di Pippo Ciorra
[Questa è l’introduzione a Senza architettura. Le ragioni di una crisi, pubblicato da Laterza nel maggio del 2011].
L’idea per questo libro comincia a nascere una decina di anni fa, nello spazio smisurato della basilica palladiana di Vicenza, durante l’inaugurazione di una mostra dedicata al lavoro di Steven Holl, architetto americano discretamente posizionato nella classifica delle archistar. La mostra era piena di disegni, bellissimi modelli, fotografie di edifici dalle forme audaci e sorprendenti che non siamo abituati a vedere nelle nostre città, e il vernissage aveva come al solito attratto una moltitudine di addetti ai lavori. L’interno della Basilica, come tutti sanno, è uno spazio vuoto e imponente, alto quasi venti metri, e se da un lato tende ad annichilire materiali espositivi che in genere riescono timidamente a scalfirne un primo insignificante strato di un paio di metri, dall’altro offre infinite possibilità a chi voglia azzardare allestimenti più coraggiosi e spettacolari. Holl, in quel caso, aveva scelto di nobilitare un progetto espositivo tutto sommato abbastanza understated con un pezzo forte, un intero piccolo edificio sperimentale in acciaio ricostruito “al vero” nel cuore dello spazio palladiano. A un certo punto della giornata, non ricordo più se eravamo ancora alla mostra o nell’immancabile ricevimento in villa palladiana, Flavio Albanese, architetto vicentino allora direttore di “Domus” e tra quelli che più si erano dati da fare per “rendere possibile” la mostra di Steven Holl, annunciava con orgoglio che uno degli autorevoli sponsor dell’evento aveva intenzione di “comprarsi” l’edificio sperimentale esposto alla basilica e di piazzarlo – manco fosse una scultura di Pomodoro – nel bel mezzo del giardino della sua industria.
Sembrava una bella notizia, almeno per Steven Holl, un lodevole esempio di mecenatismo. A me però fece un’impressione strana, come se ci fosse qualcosa che non andava, e immediatamente mi stimolò, come spesso mi succede, un’associazione di idee un po’ irriguardosa. L’immagine del piccolo prototipo di architettura poggiato con garbo sull’erba dello stabilimento del nordest mi richiamava infatti alla mente una battuta folgorante e politicamente scorretta di Groucho Marx pubblicata anni fa da Gino e Michele: “avessi un giardino la terrei una fidanzata….”. “Avessi un giardino la terrei un’architettura moderna”, deve aver pensato quell’industriale illuminato, magari mentre era al telefono col suo geometra di fiducia per commissionargli l’ennesimo capannone in prefabbricato bucciardato.
Gino e Michele, o meglio Groucho Marx, mi sono tornati inevitabilmente alla mente qualche anno dopo, mentre ero impegnato nell’impopolare quanto inutile impresa di cercare di convincere i bolognesi che un altro piccolo edificio moderno potesse starsene tranquillo per un paio di anni in piazza Re Enzo, cuore della Bologna storica, senza macchiare per sempre l’anima della città. Ovviamente non ebbi nessun successo, tranne trascinare nell’azzardo un piccolo gruppo di bolognesi coraggiosi, e il primo atto della nuova giunta Cofferati fu proprio quello di rimuovere velocemente le Gocce realizzate da Mario Cucinella. Cofferati e i suoi assessori, naturalmente, dichiaravano di non essere affatto contrari per principio all’architettura contemporanea, anzi. Diciamo che coglievano un sentimento diffuso in città e lo trasformavano in atto amministrativo. Ma siccome non erano – non sono – passatisti, proponevano di non distruggere le “Gocce” ma di spostarle in un qualche giardino della città, riciclate in chiosco per i fiori (al cimitero), gelataio o non so cos’altro. Ci risiamo, pensai, ecco di nuovo qualcuno che vuole prendere l’architettura contemporanea e mettersela in giardino, come alternativa a Biancaneve e ai nanerottoli. Per cui, quando qualche tempo dopo raccogliemmo la discussione sviluppata in quel periodo su Bologna in un numero monografico di una rivista mi sembrò inevitabile usare come titolo del mio pezzo la citazione di Groucho Marx. Le riflessioni che svolgevamo insieme agli altri autori del fascicolo erano in quell’occasione rivolte a Bologna, ma in realtà il capoluogo emiliano poteva benissimo essere considerato un campione significativo dell’opinione pubblica nazionale, che ancora si avvicina agli edifici schiettamente moderni come si avvicinerebbe a un piccolo veicolo appena atterrato da Marte, spinta da irrefrenabile curiosità, ma allo stesso tempo sicura che dentro quel coso ci sia di sicuro qualcosa di dannoso. Bologna, dicevamo, è un’ottima “parte per il tutto”, termometro efficente della temperatura nazionale, ma è anche un caso dove la contraddizione è particolarmente stridente, la culla del miglior progressismo dove il livello economico e di cultura, il tasso di innovazione e di integrazione tra classe dirigente pubblica e privata, il tessuto di intellettuali e quant’altro avrebbe dovuto rendere fluido e indolore il rapporto tra innovazione ed evoluzione del gusto anche nel campo dell’architettura e della sensibilità urbana.
