettera del 16 febbraio 1917 a Mathilde Wurm che ho già citato in questa sede: «Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thálatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra. Bel capitano sarebbe uno che dirigesse il corso della nave solamente in base all’aspetto momentaneo della superficie delle acque e che non sapesse prevedere l’arrivo delle tempeste in base ai segni del cielo e del mare. Bambina mia, essere “delusi dalle masse” è sempre il peggiore attestato delle qualità di un capo politico. Un dirigente in grande stile regola la sua tattica non in base all’umore momentaneo delle masse, ma in base a leggi eterne dello sviluppo, si attiene alla sua tattica a dispetto di qualunque delusione e quanto al resto lascia tranquillamente che la storia porti a maturazione la sua opera» .
La teleologia indica, perciò, la direzione obiettiva di un ‘processo senza soggetto’; l’axiologia esprime invece, se così possiamo dire, il ‘soggetto in processo’: da un lato, un divenire necessario; dall’altro, un dover-essere; da un lato, il “Müssen”, dall’altro il “Sollen”. Da un lato, l’avvento di un mondo nuovo, liberato dallo sfruttamento e dall’oppressione; dall’altro, per esprimerci con le parole stesse di Marchesi, «gli intellettuali al servizio della classe operaia: il più alto e generoso degli umani rapporti». Il concetto di ’moltitudine’ si pone allora in Marchesi come il luogo geometrico dei punti equidistanti da due possibilità: per un verso, quella rappresentata dal ‘popolo unito’ attorno alla sua avanguardia e, per un altro verso, quella rappresentata dal ‘volgo’, che non ha avanguardia che non sia reazionaria o controrivoluzionaria, poiché è una massa di gregari atomizzati, la quale tende per forza intrinseca verso il capo carismatico, verso il ‘duce’ o il ‘Führer’. La diade si rivela così una triade: questa ha la forma di una Y, dove la radice è costituita dalla ‘moltitudine’ (un mobile aggregato atomico che, in ogni specifica formazione sociale, è, come afferma la Luxemburg, quello che è, ma è anche quello che non è, in quanto può mutare) e la biforcazione rappresenta le due possibilità (rispettivamente evolutiva ed involutiva) del ‘popolo’ e del ‘volgo’. La moltitudine è allora suscettibile o di evolversi in popolo, unificandosi sotto la direzione della sua avanguardia, o di involversi nel manzoniano “volgo disperso che nome non ha”, riducendosi a massa di manovra eterodiretta.
Marchesi dimostra di conoscere e saper usare la dialettica marxista, anche se non ne fa uno specifico oggetto di studio, sia quando, come si è notato più sopra, mostra di considerare lo sviluppo dell’attività della masse come un fattore oggettivo, sia quando applica il fondamentale asserto marxiano secondo cui “l’idea, allorché si incarna nelle masse, diventa una forza materiale ”. Egli sa che i fattori oggettivi si trasformano in fattori soggettivi. La centralità, di origine schiettamente leniniana e gramsciana, del tema del partito nel pensiero politico di Marchesi può essere ancor più apprezzata, se si tiene conto che la primazia del partito deriva dal fatto che il partito è l’espressione teoricamente, ideologicamente e politicamente organica di quel soggetto sociale – il popolo lavoratore – che è, per definizione, l’avanguardia di se stesso. Il che equivale a dire che la moltitudine dei lavoratori salariati è, in potenza, una classe storicamente rivoluzionaria perché svolge un ruolo avanzato sul piano economico – la creazione della ricchezza sociale -, ma sul piano politico e ideologico resta, essendo esclusa dalla scienza e dalla cultura, una classe non solo economicamente sfruttata, ma anche spiritualmente oppressa, che, priva della guida del partito, non è in grado, con le sue lotte e con i suoi movimenti, di andare oltre il terreno delle rivendicazioni economiche immediate e, sul piano politico, è lo strumento di qualsiasi politica borghese (vuoi riformista vuoi reazionaria). Non solo, ma il significato dell’asserto “il popolo è l’avanguardia di se stesso” diviene ancora più chiaro, se si considera che, solo negandosi come classe sfruttata ed oppressa, cioè negandosi come ‘volgo-moltitudine’, il popolo può liberare se stesso. Ma il popolo libera se stesso solo con la lotta per il comunismo, cioè per una società senza classi. E l’unica negazione produttiva è questa per il popolo, giacché le altre negazioni, in quanto lasciano sussistere immutata e intatta la fonte della disuguaglianza economica e sociale, cioè lo scambio fra lavoro salariato e capitale, sono per il popolo negazioni parziali di una condizione che rimane subalterna e gregaria: dalla tarda democrazia borghese con l’ideologia dei diritti umani alle pratiche indotte dal consumismo di massa, al fascismo con le ideologie razziste e scioviniste di tipo romaneggiante o padaneggiante. Dunque, solo con la lotta per una società senza classi il popolo può diventare protagonista di una liberazione reale e non simulata. Ma, per condurre una simile lotta, il popolo ha bisogno della sua avanguardia, cioè della classe operaia, e questa ha bisogno del suo partito, cioè del partito comunista. Ancora una volta, la ‘moltitudine’ oscilla, per usare il linguaggio di Sartre, fra la ‘serializzazione’ e il ‘gruppo in fusione’ o, per usare il linguaggio di Marchesi, fra il ‘volgo’ e il ‘popolo’. Sicché, per usare un paradosso, che risulta tuttavia utile come illustrazione di una verità dialettica, il popolo è veramente tale solo se si nega come popolo; ma esso può anche negarsi senza liberarsi, e si riduce allora ad una moltitudine gregaria e subalterna, “polvere di atomi che, non appena viene il temporale, si converte in fango”. In questo senso, spetta all’axiologia rivoluzionaria, che il partito di classe incarna, il compito (politico e insieme morale) di realizzare, lungo l’intero arco della transizione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo, la teleologia che fermenta nello stato antropologicamente inquieto della materia sociale. So che Genovese ripugna da questa impostazione, ma egli non può non avvedersi che il suo articolo è come un paio di forbici spuntate, poiché, mancando in esso, di là dalla ‘pars destruens’ ampiamente condivisibile, una ‘pars construens’, cioè un’axiologia ed una teleologia che non siano pura retorica, è sottilmente (non volgarmente) apologetico: destino, questo, cui, dopo Bad Godesberg (1959), è impossibile sottrarsi anche da parte di quegli esponenti della socialdemocrazia che tendono a mascherare la sua effettiva funzione con una fraseologia scarlatta.
