cropped-venice_sacro_gra.jpgdi Daniela Brogi

[La prima parte si può leggere qui].

Sacro Gra (Gianfranco Rosi): Leone d’oro

Es-Stouh Les terrasses (Merzak Allouache)
L’intrepido (Gianni Amelio)
Tom à la ferme (Xavier Dolan)
La jalousie (Philippe Garrel)
The Zero Theorem (Terry Gilliam)
Ana Arabia (Amos Gitai)
Under the Skin (Jonathan Glazer)
The Unknown Known (Errol Morris)
Jiaoyou Cani randagi (Tsai Ming-liang)

Era ora: il Leone d’oro della settantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ha premiato almeno quattro campi di esperienza che da tempo meritavano riconoscimento e visibilità. Grazie a Sacro GRA hanno vinto infatti, oltre a Gianfranco Rosi, i documentaristi, a cui è dedicata la vittoria; l’idea che fare cinema significa anche spingersi oltre le forme e i confini classici del genere, lavorando per esempio sul cinema documentario (di cui già si era parlato qui), ma anche sul film d’animazione, o sull’arte visuale; e con Sacro GRA vince anche il lavoro di un autore alla sua quarta regia, che ha ricevuto i premi internazionali più ambiti, ma che in Italia era ancora conosciuto molto poco, visto che le sue opere hanno avuto finora una distribuzione limitatissima.

Ripartiamo da qui dunque: chi è Gianfranco Rosi? È uno dei migliori autori italiani di cinema documentario, e il suo film arriva dopo venticinque anni di attività. Il primo lavoro, realizzato in sette anni, è Boatman (1993) ed è dedicato a un barcaiolo del Gange, il fiume sacro dove si immergono migliaia di devoti ogni giorno, e dove i corpi defunti compiono il loro ultimo viaggio; Below Sea Level (2008) racconta la vita di una comunità di homeless, in California; mentre El sicario-room 164 (2010) è un film intervista a uno spietato killer del narcotraffico messicano.

Un tratto forte e ricorrente della poetica documentaria di Rosi è la collocazione della macchina da presa in un luogo fisico e simbolico di soglia, di sospensione tra la vita e la morte (una barca, un paesaggio di “rifiuti” umani, una stanza di motel); man mano che si procede, il film fa entrare lo spettatore in una zona grigia (talvolta anche testualmente: il primo film non è in bianco e nero ma in grigio). Andando avanti, diventa chiaro che il tempo della visione e del racconto, ovvero il metraggio (può essere cinquantacinque come centodieci minuti) e il tempo della storia – quello della durata effettiva del vissuto ripreso e della risonanza di significati in cui si scava – appartengono a ordini di misura lontanissimi. Ed è proprio in questo scarto antinaturalistico che l’autore, che mai interviene nel flusso del racconto, costruisce il suo stile, la qualità della sua visione. Non è una narrazione in tempo reale, né in presa diretta, malgrado l’apparenza documentaria. La funzione referenziale del discorso è messa in scena, ricostruita nel dettaglio, per essere disincarnata: per esempio attraverso il lavoro che ha preceduto la scelta dell’inquadratura, la selezione del girato, o la riscrittura del montaggio – sempre effettuato da Jacopo Quadri, l’altro vero vincitore del Leone d’oro di Venezia 70. Il terzo film, El sicario, assumeva più frontalmente questo procedimento di riduzione a un’intelaiatura simbolica, scegliendo l’unità di luogo di un set ultraminimalista. E così s’ingannerebbe, probabilmente, chi pensasse che i lavori di Rosi affrontano questioni sociali molto specifiche come i rituali induisti della città santa, le condizioni di vita degli homeless, o la pratica sudamericana dei rapimenti. Il qui e l’ora dell’ambientazione si rovesciano in essenze, piuttosto che rimanere strutture del racconto; sono uno spazio-tempo dove l’al di dentro e l’al di fuori si mescolano, perché la vita degna di ascolto occupa una zona di confine tra un un’identità pregressa rimasta sui bordi del testo, e un’identità che si costruisce per sottrazione di involucri e di passato. In un certo senso, i protagonisti diventano personaggi assoluti, eroi tragici di una storia che può valere come storia di tutti. (Isolandoli dalle comunità affollatissime a cui appartengono, lo sguardo narrante di Boatman e di Below sea level stigmatizza al massimo, grazie alle immagini come ai silenzi, questa condizione di trascendenza).