Si può dire quindi che l’immagine del padiglione di Steven Holl al posto della fontana, la vicenda delle Gocce di Bologna, l’improvvida sortita del sindaco di Roma, Alemanno, che inaugura il suo mandato promettendo la demolizione del museo dell’Ara Pacis di Richard Meier, così come l’eco delle mille altre discussioni defatiganti su questo o quell’intervento “controverso”, sembrano stare li per ricordarci il rapporto complesso e contraddittorio che gli italiani intrattengono con quella che una volta si chiamava modernità, e che oggi possiamo forse definire come il modo in cui i linguaggi e le tecniche riflettono (o sfidano) il loro tempo. Adorata nell’industrial design e nella moda, data per scontata nella tecnologia e nei media, la voglia di innovazione incontra sempre forti resistenze nel nostro paese quando si tratta dei settori creativi più “tradizionali”: visual arts, letteratura, cinema, e architettura “contemporanea”. Soprattutto se per contemporanea si intende un’architettura fortemente intrisa delle spirito, della tecnologia, delle disarmonie, dei conflitti e delle incertezze che caratterizzano il nostro tempo.
Il problema, direbbero alcuni, è che la nostra architettura è ancora immersa in una “crisi” cominciata negli anni settanta col fallimento dei grandi quartieri pubblici e aggravata da tangentopoli. Non so, forse, però cominciano ad essere episodi abbastanza lontani nel tempo. C’è da dire che nell’Italia architettonica della seconda metà del novecento ci siamo crogiolati spesso nell’idea della “crisi”, come se praticare una disciplina accertandone continuamente lo stato di crisi mettesse in qualche modo al sicuro la buona fede dei progettisti. Si parlava di crisi ideologica negli anni del dopoguerra, mentre “maestri” bravi e meno bravi riempivano con energia e intelligenza il paese dei milioni di “nuovi vani” promossi dalla legge Fanfani. Era ancora “crisi del moderno”, per Rogers, Quaroni e altri guru, quindici anni più tardi, mentre si realizzavano decine di piccoli capolavori – magari non monumenti, ma palazzine, quartieri, colonie estive, fabbriche – in giro per le città italiane. Ed ancora ci si accaniva sulla crisi e sulla necessaria ”astinenza” dei nostri progettisti ai tempi di Aldo Rossi, quando comunque il mondo riconosceva senza fatica l’egemonia del pensiero architettonico “all’italiana” a scala globale. Si potrebbe quindi pensare che quello di oggi è un ennesimo inutile grido di “al lupo” non giustificato dalla realtà, frutto di pure culture of complaint – da noi più conosciuta come “chiagni e fotti” – magari alimentata da chi ha paura di perdere posizioni dominanti o di privilegio.
