di Lorenzo Marchese
Perché “Exit auctor”? L’intenzione sarebbe di prendere due esempi di autofiction considerati all’unanimità tali, sebbene essi declinino strategie di fiction e di confessione autobiografica partendo da modelli diversi e volgendo a scopi del tutto eterogenei. Troppi paradisi (2006) di Walter Siti e Lunar Park (2005) di Bret Easton Ellis sono testi che, per essere analizzati esaurientemente, meriterebbero un saggio a parte. Qui mi limiterò a constatare che entrambi presentano, e in qualche modo presuppongono (proprio a causa di ciò che raccontano), una fine dell’autore-personaggio, una sua uscita di scena che è anche una morte testuale, secondo quanto esposto alla fine del capitolo precedente; e ad analizzare l’articolazione di questa “estinzione” tutt’altro che pacifica.
Per prima cosa va precisata la natura della differenza strutturale fra TP e LP, certo profonda. Walter Siti è, in Italia, uno degli intellettuali che più ha riflettuto sul genere dell’autofiction, usandone consapevolmente gli strumenti con risultati elaborati e difficili da inquadrare a una prima occhiataA quanto so, è inoltre l’unico autore ad avere esordito come “autofittizio”, in questo vicino a Doubrovsky, creando perciò non poco (voluto) spaesamento nei propri lettori. Dopo un lavoro di dodici anni, ha pubblicato il suo primo romanzo Scuola di nudo (1994) a quarantasette anni, nel quale poneva se stesso al centro di una serie di vicende “in presa diretta” all’interno dell’Università pisana, oggetto di una satira feroce e dichiaratamente sincera (anche se in realtà costruita “a chiave”, quindi ingannevole). Libro di intrinseca natura abnorme e onnivora[1], è stato notato, ma soprattutto autofinzione dichiarata a partire dalla non-coincidenza fra dati biografici effettivi e dati forniti nel libro, testo in cui dichiaratamente “Realtà e finzione stanno da una parte, verità e menzogna dall’altra”[2]. La conferma del dubbio di esistenza è data, dopo lunga attesa, solo nell’Avvertenza alla fine del libro: “la coincidenza delle mie generalità con quelle del protagonista di questo libro non è che una sconcertante omonimia” e ancora “Pisa è una città che non conosco”[3], nonostante un lettore informato sappia che Siti ha vissuto a lungo in quella città ed è per davvero un professore universitario. Altrettanto illusionistici i rapporti interpersonali: se al Cane e al Padre, personaggi creati ad hoc, si possono associare persone reali, così non vale per gli amanti, gli amici e i culturisti che affollano la narrazione. Ancor di più la famiglia: in Scuola di nudo un padre e una madre morti da poco, in Un dolore normale (1999) entrambi vivi (in più, un fratello prima mancante) e così pure in Troppi paradisi (dove il fratello diventa una sorella). La cosa non è, ovvio, un capriccio ma è una fra le spie di un cambiamento psicologico del personaggio Siti nei confronti della realtà esterna. L’antagonismo del “Walter-ego” che in Scuola di nudo si esplicava con la stesura di un mostruoso zibaldone (e i richiami a Leopardi sono dichiarati, per prima la mise en abîme della conferenza universitaria[4]) cambia di segno nel corso dei romanzi. L’opposizione del personaggio Siti al mondo, visto come “inferno”[5] farsesco riscattato in parte solo dalla metafisica derealizzazione dei culturisti o dal caso particolare dell’amore, comincia ad incrinarsi con la virtuosistica e sfumata elegia di un amore più comune e “convenzionale” di Un dolore normale: già da questo secondo libro, la condizione di mostruoso “uomo del sottosuolo” che nondimeno si espone con le modalità dell’autobiografia rousseauiana viene a mancare nel suo integralismo. Fermo restando l’obiettivo ambizioso di costruire un romanzo che, insieme, neghi se stesso attraverso un eccesso combinatorio e ricostruisca sulla propria fisionomia ambigua una capacità nuova di coinvolgere il lettore, da Un dolore normale Siti inizia a paventare una possibilità di “nascita”, la cui ossessiva ricerca è alla base della sua poetica[6]. La “possibilità di un’isola” si fa concreta e testimonia un mutato atteggiamento verso il mondo contemporaneo in TP, conclusione di un personaggio Walter Siti che trova una possibile resistenza solo in una categorica inesistenza.
A prima vista, è difficile da immaginare un autore più distante da Siti che l’americano Bret Easton Ellis. Nato nel 1964 e autore di sei romanzi e un libro di racconti[7], Ellis ha trattato nelle sue opere la derealizzazione in cui incorrono gli abitanti terribilmente belli, glam e nichilisti dell’America degli anni ’80. In American Psycho la follia omicida dello yuppie Patrick Bateman si rivela un sintomo dell’alienazione da cui erano affetti in ugual misura, salvo sporadici e vani (quanto lirici) scatti di coscienza, i personaggi dei testi precedenti. In filigrana, Ellis avvia un discorso sull’impossibilità di discernere immaginazione e realtà nella “società dello spettacolo” (G. Dèbord) da cui nessuno è immune; ma, a differenza di Siti e altri scrittori che a vario titolo si sono interrogati su tale condizione, Ellis non ha il passo del saggista. Spiegare non gli interessa minimamente, al contrario, il procedimento narrativo usuale vede un racconto in prima persona e insieme, a creare una frizione evidente, tutto esterno, estroflesso e ingannevole fino allo spaesamento. L’iperviolenza e il nichilismo, costanti della narrativa ellisiana, vengono sempre più sottoposte a una angosciata “derealizzazione” che sospende il giudizio e potenzia la scrittura: in ciò Ellis è integralmente postmoderno fino alle soglie della pornografia e dell’immoralità, allo stesso modo in cui Sade portò ad estreme e coerenti conseguenze le idee dell’Illuminismo. Il successivo Glamorama è un vasto affresco sociale sul mondo della moda, nonché una storia (molto inquietante) sul terrorismo, che prova a sviluppare alcuni temi del complesso rapporto fra strategie del terrore e realtà, vuoi fenomenica vuoi mediatica[8]. Contiene già, “per la frizione tra fiction e non-fiction, quanto per lo slittamento tra verosimile e fantastico”[9], i temi che saranno sviluppati in Lunar Park, o meglio, che l’autore Ellis decide in questo libro di sperimentare sul proprio personaggio, proseguendo con coerenza il suo discorso.
Che i romanzi dello scrittore americano possano essere visti come varie sequenze[10] di una riflessione unica lo suggerisce proprio il capitolo iniziale di LP, intitolato The Beginnings. Dopo la puntualizzazione nella Nota dell’editore dichiarante “This is a work of fiction”[11], esso sembra smentirla subito del tutto, rovesciarla, poiché ha luogo una riflessione sulla propria esperienza di scrittore e di individuo dai caratteri molto personali (e referenziali). Ellis narra, con un tono a metà fra il divertito e il distaccato, dei suoi trascorsi di droga, sesso e vita spericolata in un impeto di confessione a prima vista genuino, in fondo alquanto elaborato e intessuto di richiami inter e infratestuali[12]. Addirittura, in un passaggio nega esplicitamente la possibilità di un’autobiografia quando racconta di essersi arenato su una sua stesura, e dichiara: “I could never be as honest about myself in a piece of nonfiction as I could in any of my novels” (LP, p. 32). E si intuisce la volontaria sfuggevolezza della “confessione”, ancora una volta, a partire dal paratesto. La duplice dedica del romanzo è a Robert Martin Ellis, padre di Bret e protagonista di LP sotto le spoglie di un fantasma horror di reminescenza amletica, e a Michael Wade Kaplan, che invece in LP non compare mai, sebbene noi lettori sappiamo per altre vie che Kaplan è stato il compagno di Ellis fino alla sua morte prematura nel 2004. Dunque, a fronte di tanti resoconti di incontri anche fugaci e dimenticabili, un personaggio fondamentale nella vita di Ellis (e che dovrebbe quindi, a rigor di logica, entrare in un’autobiografia) viene omesso del tutto. O forse, semplicemente, trasferito in una figura del libro, il figlio Robby amato e odiato, sulla cui sparizione si innesta la conclusione di LP: figlio che l’Ellis reale, a quanto pare, non ha, e dunque una creazione illusionistica tutta interna al romanzo. Il carattere di autofiction è però dato dalle ultime pagine di The Beginnings, in cui Ellis introduce i fatti “sovrannaturali” accaduti a lui e alla sua famiglia nella loro casa losangelina a Elsinore Lane (Hamlet di Shakespeare è un testo cardine per l’interpretazione di LP). Lo scrittore che non ha mai voluto esporre teorie sulla letteratura avverte il lettore con un discorso davvero esemplare, alla luce di tutte le voci critiche sull’autofiction che abbiamo visto finora:
I’ve recounted the “incidents” in sequential order. Lunar park follows these events in a fairly straightforward manner, and though this is, ostensibly, a true story, no research was involved in the writing of this book. For example, I did not consult the autopsy reports concerning the murders that occurred during this period –because, in my own way, I had committed them. I was responsible, and I knew what had happened to the victims without referring to a coroner. There are also people who dispute the horror of the events that took place that autumn on Elsinore Lane, and when the book was vetted by the legal team at Knopf, my ex-wife was among those who protested, as did, oddly enough, my mother, who was not present during those frightful weeks. (…) My psichiatrist at the time, Dr. Janet Kim, offered the suggestion that I was “not myself” during this period, and has hinted that “perhaps” drugs and alcohol were “key factors” in what was a “delusional state”. Names have been changed, and I’m semivague about the setting itself because it doesn’t matter; it’s a place like any other. Retelling this story has taught me that Lunar park could have happened anywhere. These events were inevitable, and would have occurred no matter where I was at that particular moment of my life [LP, pp. 39-40].
Il testo è chiarissimo nella propria reticenza. Eventi collettivi, non referenziali nonostante le apparenze, dal valore universale, riferenti realtà alterate (ma non si può sapere quanto). Quello che però interessa, ai fini del discorso, è il percorso compiuto dall’autore-personaggio all’interno di una vicenda inverosimile ma data come avvenuta e creduta dal narratore. Anzi, una delle peculiarità di LP, appartenente, con i dovuti distinguo, anche ad altre autofiction, risiede appunto nell’indecidibilità del lettore nell’attribuire un preciso statuto di realtà ai diversi avvenimenti del romanzo. Se nelle opere precedenti lo sguardo del lettore poteva essere o quello di uno spettatore cinematografico, distaccato e divertito o quello alienato simile alla percezione di tutti i personaggi romanzeschi, Ellis cambia qui atteggiamento ed esige un’adesione totale del lettore alla narrazione, pur nella consapevolezza dell’iperletterarietà menzognera di LP[13]. Attraverso una narrazione “in presa diretta” alquanto ingannevole, ma caratteristica di tutta la sua produzione, Ellis riferisce dell’attacco subito, insieme alla sua famiglia, da numerose forze oscure e mostruose desunte dall’immaginario di Stephen King ma, in ultima istanza, riconducibili all’esperienza strettamente personale dell’autore-personaggio. LP si configura perciò come un’autobiografia fantastica costellata di indizi, simboli, segni della memoria e della letteratura che si fanno violentemente concreti: il libro stesso è una minaccia vivente, allo stesso modo, insinua Ellis, dell’intera letteratura. In un passaggio la riflessione metaletteraria (estremamente seria, lontana da una visione ludica e in ciò distante dal postmoderno) diventa scoperta. Il lettore è informato della provvisoria stesura di un improbabile thriller pornografico intitolato Teenage Pussy, ma Ellis scopre le carte e scrive: “Writing will cost you a son and a wife, and that is why Lunar Park will be your last novel”[14]. L’affermazione è ardita, ma è la spia di ciò che accade nel finale all’autore-personaggio Ellis. La vicenda di LP sembra precipitare insieme alla crisi familiare fra Ellis e il figlio Robby, che nel finale sparisce misteriosamente insieme ad altri ragazzi della città, in una fuga (scopriamo) volontaria ma in ultima analisi inspiegabile. Gli eventi soprannaturali che occorrono a getto continuo fino allo scioglimento appaiono quasi un epifenomeno della vicenda personale e familiare dello scrittore-personaggio, e in questo fallimento personale hanno fine nella brusca maniera in cui sono iniziati. Disappear here è la frase con cui inizia e finisce Less than Zero: con essa gli avvenimenti fantastici, ma vissuti come iperreali, di LP si concludono, e anche l’io autofittizio Ellis trova la sua personale sparizione.
In TP ha individuato una chiave di lettura interessante Daniele Giglioli. Dopo l’antagonismo dichiaratamente sconfitto e irrisolvibile di Scuola di nudo, in cui il personaggio Siti era perdente in una dialettica hegeliana servo-padrone (incorniciata in almeno un passo del romanzo, quello del discorso accademico su “Odi Melisso” di Leopardi), nell’ultimo capitolo della trilogia autofittizia l’autobiografia diventa automaticamente “sociologia”[15], un tentativo dato come disperato nel tempo “dell’individualità come spot”[16]. Il personaggio Walter Siti, in precedenza disperatamente conscio della propria mostruosità, in senso etimologico, diventa qui un mediocre, un non-personaggio privo di individualità forte (simile in questo ai numerosi “personaggi televisivi”, una categoria di umanità considerata quasi a parte, che costellano TP), una figura che per sua naturale inclinazione è e vuol essere uniforme alla massa, contravvenendo quindi al principio di eccezionalità dell’autobiografismo rousseauiano che dettava il passo in SN. L’omologazione di Walter al mondo dell’Occidente, alla società del piacere e alla “magnifica merce” è forte e riconoscibile sin dal modo in cui il personaggio viene definito. Contrariamente ai primi due romanzi, il mondo del Walter-ego viene definito, più che dal proprio raffinatissimo, rimuginante essere intellettuale, dalle denotazioni merceologiche e contingenti della “società dello spettacolo”, con un processo di nominazione molto vicino al name-dropping derealizzante caratteristico della narrazione di Ellis. Come ha notato Carlo Tirinanzi de’ Medici, tale tecnica descrittiva sortisce un risultato curioso:
(…)ricollega il testo a una realtà oggettiva, esterna sia all’autore che al lettore, che dona all’immagine mentale una patina di autenticità: la descrizione s’impegna per suscitare nel lettore un effetto di vero. In questo modo il mondo d’invenzione che l’atto di finzione genera diviene molto più vicino al nostro mondo, quello reale[17].