Nella sua riflessione sul binomio ‘populismo-estetizzazione’ Genovese, a mio giudizio, non riesce a fondere organicamente i due elementi, ma soltanto ad anastomizzarli attraverso un ‘medium commune’ quale è il binomio estetico ‘mi piace-non mi piace’. E però, se questo accade, non è difficile comprendere che accade a causa, oltre che di un”aequivocatio’ concettuale che è generata da quei processi di estetizzazione che dovrebbero essere l’oggetto della critica, di un errore di grammatica teorico-politica dovuto, in ultima analisi, ad un’eccessiva dilatazione della nozione di populismo e forse anche all’illusione che il populismo possa assumere forme progressiste e democratiche.
In realtà, una siffatta nozione di populismo, per così dire ‘bonne à tout faire’ (dal momento che di essa, nonostante le buone intenzioni metodologiche, può essere prospettato perfino un uso progressista), quantunque appaia oggi politicamente rampante, reca in sé, come accade a tutte le ideologie di carattere comunitaristico ed etnocentrico, antinomie insuperabili destinate a produrre la sua vanificazione conoscitiva e può essere utilizzata correttamente solo se serve a designare formazioni, quali la Lega Nord, la cui ideologia e la cui pratica sono connotate da un congenito difetto epistemico, che è poi quello derivante dalla contrapposizione tra generale e particolare. Come ha argomentato nitidamente Nicolao Merker, autore di un saggio sulle “Filosofie del populismo”, tale difetto emerge non appena si consideri il rapporto inversamente proporzionale che intercorre, nel concetto logico di ‘popolo’, tra l’estensione di tale concetto, che designa la ‘totalità’ degli oggetti che si riferiscono ad esso, e l’intensione, che designa soltanto uno o più oggetti che rientrano nella classe logica in parola. Così, in base al primo significato abbiamo il popolo come ‘demos’, mentre in base al secondo abbiamo il popolo come ‘ethnos’. È evidente allora che il ‘demos’, in quanto ha un significato estensivo, è anche inclusivo: ciò implica che una popolazione che ha un’identità comune in forza di un territorio comune, di una storia comune e di una lingua d’uso comune, nonché di istituzioni e di diritti comuni, ‘include’ anche l’‘ethnos’, ossia un popolo che ha caratteri più specifici, quali la razza, la religione e particolari diritti. Al contrario, il popolo in quanto ‘ethnos’ esclude costitutivamente da sé coloro (altri popoli) che non hanno tali caratteri,ossia non appartengono a quella razza, a quella religione ecc. ecc. Di conseguenza, chi vuole comunità aperte opterà per il popolo come ‘demos’, mentre chi le teme sceglierà il popolo come ‘ethnos’.