Siamo in una terra di tutti e di nessuno. La terra dove abitano le esperienze estreme, che per essere tali sono viaggi di sola andata. Anche da qui passa la forza di espressione e la libertà di queste storie, da cui l’autore in certi casi sembra sedotto.

Può così trattarsi del fiume sacro, a Varanasi, dove i corpi morti transitano verso una nuova forma (Boatman); può essere Slab city, nel deserto a tre ore da Los Angeles, il non luogo situato quaranta metri sotto il livello del mare dove i nuovi poveri si reinventano una vita (Below Sea Level); ma può essere anche l’anonima camera di un motel, dove un sicario spiega i meccanismi di funzionamento della criminalità messicana, inscenando contestualmente i metodi di tortura e di uccisione dei sequestrati (El sicario, 2009).

Sono corpi senza difese quelli di cui lo spettatore ascolta le storie, e dunque massimamente esposti alla forza degli elementi. Corpi che non possono più tornare là dove si trova il punto fisico e l’imago da cui erano partiti, perché sono morti: letteralmente (Boatman e El sicario) o metaforicamente (Below sea level). La morte è la camera oscura di queste storie: nella prima e la terza c’è una sorta di traghettatore di anime, un puro come in Boatman, oppure un filosofo esecutore del male come il sicario.

Cosa mette in scena il racconto di queste condizioni di vita-limite? la realtà? Sarebbe allora un documentario alla maniera convenzionale. Oppure una storia raccontata? E sarebbe così finzione. Né l’una, né l’altra. La barriera tra i due mondi si annulla, perché nessuna delle vite narrate appartiene più a un territorio delimitato. Sono racconti deliberatamente portati ai confini dei generi: rigorosissimi nella costruzione di una forma tanto più all’opera quanto più invisibile, tanto più vicina alla perfezione quanto più sarà capace di cogliere il lancio di dadi del caso: come alcuni scambi di battute che nessuna sceneggiatura o nessun racconto avrebbe forse potuto fissare, e men che mai una telecamera semplicemente tenuta accesa.

Sacro GRA è nato da un’idea dell’urbanista Nicolò Bassetti che, ispirandosi a un saggio (Una macchina celibe) di Renato Nicolini, in venti giorni ha percorso a piedi il Grande Raccordo Anulare, ossia la cintura autostradale di settanta kilometri che, come un anello di Saturno – secondo la definizione di Fellini – circonda la città di Roma. Rosi riprende e rimonta le vicende di alcune vite esiliate dalla città che si consumano ai bordi di questo luogo senza identità, restituendo sguardo e visione, come in una stratigrafia allegorica, ai microcosmi umani del GRA. Così la macchina da presa riprende, tra le altre, la vita del palmologo ossessionato dal parassita che aggredisce le sue piante, quella delle prostitute invecchiate, dell’aristocratico decaduto e del nobile mitomane, del barelliere del 118 (che nella scena di una visita alla madre ci offre una delle lezioni di regia più belle del cinema di questi anni), dell’attore di fotoromanzi, delle devote delle apparizioni mariane – rese con una sovraesposizione esasperata. Come in un viaggio senza data di ritorno – le riprese sono durate tre anni – l’autore ha ripreso continuamente, tagliando più informazioni possibili, in un’attesa – quasi mistica – del momento in cui queste vite ci rivelano le loro verità: per poterle ricombinare e disporre in uno scenario dalle possibilità di combinazioni tanto rigorose quanto aperte e infinite – ed è in tal senso, direi, che vale il riferimento di Rosi, tra i commenti di regia, a Le città invisibili come opera che ha accompagnato il lavoro – come pure torna in mente il finale del libro di Calvino, diventando quasi una cifra eloquente della poetica di Sacro GRA: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Tornando invece a una sintetica – e provvisoria – cronaca degli altri nove film in concorso oltre a Sacro GRA e ai dieci già discussi, una tendenza già trovata nell’opera di Rosi è la scelta di dare forma al mondo costruendo molta attenzione sullo spazio, che da semplice sfondo diventa dispositivo forte di racconto. Spesso si tratta di un paesaggio urbano “fuori centro”, o almeno lontano dall’idea di centro più tradizionale. (O di nuovo può trattarsi anche di spazi claustrofobici – come in Locke (Steven Knight), fuori concorso: ottantacinque minuti girati dentro un’automobile e interpretati da un solo personaggio nervosamente al telefono con le persone che partecipano alla sua crisi; non si dirà qui perché e come, ma a questo eroe accadono in una sola notte tutti i guai possibili, eppure lui non molla, ha preso la sua decisione («I got my decision, I got my decision»), con una tenacia che probabilmente si comprende meglio collocandola dentro i codici morali dell’etica protestante).