La mediocrità omologante perseguita in TP si accorda al desiderio, già citato, di nascita al mondo e di una corrispondente accettazione dell’esistente. Prima di tutto è una riconquista, un desiderio di possesso generato da pulsioni intricate, il cui sviluppo è raccontato con un la forma del journal intime tanto, in superficie, “in presa diretta” quanto elaborato e rifratto dalla coscienza letteraria. Non è un caso che la riconquista, oltre a toccare il campo familiare in precedenza motivo principe della scissione psichica[18], abbia luogo nel campo erotico, dove si erano registrati i fallimenti più clamorosi del Walter-personaggio con la morte irrisolta, in Scuola di nudo e Un dolore normale, della persona amata. In TP l’oggetto (più difficile parlare di persona) di un desiderio assoluto e metafisico è il corpo mercificato di Marcello Moriconi, culturista tossicodipendente presentato come un curioso misto di idiota dostojevskiano e borgataro senza morale. Presentare un riassunto della storia di questo desiderio “girardiano”[19] sarebbe ozioso. Basti dire questo: con un procedimento tanto consumistico da apparire, agli occhi di un lettore attento, una resa totale e cinica all’Occidente, ossia con un’operazione chirurgica per guarire dall’impotenza, l’autore-personaggio riesce a possedere Marcello, e raggiunge così un’integrazione simbolica col mondo della merce. A questo punto, non c’è per lui più nulla da vivere e raccontare. Siti lo spiega con esattezza argomentativa, come sempre nella sua narrazione iper-teorica e di stampo saggistico:
Marcello mi sta espellendo dall’autobiografia: dopo essere penetrati nell’Assoluto, che resta da dire? Vederlo concentrato, remissivo, mentre si soffia il naso che gli sto ancora dentro e sento il contrarsi dei suoi muscoli anali, beh, se lui è un dio come ho creduto finora, non mi resta che cadere in ginocchio, muto per sempre. Se non lo è, allora gli altri esistono davvero, e non è più con l’autobiografia che si possono trattare. Quanto era povera e ristretta, e distorta, l’esperienza su cui tanto ho elucubrato. (…) Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. Nel bene o nel male, nell’ipocrisia o nella sincerità; nell’assistere o nell’agire, nella banalità o nell’intelligenza. Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi. Sto meglio man mano che il mondo peggiora, pazienza. Le mie idiosincrasie si scontreranno con quelle degli altri in campo aperto; se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me [TP, p. 424-425].
Ecco la logica sparizione, in tono tanto entusiastico da creare un sospetto di ironia, di un io autofittizio che, parlando in un ilare, autodistruttivo falsetto, potrebbe rivelare in filigrana un’opposizione critica (inconsapevole nella sua fiction) a una Realtà detestata. TP segna la fine del personaggio Siti e anche dell’uso di autofiction. Come per molti degli autori che hanno attraversato il decennio passando per questo “genere”, con risultati più o meno felici, la possibilità dell’autofiction viene usata come laboratorio di una specifica tipologia di discorso critico sul ruolo dell’autore e sull’impotenza (o l’onnipotenza, che confina comunque col fallimento) della “realtà rappresentata” (la Wirklichkeit hegeliana, e poi auerbachiana) in letteratura. Una volta concluso l’esperimento, quale che sia il risultato ottenuto, la carta autofittizia viene tolta dal tavolo per essere ributtata in giochi narrativi di natura differente. Magari proprio nell’ambito della non-fiction, o di un lavoro iperletterario sulle modalità del saggio in prima persona, o piuttosto dell’inchiesta giornalistica che vuole sfondare il diaframma neutro della cinepresa, entrare con tutta la testa nel proprio oggetto. Proprio Siti in Il contagio (2008) propone un reportage sulle borgate romane, intrecciando le storie di borghesi e borgatari, soggetti alle stesse nevrosi e alla stessa condanna sociale: ma è un testo decisamente fuori dalle norme del genere per via del suo illusionismo narrativo[20], dello scarso valore testimoniale e referenziale e della presenza dell’autore-personaggio non in quanto cronista “in prima linea”, ma in quanto personaggio equipollente agli altri descritti, incapace di salvezza e di evasione[21]. Alla luce di tutte queste scelte, che formano una precisa visione di nichilismo e fallimento personale, si può secondo me parlare di una recusatio della “nascita” celebrata in TP e, soprattutto, del valore della scelta “autofittizia” fin lì perseguita. Con altrettanta sicurezza, Il contagio può essere letto a causa del suo particolare uso delle categorie di fiction e non-fiction come un “Anti-Gomorra”, di cui ribalta programmaticamente e con cognizione di causa gli aspetti più pregnanti[22]: il primo segno di una sperimentazione romanzesca mossa ormai su strade differenti dall’autofiction, congedata con una nascita-annullamento.
In LP, viceversa, la conclusione prevede in apparenza uno scioglimento positivo della vicenda, ma nasconde una sparizione senza consolazioni. Ellis, per placare lo spirito vendicativo del padre morto, sparge le sue ceneri nell’oceano e chiude la storia palesando la sua completa testualizzazione e, di fatto, la sua sparizione, quasi che anche lui sia cenere dispersa, bruciato dal suo stesso essersi scritto, letto e poi riscritto. Rivolgendosi al figlio Robby (scomparso per davvero, nella storia, senza lasciare neanche la cenere) scrive, concludendo il romanzo:
So, if you should see my son, tell him I say hello, be good, that I am thinking of him and that I know he’s watching over me somewhere, and not to worry: that he can always find me here, whenever he wants, right here, my arms held out and waiting, in the pages, behind the covers, at the end of Lunar Park [LP, p. 399].
Nel romanzo successivo, l’autore-personaggio Ellis è una comparsa citata da una creazione romanzesca dello stesso Ellis, Clay. Imperial Bedrooms segna così il ritorno dell’autore a una narrazione più consapevolmente noir e postmoderna, dopo aver esaurito le possibilità dell’autofiction in un’impietosa e artificale autoanalisi che non poteva che portare a un annullamento conclusivo. A una prima occhiata, mi sentirei di dire, sembra in questi due testi che l’autofiction nella produzione recente sia stata concepita come scavo chirugico condotto in estrema solitudine sulla persona dell’autore, e si possa parlare di un “genere” interno al romanzo in cui si racconta di “un mondo in cui ogni storia, ogni destino sono sì equivalenti a ogni altro nella loro irrilevanza, ma anche intransitivi. Le monadi sono tutte eguali; ma tutte monadi”[23]. È ancora presto per dire se l’orizzonte dell’autofiction sia estremamente fecondo ma destinato per sua stessa natura a una breve durata, a un esaurimento veloce di potenzialità narrative virtualmente fortissime ma ristrette nella gamma. E troppo tardi, mentre sto per finire di scrivere, per allargare il campo alla produzione autofittizia italiana e straniera di questi anni, pur abbondante e significativa, anche se quasi mai di un valore simile.
[1] “Una sorta di autobiografia deviata, vera e falsa nello stesso tempo, potenziata e dilatata da un incastro di istanze narrative che si smentiscono e rovesciano a vicenda; unite in un io onnipresente che pretenderebbe di divorare il mondo, di schiacciarlo con il proprio impietoso risentimento. È la ripetizione infinita di una recita in cui la vita riconosce la propria ragione e la propria mancanza di senso, in cui tutta la cultura dell’autore si brucia e si svuota come per eccesso, si affida allo splendore effimero dei volumi e delle superfici corporee, alle estasi del sesso: ma con un angoscioso senso di morte, di asfissia, come in un referto estremo della fine di una cultura e di un modo di essere intellettuale” (Giulio Ferroni, Letteratura italiana contemporanea 1945-2007, Mondadori Università, Milano 2007, p. 299).
[2] Gianluigi Simonetti, Lezioni di inesistenza: Scuola di nudo di Walter Siti, «Nuova Corrente» XLII, 1995.
[3] Walter Siti, Scuola di nudo, Einaudi, Torino 1994, p. 597.
[4] Ivi, pp. 292-300.
[5] Non è mancata una lettura della trilogia romanzesca di Siti sulla falsariga della Commedia dantesca, in Daniela Brogi, Walter Siti, Troppi paradisi, «Allegoria», 55, 2007, pp. 211-215. Ad avallare la lettura “unitaria” e dantesca della trilogia è stato lo stesso Siti; si veda: http://quattrocentoquattro.com/2011/11/28/voglio-raschiare-sotto-intervista-a-walter-siti/.
[6] Mi appoggio alle considerazioni di Alberto Casadei, L’autobiografia e il desiderio in Walter Siti in Stile e tradizione nel romanzo contemporaneo italiano, cit. Utile anche lo studio monografico di Francesca Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter Siti, Stilo Editrice, Bari 2008.
[7] Nell’ordine: Less Than Zero (1984), The Rules of Attraction (1987), American Psycho (1991), The Informers (1994), Glamorama (1999), Lunar Park (2005), Imperial Bedrooms (2010).
[8] Su cui anche Michel Houellebecq (che ha dichiarato una profonda ammirazione per Glamorama), Plateforme, o Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, cit.
[9] Gianluigi Simonetti, La scuola delle immagini. Bret Easton Ellis e il romanzo italiano contemporaneo, in L’immagine ripresa in parola. Letteratura, cinema e altre versioni, a cura di Matteo Colombi e Stefania Esposito, introduzione di Massimo Fusillo, Meltemi, Roma 2008, p. 313.
[10] Il termine cinematografico mi sembra il più adatto qui, visto che immagine cinematografica e parola romanzesca hanno un “legame organico” fortissimo (v. Gianluigi Simonetti, La scuola delle immagini, cit., p. 312).
[11] “This is a work of fiction. Names, characters, places, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictitiously. Any resemblance to actual events, locales, or persons, living or dead, is entirely coincidential”. L’edizione consultata è Bret Easton Ellis, Lunar Park, Vintage Books, New York 2005.
[12] Giustamente Giuseppe Genna ha rilevato la vicinanza (sia pure con diversi esiti) a un’opera simile di Stephen King, dichiarato ispiratore delle tematiche e degli scenari di tutto LP, vale a dire On writing (2000), una riflessione sulla propria scrittura. Scrive Genna: “il naturalismo di Ellis (come quello di King in On writing) non ha nulla a che vedere con la rappresentazione speculare del mondo (interno ed esterno), bensì con la costruzione di una narrazione di sé nel mondo sotto specie di cosmogonia” (http://www.carmillaonline.com/archives/2005/11/001583.html).
[13] “What was there to say? That I was going insane? That my book was now reality? I had no reaction -emotional, physical- to any of this. Because I was now at a point at which I accepted anything that presented itself to me. I had constructed a life, and this is what it offered me in return” (LP, p. 365). Nel brano si parla di una storia narrata da un manoscritto che prende vita fuori dalla pagina ma, dato che questo è uno dei nuclei concettuali dell’opera, mi pare il passo si presti benissimo a un doppio livello di lettura (che è molto frequente in LP).
[14] Ivi, p. 327.
[15] Daniele Giglioli, Senza trauma, cit., p. 82.
[16] Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2008, Avvertenza, p. 2.
[17] Carlo Tirinanzi de’ Medici, Veridicità ed effetto di vero. L’universalismo della prosa in Walter Siti in Finzione, cronaca, realtà, cit., p. 171. L’effetto di vero elaborato dallo studioso è costruito in opposizione all’”effetto di reale” di cui parla Roland Barthes in L’effetto di reale in Il brusio della lingua, cit., pp. 151-159. Per ulteriori letture in questa chiave di TP, si veda anche Davide Luglio, Pantografare l’esperienza, ovvero il romanzo come smascheramento dell’”autenticità” in Finzione, cronaca, realtà, cit.
[18] Delle modifiche subite dal nucleo familiare del personaggio si è detto. Basti aggiungere che in TP il rapporto conflittuale con i genitori viene risolto con un’indifferenza che tradisce un brutale e alienante desiderio di tranquillità, di fine del conflitto. Esemplare il capitolo La miseria dei miei e l’episodio della morte del padre (“Sta famosa esperienza archetipa, nel complesso, si è rivelata fiacca, niente de che”, TP, p. 185).
[19] Il desiderio romanzesco del personaggio Walter trova un corrispondente forte nelle nozioni di “desiderio triangolare” e “divinizzazione dell’uomo” presenti in René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Éditions Bernard Grasset, Parigi 1961. È stato notato da Francesca Giglio, Un’autobiografia di fatti non accaduti, cit.
[20] Il primo capitolo Che problema c’è?, presentato come storia “vera”, è nel successivo La casa- I disvelato nella sua natura di esercizio narrativo dall’autore. Siti non rinuncia quindi, in un’opera che apparentemente è un reportage. alla letteratura nel distorcere ogni prospettiva “realistica” terra terra; la cinepresa è truccata, le riprese sono state manipolate al computer.
[21] Nella Terza parte, ironicamente intitolata La verità, l’alter ego dell’autore prende la parola in prima persona, anche se rimane tutto sommato nell’ombra e non ha nemmeno la dignità di un nome proprio, venendo chiamato “il professore”. L’amore per Marcello, assolutizzato in TP, viene svalutato e rifiutato nel capitolo Addio, e nemmeno l’aver descritto con la letteratura la vita delle borgate può salvarlo (si veda a proposito l’ultima pagina di Il contagio).
[22] Per dire solo della conclusione, incentrata sul polo della morte (“Ma vai a casa, va’ … che ti sta cercando la morte e tu sei in giro”, Il contagio, p. 333) opposto all’istinto di sopravvivenza nel finale di Gomorra (“Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”, p. 330), ma gli esempi sarebbero molti. Sotto questo aspetto, non è casuale che Siti si sia interessato a lungo della scrittura e la figura di Roberto Saviano, ad esempio in un contributo critico introduttivo a Roberto Saviano, La parola contro la camorra, Einaudi, Torino 2010.
[23] Raffaele Donnarumma, Walter Siti, Troppi paradisi, cit., p. 219.
[Immagine: Stanley Kubrick, Autoritratto (gm)].
La cosa singolare – cui giustamente Marchese accenna – è che Lunar Park deve moltissimo, quasi tutto, a Stephen King (lo notò in un bell’articolo, mi pare su Carmilla, Giuseppe Genna); l’altra cosa singolare è che i due più dotati scrittori americani degli anni ’60, Foster Wallace e Easton Ellis, pur detestandosi condividono l’ammirazione per King. La terza singolarità è che King si colloca all’opposto rispetto all’autofiction, eppure Ellis si ispira a lui nel momento in cui decide di fare i conti con sé stesso fino in fondo.
L’uomo del Maine irradia energia per tutti, ma nessuno può davvero scrivere qualcosa di proprio entrando nel suo territorio (benché sembri facile); il problema è che il suo territorio è oramai anche il nostro, che noi abitiamo le sue creazioni. Stella luminosa o viceversa buco nero, King è comunque il narratore con la cui esagerata immaginazione il nostro tempo – presente e futuro – dovrà confrontarsi.
ps: in On writing, autobiografia d’un mestiere, King si è messo a nudo con estrema sincerità, eppure ancora una volta ha scritto un romanzo. Non so come sia possibile ma so che è così. Non si tratta d’autofiction né di biografia nuda e cruda, si tratta di mito.
notazione molto interessante, che mi permette una replica cui spero di accompagnare qualche precisazione: dopo tutto, questo è un intervento di natura abbastanza incerta, parte conclusiva di un lavoro di ricerca più ampio sull’autofiction, come indicano i riferimenti al “capitolo precedente” nel primo paragrafo.
notazione interessante perché spinge a chiarire: cos’è il “quasi tutto” che Ellis deve a King? Non penso che sia il tono di fondo né l’inclinazione alla satira, l’interesse genuino e, credo, “disinteressato” verso il male che si riscontra in Ellis, laddove King invece si interessa più al Male, sempre d’altronde in compagnia di un Bene pronto a raddrizzarlo o a confutarlo, entrambi presentati, spesso, in forme allegoriche o di monumentale incarnazione. Da questo punto di vista, Lunar Park non deve quasi niente a King, anche a dispetto delle dichiarazioni di Ellis in varie interviste. Né mi stupisce che King, pur non facendo autofiction, sia stato d’ispirazione a Ellis, mica Ellis si è ispirato a lui per la forma del suo romanzo. On Writing è una scrittura autobiografica di impianto, tutto sommato, più tradizionale, senza quelle particolari convenzioni di finzione che stanno in Lunar Park, insomma mi pare una delle tante vie di mezzo fra “autofiction e biografia nuda e cruda”, come giustamente lei nota, anche se non mi azzarderei a parlare di mito (ma solo perché tendo a volare basso sempre).