Siamo in presenza, dunque, di una corrente di pensiero, il populismo per l’appunto, che si manifesta nei più diversi àmbiti problematici. Sennonché, in un’ottica marxista e comunista, il modello classico, ancora attuale, della critica del populismo (e del connesso romanticismo economico) è, contrariamente a ciò che suppone Genovese richiamandosi a dubbie affinità familiari (il fratello populista di Lenin), proprio quello depositato nel “Che fare?”, ove Lenin confuta la tesi secondo la quale nelle classi subalterne, nel popolo in quanto tale, è ìnsita la coscienza rivoluzionaria, una superiore visione del mondo non contaminata dai disvalori borghesi. Al contrario, per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una costruzione che implica il contributo decisivo degli intellettuali borghesi, categoria a cui appartenevano, per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, i quali hanno sempre sottolineato la funzione controrivoluzionaria svolta tanto dal ‘Lumpenproletariat’ quanto dalla sottoborghesia, tanto dagli “straccioni” quanto dai “piccoli Cesari”, senza indulgere al mito populista in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una società più giusta, sarebbe un dato naturale e costitutivo del popolo ovvero della classe operaia (da questo punto di vista, l’operaismo non è che una variante del populismo). Del resto, come non vedere che questo fastidio per la forma-partito e la correlativa tendenza a dare credito ai ‘cesaristi di sinistra’, nonché a sciogliere il partito comunista nella sinistra genericamente intesa, è una delle forme in cui si manifesta la reviviscenza del populismo? Di quel populismo che, ancorché declinato in direzione progressista e financo rivoluzionaria, non potrà mai surrogare la critica marxista della democrazia borghese, che è il vero compito teorico-pratico da assolvere; di quel populismo che alla conoscenza e alla consapevolezza sostituisce la speranza e la consolazione, come ebbe a rilevare Alberto Asor Rosa nel suo corrosivo saggio su “Scrittori e popolo” (sottotitolo: “Il populismo nella letteratura italiana contemporanea”); di quel populismo che è sempre intimamente reazionario in quanto colloca l’utopia nel passato, non nel futuro.
Sicché, per usare un paradosso, che risulta tuttavia utile come illustrazione di una verità dialettica, il popolo è veramente tale solo se si nega come popolo; ma esso può anche negarsi senza liberarsi, e si riduce allora ad una moltitudine gregaria e subalterna, “polvere di atomi che, non appena viene il temporale, si converte in fango”. In questo senso, spetta all’axiologia rivoluzionaria, che il partito di classe incarna, il compito (politico e insieme etico) di realizzare, lungo l’intero arco della transizione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo, la teleologia che fermenta nello stato antropologicamente inquieto della materia sociale. So che Genovese ripugna da questa impostazione, ma egli non può non avvedersi che il suo articolo è come un paio di forbici spuntate, poiché, mancando in esso, di là dalla ‘pars destruens’ ampiamente condivisibile, una ‘pars construens’, cioè un’axiologia ed una teleologia che non siano pura retorica, è sottilmente (non volgarmente) apologetico: destino, questo, cui, dopo Bad Godesberg (1959), è impossibile sottrarsi anche da parte di quegli esponenti intellettuali della socialdemocrazia che tendono a mascherare la sua effettiva funzione con una fraseologia più o meno scarlatta.
I due interventi sull’articolo di Rino Genovese, usciti in contemporanea anche se redatti in momenti diversi, riflettono un processo critico-analitico identico negli esiti, ma non nei passaggi concettuali. La densità dell’articolo cui si riferiscono, la necessità di una rilettura e la consonanza sorprendente della tematica (in particolare, per quanto riguarda il paragone con la critica antipopulistica di Concetto Marchesi, che analizzai a fondo nella mia relazione su “Popolo e moltitudine nel pensiero politico di Concetto Marchesi”, presentata al convegno nazionale di Gallarate nel 1997) spiegano le differenti modulazioni della medesima argomentazione.
È un brutto segno (e un indizio di scarsa salute intellettuale e morale) quando alla critica si risponde con la polemica ‘ad personam’, alle argomentazioni con la protervia goliardica e alla pacatezza con l’isteria. D’altronde, non vi è da stupirsi che una simile reazione provenga da coloro che elevano le opinioni a idee o riducono queste ultime alle prime, contribuendo ad estendere la fenomenologia di quella sindrome che in altra sede mi è capitato di definire “tersitismo ideologico-culturale”, laddove con questa espressione intendo caratterizzare, sia da un punto di vista etico-politico sia da un punto di vista estetico-noetico, lo spirito reazionario attuale e le sue molteplici manifestazioni. Non per questo la mia fiducia nella ragione ne sarà scossa: trovo però paradossale (ma anche questa è una delle anomalie italiane) che debba essere uno ‘stalinista’ come lo scrivente a ricordare, da buon liberale, che in uno spazio pubblico di discussione la tolleranza rende possibili le differenze e le differenze rendono necessaria la tolleranza.
Ringrazio la redazione per lo spazio che mi è stato finora concesso, ringrazio coloro che, dissentendo o consentendo (ma anche in parte dissentendo e in parte consentendo), hanno avuto la pazienza di leggere i miei interventi ed invio un saluto fraterno a Roberto Buffagni e agli altri compagni di verità e di lotta.
Cari amici di ‘Le parole e le cose’, seguo gli interventi su questo sito con vero piacere, però mi chiedo: possibile che si leggano i commenti sempre dei soliti lettori e poi, talvolta, così impervi, ai limiti della leggibilità? Mi domando: non può trattarsi di vero ed esclusivo esercizio di ginnastica cerebrale o di intento competitivo e distruttivo? Non so, sono semplici dubbi… Per parte mia l’intervento di Rino Genovese, che ha stimolato questi ultimi commenti, è cristallino e assolutamente condivisibile. Da certi commenti invece ho ricavato poco sugo, solo un vago ma non malizioso senso di gratuito disturbo… Sempre vostra.