Sono passati film pieni di luoghi degradati, dimenticati, come il quartiere-mondo di Ana Arabia, in cui Gitai, attraverso un unico piano sequenza (di ottantaquattro minuti) intende mettere in scena l’invito a guardare senza stacchi le relazioni tra arabi e ebrei – ma, sia pure tecnicamente ineccepibile, e certo pure sincero, resta un film ispirato a idee forse troppo ingenue. Più interessante invece Les terrasses, dove, nell’arco dei cinque momenti della giornata scanditi dal richiamo del muezzin alla preghiera (il primo suono che entra in scena), il film mostra Algeri «gioiello del mondo arabo» come una città che fatica a muoversi dentro la propria storia, quasi fosse costretta a guardarla dal balcone: l’occhio si sposta tra cinque terrazze in cui durante la giornata si svolgono varie vite: quella di un uomo torturato per ordine del suo stesso fratello; di una donna che si innamora di un’altra donna; di un gruppo musicale; di una donna violentata dai terroristi vent’anni prima e che adesso vive con la madre e con il figlio in una casa da cui il proprietario intende sfrattarla; di una troupe che intende girare un documentario – a un certo punto si pronuncia una frase che tanti, troppi, documentari girati in Italia sembrano dimenticarsi: «quante volte ti ho detto che la sfortuna altrui non è uno spettacolo».

Anche i luoghi che mette in scena Jiaoyou, alla periferia di Taipei, sono caricati di una responsabilità espressiva che non solo fa concorrenza al plot – che rimane oscuro – ma distrugge ogni possibilità di ricostruire un filo narrativo coerente: tratto che certamente non è una discriminante di valore in assoluto, potrebbe diventarlo tuttavia se ci si spingesse troppo ai bordi dell’autocompiacimento. Nei quadri che in successione compongono il film ci sono baracche, paludi, discariche, abitate da cani randagi e da un uomo che quando può lavora, reggendo cartelloni pubblicitari, oppure dorme coi suoi due figli, fuma, piscia davanti alla telecamera (con un gusto della performance che supera ogni verisimiglianza), divora del pollo o mangia un cavolo per decine di minuti. Il regista, Tsai Ming-liang, Leone d’oro nove anni fa, è uno straordinario artista visuale, e la fotografia di questo film è una delle migliori. Per chi ha amato quest’opera, parlandone a onor del vero più con toni da affiliato a una società esoterica che con argomenti reali, è un altro capolavoro. Certamente è un film che si può apprezzare solo a patto di saper entrare nel codice della filmografia precedente; non a tutti riesce.

Anche i luoghi in cui è ambientato L’intrepido, di Gianni Amelio, sono posti che di solito non guardiamo veramente, e che la fotografia di Luca Bigazzi racconta magistralmente: i grattacieli in costruzione, le lavanderie degli alberghi, i depositi dei tram, una losca palestra, i mercati generali del pesce, le pizzerie take away. Tra di essi si muove Antonio, in un film che, spiace davvero dirlo, era forse il peggiore in concorso, accanto a Under the Skin – più che un film un video clip musicale con momenti che oscillano tra il grottesco e il ridicolo .

Antonio, il protagonista de L’intrepido, è un precario che per sopravvivere rimpiazza gli altri, quando non possono andare al lavoro, facendo qualsiasi tipo di mestiere; ciò nonostante, non perde la capacità di sognare, come un eroe da fumetto, per l’appunto, o come Charlot, Marcovaldo, o tanti altri eroi del cinema classico, a cui si ammicca con un gusto che può in certi casi imbarazzare gli spettatori – come nella scena finale, o come quando, mentre attacca un manifesto, subisce il rapimento della bicicletta – come in Ladri di biciclette. È mai possibile, tocca chiedersi, che di questi tempi il precariato venga raccontato con questo beata superficialità? Naturalmente sì, visto che l’arte ha il diritto di far sgambetto a ogni regola o moralismo; ma il fatto è che L’intrepido irrita, disturba, non per quello che si racconta, ma per il vittimismo di maniera con cui lo si fa, per l’ansia di soffocare il personaggio di una coscienza felice posticcia da contrapporre così retoricamente allo sporco mondo che lo corrompe: «a me mi piacciono tutti i lavori»; « -sono contento che mi hai chiamato – || – volevo vedere una faccia buona – »). Tornano in mente, per contrasto, o come antidoto, certe battute cattive di Piovono pietre, di Ken Loach («- la depressione non è per chi si alza alle cinque di mattina – »), tanto per citare un film dove si raccontava che quando hai fame il problema della felicità passa in secondo piano rispetto a quello della sopravvivenza. Nella pretesa di raccontare il nostro tempo – tocca dire anche questo – emerge anche – e la penultima scena lo conferma – una certa tipica attitudine della generazione di Amelio a rimpiazzare con il buonismo («cerca di volerti bene») e con le proprie mitologie la disperata mancanza di futuro dei figli.