Invece, c’è un profondo debito su altri piani. L’immaginario, anzitutto. King è stato uno dei miei primi amori in letteratura, sin da quando avevo nove anni; la facilità scorrevole e un po’ ripetitiva della sua prosa (in traduzione: ma ho verificato che anche in inglese siamo lì) mi ha avvicinato a un universo di creature e personaggi che supera di gran lunga la qualità della sua prosa. Mi pare sia un po’ quello che succede anche a scrittori eccezionali nella creazione come Philip K. Dick o Ray Bradbury, che non a caso si occupano di generi molto simili: una frizione che probabilmente non giova all’entrata di King in qualsivoglia canone, ma lo rende molto affascinante come figura.
Ellis sicuramente recupera elementi dell’immaginario di King, anche se lo fa in una maniera più distaccata e filtrata rispetto a Wallace, il quale, mi pare da quanto ho letto, riprende l’uso delle figure allegoriche e sottende alla sua narrazione la dicotomia in lotta Bene-Male che Ellis invece ignora.
Ma la cosa davvero più singolare, per me, è che riprenda anche una modalità dello stile di King. Spesso, nelle scene di maggior tensione psicologica, King inscena una psicomachia nei suoi protagonisti: si crea un dialogo fra figure senza nome o con nomi astratti, in cui le varie parti discutono dell’effettiva esistenza di quanto sta accadendo, della liceità delle proprie azioni, ecc. Questa maniera kinghiana di rendere i moti dell’animo, curiosamente, compare in Ellis per la prima volta in Lunar Park; a dibattere sono il protagonista (autofittizio, invenzione posticcia dello scrittore) e lo scrittore (voce maligna che orienta le azioni del protagonista, personaggio di sua creazione, e incerta presenza spettrale di cui né il lettore né il narratore interno possono mai fidarsi pienamente). Nel riuso metanarrativo di questa tecnica di King sta secondo me uno dei punti di forza di Lunar Park. Grazie di avermi permesso di tirarlo fuori nei commenti, e delle sue osservazioni.
@ marchese
Lei ha ragione. E’ l’immaginario la chiave di volta per capire l’importanza di King in Lunar Park, e più in generale nella narrativa contemporanea. Il caso King presenta una combinazione di due fattori: una potenza visionaria senza paragoni e uno sfruttamento inesausto della stessa da parte dell’industria cinematografica (con esiti diseguali e spesso mediocri). Ciò ha fatto di King più un’essenza che un pur celebre scrittore, una qualità dell’aria, un’atmosfera cui non si sfugge, specie se si decide di battere certe strade (alludo al soprannaturale, ma occorre precisare che King è anche un insuperabile realista).
Sullo stile, e sulla discrasia fra stile e immaginazione, sono d’accordo con Lei fino a un certo punto. Certamente ricorderà la frase di Hawthorne: “Ciò che si lascia leggere facilmente presuppone uno sforzo di scrittura enorme.” Dietro la magica scorrevolezza della prosa di King, dietro la sua fluida rozzezza ci sono un talento e un’applicazione senza pari. Benché possa sembrare strano King è inimitabile tanto quanto Kafka; la sua prosa è un vetro perfetto e senza appigli, contraffarla vuol dire cadere nel ridicolo. Non ci sono frasi memorabili nei suoi testi ma il tessuto narrativo è robustissimo e infrangibile, e soprattutto magnificamente aderente a ciò che esprime. Significante e significato non sono separabili, non “grattano” mai.
Altra notazione, sul discorso invero assai interessante di Bene e Male cui Lei accenna. E’ vero che in Ellis la dinamica è pressoché assente e in King viceversa c’è una lotta apocalittica; ma non sempre ciò accade. In almeno due libri – Buick 8 e Colorado Kid – tanto sottovalutati quanto enigmatici, King esplora la neutralità, il Nulla, l’alienità, non so come chiamare questo suo assurdo grado zero. In questi lavori davvero singolari s’intravedono luoghi nuovi, post letterari. E’ come se il più grande cantastorie moderno stesse cominciando a dirci: e adesso, dopo di me, cos’altro si può narrare? (ma già in alcuni sorprendenti metaromanzi come Misery o Finestra segreta, giardino segreto, la sua riflessione sull’atto della scrittura, e sulle conseguenze che esso comporta, aveva compiuto doppi e tripli salti mortali, fin quasi a strozzarsi su sé stessa)
il commento che avevo scritto si è cancellato. riformulo brevemente:
In almeno due libri – Buick 8 e Colorado Kid – tanto sottovalutati quanto enigmatici, King esplora la neutralità, il Nulla, l’alienità, non so come chiamare questo suo assurdo grado zero.
mi spiega in cosa consiste questo “grado zero” che presumo un grado zero della moralità? In che personaggi o eventi si incarna, e in che cosa si differenzia dai libri precedenti? Mi interessa molto
Colorado Kid è già meno misterioso, quantomeno a livello di plot, se si conosce il ciclo della Torre Nera (l’ha detto King stesso)
non è che si capisca tutto tutto, intendiamoci, però a grandi linee sì
Ci provo.
In Buick 8 e Colorado Kid la lotta fra Bene e Male si nebulizza, sostituita rispettivamente dall’alterità e dal mistero.
L’alterità di Buick 8 è la più inquietante possibile: un’alterità (o estraneità) da sfinge, leopardianamente indifferente, che illustra una concezione del mondo in cui quasi non c’è più spazio per la storia di cui King è il campione indiscusso. Mancano le parole, anzi mancano i concetti prim’ancora delle parole (“la chiamavamo Buick perché dovevamo raffigurarcela in qualche modo”). Segnalo in proposito un brillante articolo di Beppe Sebaste http://www.beppesebaste.com/articoli/buick8.html, che del romanziere del Maine è uno dei più attenti lettori italiani.
In Colorado Kid è per certi versi lo stesso; quando il mistero si fa troppo fitto – o forse troppo banale! – subentra la ripetizione infinita di riti verbali stanchi e obsoleti (i due vecchi cronisti che non fanno che raccontare e riraccontare da decenni la stessa monca vicenda, la quale tuttavia non manca mai d’esercitare, ogni volta daccapo, il sinistro fascino dell’insolubile). In tal senso mi sbilancio, e sulla scorta della postfazione dello stesso King affermo che Colorado Kid altro non sia che una metafora dell’esistenza: non sappiamo da dove veniamo né dove andiamo, però ci siamo.
Non parlerei infine di grado zero della moralità, King è un narratore insopprimibilmente morale (e spesso moralistico, uno dei suoi tanti punti deboli); mi sembra piuttosto che in questi due romanzi – fra l’altro ravvicinati – il narratore per eccellenza si spinga ai confini dell’afasia e dell’impotenza fabulatoria, come un novello Lord Chandos. Ma a quel punto avviene la capriola, il guizzo del suo incredibile talento, perché King continua a raccontare ciò che non si può raccontare e lo fa (mi si perdoni la contraddizione) …raccontando. E’ insomma formulando una storia – attorno alla macchina che non è una macchina, attorno al ritrovamento del corpo d’un uomo che non poteva trovarsi dov’è stato trovato, eppure si trovava proprio lì – che King elude lo sgambetto del nulla, e invece di tacere continua a parlare oltre la storia, approdando non a una metastoria (Misery), bensì a un’ultra/storia.
@macioci
grazie, ora capisco meglio quello che intende. scremando le definizioni iperboliche (ma non le pare di eccedere un po’? per come sono fatto, io mi sentirei in imbarazzo a parlare così anche di dante) in pratica king cerca di costruire un racconto intorno a qualcosa che si presenta come irrappresentabile. in effetti, rientra nel gesto più congeniale a king come scrittore: dare forma a quel che non ha una forma, fornire una visione. dare una visione all’irrappresentabile sarebbe uno step logico nel concludersi di un’esperienza di scrittore, da questo punto di vista?
ellis e siti, viceversa, mi sembrano più impegnati a una “descrizione del mondo”, a una rappresentazione di esso com’è, un conglomerato del male sovrainterpretato da scimmie fragili con un cervello troppo evoluto. senza contare tutte le differenze fra loro, ovvio.
comunque, restiamo su questa carreggiata parallela. qui un’interessante recensione di King a Lunar Park: http://www.ew.com/ew/article/0,,20419951_1107881,00.html
Mi ha colpito il fatto che per King l’autofiction risulta un meccanismo difensivo dell’autore dal giudizio negativo, o dalla squalifica morale, dei lettori.
scusate, link non funzionante.
incollo qui l’articolo per esteso, dal titolo “My So-Called Admirer”:
Stephen King on ”Lunar Park” being an homage to him
I was browsing the Borders in Boston one day in late August when a clerk cruised up and murmured, ”Dude! Bret Easton Ellis is blaming his new book on you!”
I thought he must have been joking — city-glitterati Bret Easton Ellis doing Stephen King seemed about as likely as Stephen King doing Philip Roth — but that night I put our names together on the computer, more or less on a whim, and was shocked when the Google search spat out something like 72,000 hits.
Turns out Bret Easton Ellis is calling Lunar Park a Stephen King homage, and claims to have read Salem’s Lot at least a dozen times as a kid…or so says Elizabeth Hand in The Washington Post, but she also calls the demonic toy in Lunar Park a Yerby (it’s actually a Terby, and yes, it matters). If Ellis really did read Salem’s Lot a dozen times as a kid, the reasons for the past drug use he’s spoken of become much clearer to me.
In any case, of course I went back to the bookstore, bought Lunar Park, and read it. At one point the narrator asks, ”Who was going to buy the pitch I was making in order to save myself?” Me, for one, and I get a 20 percent discount, too. I started looking for my own footprints, and ended up following Ellis’. Not a wasted trip, either. Not at all.
I’m not quite a Bret Easton Ellis virgin. I read American Psycho just to see what all the bellowing was about, and thought it was bad fiction by a good writer, the sort of hectoring narrative you can’t wait to get away from at a party, delivered by a guy who’s backed you into a corner and keeps telling repetitive anecdotes while his drink dribbles slowly onto your shirt.
Lunar Park is nothing like that. I got no sense that Ellis has any real grounding in American horror fiction (I’m pretty sure he’s read Shirley Jackson, Ray Bradbury, and, of course…me), but he’s clearly seen enough movies to know what works and what to avoid. Surely it will be the only work of mainstream American fiction to be reviewed in Fangoriamagazine this year. Think of it as…I don’t know…John Cheever writes The Shining. If that turns your stomach, fine; many of the critics who’ve reviewed Lunar Park have stuck it in the literary microwave and given it about four hours on high. If it sounds interesting, however, maybe you’re with the group who finds the book a strange triumph.
Check this out: A newly married writer with substance-abuse problems moves to the burbs with his very troubled family. (He’s named Bret Easton Ellis, but never mind; that’s your basic critic-kryptonite tossed out by a gun-shy novelist who’s been shot in the ass too often by The New York Review of Books.) The house starts coming to life around him, reinventing itself as the one he lived in as a child. Neighborhood children begin to disappear. The ghost of his father appears. Worse, he starts getting blank e-mails from the bank where Dad’s ashes are stored — at two in the morning, the time of his father’s death. The e-mails have a spooky Blair Witch Project-like home movie attached. His little girl’s favorite toy (Terby the stuffed birdy) comes to life. And then, like George Stark in The Dark Half, Patrick Bateman from American Psycho turns up and begins to commit murders.
There’s some annoying hugger-mugger — a phantom wind strong enough to knock over a vending machine that doesn’t seem to bother Bret at all, for instance — but there are also some dandy set pieces (as the Fangoria review, probably the best and certainly the most knowledgeable, points out). I kept expecting Ellis to cop out and retreat to the hackneyed haven of the ”serious novelist”: Was it real or was it a dream? You must decide for yourself, dear reader. Nope; in the last couple of chapters, Lunar Park goes all out, balls to the wall. I respect that.
And Lunar Park’s denouement offers real and affecting insight into how fathers and sons can draw apart, and yet never stop yearning for some reconciliation. The creepiest insight the book has to offer — and the most mature — is that some such longings may even survive death.
Whether or not Bret Easton Ellis is ”doing” Stephen King at the beginning of Lunar Park (little parenthetical expressions and all) doesn’t matter, because by the end, all the masks, imitations, and pharmacological shopping lists have been set aside. Even in American Psycho, that boringly bloodthirsty book, it was clear to me that Ellis was a fine storyteller. It’s this facet of his writing that has most appealed to readers and been most overlooked by critics. It seems at times to have appalled Ellis himself (one could almost believe it’s the Terby hidden inside his laptop, flexing its claws). I got a clear sense of Lunar Park having started almost as a joke — perhaps a rather desperate one, part apology for American Psycho — and having finished as what is close to a credo. That is the true magic of novels, which often possess more strength (and reality) than their creators suppose: They see into our secret hearts.
Speaking of hearts, readers of Lunar Park may be surprised to find that Bret Easton Ellis has a surprisingly large one. Here is a book that progresses from darkness and banality to light and epiphany with surprising strength and sureness.
Salve. Intervengo perché ho da poco scritto un pezzo sull’autofiction in Siti, Ellis e Houellebecq (uscito su Blow up di giugno), e quindi ho letto con interesse particolare questo intervento. Proverò a mettere in evidenza alcuni punti.
Riguardo all’autofiction in generale, e nello specifico alla trilogia di Walter Siti, avevo sottolineato come la commistione nel romanzo di elementi (pseudo)autobiografici e l’inserimento di nomi, persone e situazioni riferibili alla reale – in un quadro complessivo finzionale – da un lato aumentino nel lettore la percezione della veridicità del testo, dall’altro, però, lo mettano in guardia da un realtà effettiva sempre più svuotata di autenticità, a causa della progressiva colonizzazione mediatica dell’immaginario («ciò che non viene mostrato non esiste»). «Le “vere” autobiografie erano come quella di Érik Satie (TP ne ricalca l’incipit: «Je m’appelle Érik Satie, comme tout le monde»), quando ancora il realismo s’illudeva di raffigurare il reale: ovvero prima che Freud e Lacan allargassero l’identità alle distorsioni del sé; prima che l’autobiografia diventasse il mezzo per consentire, ad un io-sperimentale, di percepire il trompe-l’œil e intaccare «la superficie traslucida e difettiva della realtà, la sua proiezione fantasmatica e mediaticamente manipolata» (Siti)».