Però oggi alcuni elementi di novità ci sono, e sono tali da rendere particolarmente stridenti le contraddizioni del nostro mondo, dove l’assessore del più piccolo comune si aspetta di vedere Norman Foster o Calatrava partecipare agguerrito al concorso per la ristrutturazione dell’ asilo municipale, ma dove allo stesso tempo c’è sempre chi propone di smontare e deportare nella periferia “brutta” – è ancora il caso dell’Ara Pacis di Richard Meier, a ovvia cura di Sgarbi – le “grandi opere” appena completate, con congruo dispendio di energie, denari, intelligenze creative e amministrative.
Il primo campanello di allarme, quello che già da qualche anno ha messo in ansia le ultime generazioni di addetti ai lavori, viene dal confronto con la situazione internazionale. Per tutto il Novecento l’Italia ha zigzagato intelligentemente intorno al percorso del pensiero architettonico moderno. A volte i nostri maestri hanno concesso un consenso critico all’ortodossia planetaria, altre hanno apertamente frenato, altre ancora hanno saputo anticipare e indirizzare il dibattito internazionale. Spesso abbiamo espresso una posizione defilata e distinta, ma comunque partecipe. Oggi, ed è un oggi che dura da un pezzo, sembriamo paralizzati e incapaci sia di accogliere ed elaborare in chiave locale le tendenze dominanti – per intenderci quelle della Wunderachitektur globale – sia di organizzare una vera e propria “opposizione”, forte e motivata come quella attuata da De Carlo, Gardella e altri contro il tardo International Style in occasione di un famoso Congresso Internazionale di Architettura Moderna.
Il secondo campanello d’allarme viene proprio dalla strana contraddizione tra l’apparente successo mediatico che ha oggi l’architettura (anche) in Italia e le difficoltà che ancora attraversano gli architetti italiani. L’impressione è che mai come oggi l’architettura sia stata seguita e vezzeggiata dai media “generalisti”. Solo che la diffusa attenzione agli eventi di architettura (mostre, grandi progetti, case “firmate”, soluzioni sorprendenti e sempre più sensibili alle emergenze energetiche e climatiche) non sembra tradursi in un parallelo affermarsi di una nuova generazione di architetture e spazi pubblici di qualità nel nostro paese. Ormai abbiamo la nostra moderata dose di “capolavori” firmati da star internazionali ma allo stesso tempo basta guardare fuori dal finestrino dell’auto o del treno per avere l’impressione è che questi “eventi” si svolgano in luoghi magnifici e immaginari, estranei ai nostri maltrattati paesaggi e alle nostre città.
Il terzo elemento di preoccupazione è invece legato a una immanente sensazione di spreco. Proprio l’abbondanza di spazi per l’architettura su giornali, radio e televisione rende infatti evidente un tessuto di energie nuove e quasi sempre frustrate: studenti e giovani architetti abituati a viaggiare, scambiare e lavorare in giro per il mondo, professionisti aggiornati e capaci, comuni che fanno più concorsi di un tempo, istituzioni regionali e statali preposte alla “promozione dell’architettura contemporanea”. Una compagine di forze, conoscenze e idee che potrebbe lasciare ben altra traccia nel paese e che invece nella maggior parte dei casi riesce a incidere su una quota terribilmente piccola della quotidiana attività di trasformazione del territorio.
Proprio da questo disagio, da questo opprimente senso di sproporzione tra le forze messe in campo e i risultati ottenuti, nasce l’idea di scrivere questo libro e di condurre una veloce indagine sugli aspetti problematici dell’architettura italiana. Il libro è strutturato in tanti brevi capitoli quanti sono secondo me i nodi da affrontare – riviste, università, grandi mostre, istituzioni di vecchia e nuova fondazione, rapporti con i commitenti e con i centri di potere culturale internazionale, critica, alleanza (mancata) con l’arte, con la tecnologia, con i media – con l’evidente consapevolezza di non poter indicare soluzioni immediate per nessuno di questi problemi, ma con l’intenzione di individuare e provare a sciogliere alcuni nodi nevralgici, almeno per vedere di cosa sono fatti. Naturalmente l’intento non è un’elegia pessimista, giocata sull’assonanza tra il nome di chi scrive e quello di un autore rumeno immensamente più importante. Al contrario l’intento è proprio quello di spingere l’architettura italiana ad abbandonarsi con coraggio alla “tentazione di esistere” (tanto per rimanere a Cioran) piuttosto che star lì a contemplare la frustrazione e il rimpianto. L’urgenza di farlo viene invece dalla consapevolezza dei molti focolai di rinnovamento e qualità diffusi nel paese, ostinatamente convinti di poter trasformare anche in questo campo l’Italia in un paese normale.