Le vent se lève, il faut tenter de vivre: dinanzi al vento della contemporaneità i film di Terry Gilliam (The Zero Theorem) e di Philippe Garrel (La jalousie), che pure son belli, procurano una certa impressione di anacronismo. La melanconia di Garrel ha un colore d’epoca che non solo è dovuto al bianco e nero, ma alla sensazione che per molti aspetti La jalousie potrebbe essere un film di quarant’anni fa – e in ogni caso, tra gli altri meriti, ha quello di saper raccontare l’evoluzione delle emozioni in tempo di crisi. Anche un film così diverso come The Zero Theorem asseconda, a tratti, un senso di “già visto”. Il Teorema Zero dovrebbe risistemare il caos sintetizzato in cui è sprofondata l’umanità ai tempi del virtuale e dell’ ”Euphoria Finance”; il compito della sua scoperta è affidato a uno scienziato pazzo (Christoph Waltz), spaventato dal rischio di essere licenziato dalla “Divisione Tautologia”, che vive rintanato in una chiesa sconsacrata, arredata da computer («se non sei connesso non fai niente») e da un crocifisso dove Cristo al posto della testa ha una telecamera; il registro del cyber punk paradossale è la chiave formale di tutto il film, con inserti e trovate che sarebbe ingeneroso anticipare.

Tra i film migliori in competizione, Tom à la ferme, di Xavier Dolan, tratto da una pièce teatrale, riprende il motivo del conflitto tra un giovane gay e sua madre già affrontato nell’opera d’esordio J’ai tué ma mère (2009). Ma in questo caso il tema di fondo del riconoscimento, del mancato riconoscimento dell’identità omosessuale del protagonista, è svolto virando verso la struttura del thriller psicologico. È morto il compagno di Tom, il protagonista (interpretato dallo stesso Dolan); recandosi al funerale per la prima volta Tom incontra il fratello e la madre del suo partner, che vivono in una fattoria del Québec, e precipita, rimanendone coinvolto, nelle nevrosi con cui i due famigliari cercano in ogni maniera non solo di occultare a se stessi la verità della relazione di Tom con il defunto, ma pretendono (il fratello con la forza fisica, la madre con la violenza silenziosa del proprio dolore) che anche Tom menta. Il film mette in scena questa situazione di squilibrio emotivo rendendola formalmente attraverso l’alternanza di momenti melò e momenti tragici.

Solo un film, tra quelli in competizione, ha raccontato agli spettatori di Venezia 70 la dialettica di menzogna e verità attraverso il tempo della Storia, anziché all’interno dell’orizzonte delle vicende personali. Si tratta di The Unknown Known, di Errol Morris, uno dei più grandi maestri del cinema documentario. Come già in The Fog of War (2003), in cui si ricostruiva la guerra in Vietnam attraverso le interviste al Segretario alla Difesa Robert McManara, stavolta Morris ricostruisce la guerra in Iraq usando come uomo chiave Donald Rumsfeld, membro del Congresso e per due volte Segretario alla Difesa. The Unknown Known sono gli ignoti fatti noti, le cose che credi di sapere e che poi scopri di non sapere. Intorno a questo gioco di parole e ai molti altri che con magistrale abilità teatrale Rumsfeld mette su durante le interviste («le uniche cose durature che abbia visto sono conflitto, ricatto, violenza»), il film sfoglia il vocabolario della politica bellica americana e delle relative bugie attorno alle quali è stata costruita la “necessità” di intervenire («credere nell’inevitabilità del conflitto può diventare una delle cause del conflitto). L’opera di Morris non indaga soltanto in questo castello di invenzioni messo su per giustificare l’attacco all’Iraq, ma lo mima, saturando lo schermo di parole che arrivano, spesso contemporaneamente, da ogni parte: non solo dalle interviste, ma dai materiali d’archivio, dalla riscrittura, in sovraimpressione, delle definizioni con cui il dizionario spiega le parole gelidamente usate da Rumsfeld, oppure dei “fiocchi di neve” cioè dai promemoria (circa ventimila) che sin da giovane Rumsfeld faceva cadere sulla catena del comando per manovrare e controllare le opinioni altrui.