Un secondo aspetto era quello relativo all’ultima parte di Troppi paradisi e alla figura di Marcello nell’economia del romanzo: «L’incontro con il culturista Marcello, nella seconda parte del libro, gli permetterà di appagare il suo desiderio di infinito grazie all’intermediazione amorosa, e di potersi nuovamente rapportare alla realtà, affrancandosi dalla prigione immateriale dell’immagine. Walter Siti sarà libero di lasciare l’autofiction per dedicarsi al novel («se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me»)».
Per i modelli narrativi di Lunar Park, aggiungerei all’influenza di Stephen King quella di Philip Roth, in relazione al finto memoir e alla satira di un nucleo familiare in crisi, qui rappresentati dal BEE personaggio e dalla moglie e i due figli che evidenziano uno stacco netto rispetto alla parte di pura fiction (la paternità preclusa all’autore reale).
Non avevo pensato al possibile accostamento del suo ex compagno, Michael Wade Kaplan, con il personaggio di Robby in LP. Secondo me il bambino nel libro rappresenta da una parte la metafora di Ellis stesso e del difficile rapporto con suo padre, dall’altra, una sorta di trasfigurazione della figura paterna (Robby / Robin Martin Ellis), nel tentativo dell’Ellis maturo di riprendere contatto con la sua infanzia per esorcizzarne i demoni che da sempre si portava dietro. Il ragionamento è il seguente. Come ha sottolineato più volte nelle interviste, il movente primo della sua scrittura è il dolore personale che viene superato attraverso la scrittura dei romanzi. Una prima fonte di dolore (motore creativo nella produzione artistica), è appunto la mancanza di riconoscimento da parte del padre. La fruizione di letteratura fantastica (Stephen King in primis, insieme alle altre sollecitazioni che arricchiscono il suo immaginario infantile), favoriscono il distacco (la “fuoriuscita”) da quella realtà che lo metteva a disagio (il “mostro” come traslazione del male che può così essere sconfitto). Facendo un salto fino al testo preso in esame, BEE scrittore smarrito nel Lunar park, (in un romanzo che, abbiamo supposto, parla soprattutto del sé bambino), e genitore di un figlio che lo rifiuta, si serve di quello stesso mostro (composito) per descrivere la manifestazione soprannaturale (da qui la virata postmoderna nella letteratura di genere), che nell’intreccio precede la sparizione del figlio – Robby, il bambino/padre, al quale BEE si rivolge come se si trovasse di fronte alla propria figura paterna perduta, nel vano tentativo di colmare troppi anni di silenzio, alla ricerca di quelle parole che non era mai riuscito a dire al suo vero padre, Robert Ellis.
Procedendo su questa linea, possiamo notare come la progressione di Ellis dal rifiuto della realtà al suo divenire scrittore (con tutto quello che ha comportato, in termini di costi affettivi, ritrovarsi ad essere una superstar letteraria a ventuno anni e dover gestire a ventisette il polverone post American Psycho), si colloca in una dinamica opposta alla “fuga” di Robby in Lunar Park (i bambini che “escono letteralmente dal Libro”). Perché la meta dei ragazzini che scompaiono si chiama Neverneverland? Forse proprio per simboleggiare desiderio post-utopico di sottrarsi alla chimera della fuga nella fantasia, da parte di bambini che già a dieci anni hanno smesso di credere al potere terapeutico delle illusioni, ormai troppe volte delusi dalle promesse mancate del mondo dei “grandi”. O perlomeno, questa è la mia interpretazione.
Sì, direi che sono come due binari paralleli: da una parte Ellis/Siti, dall’altra King. Però mentre in Siti l’elemento sovrannaturale o metafisico è assente, nell’Ellis di Lunar Park questo elemento c’è – ed ecco un ponte proteso verso il binario-King.
Sulle iperboli. Io credo che King sia l’equivalente della lettera rubata di Poe: ce lo abbiamo tutti sotto al naso da decenni e ancora non lo vediamo per davvero. Come ho scritto nel commento sopra, King è un narratore pieno di difetti ma è anche incredibilmente vitale, potente, vasto, visionario, apocalittico (nel senso di rivelativo), ambizioso. E poetico. Poi, si sa, è il tempo a decidere davvero. Le generazioni umane hanno sempre mostrato un incredibile talento nel sottovalutare i propri più valorosi contemporanei.
Infine, quando Lei afferma che King fornisce una visione, mi sembra che colga nel segno; laddove per esempio Ellis e Siti parlano (o ascoltano) King vede. Credo sia questo ad allontanarlo dall’autofiction: la sua non è una narrativa del ripiegamento bensì dell’esplorazione, dell’estroflessione cosmica.
@mirarchi
grazie del suo intervento, che tocca molti punti interessanti. oltre tutto, lei parla di autori che sento molto vicini e che, nello scritto più ampio da cui questo pezzo è tratto, affronto estesamente: anche roth, che dell’autofiction è uno dei primi esponenti e usa l’io autoriale per creare giochi illusionistici di varia natura, e houellebecq, che metterei invece un po’ a margine dato che si presenta come un personaggio fra gli altri e non mistifica la sua autobiografia in un modo tanto radicale.
su siti non ho molto da aggiungere a quello che dice, tranne che condivido un punto cui non avevo mai fatto troppo caso. all’altezza di Troppi paradisi, l’autore-personaggio constata con sgomento “Ciò che non viene mostrato non esiste”, in accordo con l’avvertenza dell'”individualità come spot”. il siti di “Scuola di nudo”, personaggio vergognoso e quasi tutto nascosto nei propri abissi (positivi e negativi) interiori, non mostrava niente. e difatti aveva il terrore di non essere nato, di non vivere davvero, terminava con una dichiarazione di incapacità a nascere. in Troppi paradisi invece, Siti si svela, si mostra, sebbene in forme deteriori e “televisive”. La sua interiorità mostruosa viene meno, la pagina accoglie un ritrovato interesse, non più solo snobistico o ipercerebrale, per il mondo esterno. E, cosa ancor più importante, Siti prende coscienza della sua mediocrità, la mostra – cosa che, in effetti, lo distingue immediatamente da qualsiasi mediocre, che non riconosce di esserlo.
capitolo ellis. dell’accostamento di Robby alla figura reale di Michael Wade Kaplan non sono tanto convinto, devo dire. l’ho scritto e me ne sono pentito subito: è una suggestione indimostrabile – come tanti indizi di realtà gettati nell’autofiction non possono ricondurre a dati certi, a meno di una dichiarazione (passibile di falsità o tendenziosità) dell’autore. vale poco, anche se ho la sensazione che Kaplan c’entri. ma se tornassi indietro non lo riscriverei, è azzardato e, inoltre, sottintende una lettura freudiana che non è sbagliata in sé ma mi puzza di approssimativo. anche la prima parte della sua lettura, Mirarchi, mi convince poco. è motivata molto bene, ma se dovessi rimanere coi piedi per terra direi questo: Ellis-personaggio in LP ridiventa il padre violento e temuto, ridiventa egli stesso il fantasma vendicativo che infesta la sua casa (lo dice chiaramente verso la conclusione), a causa del suo dolore, dei libri cattivi e arrabbiati che ha scritto (e che difatti tornano a perseguitarlo). e il figlio Robby si comporta come, a suo tempo, Ellis con suo padre. diventa distante, sfuggente, infine sparisce, come Clay (evocato nella conclusione): come il ragazzo che Ellis è stato quando scriveva Meno di zero, e che desiderava solo sparire. Il tutto è il preludio a una sparizione riappacificatoria del padre di Ellis (nelle forme sepolcrali delle ceneri) e di Ellis stesso, che finalmente viene inghiottito dietro le sue pagine, dopo che le colpe dei padri si sono ripetute nei figli, e hanno condotto alla rovina di tutto. alla luce di tutto questo, è chiaro che non lo considero un libro molto ottimista: e non sono certo io a notare che è una riconsiderazione di tutta la scrittura di Ellis, uno svelamento e un tentativo di venirci a patti quindi di ucciderla.
credo sia per questo che Imperial Bedrooms torna alle origini, cercando di fare un sequel. esaurite le cose nuove da dire (nel senso che in LP tutta la scrittura di Ellis è stato portata alle sue estreme conseguenze e si è “bruciata”), Ellis ha provato a girare in circolo e tornare all’inizio. e il romanzo ne ha risentito – per la prima volta nella sua produzione, non siamo di fronte a un libro davvero originale, dirompente. che ne pensa?
@ macioci
sul soprannaturale, preciserei una cosa. in King il dato soprannaturale spesso è esplicito e indiscutibile, anzi emanazione di forze superiori all’uomo, che si giocano il destino del cosmo. in Lunar Park, fino alla fine, non sappiamo se le “apparizioni soprannaturali” siano veridiche, o allucinazioni dell’autore, o citazioni involontarie della mente balzana di uno scrittore. e l’ipotesi preferenziale per il lettore di Lunar Park, chiuso il libro, non è certo pensare che a Elsinore Lane ci fossero forze sovrannaturali: viene da nutrire un fortissimo sospetto, e da interpretare le esperienze del narratore in ottica metanarrativa, cioè in soldoni “s’è immaginato tutto”. quindi secondo me c’è un ponte proteso verso King, ma è più un ologramma che concreto (e lo stesso King afferma qualcosa di simile nella sua recensione).
sulle iperboli, ancora. King è da decenni uno degli scrittori più letti e venduti al mondo; ha intaccato l’immaginario fantastico di milioni di lettori e di decine di scrittori anche molto importanti. Praticamente è una rockstar della letteratura. In che modo, di preciso, “non lo vediamo per davvero”? Non parlerei di uno scrittore sottovalutato. Sarei piuttosto portato a considerare che King è stato ampiamente affrontato e trattato da un sacco di gente.
Se invece il punto è “la critica accademica non considera King”, allora il giudizio va sfumato. Ma anche qui: ci sono scrittori che si prestano molto bene ad analisi degli studiosi (e che di solito non mi vanno a genio: Manganelli, per dirne uno), e scrittori che resistono a quell’approccio. magari King, onesto storyteller per sua stessa, ripetuta ammissione, “imaginifico” finché si vuole ma non esattamente dotato di una profondità letteraria paragonabile a Proust, fa parte del secondo gruppo. i primi non sono migliori dei secondi e viceversa, ma insomma la distinzione c’è.
@ marchese
Il soprannaturale in King è esplicito, ma si tratta solo del primo livello interpretativo, non esaurisce affatto il discorso. Ogni libro di King in realtà è una metafora: Cujo non parla di un cane idrofobo ma di una crisi familiare; Christine non parla d’una macchina demoniaca ma dell’adolescenza; Shining non parla d’un albergo infestato ma di uno scrittore in crisi creativa; Pet Sematary non parla d’un cimitero stregato ma della morte dei figli; Misery non parla di un’infermiera psicopatica ma dell’atto dello scrivere; It non parla d’un mostruoso pagliaccio ma dell’infanzia; Cose preziose non parla d’un demonio venditore di cianfrusaglie ma del consumismo; e ancora il cancro, il tempo, la guerra, la tecnologia, Dio… Tutto ciò che King racconta (vede), esige a livello cognitivo uno spostamento, uno slittamento dei significati, e lo esige in senso stretto – se tale slittamento non avviene tre quarti del valore dell’opera va perso e rimane la superficie, magari scintillante ma pur sempre superficie. Il fatto poi che lui riesca così bene nel realismo pur occupandosi di faccende irrealistiche confonde ulteriormente i piani – alla maniera d’un prestigiatore i cui trucchi non sono trucchi, bensì un altro modo d’agire.
Sulle iperboli. A lungo ho creduto che King non godesse della considerazione critica che merita per via delle vendite e della popolarità, poi ho capito che dipende dal fatto che lui scrive roba troppo “strana”, roba che si stenta a prendere sul serio – moltissima gente fatica a prenderlo sul serio, più ne parlo più me ne rendo conto. Trovo tutto ciò assai bizzarro, perché King in verità si occupa solo delle questioni più serie ed è uno scrittore estremamente serio, e perché la nostra stessa esistenza è per moltissimi versi strana e assolutamente inspiegabile (a meno che non si ritenga, come accennava Lei in un commento sopra parlando di Siti ed Ellis, che siamo “scimmie fragili con un cervello troppo evoluto”). In tal senso considero la lettura di King ben lungi dal semplice intrattenimento, per quanto ben congegnato. Riguardo poi ai modi in cui King si autodefinisce (sempre fra il modesto e il sogghignante) non le ho mai prese troppo sul serio; un uomo che è un’industria editoriale e una rock star non ha bisogno d’alzare la voce, è abituato all’invidia ma soprattutto non può più avere una chiara e salda idea di sé stesso; e chi di noi ce l’avrebbe al posto suo? Credo sinceramente e senza scherzi che il suo planetario successo sia stato anche una croce per lui, una totale perdita dell’innocenza, una specie di sequestro di persona.
Il paragone con Proust infine mi pare fuorviante, come accostare un ciclista a un tennista; e occorrerebbe poi stabilire cosa si intenda per “profondità verbale”. Stephen King, attraverso i suoi sessanta romanzi e le sue cinque o sei raccolte di racconti, nonché attraverso i sette libri della saga della Torre Nera, ha scavato un autentico abisso; e come se non a furia di parole?
@marchese
La ringrazio per la risposta esauriente. Continuo a pensare che Neverneverland simboleggi il rifiuto di evadere (solo) nella fiction – e che quindi si inserisca in un quadro di ripensamento generale della scrittura stessa dell’autore – pur essendo consapevole che si tratta di un’ipotesi iper-soggettiva.
MWK avrà senz’altro inciso su LP, come in senso lato incide sempre il vissuto esperienzale su qualsiasi autore. Volendo indagare ancora tra i dati biografici (cosa che in generale considero inappropriata), si può dire che probabilmente ha inciso di più (con lo strascico della sua morte) proprio su Imperial bedrooms, avendo favorito il ritorno a Los Angels di Ellis, lo spostamento verso il cinema, il flop dell’adattamento di The informers, e il propiziarsi di un mood così negativo da essersi riverberato in profondità nell’ultimo romanzo (che potrebbe anche essere l’ultimo in assoluto). IB, oltre ad essere un seguito involuto di LTZ, è un compendio di tutto l’Ellis precedente: l’estrema violenza di AP (Clay adulto è più ‘nero’ di Patrick Bateman), il gioco di vero/non vero e il senso di paranoia e inseguimento di Glamorama, lo scarto metaletterario ulteriore dopo LP (l’io narrante è un personaggio che riprende l’identità che gli era stata sottratta dal presunto autore in LTZ). E in effetti è il suo unico libro davvero ‘sbagliato’, perché sembra quasi il lavoro di un manierista che scrive à la Ellis. Secondo me i difetti sono proprio strutturali, non c’era sostanza per un romanzo (oltre ad un’evidente mancanza di nuove idee).
Detto questo, io considero anche LP un testo che evidenzia una parabola discendente. Escluse le prime grandiose 35 pagine, il resto, seppure superiore al livello standard di uno scrittore ‘normale’, cerca soprattutto di soddisfare l’impianto teorico soggiacente al libro, ma è pieno di sequenze che si avvicendano le une alle altre senza una vera e propria necessità narrativa. In altre parole: in un territorio che non è il suo, sembra trovarsi a disagio anche il ‘vero’ Ellis. Idem per la scrittura, che non si giova dell’unico abbandono del present tense nella sua bibliografia. È infatti meno efficace del solito, ci sono troppi aggettivi e troppe notazioni psicologiche, si apre più sul sentimentale che non sul sentimento. Detto da un grande ammiratore di Ellis. Lei cosa ne pensa?