Rileggendo il testo, si nota infine come l’asse del discorso si sposti leggermente, nella sequenza dei capitoli o all’interno dei capitoli stessi, dalla pura polemica culturale a un visione che tiene conto anche delle questioni antropologiche, politiche e soprattutto economiche. E’ innegabile infatti che l’attore più potente degli ultimi anni, proprio quelli trascorsi dalla concezione alla conclusione di questo scritto, sia stata la crisi globale, prima finanziaria, poi paneconomica e industriale. Sulla qualità della nostra architettura la crisi ha in avuto effetti minori, in fondo c’era poco da peggiorare, mentre ha reso molto più difficile la vita, o la sopravvivenza, di un tessuto professionale sterminato tutto fatto di studi piccoli o piccolissimi, legati alla modesta progettualità di istituzioni locali alla canna del gas e alla clemenza di imprese in gestione di emergenza. L’impatto più forte la crisi l’ha però avuto ovviamente su quella tribù fatta di migliaia di giovani architetti italiani emigrati all’estero, che si sono spesso ritrovati senza lavoro da un giorno all’altro, spediti verso il più vicino scalo low cost a cercarsi una nuova destinazione, il più delle volte nel lontano oriente. La crisi, però, ha anche dato molto nutrimento al senso di stanchezza e sazietà nei confronti di un’architettura fatta di lusso e meraviglia che ha dominato la scena per vent’anni, e comincia ad apparire, almeno in alcuni del suoi aspetti, anacronistica. Per noi, esclusi da quella festa per i mille motivi che questo testo cerca di spiegare, questa è l’ennesima occasione per rientrare in gioco e rimetterci al passo con il mondo, le sue priorità, la sua ricerca di nuovi linguaggi spettacolari. Lo scopo di questo testo è contribuire a creare le premesse per questa “ripartenza”, sgombrando il campo da equivoci decennali e orientando lo sguardo verso il futuro.
Ho letto “Tristissimi giardini” di Trevisan. C’è Vicenza e il Neo-Veneto e le descrizioni di architetture post-rurali che mi sono tornati subito in mente leggendo questo pezzo. Molto interessante!
Vorrei ringraziare l’autore per avere postato l’introduzione del suo libro e “le parole e le cose” per averla resa pubblica. Ho stampato la pagina e l’ho letta con attenzione.
E’ un testo denso, su cui bisognerebbe riflettere più a lungo. Non so però resistere alla tentazione di recuperare un’analogia che ha avuto molta fortuna nella modernità: quella fra l’architettura e il linguaggio – in fondo, come le architetture per i nostri corpi, così le forme discorsive per le nostre menti sono spazi dove abitare, muoversi o da cui uscire.
Al di là dell’analogia generale, leggendo i punti critici sulla situazione dell’architettura italiana, ho pensato anche allo stato delle discipline umanistiche e dell’arte della parola: (i) «il confronto con la situazione internazionale», (ii) la mancanza di «spazi pubblici di qualità» (iii), l’«immanente sensazione di spreco». Oltre al «disagio», mi ha colpito anche l’analogia con il coraggio necessario «alla “tentazione di esistere”»: che vale anche per le discipline e le arti che cercano di pensare o di costruire le architetture del discorso.
Credo che sia l’introduzione di un libro importante anche per chi si interessi di discipline ed educazione umanistiche e dell’arte della parola.
Pippo Ciorra è un ottimo studioso della disciplina. Cercherò il libro.