[Immagine: Gianfranco Rosi, Sacro GRA (dbr)]

9 thoughts on “Cronache di Venezia 70/2

  1. Grazie Daniela per questo pezzo,
    sono stato quest’anno tra i selezionatori della Mostra. E’ stata un’esperienza bellissima e massacrante (ci siamo visti 1500 film in sette compreso Barbera), abbiamo tentato la carta delle scelte non scontate e non è stato facile. Il fatto che abbia vinto un film irrituale e indipendente (e per come la leggo io anche nel segno del ricambio generazionale e di energie) come quello di Gianfranco Rosi mi ha riempito ieri sera di gioia e sorpresa e (da ciò che ho visto) fatto incazzare tanti soloni gallonati della critica ufficiale. Quelli che se non vince Bellocchio si incazzano ma se vince un italiano che da sempre si lancia in progetti indipendenti, lontano dall’aria cardinalizia del cinema italiano mainstream, si incazzano ancora di più.
    Vedere che tutto questo viene colto da pezzi come il tuo (e, critiche comprese, dal web tanto più che da una carta stampata sempre più superficiale persino negli elogi) è veramente confortante. Scritto in treno da Venezia a Roma dove sto finalmente ritornando.
    Ciao, e grazie ancora.

    Nicola Lagioia

  2. Devo riconoscere che Daniela ha un’idea dettagliata, precisa e competente dei vari modi di fare cinema.
    Possiamo dire anche che dà il giusto valore alla sperimentazione vera, quella intuitiva e meditata, alla mescolanza dei generi e dei linguaggi, pur sapendo che ogni opera conserva la sua cifra stilistica, se ha un qualche valore. Di questo è ben consapevole Daniela, che non si esalta di fronte alla novità tout court, ma ne fa un esame attento e accurato. Pertanto appare chiaro ,che per lei, non si tratta di prodotti da immettere nel mercato, ma opere di cui va fatta una seria e motivata disamina.
    Un modo serio perchè noi cinefili possiamo vedere film degni di interesse senza annoiarci o perdere tempo.

  3. @ Lagioia

    La volgarità – diceva Adorno – consiste nel mettersi dalla parte della propria degradazione, ma può anche consistere nel mettersi dalla parte della propria esaltazione. Comunque, auguri: “nomen omen”.

  4. Senza bisogno di ricorrere all’auctoritas di Adorno, la volgarità può anche autodesignarsi, quando nega se stessa proiettandosi negli altri, specie grazie al contributo del livore per le soddisfazioni altrui.

  5. A proposito della propria esaltazione:

    “Dovrebbe allora essere chiaro che il tempo e le energie che ciascuno di noi dedica alla elaborazione dei suoi interventi servono a sviluppare la battaglia delle idee: costituiscono, in altri termini, una forma specifica della lotta per il progresso sociale e l’indipendenza nazionale, che è da tempo all’ordine del giorno in questo Paese, così come in Europa e in altre parti del mondo. Desidero ricordare infine che, se Buffagni, Cucinotta, Barone e Abate possono utilizzare con una certa frequenza lo spazio dei commenti di questo blog, ciò accade, oltre che in virtù dell’intrinseca qualità teorica, politica e letteraria dei loro interventi, anche in forza dell’articolo 21 della Costituzione, che la redazione di questo sito web ha sempre rispettato e garantito, riconoscendo un ampio e crescente rilievo alle voci critiche, radicali e controcorrente che in quegli interventi si esprimono.” (Eros Barone)

  6. se il concetto di nomen omen non è ad personam preferisco le gioie ai baroni, specie quando i baroncini parlano per conto dei baroni a cui portano le borse. Incredibile il livore che c’è in questo paese. Se ne uscirà con mooolta fatica.