Ma davvero siete convinti che la sotto-narrativa neogotica per lettori post-alfabetizzati sfornata da Stephen King meriti i vostri peana e i vostri paragoni (scomodando Proust e, perché no?, anche Dante Alighieri)? Ma per favore…
risponderò con più calma dopo a tutti e due, ma vorrei prima fare una puntualizzazione. Gradirei evitare sotto questo post, che finora ha accolto solo interventi civili e ponderati, squalifiche aggressive ed entrate a gamba tesa, per giunta fuori argomento.
Chiedo a Eros Barone, pertanto, di contenersi, per rispetto dei lettori. Ma soprattutto, prego vivamente chiunque intervenga in questa discussione di non replicare in nessun modo alle provocazioni. Finora lo scambio, nella divergenza di opinioni, è stato bello e utile: non ha senso rovinarlo per così poco.
@macioci
non so, il discorso chiaramente non si esaurisce ma io lo vedo in modo diverso, pur convenendo su alcuni punti. Il termine “profondità verbale” era equivoco e me ne scuso: e pure “intrattenimento” si interpreta un po’ come un insulto. Spero di essere più preciso. i libri di King non si limitano a raccontare una storia coinvolgente e spaventosa ma parlano anche di temi più “generali” e di ampio respiro. Giusto: però non è quella la molla delle storie- non è quello che funziona di più, non è il motivo per cui io le leggo, non è il punto in cui King riesce di più. C’è il dolore di Louis Creed in Pet Sematary per la morte orrenda del figlio (mio episodio preferito nel romanzo), ma c’è anche quello del protagonista della Recherche per la morte della nonna. Onestamente, continua a sembrarmi meglio descritto il secondo, più stratificato, più facile identificarmici, perché lo/mi trovo più complesso della soluzione espressiva semplice spesso adottata da King, che spinge molto sul patetico, consapevolmente; e rischia una piattezza manichea che dà forza, ma toglie (per me) un certo valore alle “metafore” (come le chiama lei) presenti in tutti i suoi romanzi.
King parla di temi fondamentali, ma come ne parla? Quando cerca di scendere sul terreno di scrittori diversi da lui come un ciclista da un tennista, semplicemente non mi sembra all’altezza. Riprendiamo Pet Sematary. Nessuna riflessione straziante di Louis per la perdita del figlio (ma direi, nessun pezzo “riflessivo” dai romanzi di King) può pareggiare, credo, l’incursione notturna di Louis sulla tomba del figlio, e quel che succede dopo. In quella sola immagine -superba- King è capace di comunicare molto di più sul dolore feroce e inarreso di un padre per il figlio: è la sua capacità di visione. Il modo in cui King riesce a “parlare d’altro” parlando di storie d’orrore, secondo me, si realizza appieno qui, mentre altrove magari riesce più piatto, manicheo e posticcio (mi viene in mente il bruttissimo finale di Shining – ebbe ragione Kubrick a cassarlo del tutto dal suo film).
Ma questo non significa, secondo me, che King “non parli di x ma in realtà parli di y”. Il talento di King risiede certamente nel saper costruire verosimili mondi di finzione in cui i personaggi non sono pupazzi a molla che scattano di fronte a uno stimolo, ma persone inserite in un mondo complesso che rispecchia quello dei lettori e accresce i loro confini: ma è dall’orrore, dall’imprevisto fantastico, dall’inaudito nelle pieghe di un mondo troppo “realistico” che partono le sue storie. E nella descrizione della paura, nella visione orrorosa o stupefacente, a volte King riesce a inglobare paure più grandi: cosa ne sarà di noi, perché restiamo soli, perché chi ha il potere ci prevarica costantemente, e simili.
Ma la molla delle sue storie, lo ripeto, parte e torna sempre al semplice “cosa succederebbe se questa cosa incredibile avvenisse …?”. è un approccio ludico, se si vuole, ma come per tutti gli scrittori di valore (e penso che King lo sia), preso molto seriamente. Altrimenti King non ci avrebbe speso tutta la vita, non ci avrebbe costruito storie incredibili, non avrebbe usato questo meccanismo per esprimere tutto un mondo interiore, no? Anche per questo, via, non liquidiamo con un sorriso le autodefinizioni di King: in questo caso, non mi sembrano depistaggi. Né credo molto a un King dissociato e distrutto dal successo: a me risulta che i problemi ce li abbia avuti soprattutto prima di diventare famoso …
@mirarchi
Grazie a lei (anzi, mi manda il suo intervento? mi interessa). Cercherò di essere meno esauriente, per non diventare prolisso. L’ipotesi su Neverneverland mi lascia perplesso, ma ci rifletterò.
Mi piace molto invece l’interpretazione di IB: lo pensavo anche io, ma non ero riuscito a esprimerlo così, quindi grazie. In effetti la tendenza a “sintetizzare” la sua opera precedente, presente già in LP, diventa in IB molto forte, con effetti manieristici. Però LP era un libro manierista, eppure funzionava (in questo dissento dalla sua opinione). Lì c’era una riconsiderazione di tutti i temi precedenti e una riproposizione, di volta in volta, ironica o sentimentale, condotta con uno stile sempre “scintillante” e superficiale ma più intenso -soprattutto in The Beginnings, ma anche nel resto del romanzo. Le volte in cui la storia sembrava tirata via, mi pare, sono quelle in cui Ellis rifà la maniera di King o di altri scrittori di tensione, o in cui al contrario diventa sentimentale, verso la conclusione. Ma è quello l’effetto che Ellis vuole dare, fa parte del processo di autoscrittura, di trasformazione di se stesso in una figura di carta, invischiata nelle proprie sperimentazioni narrative, che però hanno finito per rovinargli davvero l’esistenza (distruggendogli la famiglia, per esempio). C’è una bella riflessione in Il realismo è l’impossibile di Siti proprio su questo, cioè sul fatto che “Il sentimentalismo è il rovescio anti-realistico del sentimento”.
In LP mi sembra funzionare, questo anti-realismo che è uno dei tratti peculiari dell’autofiction. In IB no, perché in effetti non c’erano molte idee. IB ha preso da tutti i romanzi precedenti, è vero, ma in fin dei conti quello più rubato (anche dichiaratamente) è Less than Zero. Ne ha ripreso le atmosfere, inserito l’impasto in una cornice di spy-story alla Chandler e condotto il tutto verso una fine scontata … no, non mi convince. Peccato, perché l’inizio, così ferocemente anti-realistico con il doppio di Ellis che parla dello scrittore Ellis come un intruso che ha fatto un torto, mi aveva intrigato assai. Forse non se l’è sentita di spingersi oltre nelle sperimentazioni, ha temuto di perdersi, e così Clay si è ripiegato nel suo nichilismo assoluto, accompagnato solo da un’inutile confessione di vigliaccheria (“Non ho mai voluto bene a nessuno, e le persone mi fanno paura”).
@ marchese
La ringrazio del prolungato dibattito e condivido appieno il Suo commento, davvero; ribadisco infine quanto ho prima detto: King è un narratore pieno di difetti (e per di più ha scritto alcuni romanzi deprecabili).
La sua forza sta nel far parlare la storia, in ciò risiede la sua magia – e così facendo si pone specularmente a chi pratica autofiction, mi pare. Il fatto poi che zoppichi, come Lei giustamente sottolinea, ogniqualvolta provi a sentenziare oppure a “riflettere” dimostra, a mio avviso, una certa incompatibilità (che non è forse solo sua personale) fra storia e autofiction… Non Le pare che Lunar Park “gratti” laddove l’io di Ellis e la storia del ritorno di Bateman confluiscono/confliggono? Che insomma l’ego tenda a fagocitare l’immaginazione trans-egoica – a fagocitare cioè un prodotto che sia veramente altro-da-sé?
Ultima nota su ciò che Lei chiama “imprevisto fantastico”. Non sono convinto ch’esso sia il più grande talento di King, benché sia di certo il più evidente. Il suo realismo, la sua capacità di creare non solo personaggi ma vere e proprie comunità con tanto di strade, piazze, negozi, empori, ristoranti, parchi, ecco, questa sua “resa plastica” mi sembra alla pari della vena fantastica, un’iperrealtà palpitante di vita. E poi ci sono libri in cui l’elemento fantastico non è presente, o se lo è quasi quasi indebolisce il fuoco drammatico: penso a Stand by me, Il miglio verde, L’ombra dello scorpione, La zona morta, o il meraviglioso (sebbene in parte) Cuori in Atlantide.
King mi piace. Nei pregi e nei difetti somiglia un po’, in sedicesimo, a Dickens (forza di narratore, senso acuto del bene e del male, realismo psicologico e sociale inquinato di sentimentalismo, furbizia, lietofinismo).
L’elemento fantastico/horror è dettato dall’esigenza di situarsi sul mercato dei generi letterari, certo; ma mi sembra risponda anche a un’altra esigenza, ideologica, più profonda: allegorizzare quanto non potrebbe essere espresso direttamente e realisticamente senza mettere radicalmente in questione i valori di fondo a cui lo scrittore e il suo pubblico sono legati, cioè quelli della democrazia americana liberal.
In questo, il suo armamentario horror mi ricorda molto il dramma barocco, e in particolare il teatro gesuitico della Controriforma. Anche lì, l’allegorizzazione sistematica di facoltà mentali e spirituali confliggenti consente di non inscenare mai *direttamente* e *realisticamente* i conflitti politici e sociali e la crisi della religiosità cattolica che tormentano autori e pubblico; e di risolverli, questi conflitti, sempre positivamente. Mentre in realtà il materiale trattato, e la sensibilità stessa degli autori, condurrebbe in direzioni assai meno consolanti e rassicuranti (si veda ad esempio il “Phylemon Martyr”, un’opera eccezionale per forza inventiva costretta dentro la Vergine di Norimberga di un precetto-preconcetto politico-teologico).
Eh, semmai sono io che cercherò di non essere prolisso. Nel precedente intervento non intendevo dire che LP non funzioni, mi riferivo ad una considerazione generale sull’opera di BEE, che trova una relativo sostegno anche nelle date di pubblicazione: tra l’85 e il ’91 i primi tre libri (e AP era già pronto dall’anno prima), Glamorama, il suo lavoro di maggior rilievo (al netto delle imperfezioni, nel ’98). Poi sette anni per LP e altri cinque per IB, che deriva dal lavoro di rilettura generale necessario per LP. In sostanza, anche come approccio al romanzo, nell’ultimo decennio c’è stato un ripiegarsi all’indietro, quasi che Ellis non riuscisse a liberarsi della condanna ad un’eterna giovinezza – tutti i suoi coetanei sono emersi almeno dieci anni dopo – e sentisse più forte il bisogno di chiudere i conti e magari dedicarsi ad altro (speriamo non solo a Twitter e a sceneggiature sterili).
Io penso che LP “funzioni”, credo che The beginnings sia una delle cose migliori che ha scritto in assoluto, ma noto uno stacco abbastanza evidente nella qualità della scrittura rispetto al resto del libro (è un parere personale, Giuseppe Genna o Cristiano de Majo, per dire, promuovono la globalità del testo).
Il mio discorso si riferisce in particolare ad una valutazione di efficacia stilistica e forza iconoclasta, che mi sembrano un po’ annacquate nel corpo centrale di LP. Quanto poi all’aspetto (meta)narrativo, la costruzione è complessa e articolata (pure troppo, forse: è vero, non c’è quasi una proposizione che non sia funzionale al disegno, però a volte mi pare ridondante).
Sul discorso del doppio, forse per Lunar Park dovremmo parlare di un “triplo”. Nel senso, trovo che in Siti la dicotomia tra l’autore reale e il protagonista della trilogia, pur se indiscernibile, sia comunque più netta. Ellis, avendo avuto un successo mondiale a vent’anni, è sempre stato egli stesso un personaggio (mediatico). Non c’è una progressione lineare (pure Houellebecq è stato prima scrittore e basta e poi scrittore-personaggio-controverso). Quello che voglio dire è che il doppio di Ellis in LP non è solo il personaggio a chiave che consente di esorcizzare la figura paterna e quant’altro, è anche la satira del personaggio “reale” filtrato e distorto dai media. Un esempio è la festa di Halloween dove compare McInerney, che tira coca come se non fossero mai finiti gli anni ’80, mentre invece adesso si dedica soprattutto ai vini pregiati. Però quella è l’idea cristallizzata di Ellis nell’opinione pubblica. Se Ellis morisse domani sarebbe ricordato quasi esclusivamente come il trasgressivo cantore degli anni di Reagan. Io credo che lo stacco con il passato avvenga anche a questo livello. E non è detto che l’età “adulta” di BEE trovi un effettivo controcanto nella scrittura se appunto smetterà davvero con i romanzi. Tanto è vero che la sceneggiatura di The canyons è l’unico lavoro di Ellis, ad oggi, retrodatato rispetto all’età dell’autore mentre lo scrive.
Per quel che riguarda IB, non mi sento di aggiungere molto, se non che forse, rispetto a LST, la differenza è più marcata nel personaggio di Clay (in IB si presenta come il “vero” Clay, dopo la sua versione apocrifa realizzata dal presunto autore reale venticinque anni prima). E in effetti la distanza è forse evidenziata proprio dalla diversa età e consapevolezza di Ellis. Riferendoci a quanto detto sopra, possiamo dire che l’unica stesura avvenuta in un clima di innocenza (prima del successo inaspettato e travolgente), sia stata quella di LTZ. E questo si riflette, credo, nel residuo di umanità che ancora permea il personaggio, pur nella sua apatia quasi ontologica. Il Clay post-quarantenne, ma possiamo dire quasi tutti i protagonisti ellissiani succeduti a LTZ, con l’umano, non hanno molto a che spartire. Clay di Imperial bedrooms è ormai un buco nero che assorbe e distrugge ogni residuo di vita che gli stia intorno, è la negazione del processo creativo, è forse la fine della narrazione.
Il mio pezzo sull’autofiction glielo mando volentieri, basta, ad esempio, che mi scriva all’indirizzo di posta che ho usato per commentare su Le parole e le cose, e lo invierò subito. Anzi, quando sarà pronto, mi farebbe piacere leggere il suo lavoro complessivo sul tema (credo di aver letto che quello riportato sopra è solo un capitolo).
nel momento in cui questo post esce dalla prima pagina, ci tengo ancora a ringraziare di cuore tutti quelli che l’hanno letto e quelli che l’hanno commentato: non me l’aspettavo. passo alle risposte.
@macioci e buffagni
Condivido molte delle cose che dite. Anche se ormai non lo metterei nel novero dei miei scrittori preferiti, non si può liquidare King come spazzatura post-alfabetizzata: ha cavalcato le paure di diverse generazioni post 1970 con una forza icastica che non ha molti eguali. Il fatto che abbia poi molti difetti di scrittore (e scivoli, quando tenta di “riflettere”, nella retorica, nel mélo involontario) non sminuisce la sua grandezza, anzi resa più singolare. Dickens in sedicesimo? Mi piace come definizione. Di sicuro non è uno scrittore dall’ego fagocitante, né uno portato, per la sua fisionomia di narratore, all’autofiction. On Writing lo dice chiaramente: è uno scritto autobiografico con molte particolarità, ma non pretende di essere un’autobiografia insieme dichiaratamente fededegna e spudoratamente inventata. A margine, sarei curioso di sentire da Macioci quali sono i romanzi di King che considera deprecabili -anche solo per vedere se coincidono con i miei …
Due ultime osservazioni sulle vostre analisi. Anzitutto, devo dire che, se non mi esalta il Buffagni politologo, quello che si occupa di letteratura mi trova molto spesso d’accordo. In particolare questa affermazione:
L’elemento fantastico/horror è dettato dall’esigenza di situarsi sul mercato dei generi letterari, certo; ma mi sembra risponda anche a un’altra esigenza, ideologica, più profonda: allegorizzare quanto non potrebbe essere espresso direttamente e realisticamente senza mettere radicalmente in questione i valori di fondo a cui lo scrittore e il suo pubblico sono legati, cioè quelli della democrazia americana liberal.
Questa adozione dell’elemento fantastico risponde, sono d’accordo, a un’esigenza profonda che potrebbe farsi risalire alle origini della più schietta tradizione letteraria americana, che mescola orrore per l’invasione “straniera”, gusto per il fantastico e pulsioni freudiane sin nelle storie del folklore popolare. King è un ottimo interprete di questa tradizione, delineata a suo tempo da Leslie Fiedler in quel saggio fondamentale che è Love and Death in the American Novel (1960). Per comprendere King (di cui Fiedler ovviamente non parla), mi sembra un testo importante.
Inoltre, @macioci, quando parla di realismo in questi termini:
Il suo realismo, la sua capacità di creare non solo personaggi ma vere e proprie comunità con tanto di strade, piazze, negozi, empori, ristoranti, parchi, ecco, questa sua “resa plastica” mi sembra alla pari della vena fantastica, un’iperrealtà palpitante di vita. E poi ci sono libri in cui l’elemento fantastico non è presente, o se lo è quasi quasi indebolisce il fuoco drammatico: penso a Stand by me, Il miglio verde, L’ombra dello scorpione, La zona morta, o il meraviglioso (sebbene in parte) Cuori in Atlantide.
Non posso che trovarmi d’accordo (tranne che sulla non-centralità del fantastico nell’Ombra dello scorpione). Ho omesso di notarlo, ma King è molto bravo a ricreare atmosfere della vita di provincia americana negli anni ’50-70. Nei casi migliori (Stand By Me, metterei anche It), le descrive come se fosse un ragazzo che per la prima volta conosce il mondo e inizia ad avventurarsi fuori, fa della vita di provincia una piccola mitologia molto bella da leggere.
a Lorenzo Marchese.
Grazie. Colgo l’occasione per precisare brevemente il mio pensiero. King mi sembra un Dickens “in sedicesimo” solo perché Dickens è uno scrittore incomparabilmente migliore di lui.
Per il suo valore sintomatico di correnti profonde della cultura americanista sua contemporanea, King è molto più grande di Dickens, perché le esprime in diretta, con pochissime mediazioni: l’unica mediazione a cui fa ricorso quasi sempre è l’armamentario fantasy/horror. In realtà King parla, anzi dice pari pari due-tre cose, sempre le stesse: l’atrocità dei rapporti di classe e della competizione sul mercato delle merci, dei sentimenti, del riconoscimento sociale; il desiderio straziante del padre giusto sempre assente, l’incontro reiterato con una sequela di padri terribili o impotenti; l’agnizione che l’eccezionalismo americano è falso, e che sotto la “city on the hill” ci sono i mostri.
@ buffagni e marchese
Qualche breve notazione a margine delle vostre condivisibili osservazioni.
Sul lieto fine in King. Ci sono romanzi di King realmente disperati e disperanti. Vedi Pet Sematary. Vedi Cujo (nel film il bimbo non muore, nel romanzo sì, e King ebbe a dichiarare che era la storia a esigerlo). Vedi La zona morta. Vedi Stand By me. Vedi Christine, o Carrie, o Shining, o Il miglio verde. A me sembra piuttosto che nei libri di King il Bene (se così vogliamo chiamarlo) debba pagare una tassa alta, a volte altissima per trionfare – posto che lo faccia, dato che c’è sempre un tenebroso margine d’ambiguità. E mi sembra che King abbia ben chiara questa zona grigia (e dunque sotto tal punto di vista non lo definirei manicheo); lui sa, come ebbe a dire una volta non ricordo più chi, che un serial killer può aiutare una vecchietta ad attraversare la strada; oppure, per usare le sue stesse parole in Cose preziose (altro romanzo in cui per arrivare al Bene occorre traversare un’autentica apocalissi) lui sa che “il diavolo ha la voce melodiosa.”
La sua più grande forza è nell’immediatezza viscerale cui voi avete giustamente fatto cenno. Le sue storie (e qui mi rifaccio a un mio precedente commento) riescono a parlare degli eventi che raccontano ma anche di molto altro, e quest’altro sta in una zona profonda, delicata e sensibilissima che appartiene a noi tutti. In tal senso King è un grande – e diabolico – psicologo. Sa cosa ci spaventa, ma anche cosa ci fa ridere e cosa ci fa piangere.
Sui libri mal riusciti, di cui mi chiedeva Marchese. A me sono sembrati davvero brutti L’incendiaria, Insomnia, L’acchiappasogni, Mucchio d’ossa, L’occhio del male, Le creature del buio, I vendicatori. E non sono un ammiratore di It (qui mi rendo conto di trovarmi davvero in nettissima minoranza). Comunque, in ciascuno dei suddetti lavori c’è qualcosa di buono.
ps: un altro attentissimo lettore italiano di King, che prima non ho citato, è Michele Mari; sul romanziere del Maine, che ammira moltissimo, ha scritto riflessioni profonde ed ispirate, che si trovano nel suo bel libro I demoni e la pasta sfoglia.
grazie ancora. per rispondere @ buffagni, però, non mi sembra che King usi “pochissime mediazioni” per esprimere il mondo culturale suo contemporaneo; lo stesso uso di certe strategie retoriche, che intaccano profondamente la psicologia dei suoi personaggi, l’adozione consapevole di certi stereotipi nella trama (il romanzo corale con ogni singolo personaggio “rappresentativo” di una categoria: quante volte l’ha fatto?). Non convengo nemmeno con tutti i punti che ha esposto con lucidità; dov’è che King parlerebbe dell’atrocità dei rapporti di classe, nelle sue opere? A me sembra anzi che questa “rappresentazione” della competizione sotto gli aspetti dal capitalismo come della dialettica fra classi sociali o fra amanti e oggetti del desiderio, gli manchi del tutto. Non mi pare che sia un tema che gli interessa troppo … Mentre sarei più possibilista sulla concezione di una narrazione costellata di padri in negativo (impotenti o troppo potenti), anche se cambierei padri con “autorità”; e mi spingerei fino a parlare di “divinità” in certi casi – c’è in King una religiosità immanente connessa a un’idea di ciclicità cosmica che a volte (nell’Ombra dello scorpione, in It) mi fa chiedere se King abbia mai letto Nietzsche a modo suo.
@ macioci
non ho più ,molto da dire, perché mi trovo d’accordo con quello che scrive. Così, non mi stupisce nemmeno che i libri che ha citato siano quelli che dispiacciono anche a me. Davvero! Salvo solo l’Acchiappasogni (perché non l’ho letto) e parzialmente It. Si tratta di un’opera-mondo che vorrebbe creare un’epica dell’infanzia come risorsa per vincere la morte, e con queste premesse non me la sento di condannarla in toto per le sue molte imperfezioni. Inoltre, It è straordinario quando parla di quotidianità, di rapporti fra persone, di scene di violenta vita provinciale nell’America anni ’50 – solo quando compaiono i mostri cala di molto. Mari vorrei comprarlo prima o poi, mi manca come saggista …
ps: non posso non mettere questo, per sdrammatizzare il dibattito =)
@ mirarchi
non mi ero dimenticato di lei, ma ho pensato molto al suo intervento e non sono ancora giunto a trarre delle conclusioni accettabili. solo due cose:
1) Anche io penso che la “dicotomia fra autore reale e protagonista della trilogia” sia più netta in Siti che in Ellis, perché in fondo Ellis è uno dei pochi scrittori ad aver raggiunto lo status di celebrità ed essere universalmente noto (mentre non è considerato molto dalla critica, come mi è stato giustamente fatto notare all’inizio delle mie ricerche). Senza dubbio Ellis ha giocato molto sulla distorsione mediatica che ha insieme subìto e cavalcato con profonda consapevolezza. Credo però che la “dicotomia” sia più netta in Siti soprattutto perché Siti si è sempre preoccupato di segnarla, marcarla, indicarla in saggi e interviste, perché, essendo un critico di formazione, tende nella sua narrazione a incorporare la forma del saggio, e al contempo ad accostare la narrazione e una rivelazione (parziale, a volte ingannevole) dei suoi meccanismi. Ellis, che non è un critico letterario e non ha particolari desideri di avere (e diffondere) un’idea di realismo, non fa mai troppe distinzioni, è più reticente. Questo, manco a dirlo, crea qualche difficoltà interpretativa a chi legge.
2) Siamo d’accordo che Clay è l’archetipo del personaggio ellisiano, ma non direi che è l’unico “ingenuo” in cui risieda un pizzico di umanità. Clay è un nichilista ed è consapevole di esserlo, il che in minima parte lo riscatta e gli permette una comprensione delle cose che le persone intorno a lui non sembrano avere: per questo, Clay sembra un pazzo, uno che sta sempre fuori posto e sbaglia, pur riuscendo a tratti a identificarsi con il resto dei demòni. Segue il copione, sa che è tutta una farsa crudele, ma non riesce ad abbandonare il set, perché in fondo sa che un’alternativa a quel mondo di desiderio e di liceità non è possibile (in questo senso, il post di Guido Mazzoni di oggi, qui, mi sembra esemplare). E non mi pare che i successivi personaggi di Ellis siano tanto diversi. D’accordo, Bateman è un po’ più sadico, Victor Ward parecchio più stupido, Bret Easton Ellis un mix di tutti questi (ed è incline al sentimentalismo): ma tutti partono dal modello di Clay, capiscono, a sprazzi, in che razza di mondo vivono, conoscono la disperazione (non in modo continuato, certo), sono più infelici proprio perché hanno la comprensione (e la parola). In questo senso, Ellis è un narratore ripetitivo – e che dire del suo uso della prima persona? L’ultimo Clay di IB, in effetti, sembra post-umano e nero, ma non riesce. Sul perché, ci devo ancora pensare bene ..
Mi può inviare il suo pezzo a questo indirizzo: lorenzo.marchese@sns.it . lo leggo con piacere. Il lavoro complessivo sull’autofiction è la mia tesi di laurea, su cui vorrei tornare a breve per farne qualcosa di consistente e fatto meglio.
@ marchese
Interessante il sasso (o masso…) che Lei getta nello stagno citando Nietzsche. Anch’io mi sono posto qualche volta la Sua stessa domanda. Giusto per curiosità, in epigrafe a Misery c’è il famoso aforisma del filosofo tedesco: “Quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te.”
Per es. leggendo Harold Bloom (il quale, sia detto per incidens, detesta e disprezza King) ho avuto la sensazione che in America Nietzsche venga piuttosto frainteso – il che rimanda a una sostanziale idiosincrasia fra intellettuali europei e americani. In ogni caso Nietzsche mi sembra troppo sottile per la “rozzezza” istintiva di King.
Concordo in toto su ciò che Lei dice a proposito di It, un libro che anch’io finisco per salvare, nettamente.
In che opera Bloom parla di fraintendimento di Nietzsche da parte degli intellettuali americani? mi interessa
ps: Non mi hanno ancora creato Cardinale, non mi dia del Lei, per favore XD
ho capito ora che la sensazione di fraintendimento è sua e non è espressa da Bloom
sono un po’ rimbambito, scusi
@ marchese
Come al solito la ringrazio per il tempo che dedica ai miei interventi. Vorrei però aggiungere che si tratta di pareri soggettivi in un contesto dialogico, seppure differito nel tempo. Questo per dire che in ambito saggistico sarei più cauto nell’argomentare e mi baserei su presupposti più consolidati. Bene, procediamo.
È innegabile che in Siti il passato da critico e da docente abbia delle forti ricadute nella sua scrittura, anche perché l’esordio nella narrativa è arrivato in età avanzata ed è stato accompagnato da un attento lavoro di analisi dei temi affrontati nei romanzi. Siti spazia tra diversi registri, sia nel linguaggio che nei contenuti, con una padronanza che non è certo la norma nella narrativa italiana contemporanea. Anche Houellebecq, se vogliamo restare su questi autori, varia i registri ben più di Ellis, e questo consegue anche dalla sua formazione scientifica e dagli interessi in ambito filosofico. Io però non sono solito valutare gli scrittori di fiction per quante cose mi sanno dire o per il loro virtuosismo (questa non è una critica che rivolgo a Siti o a Houellebecq ma che ad esempio spiega, in parte, la mia difficoltà nell’apprezzare certi aspetti dell’opera di David Foster Wallace). A me interessa come un romanzo viene scritto (e sul piano stilistico ben poco si può rimproverare a Ellis), e come vengono rispettati o meno gli equilibri interni al testo, equilibri che lo avvicinano o meno alla sua necessarietà espressiva. A dispetto di quanto in genere si pensi, Ellis è uno scrittore serissimo nell’affrontare tematiche in apparenza frivole e si basa solo su quello di cui ha un’esperienza diretta. Ellis non scrive per farsi dire quanto è bravo; scrive, con estrema cura, le uniche storie che si sente ‘in grado di’ e ritiene imprescindibile raccontare.
Non credo che Ellis sia l’unico scrittore ad aver raggiunto lo status di celebrità e ad essere universalmente noto, pensiamo a Rushdie (ma lì c’entra la fatwa, altrimenti non so quanti avrebbero superato la noia dei Versetti satanici), o ai milioni di follower su Twitter di Paulo Coelho. Prevengo subito l’obiezione, Coelho non è uno scrittore. Sono d’accordo, anche se pure di questo, in teoria, si potrebbe discutere. Ma il punto è un altro, e ci permette di toccare il punto della ricezione da parte della critica ufficiale di BEE.
Tanto per cominciare, di solito i critici sono miopi riguardo al presente. Conta molto l’aria del tempo, l’ideologia, l’area di provenienza, la moda letteraria. Ad esempio: Ellis è ripetitivo, certo, ma quante volte Philip Roth ha rimestato negli stessi temi/argomenti/situazioni? Non dirò certo che Roth non è grande, ma se pubblichi un libro meno che ogni due anni per forza la qualità scende. E in ogni caso, se oggi si parla di Roth è perché ha avuto un decennio straordinario dopo i sessanta anni: fosse morto nel ’90 oggi si ricorderebbe giusto Portnoy come documento di un’epoca.
Ok. Mi scuso per la divagazione.
Miopia a parte, Ellis presenta altri problemi specifici.