  7. C’è più di qualcosa di sbagliato in Sacro GRA di Gianfranco Rosi, a cominciar già dal titolo stesso che lasciava presagire un documentario in cui protagonista era il Grande Raccordo Anulare e l’umanità che lo circonda. Con profonda perplessità in merito all’operazione e con più di qualche sparuto fischio in sala, bisogna avvisare lo spettatore che in realtà il GRA è solo un protesto per imbastire diverse storie – alcune interessanti, altre meno – e lasciare l’ambientazione sullo sfondo a fare da ideale raccordo, se mi scusate il gioco di parole. L’operazione di Rosi appare alquanto stramba nella sua concezione: come si può chiamare un’opera Sacro GRA e poi rendere quasi un’entità fantasma il GRA stesso? Per capirci meglio, le storie raccontate dal regista avrebbero potuto tranquillamente essere ambientate a Venezia, a Milano, a Palermo o a Imperia da quanto sono anonime e spesso anche banali. Ad esempio, chi non ha mai visto i casermoni abitati che pullulano in tutte le periferie metropolitane o le case che sorgono a due passi dagli aeroporti? Altro punto di demerito, non l’ultimo, è quello di aver fatto credere per mesi che Sacro GRA fosse un documentario frutto di riprese realistiche, come il termine stesso documentario suggerisce. In realtà, si è di fronte a un prodotto di fiction concepito male e recitato anche peggio, che ha anche il limite di non avere né un suo filo logico né nessun approfondimento sui personaggi. A che serva un prodotto del genere francamente non si capisce: la bellezza del GRA e del suo anello soccombe alle pretese di una macchina da presa che, muovendosi tra catastrofi urbanistiche e situazioni talvolta (spesso) da macchietta, finisce con il rendersi ridondante e pesante da digerire. Che Rosi sia poi bravo a girare è un altro paio di maniche: anche il fotografo sotto casa mia realizza ottimi filmini amatoriali ma non osa mandarli a un Festival.

  8. Concordo con Sabrina Roth. Ho visto ieri questo film, che non riesce a risolversi né nella misura del documentario (non informa, non ci fa capire nulla di cosa sia il GRA, neppure ne azzarda un’interpretazione) né ha una tenuta narrativa di qualche tipo. Si tratta di un incrocio di storie scollate e senza sale, in cui all’ambientazione particolarissima del GRA, che pure dovrebbe essere il fulcro della storia, non viene data nessuna attenzione. Le storie scivolano spesso nel retorico, nel crepuscolare reso talora più impervio da un eccesso di sintesi nei dialoghi, risultando così, più che minimaliste, solo insignificanti. Né la qualità della regia e della fotografia giustificano lo sforzo: sarei anzi curioso di sapere da Daniela Brogi quale “lezione di regia” ci ha dato il regista nella scena del barelliere con sua madre.
    Ma soprattutto, è un film estremamente noioso, lo spettatore medio dorme, lo spettatore relativamente colto rischia il sonno a ogni inquadratura. Si poteva premiare (e di conseguenza distribuire) un altro film: ce ne sono stati parecchi più meritevoli, quest’anno a Venezia, dopotutto (quello sull’Algeria, quello di Emma Dante, se si voleva dare all’Italia). Peccato.

  9. “E la Roma di oggi? Che effetto fa a chi arriva per la prima volta? Proviamo a entrarci in macchina, attraverso l’inevitabile Grande raccordo anulare, questo raccordo che circonda tutta la città come un anello di Saturno?” (Roma, Fellini, 1972)

    Finito di vedere il film di Rosi mi sono detto: “Era ora”, come all’inizio di questo articolo. Ma quello che volevo chiedere a Daniela Brogi sono due cose; la prima riguarda quanto hai stigmatizzato con la locuzione “stratigrafia allegorica”, nella quale vengono messe insieme, credo, (tipo di) descrizione (in profondità) e rappresentazione, ma in questo Raccordo anulare di Rosi oltre a questa “stratigrafia allegorica” non c’è anche una sorta di ecografia morfologica?
    L’altra domanda è invece sul “Grande Raccordo Anulare” di Rosi e su quello di Fellini di quaranta anni fa – che in “Roma” faceva un poco da cerniera fra “ieri” e “oggi” –; che differiscano moltissimo è un fatto, ma “che significa” davvero questo “moltissimo” di cui differiscono? (lì era un episodio isolato e tale rimaneva, e qui invece è il semplice giustapporsi di fatti isolati, ma pur sempre scelti?)

    (allego il “Raccordo anulare” di Fellini)

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