Non gli viene perdonato il vasto successo. La critica preferisce scrittori lacerati ed elitari (spesso solo i critici stessi, appunto). Coelho vende ma non ha alcuno spessore quindi resta nella sua casella di mondo senza dare sostanziale fastidio.
Ellis non è uno scrittore di genere, è uno scrittore puro, e questo provoca un corto circuito. Prendiamo American Psycho: non è eccessivamente più violento del Silenzio degli innocenti di Thomas Harris, però quello è un thriller, quindi la violenza è accettata. Ellis, per riassumere, scrive ‘troppo bene’ perché gli sia perdonato di inserire violenza e/o sesso pornografico nella letteratura mainstream: non si tollera l’anomalia. In più: Bateman non paga per i suoi crimini (anche se tutto lascerebbe supporre che siano costrutti mentali), e nemmeno questo è gradito al moralismo finto pedagogico di molta critica.
Il personaggio Ellis: non solo vive come una rockstar (vent’anni fa e molto meno di quanto si creda, ad essere precisi), ma non fa mai nulla per piacere, per ingraziarsi gli intellettuali di riferimento, non entra nei giri letterari che contano, non scrive saggi, non pubblica racconti sul New Yorker, anzi, sostiene quasi esclusivamente posizioni unpolitically correct.
Mettiamoci pure i suoi soggetti, che fanno a pugni con tutti i temi profondi della letteratura “alta”, e otteniamo un quadro piuttosto esaustivo. Anche se poi in Europa, specie in Francia, è molto meno bistrattato che negli Stati Uniti.
Proviamo per un attimo a sentire l’altra campana: Ellis ha scritto un libro decente per sbaglio a vent’anni, è diventato uno scrittore di culto con AP solo per le scene eccessive e per lo scandalo programmato – anche perché altrimenti il libro sarebbe di una noia normale o quanto meno troppo lungo. Glamorama, ancora peggio: si potevano tagliare almeno duecento pagine, esaspera le idee di AP, sceglie un protagonista idiota e si rifugia in un comodo nonsense alla Lynch quando non sa dove andare a parare. Sorvoliamo sugli ultimi due libri che vampirizzano il già detto. Insomma dipende dai punti di vista.
Potrei aggiungere delle note su Clay ma penso di essere già stato troppo fluviale.
Le mando il pezzo appena possibile.
PS Ho usato il Lei seguendo il vostro esempio, non ho alcun potere ecclesiastico e soprattutto.. non sono così vecchio!
a Lorenzo Marchese.
Preciso, premettendo che di King lei ne sa mille volte più di me, che ho letto qualche suo libro con piacere ma distrattamente.
a) atrocità dei rapporti di classe. Bè, di che altro parlano i primi libri firmati R. Bachman? Anche nei piccoli gruppi di adolescenti marginali alle prese con vari orrori, reali o fantasy, da The Stand a L’ombra dello scorpione, mi sbaglierò, ma a me pare che la vera paura e il vero orrore di cui si parla sia la paura di non farcela socialmente; di solito, la paura di essere condannato a ripetere il fallimento sociale (e anche personale, esistenziale) dei propri padri (dev’essere anche un tema autobiografico, per quel che ne so di King). Ricordo che la marginalità sociale, negli USA, non è una cosetta gentile e moderata: lo stiamo imparando anche qui da noi, con lo smantellamento dello Stato sociale. Una marginale USA non può curarsi decentemente.
b) parlo di poche mediazioni nel senso di “poche mediazioni culturali e tecnico-letterarie”. Non è una critica negativa, è una descrizione. King è uno scrittore americano popolare. Poi, certo che è bravo ed efficace, e per niente stupido, ci mancherebbe. Semplicemente, il suo orizzonte mentale non è quello della cultura borghese europea, come invece lo è per tanti scrittori americani, anche quelli che cercano di allontanarsene, come ad esempio Hemingway o Pynchon o Vonnegut. E’ persona nata e vissuta nell’orizzonte della cultura popolare americana.
al cardinal Marchese :-)
Bloom parla di Nietzsche ne Il genio, nel breve ma denso I vasi infranti e ne La saggezza dei libri, mi pare; poi lo cita qua e là. Per lui Nietzsche è sostanzialmente un erede tardivo di Goethe o Montaigne, un geniale mislettore, e il suo merito principale starebbe nel suo modo di leggere e approcciare le opere. In ciò Bloom sottovaluta l’incredibile e originalissima potenza stilistica e visionaria di Nietzsche, che a me (che comunque mastico poco la filosofia) sembra l’esatto corrispondente di Rimbaud o Van Gogh nei rispettivi ambiti (sono anche tutti contemporanei quando non coetanei). In ogni caso Bloom, che è un grande critico, inciampa in numerose sciatterie e ossessioni (tipo quella, davvero stucchevole, per Shakespeare) che lo fanno scadere; e in particolare non rende giustizia alla cultura mitteleuropea e francese, che liquida spesso con malcelato disgusto.
@ mirarchi
Condivido appieno il suo discorso sulla collocazione critica di Ellis.
@buffagni
Credo che il tema principale di Stephen King sia la paura della morte e il fatto che, nonostante essa, noi umani riusciamo a non impazzire. In fondo lo ha ammesso chiaro e tondo anche lui nella postfazione all’enigmatico Colorado Kid. Ma nei suoi libri ci sono, senz’altro, i temi che Lei indica (in particolare quello della figura paterna; il padre di King uscì a comprare un pacchetto di sigarette quando Stephen aveva due anni, e non tornò mai più).
scusate il ritardo ma in questi giorni sono stato un po’ indaffarato. Dunque:
@buffagni
Non stia sulla difensiva, non voglio fare la gara a chi ha letto di più o capito meglio quei testi. Per come ha detto, in effetti, i romanzi di Richard Bachmann a volte hanno una forte componente di polemica sociale/antiborghese, “L’occhio del male” in questo è esemplare. Ce n’è un altro, intitolato “L’uomo in fuga”, in cui un sottoproletario di un futuro prossimo partecipa a un reality in cui gli danno la caccia per divertimento, e lì pure i rapporti di classe si delineano in modo decisamente atroce (rozzamente anticipatore): ma tutta la rabbia che sfocia in questi romanzi (tutti più o meno dei primi anni ’70, in cui King in effetti è più vicino per condizione a un sottoproletario che a un borghese, e in più è tossicodipendente e alcolizzato) mi sembra sfaldarsi sulla pagina. Si tratta, insomma, di brutti romanzi, magari “scritti col sangue alle dita” ma veramente insipidi a leggersi quanto forti nelle tinte. Quando King parla direttamente di quest’argomento, mi sembra non andare troppo lontano.
Eppure … come non concordare con quello che lei dice? La marginalità sociale in USA è un problema serissimo, oserei dire che è il mostro nella stanza con cui non si può non fare i conti. Forse King introietta questo mostro parlando di figli che hanno paura di deludere i padri, di padri che sentono di fallire gli scopi della vita, di rapporti familiari e di classe sempre sull’orlo della disgregazione. In questo senso, sì: parlerei di atrocità dei rapporti di classe in King. Non mi spingerei a mettere più a fuoco, perché non credo che la cosa sia più dettagliata in King, ma potrei sbagliarmi. Riguarderò. Sicuramente c’entra la situazione personale di King, uno sempre in bilico fino a quando non ha sfondato, col padre assente e un sacco di problemi: mettere mano all’autobiografia sarà inelegante, ma a volte aiuta parecchio per la comprensione di un autore. In questo concordo con @macioci, ovvio. E pure su Bloom. Diciamoci la verità, si è un po’ sclerotizzato nel suo gnosticismo, che da posizione rispettabile e forte è diventato macchietta, e su certe cose (su Baudelaire per esempio) sbaglia del tutto … Sarebbe interessante rimandare proprio a un articolo critico verso lo gnosticismo di Bloom uscito, credo nell’85, sulla “Nuova rivista di letteratura italiana”. L’autore era Walter Siti (così lo reimmettiamo nel dibattito, va’ :P )
@ marchese
Ho riletto negli ultimi giorni, sollecitato da questo dibattito, Lunar Park. Devo dire che l’ho trovato molto più pasticciato, disorganico e irrisolto di quanto ricordassi. Non mi ha fatto una buona impressione. Ellis si ricollega sostanzialmente (ed esplicitamente) a tre romanzi di King: La metà oscura, Finestra segreta giardino segreto e Shining; ma in tutta franchezza non riesco a capire se lo faccia in chiave ironica o se sia davvero così… imbranato. Molti passi sono imbarazzanti e molti altri comici; in certi l’ironia è evidente – e anche riuscita; in molti altri invece se c’è una parodia non riesce, e se non c’è parodia beh, insomma… Concluderei affermando che laddove Ellis sfida King sul terreno del soprannaturale e dell’horror ne esce annientato, e che Lunar Park conserva il proprio valore nel gioco sono Bret/non sono Bret e in alcuni passaggi direi filosofici sulla società e sul mondo attuali – specie riguardo l’alienazione, il materialismo, la deriva etica. In definitiva, un romanzo che alla seconda lettura esce ai miei occhi ridimensionato.
ps: un’altra cosa: il vero valore di Lunar Park risiede forse nel fatto che l’autore si sia messo a nudo come nessun altro, “chiedendo scusa” per aver scritto un orrore, un abisso come American Psycho. E’ una tesi bizzarra e magari insostenibile (chi può entrare davvero nella coscienza vasta e contorta di B. E. Ellis?); ma in questa sorta di confessione, in questa postura penitenziale risiede l’unicità di Lunar Park; quanto vale però esteticamente, artisticamente un simile passo?
@macioci
scusi il ritardo, ho avuto qualche impegno. Ma devo dire che sono molto contento di aver suscitato, con il mio breve intervento, la rilettura di un testo che continuo a considerare importante.
Il discorso dei rapporti intertestuali di Ellis con King è complesso, e non può essere ricondotto, a mio avviso, né a uno sforzo di ridicolizzare King con strategie ironiche o sarcastiche, né a una sfida verso King (non mi pare che Ellis voglia scrivere una storia come farebbe il Re). C’è un uso ironico dei materiali di King, se per ironia intendiamo “dissimulazione”: Ellis dissimula, sotto le creazioni anti-realistiche dell’horror di King, l’orrore personale di una vita privata distrutta dal suo essere scrittore, dal fatto di creare storie di finzione che guastano mondi reali. E credo che tale “orrore” abbia poco a che vedere con la fama, o con un presunto rimorso di aver scritto American Psycho. Non è quel libro (al quale danno importanza decisiva per tutto l’Ellis successivo più i lettori che Ellis stesso), a perseguitare Ellis. Né vedo “posture penitenziali” di sorta, a meno che non siano inconsce: perché Ellis dovrebbe chiedere scusa? e soprattutto, dov’è che lo farebbe in Lunar Park? Anche senza provare ad addentrarsi nella psiche dell’autore, mi sembra una tesi distante dal senso di Lunar Park.
Irrisolto, quindi, il romanzo lo è senza dubbio. Pasticciato e disorganico, ammetto che può sembrarlo, soprattutto perché per la maggioranza del testo Lunar Park è una sequela di colpi di scena, di sotto-finali e finali uno dentro l’altro, a rovesciare le carte in tavola quando la partita sembrava finita. Ma mi permetto di notare che ciò rivela una struttura narrativa forte, dove nulla è lasciato al caso e tutto concorre alle risoluzioni (o ai nodi) finali: senza dimenticare che in Lunar Park questa struttura di scene clou “incatenate”, alternanze di “scene di paura” e pause riflessive è debitrice di molti romanzi di King e, in generale, di cinema. Lo ha notato Simonetti -lo specifico in nota nel saggio-, che il “blockbuster movie”, di preferenza horror o thriller, è saccheggiato da Ellis per quanto riguarda contenuti e ritmi del narrato. Forse così può rivelarsi meno pasticciato di quanto non sembri. Poi è chiaro che rimaniamo in un campo molto soggettivo. Grazie ancora
Volevo solo aggiungere che condivido l’intervento di Lorenzo parola per parola. Saluti
@marchese
L’ironia è – in letteratura come nella vita – una formidabile arma di distanziamento, ma non va presa sul serio fino in fondo proprio perché è ironia. A me pare così evidente che Lunar Park metta in scena anche un’espiazione, e mi pare così evidente che American Psycho abbia segnato e la carriera e l’esistenza di Ellis (in termini di equivoca celebrità, conti saldati col padre e con sé stesso, poetica ed estetica ecc ecc), che sottovalutare tutto ciò oppure liquidarlo solo come ironia o dissimulazione mi sembra quantomeno azzardato. Del resto sei tu stesso che affermi, a un certo punto: “Ellis dissimula, sotto le creazioni anti-realistiche dell’horror di King, l’orrore personale di una vita privata distrutta dal suo essere scrittore, dal fatto di creare storie di finzione che guastano mondi reali.” E come può American Psycho non costituire il punto focale di questa distruzione se è lo stesso Ellis a dircelo ripetutamente in Lunar Park? Perché non dobbiamo prestare orecchio a colui che ha scritto il libro, e cioè alla maggiore autorità in materia? Cosa dovrebbe “confessare” di più Ellis? Lunar Park non è un diario, è pur sempre un’opera di finzione; ma se esiste un’opera di finzione che parla della verità che sta inscenando, questa è Lunar Park.
L’espiazione mi sembra addirittura lampante nelle ultime pagine, laddove l’ironia o dissimulazione si dirada fino a sparire ed Ellis diventa serio e poetico e commosso e accorato, abbandonando per un attimo il nichilismo feroce e corrosivo – ecco la mia impressione forte, ma è pur sempre un’impressione e non una prova, lo so. Fra l’altro non ho letto Imperial Bedrooms e dunque ignoro come prosegua, e se prosegua, questo che a me pare un processo interiore di Ellis (se la parola pentimento o espiazione non è gradita).
Sul rapporto con King. A mio avviso è impossibile oggi calpestare un terreno horror senza misurarsi con King, ed è altrettanto impossibile su questo terreno battere King, se non altro perché il terreno horror appartiene a King fino all’ultimo centimetro quadrato. Lo ha usurpato completamente. L’unico modo sarebbe quello d’inventare un nuovo horror, cosa che Ellis, scimmiottando La metà oscura, Shining e Finestra segreta (e saccheggiando parecchi altri lavori kinghiani), non fa. Il suo fraintendimento creativo – come direbbe Bloom – non è abbastanza vigoroso da regalargli originalità, da farlo uscire dall’ombra del modello. Tu leggi i brani orrorifici di Lunar Park e, se hai letto King, ti sembra di leggere un King lievemente ubriaco oppure il King peggiore, quello che non riesce a rendere la storia coesa col soprannaturale (io la “struttura narrativa forte” di cui tu parli non la vedo benché la divisione in capitoli, alcune volte molto faticosa, l’abbia inseguita). Con ciò non sostengo che Lunar Park sia un cattivo romanzo, e nemmeno un brutto romanzo; è un romanzo imperfetto che tuttavia possiede un’energia notevole e substrati complessi, risonanze profonde e quasi inconsce – la sua vera forza. Ce ne fossero di romanzi così. E grazie ancora a te.
@macioci
mi fa molto piacere che finalmente ci diamo del tu. Mi permette una maggiore confidenza anche nel muoverti qualche rilievo che, alla fine, si ascrive sempre alla stessa reazione che ho quando ti leggo (e che mi pare anche altri commentatori abbiano avuto, in passato): ti trovo estremamente categorico nei giudizi.
Così, non mi pare tanto evidente che Lunar Park sia un’espiazione, o meglio: se per espiazione si intende “scontare una pena facendo ammenda con atti e parole, o accettando una punizione comminata per qualche atto compiuto” (aver scritto American Psycho, in questo caso), non sono d’accordo. Dov’è nel testo che Ellis farebbe ammenda, anche sotto il linguaggio ironico (e, preciso, io non “sottovaluto” né “liquido” nulla, non penso a un’ironia così misera e difensiva, ma ne do una definizione più ampia che tu hai riportato nel tuo intervento)? Quali atti compierebbe per espiare, cioè per mondarsi dalla propria personale colpa? Invece direi che Ellis tenta di farlo, all’inizio del romanzo, facendosi una famiglia e costruendosi un’identità alternativa a quella di “writer”: in questo senso sì, Lunar Park è un tentativo di espiazione fallita, perché Ellis ricade nei propri orrori fittizi che gli distruggono la vita “vera”, molto semplificando. Se invece parliamo di “espiazione” come “scontare la propria pena fino in fondo”, ecco, qui sono più d’accordo. Ellis arriva ad adottare un tono più commosso, accorato e sentimentale, il che però non mi sembra che aumenti la sua sincerità (“il sentimentalismo è il rovescio anti-realistico del sentimento”, cito di nuovo). A rigore, se l’Ellis autore pensasse davvero ciò che ha scritto in Lunar Park, e non fosse invece un’astuta finzione narrativa ed estremamente ironica, Ellis non avrebbe più dovuto scrivere una riga di fiction. Invece, cinque anni dopo sforna Imperial Bedrooms. Dà da riflettere; e penso che uno step successivo, che mi piacerebbe molto fare, sia proprio riflettere su IB in relazione alla questione della precedente produzione romanzesca di Ellis. Magari prima o poi lo farò.
Su King. Ancora, sei un po’ troppo categorico: non mi pare che King abbia usurpato completamente il terreno dell’horror o del sovrannaturale. Manco Edgar Allan Poe ci riuscirebbe, manco Lovecraft. E non penso che Ellis voglia fare un nuovo horror, perché i suoi intenti comunicativi sono altri da quelli principali di King, che mi paiono: “interpretare le paure ancestrali dell’uomo moderno partendo e tornando alla sfera della quotidianità più ordinaria” e “creare immagini/mitologie di forte pregnanza simbolica”. E anche perché, diciamolo, Ellis non è troppo a suo agio con quegli strumenti. Non fraintendermi, quando lo leggo a volte mi prende una paura terribile, come nella descrizione del disastro aereo in Glamorama o nella scena di tortura in Meno di zero: ma con la creazione di tensione propria dell’horror ci sa fare un po’ di meno. Questo per me è ancora un punto non risolto. Ma tanto meglio. Grazie ancora dello scambio e a presto.
@ lorenzo marchese
Sono categorico quando – per eccessiva sicurezza, ingenuità o ignoranza – nutro una convinzione positiva assoluta, cioè quando un’opera o un autore mi sembrano degni d’autentica ammirazione. Ciò accade, t’assicuro, molto ma molto raramente, ed è per questo che quando accade sono felice, e vorrei che a tutti fosse chiaro quel che a me appare così chiaro (pia illusione, ovvio). L’importante nell’esprimere i propri convincimenti è non mancare di rispetto a nessuno, un principio cui cerco sempre di attenermi.
Quando a 14 o 15 anni scoprii King la mia idea fu subito identica a quella attuale – solo adesso posseggo più mezzi per esprimerla; cioè mi apparve subito lampante che King rispetto a Lovecraft e a Poe costituiva un altro mondo, un livello successivo e più evoluto, e che reinventava un genere facendo proprio ciò che tu hai così ben descritto nel tuo commento qui sopra. Direi che King sta a Poe e Lovecraft nell’ambito del fantastico come Shakespeare sta a Ben Jonson o a Christopher Marlowe in ambito teatrale: credo d’aver detto tutto. Solo che King è uno di quegli scrittori nei cui confronti la critica è refrattaria, non so perché ma è così, ce ne sono pure altri – sono rozzi, vendono troppo, soprattutto sono “poco seri”. Inutile dire che King sopravvivrà ai suoi critici di svariati decenni, o secoli magari. Ricordo che in prima liceo mi perdevo in interminabili discussioni col mio professore di filosofia – molto colto, lettore forte – che giudicava King con quella sufficienza un poco glamour che soltanto adesso si sta in parte diradando attorno all’autore del Maine. Eppure, lo ripeto, a me la novità kinghiana pareva tanto forte e chiara, tanto squillante! Credo d’aver rischiato più di qualcosina perché il professore era cintura nera di karate, e io rasentavo pericolosamente le colonne d’Ercole della sua pazienza…
Sul resto di quanto dici concordo con te che a tua volta concordi con… me; cioè insomma, mi pare che il nostro giudizio sull’Ellis orrorifico sia in sostanza identico: non funziona granché. Mi pare che sulla faccenda dell’espiazione non ci troveremo mai del tutto in sintonia e amen, questione di sensibilità e di orientamento ermeneutico. Mi domandi infine perché dopo Lunar Park Ellis non ha smesso di scrivere se ciò che io affermo sull’espiazione eccetera eccetera è vero. Ti rispondo che secondo me non ne ha avuto il fegato; smettere è difficilissimo, assai più che cominciare, non solo in letteratura. Smettere è a volte ciò che ci separa dalla nostra stessa perfezione, ragion per cui ce ne teniamo alla larga.
@Macioci
Ad ogni modo, Ellis non ha mai smesso di scrivere (scrive ogni giorno, sceneggiature o chissà cos’altro), soltanto non aveva più idee buone per un romanzo dopo Imperial bedrooms. È stata la prima volta nella sua carriera che quando è uscito l’ultimo romanzo non stava giàlavorando al successivo – perché il successivo non c’era.
L’autofiction non ha nulla di più realistico della pura fiction, l’Ellis di Lunar Park c’entra tanto quanto con l’Ellis reale, che immagino conoscano davvero in pochi. C’entra, e molto, con l’idea per anni rimbalzata dai media, e questo illude il lettore di entrare nell’intimo dell’autore, ma è come confondere il riflesso con il reale.
Imperial bedrooms è nato dalle riletture preparatorie di Lunar Park, parliamo dei primi anni del 2000. Sta bene come conclusione perché chiude una carriera ricorsiva e circolare, ma forse non bisognerebbe esagerare nell’innestare vissuti reali su opere che se funzionano, di base, è perché bastano se stesse.
@ luca mirarchi
Penso che American Psycho sia il libro decisivo, il perno della produzione di Ellis; e quel che più conta, non sono solo io a pensarlo bensì Ellis stesso; tutto Lunar Park non è altro che questa dichiarazione umana e poetica. Ora, non sono così ingenuo da credere a ogni cosa detta in un’opera d’autofiction, ma neppure così superficiale da non credere a nulla di ciò che vi è detto, per cui prendo atto della semifinzione di Ellis e ne traggo alcune conclusioni. Non è che confondo il riflesso con il reale, cerco solo di ascoltare sul serio ciò che Ellis sta tentando di comunicare. Come affermavo più sopra, l’ironia o il gioco letterario non possono eccedere il contenuto esplicito di un libro; se lo fanno questo libro è per l’appunto un gioco, cosa che Lunar Park decisamente non è. D’altro canto, @ lorenzo marchese, non possiamo considerare Ellis padrone assoluto della materia di Lunar Park poiché esso, come ogni romanzo poderoso, possiede risonanze ed echi che vanno al di là della volontà cosciente del narratore – riguardo alla “astuta ed estremamente ironica finzione narrativa” di cui tu parli, e che continua a non convincermi.
Ancora su American Psycho. Io non sono d’accordo con King che lo definisce il brutto libro d’un bravo scrittore, né con Foster Wallace che lo liquida come sociologia, né con Harold Bloom che lo ignora sistematicamente ogni volta che cita i grandi romanzi contemporanei. Io lo ritengo un libro cruciale della contemporaneità, il Cuore di tenebra della contemporaneità. Però non si scrive e pubblica, a poco più di venticinque anni, un libro del genere senza pagarne un prezzo. Ecco, Lunar Park a mio avviso è questo prezzo.
@ Macioci Mi scuso, non volevo sembrare offensivo o supponente. Io prendo molto sul serio tutto quello che ha scritto Ellis, ritengo però che prendere sul serio un romanzo con un protagonista fittizio ricalcato sull’autore reale, per accettare le regole di un gioco così complesso (non c’è quasi mezza riga in LP che non sia funzionale alla struttura complessiva), dicevo, penso sia necessario mettere in discussione ogni riferimento, soprattutto quelli in apparenza più evidenti.
La tua interpretazione è più che legittima, io tendo a vedere LP come un modo per “chiudere i conti” con l’infanzia, per liberarsi del fantasma del padre diventando padre di se stessi nella fiction, un tentativo di stabilire un legame (e poi lasciarlo andare, nel finale) con l’infanzia/adolescenza, in senso lato, e con tutto il periodo pre-American Psycho, in via generale.
Anch’io concordo sul fatto che AP sia lo spartiacque nella sua carriera, ma più per le reazioni spropositate che ha generato, e i rimbalzi provocati sull’Ellis ventiseienne, che non per il libro in sé. Anche solo da un punto di vista creativo. L’idea base di Lunar Park precede AP, Glamorama fu concepito, in altra forma, prima di AP, The informers risale al periodo di LTZ, LP trae linfa da tutta l’opera pregressa, inutile tornare su IB.
Tutti i libri di Ellis sono al presente in soggettiva: non ci sono nuovi personaggi che svolgano il ruolo di protagonisti nei libri a venire dopo Le regole dell’attrazione (che non fossero già comparsi nei primi due libri, pure come comparse, “fantasmi”.
Io non sottovaluto per nulla l’impatto culturale di AP (anche se ritengo, come Ellis, che il suo lavoro migliore sul piano realizzativo / di scrittura sia Glamorama. Trovo che Bloom sia limitato nel giudicare gli scrittori nati dopo il 1960 (e comunque dà il suo meglio quando si occupa di poesia). Accetto la critica di DFW perché Ellis, come scrittore e come uomo, sembrava essere il suo totale opposto. In particolare DFW era ossessionato dalla possibile ricezione dei suoi libri per il lettore, voleva trasmettere per intero quello che aveva in testa (questo ha comportato un inevitabile scarso successo di pubblico: a parte la proibitività in sé dell’operazione, nessuno ha la testa di DFW, nel bene e nel male), mentre Ellis, invece, scrive essenzialmente per sé (e così invece raggiunge un larghissimo pubblico; poi le ragioni sono molteplici, é chiaro). Ellis era la nemesi di Wallace (oltre ad essere un coetaneo baciato dal successo, e DFW era molto competitivo), il quale non poteva accettare che si producesse tanto malessere nel lettore senza alcuna via d’uscita: This is not an exit).
AP è un libro fondamentale e resisterà nel tempo, ma è un libro che in molti preferirebbero non ricordare di aver mai letto. Magari quei demoni non erano solo nella mente di Patrick Bateman. O del lettore.
@ luca mirarchi
Non mi sei sembrato offensivo o supponente, e non c’è nulla di cui tu debba scusarti, davvero. Del resto le tue argomentazioni sono assolutamente condivisibili, non solo su Ellis ma anche su Bloom e su Wallace – credo tu abbia letto la bella biografia di D. T. Max; o sbaglio? Inoltre sei più informato di me riguardo i processi creativi di Ellis, e ciò che dici a proposito di quando ha concepito certe idee romanzesche è interessante e istruttivo: ogni scrittore possiede una propria officina che a me incuriosisce assai.
Su American Psycho: hai ragione, è un libro “maledetto”, e l’ho letto con profondo disagio. Qualche giorno fa ne parlavo con Antonio Moresco, e lui mi ha detto di preferire il male, che so, di Dostoevskij o di Melville a quello di Ellis, perché è meno gratuito, non si compiace del male e procede in una direzione evolutiva, spiritualmente parlando; il discorso è naturalmente molto complesso, ma direi che lo condivido. Alla prossima
In questo scambio, devo dire che mi trovo più d’accordo con Mirarchi su parecchi punti, a cominciare da quello centrale e più inerente. Luca, scrivi: “L’autofiction non ha nulla di più realistico della pura fiction, l’Ellis di Lunar Park c’entra tanto quanto con l’Ellis reale, che immagino conoscano davvero in pochi”, e condivido. Nella mia interpretazione, che non è specificata in questo articolo, l’autofiction è per lo più una forma ultra-sperimentale e illusionistica di romanzo autobiografico, più che una scrittura autobiografica in senso proprio. E anche su questo che dici:
“io tendo a vedere LP come un modo per “chiudere i conti” con l’infanzia, per liberarsi del fantasma del padre diventando padre di se stessi nella fiction, un tentativo di stabilire un legame (e poi lasciarlo andare, nel finale) con l’infanzia/adolescenza, in senso lato, e con tutto il periodo pre-American Psycho, in via generale”
Giustissimo, soprattutto se si tiene conto della onnipresenza di Clay e di Meno di zero già in Lunar Park, prima ancora che in Imperial Bedrooms. In questo senso, American Psycho non può essere il motivo preponderante (o la colpa scatenante) per la scrittura di Lunar Park: se, come Macioci sostiene a buon diritto, quello che dice Ellis in Lunar Park va preso almeno parzialmente sul serio, l’influenza di American Psycho su Lunar Park è minore di quella che è stata per il lettore, o per la biografia di Ellis, e altrettanto forte è quella dei primi romanzi, quelli degli anni ’80. Non possiamo mica dare credito a quello che scrive l’autore quando avalla le nostre tesi, e poi disconoscerlo quando le confuta: lo dico a Macioci ma soprattutto a me stesso come monito.
Ma più di tutto mi ha colpito questo passaggio di Mirarchi:
L’idea base di Lunar Park precede AP, Glamorama fu concepito, in altra forma, prima di AP, The informers risale al periodo di LTZ, LP trae linfa da tutta l’opera pregressa, inutile tornare su IB.
Da dove hai tratto queste informazioni? Non le conoscevo e mi piacerebbe molto saperne di più, se puoi aiutarmi.
@ lorenzo marchese
Non mi sembra di far remare il romanzo dalla mia parte solo quando mi conviene; infatti siete tu e Mirarchi a sostenere che Lunar Park costituisca una sorta di proscioglimento dall’infanzia e dalla figura del padre, non io. Cos’è per me Lunar Park l’ho detto chiaro; magari sbagliata, ma la mia idea è quella.
Sull’autofiction: anch’io non penso che sia una forma autobiografica (addirittura, come ho già detto altrove su questo blog, penso che sia sempre esistita oppure che non esista in quanto forma “nuova”); credo però che una storia possieda sempre una propria verità, quel nocciolo a causa del quale uno si sobbarca l’improbo compito di scriverla. Poi è chiaro, lo ripeto, questa verità apparirà diversa a seconda della lettura e del lettore. Grazie ancora a voi